In Egitto è partita la Cop27, la Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici del 2022. Fino al 18 novembre a Sharm el-Sheikh si parlerà di riduzione delle emissioni e di come contenere il riscaldamento globale, ma lo si farà in un contesto di profonda sfiducia: «Tra pochi giorni la popolazione del nostro Pianeta varcherà una nuova soglia. Nascerà l’8miliardesimo membro della nostra famiglia umana» ha detto il segretario dell’Onu, Antonio Guterres, nel messaggio di apertura, chiedendosi quindi «come risponderemo quando “baby 8 miliardi” sarà abbastanza grande da chiedere: cosa hai fatto per il nostro mondo quando ne hai avuto la possibilità?».
È RETORICA, OVVIAMENTE, ma sottende un messaggio innegabile: «Il tempo scorre. Stiamo lottando per le nostre vite e stiamo perdendo» ha detto Guterres. E poi, in un crescendo: «Siamo su un’autostrada per l’inferno climatico col piede sull’acceleratore». Per questo, anche davanti a eventi tremendi come la guerra in Ucraina, «è inaccettabile, oltraggioso e controproducente mettere il tema del cambiamento climatico in secondo piano».
Stavolta il segretario Onu prova a rinnovare la stanca litania dei vertici sul clima promuovendo tra le economie sviluppate e quelle emergenti un Patto di solidarietà climatica. «L’umanità deve scegliere: cooperare o perire. Quindi o è un Patto di solidarietà per il clima o un Patto di suicidio collettivo» ha affermato sempre Guterres, nella prima giornata di alto livello della Cop 27.
QUESTO PATTO dovrebbe vedere i paesi più ricchi e le istituzioni finanziarie internazionali fornire assistenza finanziaria e tecnica per aiutare le economie emergenti ad accelerare la propria transizione alle energie rinnovabili. Un patto che dovrebbe porre fine anche alla dipendenza dai combustibili fossili e dalla costruzione di centrali a carbone, eliminando gradualmente il carbone nei Paesi dell’Ocse entro il 2030 e ovunque entro il 2040.
Questo perché, come ha ricordato Guterres, «gli ultimi otto anni sono stati i più caldi mai registrati e l’emergenza del clima sta già aumentando drasticamente l’entità dei disastri naturali. Le attuali politiche climatiche condanneranno il mondo a un disastroso aumento della temperatura di 2,8 gradi entro la fine del secolo». Serve un impegno radicale per limitare tale aumento a 1,5 gradi ma intanto le emissioni di gas serra sono ancora in aumento.
IL DISEGNO È CONDIVISIBILE nei contenuti, ma ieri è stato reso pubblico che i Paesi ricchi non contribuiscono finanziariamente in modo adeguato agli sforzi necessari per aiutare i Paesi più poveri dinanzi ai cambiamenti climatici. Stati Uniti, Regno Unito, Canada e Australia, infatti, non hanno raggiunto la loro quota di finanziamenti per il clima a favore dei Paesi in via di sviluppo, secondo un’analisi di Carbon Brief riportata dal Guardian. I Paesi ricchi si erano impegnati a fornire 100 miliardi di dollari l’anno entro il 2020, ma l’obiettivo è stato mancato. La quota Usa era 40 miliardi di dollari, ma nel 2020 hanno versato 7,6 miliardi. Australia e Canada solo un terzo, Londra tre quarti.
Il Giappone e la maggior parte dei Paesi europei, tra cui l’Italia, sono invece tra i più virtuosi. Il nostro Paese, in particolare, avrebbe versato il 43% in più rispetto al dovuto. La Francia addirittura il triplo. Per questo ieri il presidente francese, Emmanuel Macron, ha indicato di voler premere sui «Paesi ricchi non europei», in particolare Usa e Cina, affinché paghino la loro parte per aiutare quelli più poveri. «È giunta l’ora di mettere sul tavolo la responsabilità di ciascuno e che ci sia una coscienza collettiva mondiale. O salviamo il Pianeta o sparisce con noi» ha affermato il presidente del Senegal e dell’Unione africana, Macky Sall, in un’intervista a France Info.
