PRECARI DEI PRECARI. La ministra prima aveva aperto al rinnovo, poi ha cambiato idea. La protesta di Felsa Cisl, Nidil Cgil e Uiltemp: «A casa in 1.500, risposte o torniamo in piazza». Venerdì il summit con tutte le parti sociali
Una protesta dei Navigator - Foto LaPresse
La prima grana per Marina Calderone arriva dai navigator. Alla vigilia del primo e atteso incontro con le parti sociali – sindacati confederali e imprese – fissato per le 15 di domani al ministero, la comunicazione con cui via Veneto ha annunciato l’impossibilità di prorogare il contratto in scadenza ai navigator ha mandato su tutte le furie le federazioni dei precari di Cgil, Cisl e Uil.
Calderone prima si era detta disponibile al rinnovo – ricevendo gli strali dell’ineffabile Marattin di Italia Viva – poi martedì aveva chiuso l’argomento in poche righe: «I contratti scaduti il 31 ottobre non sono prorogabili. È stata invece avviata una mera attività ricognitiva tra le Regioni. Eventuali ulteriori utilizzi degli ex navigator richiederebbero l’approvazione di una apposita norma, non allo studio del ministero».
«Si è consumata l’ennesima beffa ai danni dei quasi 1.500 Navigator, collaboratori di Anpal Servizi, che negli ultimi tre anni si sono fatti carico di un’utenza particolarmente fragile – attaccano in una nota unitariaFelsa Cisl, Nidil Cgil e Uiltemp – . Dopo la circolare alle Regioni con cui aveva aperto un piccolo spiraglio da noi accolto positivamente, è arrivata la doccia fredda per i 958 lavoratori in scadenza al 31 ottobre (cui vanno aggiunti i 538 rimasti a casa già tra la fine di aprile e quella di luglio): nessuna proroga per queste professionalità. Siamo rimasti innanzitutto estremamente stupiti – continuano Felsa Cisl, Nidil Cgil e Uiltemp – dal fatto che tale notizia sia stata affidata ad un comunicato, quando è rimasta ancora inevasa la nostra richiesta di incontro alla neo ministra proprio per scandagliare tutte le possibili soluzioni. Nel merito, poi, se è vero che lo strumento della proroga prevede la continuità lavorativa ormai persa, nulla impedisce una ricontrattualizzazione, come peraltro già avvenuto pochi mesi orsono», concludono Felsa Cisl, Nidil Cgil e Uiltemp ricordando che «nelle condizioni in cui versa il nostro mercato del lavoro, non possiamo assolutamente pensare di poter interrompere questa esperienza se si vogliono realmente traguardare gli obiettivi fissati dal Pnrr».
Assieme alle confederazioni Cgil Cisl Uil, le tre federazioni chiesto un nuovo incontro a Calderone. «Senza riscontri, i lavoratori saranno nuovamente in piazza», annunciano i sindacati.
«Sulla pelle dei navigator si sta giocando lo scontro politico in atto sul reddito di cittadinanza», commenta il leader Uil Pierpaolo Bombardieri. «Il reddito di cittadinanza è un sistema di welfare, di aiuto a chi non riesce ad entrare nel mondo del lavoro. I due terzi dei percettori è inabile» ha aggiunto, sottolineando come in Italia ci sia necessità di strutture pubbliche e personale dedicati alla intermediazione di manodopera e all’orientamento sul modello tedesco o anche inglese».
Commenta (0 Commenti)
ENERGIA. Giovedì l’Arera (l’Autorità per l’energia) comunicherà i nuovi aumenti per il gas che dovrebbero essere di gran lunga più contenuti rispetto al 70% ipotizzato di recente. Per il mercato tutelato […]
Giovedì l’Arera (l’Autorità per l’energia) comunicherà i nuovi aumenti per il gas che dovrebbero essere di gran lunga più contenuti rispetto al 70% ipotizzato di recente.
Per il mercato tutelato l’aumento dovrebbe fermarsi al 5% anche per le temperature sopra la media, la minor domanda, gli stoccaggi quasi pieni e il conseguente calo del prezzo del gas sui mercati internazionali. A contenere i rialzi della bolletta sarebbe anche il nuovo metodo di calcolo dell’Arera che da trimestrale diventa mensile.
