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Modello di potere Marzano ha ragione: in una parte del pubblico laico c’è un sentimento di invidia e si fa strada l’idea che sarebbe meglio consegnare l’autorità a un consesso di saggi. Ma la logica della cooptazione che governa in Vaticano trova le sue radici in una larghissima base di massa. Oggi il problema è far crescere la ricchezza di un soggetto collettivo

I tavoli predisposti per il Conclave all’interno della Capella Sistina La cappella Sistina per il primo conclave del terzo millennio, in una immagine del 16 aprile 2005, Città del Vaticano. ANSA/PIER PAOLO CITO

Avverto il lettore: questo articolo la prende alla lontana, ma poi giunge a parlare del recente conclave, e degli insegnamenti che possono derivarne. Da che è nata la moderna democrazia non pochi si sono affannati a sollevare dubbi sull’incompetenza e sulla volubilità delle masse: come ha scritto su queste pagine Alfio Mastropaolo, si comprese che il voto a maggioranza, di per sé, non è una difesa affidabile.

Il costituzionalismo democratico nasce appunto per porre limiti all’esercizio del potere, quand’anche questi fosse legittimato da un consenso plebiscitario. Sono, o dovrebbero essere, cose note; eppure, oggi, si sente il bisogno di richiamare questi principi basilari, nel momento in cui siamo circondati da «abbondanti miasmi autoritari» a cui le classiche difese del costituzionalismo liberale sembrano opporre sempre più fragili resistenze.

Misuriamo così la forza di un principio: la democrazia non può essere intesa come espressione diretta e immediata della volontà popolare: ha bisogno di un filtro, di ciò che a suo tempo Habermas evocò con l’immagine delle «chiuse idrauliche»; e si fonda su un processo di formazione e trasformazione delle opinioni e dei giudizi dei cittadini nel corso di un processo dialogico pubblico e quanto più inclusivo. È ciò che si intende quando si parla di democrazia «deliberativa». E il fatto, indubitabile, che tutto, o molto, oggi sembra contraddire questo modello, non implica di per sé che esso non debba essere assunto come un parametro critico per valutare la qualità delle nostre «democrazie reali».

Storicamente, le forze che potevano contare su minori risorse di potere economico e sociale hanno trovato una via per contrastare il dominio della ricchezza e del privilegio: l’organizzazione delle proprie energie collettive (partiti, sindacati, movimenti). E ci sono anche, almeno in parte, riuscite. Oggi sembra che anche questo baluardo non sia più riproponibile: non è così, non è scritto da nessuna parte che debba essere così. Ma, per poter invertire la rotta, bisogna anche condurre una battaglia culturale intorno ad alcune idee insidiose, che si fanno strada anche all’interno del pensiero democratico.

Ci offre lo spunto per discuterne un interessante articolo del sociologo Marco Marzano (su Domani del 9 maggio). Marzano ha ragione: una delle reazioni che, in una parte del pubblico laico e democratico, ha accompagnato il rituale solenne del Conclave è un sentimento di invidia e ammirazione; con un retropensiero, che giustamente Marzano deplora: «Anche tra coloro che si dichiarano inorriditi dall’avanzata delle autocrazie, dal vilipendio dei diritti e dal ritorno dei fascismi» si fa strada l’idea che del popolo non ci può più fidare e che sarebbe meglio consegnare l’autorità politica ad un consesso di saggi e di competenti, di persone colte e lungimiranti. Come appunto, in modo esemplare, è il collegio cardinalizio che ha eletto il Papa. Ed in effetti, leggendo le varie biografie apparse in questi giorni, colpisce la ricchezza e la varietà del profilo culturale di molti protagonisti.

Si è diffusa così la tentazione di rifugiarsi in una concezione epistemica della democrazia: ossia nell’idea che l’autorità non debba essere conferita ad un popolo volubile, incolto ed emotivo, ma ad una platea qualificata per saperi e competenze. È l’idea, ad esempio, che sta alla base dei cosiddetti panel di cittadini estratti a sorte: chiusi in una stanza a discutere per alcuni giorni, questi cittadini, finalmente edotti sulle scelte da compiere, si riveleranno alla fine imparziali come dei giudici e oggettivi come degli scienziati, e saranno quindi in grado di prendere «la» decisione più corretta. Ovviamente, è una strategia del tutto illusoria, eppure trova non pochi adepti.

E quindi, tornando al conclave: ben altri sono gli insegnamenti che possono derivarne. E per dirla in modo provocatorio, la procedura che vi si svolge non è per nulla oligarchica e mostra bene le virtù di un’organizzazione complessa e ramificata quale è la Chiesa. Intanto, i cardinali arrivano ad essere tali dopo un lungo processo di formazione e selezione: nella Chiesa, la logica della cooptazione, in linea di massima, funziona e trova le sue radici, ovviamente, in una larghissima «base di massa», da cui emergono via via personalità che esprimano le qualità necessarie ai compiti cui sono chiamate.

Dentro il Conclave, poi, si svolge un processo propriamente definibile come «deliberativo»: certo, contano anche le affiliazioni di potere, ma conta soprattutto il formarsi di un giudizio collettivo, la reputazione di cui ciascun candidato può godere, la stima da cui è circondato, gli equilibri da rispettare, le mediazioni da ricercare. Non è una mera «conta», insomma. E la segretezza, poi, è un requisito essenziale: anche a Philadelphia, quelli che scrissero la Costituzione americana, si impegnarono in un solenne giuramento per non rendere pubbliche le opinioni che si scambiavano. «Non sempre avremo al timone degli statisti illuminati», scrisse allora profeticamente James Madison, confidando nell’architettura costituzionale della nuova repubblica. Non sappiamo oggi se queste difese reggeranno; ma, in ogni caso, «abolire il popolo» non è la soluzione: anzi, più che mai, il problema oggi è quello di «costruirlo», questo popolo, di far crescere anche culturalmente la forza e la ricchezza di un soggetto collettivo. E non ci sono scorciatoie.