LA SORTE DELL’AFRICA è al centro del dibattito in termini di danni subiti e necessario meccanismo di compensazione economica: Sall si rivolge ai leader dei Paesi ricchi, ricordando la «loro responsabilità nel fornire un contributo finanziario a quelli più poveri, a sostegno della loro politica ambientale».
Il presidente senegalese ha anche sottolineato che finora la comunità internazionale non ha rispettato gli impegni presi in materia di finanziamento, precisando che l’Africa – per rispettare gli obiettivi dell’Accordo siglato a Parigi nel 2015 – necessita di un aiuto stimato in 85 miliardi dal Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico (Ipcc).
Pietro Bartolo, medico di Lampedusa, ora Eurodeputato
Il medico di Lampedusa ora eurodeputato: «A bordo tutti fragili, impossibile distinguere». Ong taxi del mare? «Per fortuna che ci sono. I confini si difendono dai nemici, non dai bambini»
Commenta (0 Commenti)ENERGIA. Trenta miliardi per far fronte alla crisi energetica, con il rischio recessione dietro l’angolo. Sul piano europeo pesa il no tedesco
Giorgia Meloni in conferenza stampa - Ansa
Tutto sul contrasto al caro energia, con un approccio che Giorgetti definisce «prudente, realistico, sostenibile». In soldoni s’intende una trentina di miliardi: 23 nella legge di bilancio, 9,5 da spendere subito per rifinanziare le misure di Draghi e se possibile rafforzarle. I 23 miliardi, dopo il necessario voto a maggioranza qualificata del Parlamento, saranno ricavati da un deficit portato dal previsto 3,4% al 4,5%. Uno scostamento ma quasi indolore perché comunque il debito continua a scendere e questo è l’importante. Nelle prospettive del governo dovrebbe abbassarsi sino al 141,3% nel 2025 e nello stesso anno il deficit dovrebbe fermarsi al 3%.
I MILIARDI DISPONIBILI subito verranno invece dall’extragettito e dai risultati migliori del previsto dell’ultimo trimestre, con una crescita del 3,7%. Senza farsi illusioni sul futuro però. E Giorgetti, nella prima conferenza stampa da responsabile del Mef, non se ne fa. L’anno prossimo non si andrà oltre lo 0,5% e anche questa è un’ipotesi rosea. «Previsioni di macroeconomia in questo momento sono sempre incerte e noi siamo pronti a fronteggiare una recessione che potrebbe arrivare anche in Italia». Dire che il ministro considera la minaccia molto realistica è ancora poco.
A SORPRESA IL GOVERNO vara anche una misura drastica sull’energia, che verrà trasformata in emendamento al dl Aiuti in conversione: la ripresa delle trivellazioni marine con nuove concessioni e l’impegno a vendere a prezzo calmierato alle aziende gasivore, indicate per decreto, il gas proveniente dal fondale marino. Se nella legge di bilancio ci saranno ulteriori interventi dovrà deciderlo nelle prossime settimane il governo. In ogni caso, assicura la premier, andranno comunque reperiti all’interno dei 23 miliardi stanziati: dato il livello dell’emergenza energia avanzerà ben poco da destinare altrove.
Anche sull’eventuale «manutenzione» del reddito di cittadinanza e del Superbonus le decisioni verranno prese solo con la definizione della legge di bilancio. L’ipotesi in campo per il Rdc va molto oltre la manutenzione: se passasse la limitazione della platea a chi non è in grado di lavorare si tratterebbe di un reddito di carità più che di cittadinanza, stravolto e colpito al cuore nella sostanza. La presidente non è stata affatto rassicurante nella risposta a precisa domanda ma se davvero la cifra della manovra non andrà oltre i 23 miliardi ricavati dal nuovo deficit non dovrebbero esserci sforbiciate troppo drastiche. Si vedrà sin troppo presto.