Secondo il Codacons nel caso di un aumento contenuto a ottobre il rincaro sarebbe comunque di +632 euro annui a famiglia rispetto alla spesa per il gas sostenuta nel 2021, con un rialzo complessivo delle tariffe del 53,3%.
Preoccupa in ogni caso l’impennata delle bollette della luce.
E secondo i calcoli della Confcommercio e di Nomisma alberghi, bar, ristoranti e alimentari pagano in Italia, a parità di consumi e di potenza impegnata, una bolletta elettrica notevolmente più elevata rispetto a altri paesi europei: mediamente superiore del 27% rispetto alle imprese spagnole e di quasi il 70% rispetto alle francesi. Tra le cause, la mancata diversificazione delle fonti di energia e dei fornitori. E a causa dell’inflazione si temono pesanti effetti sulle famiglie.
Commenta (0 Commenti)
DIRITTI. Le opposizioni attaccano il nuovo provvedimento contro i rave. Letta al governo: Ritiratelo subito». Conte: «Leggi da Stato di polizia»
Il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi foto di Roberto Monaldo /LaPresse
Non c’è voluto molto perché i dubbi emersi alla prima lettura si trasformassero in certezze. Il tempo di studiare il testo del decreto che sancisce la stretta sui rave, atto primo del governo di centrodestra, e le prime voci critiche dell’opposizione si sono fatte sentire: «Le nuove norme suonano come un limite alla libertà di cittadini e minaccia preventiva contro il dissenso», scrive su Twitter il segretario del Pd Enrico Letta, che chiede anche all’esecutivo di fare marcia indietro e ritirare il provvedimento. Mentre il verde Angelo Bonelli sintetizza così il malumore che serpeggia nel centrosinistra: «I rave non c’entrano niente. Verranno colpite le manifestazioni di protesta».
Eccolo il punto. Varato lunedì, il decreto è stato pubblicato ieri a tempi di record sulla Gazzetta ufficiale e adesso la paura è che provvedimenti pensati ufficialmente per fermare sul nascere le maratone musicali vengano utilizzati per arginare, o peggio ancora reprimere, eventuali manifestazioni di protesta.
E questo alla vigilia di un autunno che,
Leggi tutto: «Norme liberticide. Vogliono solo colpire il dissenso» - di Carlo Lania
Commenta (0 Commenti)Approvato il decreto, guerra ai rave party. Arrivano 31 sottosegretari e 8 viceministri
La conferenza stampa di Giorgia Meloni - Lapresse
La premier chiude in conferenza stampa la fase 1, quella della defatigante trattativa su squadra e sottosquadra, e inaugura la fase 2, quella dell’azione reale. Si avvicina così a fornire il primo vero identikit del suo governo anche se manca ancora il tassello fondamentale, crisi ed economia. Arriverà presto: annuncia la convocazione per il 4 novembre del cdm per la Nadef, passo essenziale verso una legge di bilancio da varare in extremis. I soldi sono la sostanza ma il decreto di ieri, parola di Giorgia Meloni, è comunque «importante e a tratti anche simbolico». In effetti.
PRIMA PERÒ L’ELENCO di viceministri, 8, e sottosegretari, 31. L’eterno braccio di ferro con il Cavaliere si è concluso grazie a una telefonata nella notte tra Roma e Arcore. La presidente ha puntato i piedi sul no a Giuseppe Mangialavori, perché citato in un paio di inchieste di ’ndrangheta, ma in compenso, a differenza che sul governo, Berlusconi ha ottenuto parecchio. Ci sono Sisto viceministro alla Giustizia e Valentini con la stessa carica al Mise. Al posto del defenestrato c’è agli Esteri un’altra calabrese, Maria Tripodi. Soprattutto c’è Barachini, giornalista ex conduttore Mediaset, come sottosegretario con delega all’Editoria: una delle caselle sulle quali era stato incandescente lo scontro sin dai giorni della scelta dei ministri. In tutto sono 8 le poltrone azzurre, quante ne chiedeva il signore d’Arcore sin dall’inizio anche se per farcela ha dovuto sacrificare l’ex capogruppo Barelli, che sembrava avere già il viceministero degli Interni in tasca.
