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IL LIMITE IGNOTO. Secondo il presidente l’«operazione speciale» procede secondo i piani. Gli Usa anticipano la consegna di nuove testate nucleari all’Europa
 Vladimir Putin parla al forum del club Valdai - Pavel Barykin/Ap

La Russia «non ha bisogno» di usare la bomba atomica. Lo ha detto il presidente Putin in un discorso che secondo il suo portavoce, Dmitri Peskov, ha una portata storica e sarà «letto e riletto». Al forum del Club Valdai, un centro studi di Mosca strettamente legato alle idee del leader del Cremlino, il capo di stato non è stato affatto parco di accuse verso l’Occidente e ha nuovamente insistito sulla linea dura contro Kiev.

«GLI USA e i loro alleati cercano di imporre le loro condizioni ad altre nazioni in un gioco di dominio pericoloso, sanguinoso e sporco» ha dichiarato Putin, il quale ha ribadito che il sostegno di Washington a Kiev è solo un tentativo di mantenere lo status quo in cui le regole vengono dettate sempre dagli stessi attori. «L’Occidente non è più in grado di imporre la propria volontà all’umanità, ma cerca ancora di farlo e la maggioranza delle nazioni non vuole più tollerarlo». Non solo, il presidente russo ha accennato anche alla situazione di Taiwan, strizzando evidentemente l’occhio al presidente cinese Xi Jinping che Putin dice di «non aver avvisato» prima dell’invasione. Oltre «ad alimentare la guerra in Ucraina» impedendo a Kiev di trattare con Mosca, l’Occidente starebbe «organizzando macchinazioni a spese di Taiwan, destabilizzando i mercati alimentari ed energetici mondiali». Anche se, rispetto alla destabilizzazione energetica, il capo del Cremlino ritiene che «non è intenzionale» ma sarebbe dovuta «a una serie di errori sistemici commessi dalle autorità occidentali».

D’altronde, «chi semina vento raccoglie tempesta» ha ammonito Putin specificando che «la Russia non è nemica dell’Occidente», ma continuerà ad opporsi ai «diktat delle élite neoliberiste occidentali» che invece vogliono sottometterla. «Il loro obiettivo è rendere la Russia più vulnerabile e trasformarla in uno strumento per realizzare le loro mire geopolitiche, ma non ci sono riusciti e non ci riusciranno mai» ha chiosato prima di ricordare, ancora una volta, che russi e ucraini sono «popoli fratelli», l’Ucraina è uno «stato artificiale» e che «l’operazione speciale è stata una necessità» nata dal «rifiuto dell’Occidente di escludere l’Ucraina dalla Nato e dal rifiuto dell’Ucraina di cercare la pace in Donbass». Peccato che il presidente russo non menzioni il fatto che non solo l’Ucraina non era prossima all’ingresso nella Nato, ma non figurava neanche tra i candidati all’adesione.

IN UNA GIRAVOLTA mediatica che più volte gli abbiamo visto fare e che è una prerogativa dei governi in cui la parola del leader non è discutibile, Vladimir Putin ha avuto anche l’ardire di dichiarare che «l’operazione militare speciale sta andando come previsto» e che il suo Stato maggiore non ha affatto sottovalutato le capacità belliche dell’Ucraina. Quindi ne dovremmo dedurre che anche la ritirata da Izyum e da Lyman era prevista. D’altronde, il pensiero dei soldati russi caduti in Ucraina occupa la mente del capo «in continuazione» ma «non si poteva agire altrimenti». Chissà cosa ne penserebbero le famiglie delle decine di migliaia di caduti per questa guerra inutile.

INOLTRE, il presidente russo ha insistito sul fatto che l’Ucraina starebbe ordendo un complotto per lanciare una «bomba sporca radioattiva» e successivamente incolpare il suo Paese, nonostante di questo fantomatico ordigno i russi continuino a non fornire la minima prova. Sulle armi nucleari tattiche ha poi chiarito che «Non ci sono motivi per usarle, né dal punto di vista militare, né da quello politico» e che Kiev le nomina di continuo per convincere l’Occidente a difenderla contro una «minaccia inesistente». Qualcuno forse ricorderà che le truppe russe al confine con l’Ucraina a inizio anno erano lì solo per «normali esercitazioni militari di routine».