La scelta del governo è politica, non solo economica. Puntare tutto sul caro bollette serve a dimostrare che per la maggioranza di destra «mitigare gli effetti del caro energia» e aiutare la popolazione è una priorità assoluta. Solo che i 30 miliardi «liberati» non possono bastare. Solo i sostegni costano 8 miliardi al mese e non è affatto detto che nei prossimi mesi le condizioni non peggiorino. Il prezzo del gas è calato ma le previsioni, segnala il pragmatico Giorgetti, non sono positive.
La premier coglie l’occasione per pungolare ancora la Ue, dopo averlo fatto di persona il giorno prima a Bruxelles: «Se il gas sta scendendo è perché la commissione si è impegnata a presentare un piano contro i costi dell’energia, anche disaccoppiando i prezzi dell’energia e del gas». Se l’impegno della Commissione si dimostrasse inutile o di utilità molto limitata, come è al momento prevedibile, gli effetti positivi si rovescerebbero nell’opposto.
CON URSULA VON DER LEYEN, la presidente italiana aveva messo sul tavolo un altro argomento: l’Ucraina. «Per mantenere il consenso delle popolazioni agli aiuti all’Ucraina è necessario il piano europeo contro il caro energia». Sintetica e desolante la replica: «Ci sono opposizioni da parte di alcuni Paesi». In particolare della Germania e si tratta di un’opposizione che equivale al potere di veto assoluto. Le cose vanno meglio quanto alla richiesta di rivedere il Pnrr alla luce dei rincari di materie prime ed energia. Su quel fronte la Ue non chiude le porte ed è un dato per l’Italia positivo. Ma la strada, nel 2023, sarà comunque una salita molto erta.
Commenta (0 Commenti)In mare il tempo peggiora, sulle navi Ong scarseggiano acqua e cibo, in Europa si sottolineano gli obblighi dell’Italia, ma il governo Meloni continua il braccio di ferro sulla pelle di 1.080 naufraghi. Aumentati con l’arrivo di un quarto mezzo di soccorso: la Rise Above. Giovedì ha salvato 95 persone nelle acque internazionali a sud di Lampedusa. A differenza delle Geo Barents, Ocean Viking e Humanity 1 non è una vera e propria nave, ma un’imbarcazione più piccola e rapida.
È LUNGA SOLO 25 METRI e ha un equipaggio di nove persone. I migranti soccorsi sono per la metà donne e bambini, tra loro otto neonati. Non può attendere al largo, soprattutto con il meteo che volge al peggio. Per questo nel pomeriggio è entrata nelle acque territoriali italiane dirigendosi verso la costa all’altezza di Siracusa. «Roma e La Valletta non rispondono alle richieste di un luogo sicuro di sbarco, ma se le condizioni mediche delle persone peggiorano non abbiamo altra scelta che entrare in porto. Di fronte a una questione di vita o morte non ci sono divieti che tengano», dice Axel Steier portavoce di Mission Lifeline.
SEGNALI DI ALLARME arrivano anche dalle navi più grandi dove scarseggiano cibo e acqua. Sulla Geo Barents quella per le docce è già razionata, contribuendo a complicare le condizioni igieniche in una situazione di sovraffollamento: a bordo ci sono 572 naufraghi. Dopo essere entrata in acque italiane la Humanity 1 ha ricevuto un’autorizzazione a restarci ma solo per il tempo necessario alle autorità italiane per verificare se a bordo ci siano persone in situazioni di emergenza. Eventualmente sarebbero trasferite a terra. Dove è probabile vadano i minori per cui il governo italiano rischiava un’azione legale.