COME PREVISTO il partito più forte porta a casa il grosso dei posti, ben 18, e la premier approfitta della cospicua infornata per completare l’inserimento al governo dei suoi fedelissimi. Crosetto e Lollobrigida erano già ministri, Mantovano è un sostegno fondamentale e lo si capisce già dalla frequenza con la quale la presidente, che ancora sconta una comprensibile insicurezza, cercava il suo rassicurante sguardo in conferenza stampa. Adesso può contare anche sul suo alter ego Fazzolari con delega all’Attuazione del programma, di fatto il posto più vicino alla leader, ma anche su Leo vice al Mef, Butti all’Innovazione, Isabella Rauti alla Difesa, Cirielli viceministro agli Esteri. In squadra ci sono anche Bignami, viceministro alle Infrastrutture con il leghista Rixi, tanto per impedire che quel ministero diventi proprietà privata della Lega. Due viceministri anche al Lavoro, Durigon targato Carroccio, e Maria Teresa Bellucci, sorella d’Italia non rieletta. A sorpresa spunta anche Sgarbi, sottosegretario alla Cultura con la leghista Borgonzoni e certo fa un po’ l’effetto «strana coppia». La Lega non si lamenta: oltre ai già citati incassa Molteni agli Interni, Bitonci al Mise e Vannia Gava viceministra all’Energia. Insomma tutti più o meno soddisfatti, tranne la Cenerentola centrista che, già tagliata fuori dal cdm, deve accontentarsi di un posticino.
IL DECRETO OMNIBUS offre un primo assaggio di come intenda governare la squadra di cui sopra e Meloni rimarca a volontà: «Fiera del provvedimento sul carcere ostativo: la misura più temuta e contrastata dai mafiosi». In realtà era un passo quasi obbligato: l’intervento della Consulta l’8 novembre sarebbe stato esiziale. Non che il passo non sia «delicato e complicato», come lo definiscono al Quirinale dove aspettano di vedere il testo prima di sbottonare anche solo mezza asola. Stessa effettiva necessità e urgenza per il rientro dei medici non vaccinati con due mesi di anticipo sulla data prevista: con quattromila medici in meno e la situazione degli ospedali di è disperata. Obbligata infine la scelta di rinviare l’entrata in vigore della riforma Cartabia. «Non potevamo restare insensibili al grido di dolore di tutti i procuratori generali», si infervora il guardasigilli Nordio ed è davvero così. Comunque, conferma la premier, «i tempi fissati dal Pnrr arrivano al 31 dicembre e saranno rispettati».
A CONTI FATTI la sola vera scelta è la crociata contro i Rave, trasformandoli in emergenza nazionale perché «lo Stato non può mostrarsi inerme di fronte all’illegalità». Va detto che come primo nemico, a cui comminare pene sproporzionate che arrivano a sei anni, il governo non si è scelto precisamente il più pericoloso, forte e temibile. «Predappio è politicamente distante da me in modo molto significativo», ha sottolineato la premier e ha ragione. Però non è che per essere autoritari e pericolosi sia necessario andare a Predappio.
Commenta (0 Commenti)
«Il Brasile è tornato» sulla scena internazionale, ha detto Luiz Inácio Lula da Silva dopo la drammatica e storica vittoria su Bolsonaro. L’America latina e in particolare Cuba tirano il fiato. Non vi è dubbio che il successo del leader del Partito dei lavoratori brasiliano abbia un enorme peso per il subcontinente latinoamericano. E che ne cambi gli equilibri geopolitici.
Lula nel campo della politica estera avrà mani relativamente più libere rispetto alla pericolosa situazione interna ereditata da quattro anni di presidenza Bolsonaro. Negli ultimi 40 anni, dalla fine della dittatura militare, il Brasile si era distinto per una politica estera indipendente, pragmatica e professionale che aveva dato un forte prestigio al paese. Bolsonaro aveva rotto questa tradizione alleandosi con gli Usa di Trump e diventando una sorta di «paria internazionale», come lamentava una parte della diplomazia brasiliana.