DALL’ALTRA PARTE dell’Oceano Atlantico, gli Usa oggi hanno deciso di abbandonare il tono accomodante degli scorsi giorni e hanno annunciato che i piani per installare nuove testate nucleari nelle basi Nato in Europa orientale saranno velocizzati. Sui media internazionali si legge che gli Usa potrebbero anticipare dalla primavera prossima alla fine di quest’anno l’arrivo in Romania e Polonia della nuova versione delle bombe a gravità B61-12. Un annuncio che non aiuta certo a stemperare le tensioni. Soprattutto considerando le notizie diffuse in serata sulla visita segreta del direttore della Cia, William Burns, in Ucraina. Che secondo diversi commentatori avrebbe principalmente uno scopo «politico», per ricucire alcuni strappi tra le due amministrazioni, ma c’è anche chi teme che il viaggio sia un presagio funesto rispetto al rischio di un’ escalation nucleare. Per ora da Mosca sappiamo solo che anche i satelliti in orbita nello spazio saranno considerati «obiettivi legittimi» se utilizzati per dare supporto all’Ucraina.

 
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MEDITERRANEO. Parla Till Rummnhol, capomissione sulla Humanity 1: «Dal Viminale nessuna comunicazione ufficiale. Per ora non c’è alcun divieto di ingresso nelle acque territoriali. Aspettiamo che l’Italia ci indichi un luogo sicuro di sbarco»

Sos Humanity: «Noi rispettiamo il diritto del mare. Chiudere i porti è illegale» Un soccorso della Humanity 1 - Max Cavallari/Sos Humanity

Till Rummenhohl ha 30 anni ed è un esperto di ingegneria oceanica. Sulla Humanity 1, che insieme alla Ocean Viking attende un porto davanti alle coste siciliane, svolge il ruolo di capomissione. È impegnato col soccorso civile nel Mediterraneo centrale da sei anni. Tra il 2016 e 2017 ha partecipato a nove missioni sull’Aquarius. In molte altre ha lavorato da terra.

Sembra che il governo italiano non voglia darvi il porto. A bordo c’è preoccupazione?

Non abbiamo ricevuto comunicazioni ufficiali. Il processo di richiesta al centro di coordinamento del soccorso marittimo di Roma e al Viminale ha seguito la stessa procedura delle missioni precedenti. Al momento non c’è alcun divieto di ingresso nelle acque territoriali. Ci aspettiamo che questo non cambi, nonostante le dichiarazioni ai media. Ci aspettiamo che l’Italia ci dia un porto. Nelle convenzioni internazionali è scritto chiaramente che deve essere assegnato un luogo sicuro di sbarco. Le autorità italiane devono rispettare quest’obbligo.

Quante richieste di porto avete inoltrato?

Quattro. La prima il 23 ottobre. Le ripeteremo ogni giorno fino a quando non riceveremo risposta.

Chi sono le persone salvate?

A bordo abbiamo 180 naufraghi. Vengono da Gambia, Nigeria, Sud Sudan e altri paesi. Un centinaio sono minori non accompagnati. Abbiamo soccorso un gommone pieno di donne e bambini da cui alcune persone, prima del nostro arrivo, erano cadute in acqua. Sembra che qualcuno sia annegato. I compagni di viaggio sono sotto shock. Ci sono uomini e donne che in Libia hanno sofferto violenze continue e ne portano le cicatrici sul corpo. Lo spazio sul ponte è limitato e non è possibile separare i minori dagli adulti. Dormono all’aperto, nello stesso spazio. Esposti a condizioni climatiche che nei prossimi giorni peggioreranno: è previsto un vento più forte.

Il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi vi accusa di operare in maniera autonoma e senza coordinamento. È vero?

No, non lo è. Abbiamo agito nello stesso modo degli ultimi sei anni. Non abbiamo mai cambiato alcun comportamento, rispettando tutti gli obblighi imposti dal diritto internazionale del mare. Il problema è che da alcuni anni le autorità italiane e maltesi non rispondono più ai nostri messaggi e non coordinano le nostre operazioni di ricerca e soccorso. Non ci fanno sapere nulla neanche quando chiediamo informazioni sui casi di barche in difficoltà di cui riceviamo notizia. Quando ci sono persone in pericolo in mare il soccorso non è una scelta, ma un dovere imposto dalla legge. Se le autorità non rispondono dobbiamo scegliere se salvare o no. Se il capitano non reagisse nel più breve tempo possibile si comporterebbe in modo illegale e sarebbe perseguibile. Noi informiamo tutti i centri di coordinamento di ogni passaggio dei soccorsi. Ma non rispondono mai.