INTANTO CONTINUANO le reazioni europee. Dopo che Berlino e Oslo hanno ricordato a Roma che la responsabilità sulla ricerca e il soccorso ricade sugli stati costieri, compresi quelli vicini alle aree Sar in cui materialmente si verificano i salvataggi, la Francia si è detta disponibile a prendere una parte dei migranti. «Se la Ocean Viking sarà accolta dall’Italia anche noi accoglieremo parte dei migranti», ha dichiarato il ministro dell’Interno francese Gérald Darmanin. «È un segnale importante che non ci risolve il problema dei paesi di bandiera», ha commentato il ministro dell’Interno italiano Matteo Piantedosi dopo un incontro sul tema con Giorgia Meloni.
ALLA FINE LA VIA D’USCITA potrebbe stare nel meccanismo di redistribuzione volontaria messo a punto dall’ex titolare del Viminale Luciana Lamorgese. Mercoledì la Commissione Ue ha ricordato che ci sono 8mila offerte di ricollocazione. Per l’Italia non cambia nulla se questi posti vanno ai migranti soccorsi dalle Ong o a quelli sbarcati autonomamente, ma nel primo caso il governo può salvare la faccia cantando vittoria. Un teatrino, insomma, confermato dal fatto che mentre mille persone sono in ostaggio sulle navi umanitarie, dall’insediamento del governo ne sono sbarcate quasi nove volte tanto, anche grazie ai soccorsi della guardia costiera.
DEL RESTO che il nostro paese sia stato lasciato solo dall’Ue o debba sopportare un carico maggiore di migranti per la sua posizione geografica è smentito dai numeri. Lo ha ricordato il responsabile immigrazione della Spd tedesca in un’intervista a Tonia Mastrobuoni uscita ieri su Repubblica: «L’Italia non si illuda che la solidarietà le sia dovuta. Non è neanche nella top ten dei paesi con più profughi accolti, in rapporto al numero di abitanti». Sproporzione che vale anche per gli ucraini: 200mila in Italia, un milione in Germania.
MA DI FRONTE alle esigenze di propaganda politica sulla pelle degli ultimi non ci sono evidenze che tengano. Così ieri il ministro degli Esteri Antonio Tajani (Forza Italia) ha chiesto che i migranti salvati dalle navi Ong siano identificati a bordo e il capitano riceva le eventuali richieste d’asilo. «È una questione di sicurezza nazionale», ha dichiarato. Ma la vera motivazione sembra il tentativo di trasferire le procedure sulla protezione internazionale ai paesi di bandiera.
SULLA VICENDA è intervenuto anche il Garante nazionale delle persone private della libertà personale: «I diritti fondamentali devono prevalere sulle controversie tra Stati».
Giorgia Meloni si è presentata ieri a Bruxelles nel primo viaggio fuori Italia da presidente del Consiglio. In campagna elettorale, Bruxelles è stata attaccata come un campo di battaglia, anche se è piuttosto un muro di gomma (le decisioni sono prese dagli stati membri, poi bisogna rispettarle). Il viaggio «è un buon segno» ha commentato la presidente del parlamento europeo Metsola, «mostra l’impegno del nuovo governo a mantenere l’Italia al centro della presa di decisioni». La presidente della commissione von der Leyen si attende «una buona cooperazione da parte delle autorità italiane». Tutti pensano prima di tutto al sostegno all’Ucraina.
Per il momento sul tetto al prezzo del gas ognuno fa da sé e l’idea di un nuovo debito comune per far fronte alla crisi dell’energia è stata scartata a Bruxelles, Germania e Olanda sono contrarie. Emmanuel Macron, che ne difende il principio, ha perso il suo principale alleato, Mario Draghi. Se il caro-energia è al centro delle preoccupazioni e delle tensioni, altre questioni potenzialmente conflittuali sono emerse prima del pomeriggio di incontri: la Ue ha chiesto all’Italia di «permettere gli sbarchi». Inoltre, il decreto anti-rave suscita preoccupazioni per il rispetto della libertà di espressione, un valore fondamentale della Ue. Anche il reintegro di medici e infermieri no vax preoccupa. L’estrema destra ha votato no alle procedure d’infrazione contro Polonia e Ungheria per il non rispetto dello stato di diritto (che blocca il versamento del Recovery per Budapest, mentre Varsavia è sulla buona strada per sbloccarlo grazie all’accoglienza dei rifugiati ucraini).