FIN DALL’INIZIO della sua campagna presidenziale lo scorso maggio, Lula si era mostrato deciso a riprendere una sorta di leadership dello schieramento progressista latinoamericano. Dopo aver annunciato la sua alleanza col moderato Geraldo Alckmin – e dunque la scelta di occupare, seppur dinamicamente, una posizione di centro – aveva lanciato l’idea di una moneta unica per il subcontinente latinoamericano.
Indicando così di allinearsi con le tesi sostenute dal presidente del Messico, Andrés Manuel López Obrador (Amlo), sulla necessità di riorientare lo schieramento progressista su una politica di integrazione regionale pragmatica, avendo a modello l’Ue e capace di interloquire con gli Stati uniti su una base di indipendenza e sovranità regionale.
Dalla sua elezione nel 2018, per il peso economico e geopolitico del Messico, era toccato ad Amlo la guida di un tale schieramento che metteva da parte l’antimperialismo con forti connotazioni ideologiche dei tempi del presidente venezuelano Chávez. Amlo prendeva così la distanza dalla tesi che la crisi imperiale degli Usa comportasse la possibilità di una rapida decadenza dell’egemonia neoliberista.
Da domenica, e dopo le precedenti vittorie dei leader progressisti Gabriel Boric in Cile e Gustavo Petro in Colombia, il «ritorno» di Lula rafforzerà questo schieramento progressita pragmatico, che ormai allinea le cinque principali economie del subcontinente, Brasile, Messico, Argentina, Colombia e Cile. Del resto sono stati proprio i presidenti di questi paesi i primi a congratularsi con il leader del Partito dei lavoratori per la sua terza presidenza. «Ha vinto Lula, benedetto il popolo del Brasile. Vi sarà uguaglianza e umanismo», ha commentato Amlo.
IL PESO del Brasile è un fatto evidente: è il gigante del subcontinente, con 214 milioni di abitanti, una delle maggiori economie mondiali e, secondo l’Fmi, con una crescita prevista del 2,8%. Avendo come base ormai consolidata il blocco con Argentina, Uruguay e Paraguay che ha dato vita al Mercosur (13 paesi), il centro della politica latinoamericana di Lula sarà volto a rafforzare l’altro organismo di integrazione regionale, la Celac (32 paesi dell’America latina e del Caribe) e a dare priorità all’associazione strategica con l’Unione europea.
Celso Amorim, uno dei consiglieri storici di Lula, pochi giorni fa ha assicurato che i temi ambientali saranno «un elemento centrale della politica estera di Lula, perché dalla questione climatica dipende la sopravvivenza del pianeta». E anche nel suo intervento di domenica il presidente eletto ha ribadito che , per quanto riguarda l’Amazzonia, la linea portante sarà «zero deforestazione».
Non solo, in collaborazione con la sua alleata nella campagna – ed ex ministra dell’Ambiente – Marina Silva darà impulso a una maggiore cooperazione internazionale per proteggere il “polmone della terra” e per promuovere misure contro il cambiamento ambientale.
«Costruiremo un Brasile sostenibile» ha ribadito Lula. Su questi punti potrà contare soprattutto su una manifesta affinità con Gustavo Petro, anche lui al governo in un paese amazzonico – meno con il cileno Boric e con Amlo. Il presidente colombiano infatti ha in più occasioni proposto uno sviluppo economico che sia basato prioritariamente su energie pulite ed è intenzionato a caratterizzare il suo governo con una politica ambientale di peso.
PER CUBA, infine, poter contare su un presidente del Brasile amico oltre che alleato è un fatto di importanza strategica. «Lula significa un trionfo a favore dell’unità, la pace e l’integrazione latinoamericana» ha affermato il presidente Díaz-Canel.
Nel mezzo di una grave crisi economica con evidenti risvolti sociali e mentre il presidente statunitense Biden mantiene la quasi totalità dello strangolamento economico-finanziario e commerciale dell’isola, il governo cubano ha bisogno dell’appoggio di uno schieramento politico latinoamericano forte, che possa trattare con Washington da una base non conflittuale.