Ci sono state reazioni dallo Stato di bandiera dopo la nota verbale inviata dal ministero degli Esteri italiano all’ambasciata tedesca?

Siamo in contatto continuo con la Germania che ci aiuta a comunicare con le autorità italiane. Adesso però il tema è passato su un piano diplomatico tra ambasciate e ministeri che non ci compete.

Cosa farete se l’Italia vi nega qualsiasi porto e vi dice di andare in Francia, Spagna o addirittura Germania come pretese in passato Matteo Salvini?

Continueremo ad agire rispettando il diritto internazionale del mare, come abbiamo sempre fatto. Questo significa che i naufraghi devono sbarcare nel porto sicuro più vicino. Siccome Malta ignora le nostre richieste, il successivo paese competente è l’Italia. Continueremo a fare pressione per avere il porto: non è ragionevole né realizzabile andare lontano con i sopravvissuti a bordo. Significherebbe metterli di nuovo in pericolo. Un soccorso non è finito finché non toccano terra. Faremo pressione sull’Italia perché rispetti le leggi nazionali e internazionali. Se chiuderanno i porti dimostreremo che è illegale.

Per Piantedosi l’obiettivo del governo è che non ci siano più navi di Ong che salvano migranti nel Mediterraneo. Cosa significherebbe?

Sarebbe una tragedia in primis per l’Europa. Vedremmo un grande aumento di morti e dispersi. Una grande vergogna per i paesi europei e per la società civile. Noi salviamo le vite delle persone perché ci sono politici che adottano misure anti-migranti. Il Mediterraneo centrale è la rotta più letale al mondo e la situazione peggiorerebbe ancora. Le persone sarebbero comunque costrette a salire sulle barche per fuggire dalle condizioni in Libia. Si tratterebbe di una grande tragedia. Per la prima volta il Mediterraneo si troverebbe senza mezzi di ricerca e soccorso, a differenza del resto dei mari e oceani. Quando le persone chiedono aiuto devono essere salvate.

 

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MANIFESTAZIONE. Per l’anniversario dei cento anni l’Anpi con i sindacati a Predappio, nella capitale maratona dei luoghi «al contrario».

La retromarcia su Roma, per non dimenticare Bandiere tricolore dell’Anpi - Ansa

Se le cose fossero andate come previsto, oggi scoccherebbe l’anno cento dell’era fascista. Che l’argomento non sia stato definitivamente consegnato alla storia lo dimostra l’attenzione che la data sta suscitando nel paese: del resto, nonostante tutte le ovvie prese di distanza precedenti e successive, a urne da poco chiuse la presidente Giorgia Meloni festeggiò l’esito elettorale dedicando la sua vittoria «a chi non c’è più e avrebbe meritato di vivere una nottata come questa». Detto dalla leader del partito con la fiamma tricolore che arde nel simbolo, il significato della cosa ha dell’inquietante e il pensiero non può che andare a chi, sempre parole sue, «non ha mai smesso di credere e combattere». Eppure a Roma è prevista poca roba.

S’È ANCHE (non casualmente) scongiurata la coincidenza temporale tra l’anniversario e il voto di fiducia al governo, e allora, irrimediabili nostalgici a parte, quella di oggi sarà una giornata in cui a farsi sentire saranno soprattutto gli antifascisti. Il segretario del Pd Enrico Letta ha annunciato che lui e i suoi andranno a far visita al monumento a Giacomo Matteotti, mentre all’Anfiteatro Alessandrino andrà in scena l’evento clou della «Retromarcia su Roma», una maratona per ripercorrere «al contrario» i luoghi e i tempi della calata delle camicie nere. Parteciperanno, tra gli altri, Miguel Gotor, storico e assessore alla Cultura del comune di Roma, Ascanio Celestini, i Tetes de bois e Marino Sinibaldi. L’iniziativa è stata salutata con favore anche dalla senatrice Liliana Segre: «È importantissimo tornare sui luoghi dei delitti. Ricordare non è un atto passivo; è un impegno per il presente e per il futuro. La memoria è essenziale per intendere ed accogliere la diversità di cui noi stessi siamo parte. E ancora serve a raccontare e rimotivare la nostra conoscenza del passato. La memoria è un rammendo imperfetto di un percorso di guarigione civile, percorso che serve a mantenere in buona salute la democrazia».