Meloni pensa che le Ue sia «invasiva per le piccole cose e assente nelle grandi». Ma il rispetto dello stato di diritto fa parte delle «grandi»: difatti, è una pre-condizione per ottenere il versamento del finanziamento del NextGenerationEu, di cui l’Italia è la prima beneficiaria (69,9 miliardi di sovvenzioni, 122,6 miliardi di prestiti). Il nuovo governo ha promesso una ridefinizione degli obiettivi, vorrebbe riaggiustare il piano alla luce dell’aggravarsi della crisi energetica e delle materie prime. Ma per la Ue è possibile rimodellare i finanziamenti solo se i cambiamenti richiesti sono conformi agli obiettivi del RePowerEu, cioè economie di energia, diversificazione delle fonti, accelerazione della transizione verso le rinnovabili: si parla di un possibile ri-orientamento intorno ai 7 miliardi. L’Italia ha ottenuto un pre-finanziamento del 13% del piano di rilancio il 13 agosto del 2021 (9 miliardi di sovvenzioni, 15,9 di prestiti).
Il 13 aprile 2022 c’è stato un primo pagamento di 21miliardi e un secondo versamento è stato approvato il 27 settembre scorso, per altri 21 miliardi (10 di sovvenzioni, 11 di prestiti), sulla base di 45 obiettivi, che vanno dalla riforma del pubblico impiego a quella dei mercati pubblici, riforme nell’insegnamento, nell’amministrazione fiscale, sulla sanità territoriale, investimenti nel digitale e nell’idrogeno. Tra gli obiettivi c’è anche la riforma del sistema giudiziario, che ora è bloccata e al meglio rimandata di mesi. La Ue ha previsto una riforma del Patto di stabilità nel 2023, ma non sono contemplate modifiche sulle norme del 3% di deficit e 60% di debito ma solo sul ritmo del rientro nei parametri. Un margine di manovra molto stretto per un paese che ha il 150% di debito pubblico, che trae vantaggio dai tassi di interesse ottenuti grazie alla notazione AAA del debito comune, mentre l’Italia da sola paga il prezzo del rischio.
ISRAELE. Oggi l'annuncio dei risultati delle elezioni che daranno una maggioranza ampia al leader della destra Netanyahu. Ma da Washington giunge l'alt al razzista Ben Gvir: «Ci auguriamo che tutti i funzionari del nuovo governo israeliano continuino a condividere i valori di una società aperta e democratica»
La Commissione elettorale comunicherà oggi il risultato finale delle elezioni del primo novembre ma ieri sera con l’86% del voto scrutinato, la destra estrema religiosa guidata da Benyamin Netanyahu era saldamente in testa. E con un numero di seggi previsto più ampio dei 61-62 indicato dagli exit poll martedì sera. Il blocco di destra è accreditato di una maggioranza di circa 65 seggi (su 120 alla Knesset), seguito da quello del premier uscente Yair Lapid con 50 e dai 5 ottenuti dalla lista araba non allineata di Hadash-Taal. Motivo dell’ulteriore rafforzamento della destra è che nè il partito della sinistra sionista Meretz nè quello nazionalista arabo Tajammo/Balad passeranno la soglia di sbarramento del 3,25%. Le residue speranze dei due partiti sono destinate a naufragare con lo scrutinio delle schede note come «doppia busta» dei militari, dei detenuti comuni e dei diplomatici. Si tratta di voti che in passato hanno quasi sempre favorito la destra e non certo i partiti arabi o di sinistra.