GUERRE. Verso la manifestazione per la pace del 5 novembre a Roma, il documento di 47 associazioni, da quelle istituzionali ai movimenti del «dissenso»
Manifestazione per la pace a Napoli - Ansa
Cattolici in campo contro la guerra e contro le armi, alla vigilia della grande manifestazione per la pace di sabato prossimo, 5 novembre, a Roma (ritrovo a Piazza della Repubblica e corteo fino a Piazza San Giovanni). I presidenti di 47 associazioni e movimenti cattolici hanno sottoscritto un documento con cui chiedono ai governanti di deporre le armi – non usarle, non inviarle, non minacciare l’impiego di quelle atomiche – e di rilanciare dialogo e diplomazia.
«COME REALTÀ del mondo cattolico italiano e dei movimenti ecumenici e nonviolenti a base spirituale – si legge –, vogliamo unire la nostra voce a quella di papa Francesco per chiedere un impegno più determinato nella ricerca della pace. Affidarsi esclusivamente alla logica delle armi rappresenta il fallimento della politica. Il nostro Paese deve da protagonista far valere le ragioni della pace in sede di Unione europea, Onu e Nato. Il dialogo, il confronto, la diplomazia sono le strade da percorrere con determinazione».
Ci sono tutte le principali organizzazioni del mondo cattolico: quelle istituzionali (Azione Cattolica, Acli, gli scout dell’Agesci, il movimento dei Focolari), quelle tradizionalmente impegnate sui temi della pace (Pax Christi, Beati i costruttori di pace, Comunità papa Giovanni XXIII, Comunità sant’Egidio, Gruppo Abele, Sermig, Focsiv), quelle della galassia cattolico-democratica (Città dell’uomo, Rosa bianca, Viandanti), quelle che un tempo sarebbero state etichettate come «dissenso cattolico» (Comunità di base, Noi siamo Chiesa), le associazioni dei teologi e delle teologhe, dei maestri e dei docenti cattolici.
Ma anche “sorprese” come Comunione e liberazione e Movimento cristiano dei lavoratori (nato da una scissione a destra nelle Acli dell’«ipotesi socialista» negli anni ‘70). Mancano i neocatecumenali e le associazioni pro-life, che però, si sa, scendono in piazza solo per i Family day.
UNA PLATEA VASTA, che lascia intendere che sabato prossimo in piazza ci saranno anche tanti cattolici, che sul tema della pace, al di là delle differenze fra i gruppi, sono stati ricompattati da Bergoglio.
«Con la creazione dell’Onu si pensava che la guerra fosse ormai un’opzione non più prevista, una metodologia barbara, dunque superata, per la soluzione dei conflitti. E invece no. Eccoci ancora con il dramma della guerra vicino a noi», scrivono le associazioni, che condannano la guerra scatenata «dall’invasione dell’Ucraina» da parte della Russia e le «tante altre sparse per il mondo, per lo più guerre dimenticate perché lontane da noi».
Oggi «è papa Francesco a ricordarci costantemente che la guerra è “una follia, un orrore, un sacrilegio, una logica perversa”» e a chiedere che «si giunga subito al cessate il fuoco: tacciano le armi e si cerchino le condizioni per avviare negoziati capaci di condurre a soluzioni non imposte con la forza, ma concordate, giuste e stabili».
C’è anche una richiesta esplicita rivolta al governo italiano, proprio quando gli Stati uniti si apprestano a rinnovare l’arsenale di bombe atomiche nelle basi militari di Ghedi e Aviano: «Di fronte all’evocazione del possibile utilizzo di ordigni atomici, un gesto dirompente di pace sarebbe certamente la scelta da parte del nostro Paese di ratificare il Trattato Onu di proibizione delle armi nucleari».
LA RICHIESTA in realtà venne già rivolta al governo Draghi nella primavera 2021. Ora le associazioni cattoliche la rinnovano: sia messa «urgentemente» all’ordine del giorno la ratifica del Trattato, per «indicare che il nostro Paese non vuole più armi nucleari sul proprio territorio e che sollecita anche i propri alleati a percorrere questa strada di pace. Purtroppo, anche dopo tante guerre, noi non abbiamo ancora imparato la lezione e continuiamo ogni volta ad armarci, a fare affari con la vendita di armi e a prepararci alla guerra».
Chissà cosa ne pensano l’ex piazzista d’armi Crosetto, ora ministro della Difesa, e la presidente del Consiglio Meloni, «madre e cristiana»?
Commenta (0 Commenti)