Il Likud di Netanyahu, perciò, sarà il primo partito con 30/31 seggi, seguito da Yesh Atid di Lapid a 24. Benyamin Netanyahu ha battuto un altro record della politica israeliana diventando il primo leader politico a portare a buon fine una seconda rimonta che lo colloca per la terza volta nella carica di premier. Le incriminazioni per corruzione, frode e abuso di potere, non hanno avuto alcun impatto sulle intenzioni di voto degli elettori. E sono risultate errate le previsioni di analisti e commentatori che un anno e mezzo fa avevano scritto necrologi politici sulla fine dell’era di Netanyahu.
I militanti del Likud martedì sera inneggiavano a re Bibi III. I festeggiamenti per la vittoria potrebbero presto essere sostituiti dai postumi della sbornia. La coalizione dei suoi sogni si è concretizzarla e ora Netanyahu deve metterla insieme e guidarla verso la formazione di un governo. Il Likud prevede di avviare presto i negoziati con i partner elettorali – Sionismo religioso (terza forza alla Knesset con 14-15 seggi) e i due partiti religiosi ortodossi – e di formare l’esecutivo il prima possibile. Per re Bibi però non sarà tutto così semplice. Il suo principale alleato, Itamar Ben Gvir, leader di Otzmah Yehudit (Potere ebraico) reclama il ministero della pubblica sicurezza, attraverso il quale mettere in atto una repressione senza precedenti (e senza freni) dei palestinesi sotto occupazione in Cisgiordania e Gerusalemme Est. Se le organizzazioni pro-Israele in Europa e negli Stati uniti hanno, con poche eccezioni, sdoganato Ben Gvir malgrado le sue idee non è detto che tutti all’estero siano disposti a fare altrettanto. Barak Ravid, giornalista israeliano di Axios ben informato, rivelava ieri di aver appreso da due funzionari americani che l’Amministrazione Biden «è improbabile che si impegni con il politico suprematista ebreo Ben-Gvir se sarà nominato ministro nel nuovo governo israeliano». Ha aggiunto che «La decisione ufficiale non è stata ancora presa ma se l’amministrazione Biden boicotterà Ben-Gvir, ciò segnerà uno sviluppo senza precedenti che avrebbe conseguenze negative per le relazioni Usa-Israele». Rivelazioni prontamente confermate da Washington. Il portavoce del dipartimento di Stato, Ned Price, in un briefing con la stampa ha detto «Ci auguriamo che tutti i funzionari del nuovo governo israeliano continuino a condividere i valori di una società aperta e democratica, inclusi la tolleranza e il rispetto per tutti nella società civile, in particolare per i gruppi minoritari». Non proprio ciò che hanno in mente i leader dell’estrema destra considerati un pericolo per la democrazia.
Un bel problema. Per il premier in pectore non è possibile convincere Ben Gvir a fare un passo indietro in nome dei rapporti con Washington. Senza dimenticare che il capo di Otzmah Yehudit è stato il motore della campagna elettorale della destra e oggi è considerato una figura politica di primo piano da centinaia di migliaia di israeliani che non accetteranno compromessi sulla sua persona. E poi anche il capo dello stato Herzog ha detto a inizio settimana che il risultato delle elezioni israeliane deve essere accettato. Per dare un colpo alla botte e una al cerchio Netanyahu punterà con decisione alla formazione di quel «governo nazionale» che ha evocato in questi giorni, ossia una coalizione allargata ad altre forze non dichiaratamente di destra, per diluire il carattere estremista, religioso, razzista del blocco che lo ha portato di nuovo sulla poltrona più importante del paese. Ma ha già dovuto incassare dei no. Il premier uscente Lapid e il capo della lista Unità nazionale e ministro della difesa, Benny Gantz, hanno comunicato che non intendono entrare in nessun governo con Netanyahu.
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