L’ANPI, DAL CANTO SUO, ha scelto la giornata di ieri per intervenire, con un evento che ha visto la partecipazione di storici, attori e musicisti, intitolato «Marcia mai più». Per oggi l’appuntamento è a Predappio, città natale di Benito Mussolini. Qui ci sarà un corteo che, oltre alle associazioni antifasciste e ai sindacati, vedrà anche

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ANTIFASCISMO. La Sapienza blindata fin dal mattino per un'iniziativa organizzata da Azione Universitaria, legata al partito di Meloni. I collettivi manifestano, celere e Digos usano i manganelli. Doppi standard: aula concessa al collettivo di destra, negata per l’evento sul Kurdistan
Scontri tra la polizia e studenti all’Università La Sapienza, foto da Twitter La carica della polizia ieri a La Sapienza

Corrono tre chilometri in linea d’aria tra Montecitorio e piazzale Aldo Moro. Mentre alla Camera Giorgia Meloni teneva il suo primo discorso a deputate e deputati, nella cittadella universitaria de La Sapienza decine di agenti della celere e della Digos manganellavano un gruppo di studenti antifascisti.

Il presidio era stato chiamato dal Collettivo di Scienze politiche il giorno precedente: appuntamento alle 10 per protestare contro il convegno «Capitalismo, il profilo nascosto del sistema» organizzato da Azione Universitaria, gruppo studentesco che – nel profilo Facebook – vanta di essere «l’unica associazione di Destra nel panorama universitario romano».

Ospiti Daniele Capezzone, ex portavoce di Forza Italia e Fabio Roscani, presidente di Gioventù nazionale e neo-deputato di Fratelli d’Italia. Una conferenza autorizzata dalla Facoltà di Scienze politiche che ha concesso l’aula XIII, dedicata a Massimo D’Antona.

«AZIONE UNIVERSITARIA è un’organizzazione legata a FdI», ci dice Sofia del Collettivo di Scienze politiche. Con una buona dose di ambiguità: ufficialmente non si definiscono tali, ma i suoi membri – ci dicono – per lo più hanno in tasca la tessera di FdI e della Lega.

E la pagina Fb conferma le simpatie: in un post del 28 settembre AU definisce quello di Meloni «il partito che raccoglie la tradizione storica e culturale della Destra italiana…orgoglio per il fatto che le idee per cui ogni giorno ci battiamo nelle università abbiano una forte rappresentanza nazionale».

Il resto lo raccontano le immagini che ieri hanno riempito i social media e le chat su Whatsapp: all’improvviso la celere ha iniziato a manganellare i manifestanti. Diversi i feriti, colpiti alla testa e alle gambe.

UN GIOVANE è stato trascinato a terra dagli agenti con violenza e ammanettato, pochi minuti dopo è stato portato dentro l’edificio e identificato. Accusato di voler aggredire gli agenti con un’asta di plastica.

«Quando siamo arrivati alle 9 – continua Sofia – abbiamo trovato la facoltà blindata. L’accesso era bloccato dal cancello chiuso e dagli agenti schierati con caschi, scudi e manganelli».

«Volevamo contestare la presenza di Roscani e Capezzone in un convegno che giustifica l’attacco di quel poco di welfare che rimane – aggiunge Fabio, dello stesso Collettivo – Verso le 10 abbiamo iniziato una serie di interventi e il cortile si è riempito. Abbiamo deciso di contestare la chiusura fisica dell’ateneo apponendo gli striscioni sulle grate. La polizia ha reagito caricandoci per 15-20 minuti».

«Fuori i fascisti dalla Sapienza. Antifascismo è anticapitalismo», diceva lo striscione alla testa del corteo. E «fuori i fascisti dall’università» è lo slogan che risuonava mentre la polizia picchiava.

«Abbiamo chiamato a un’assemblea pubblica subito dopo, eravamo 300-400 studenti – continua Sofia – Poi siamo partiti in corteo verso il rettorato per chiedere conto alla rettrice Polimeni dell’ingresso della celere nell’università. Ha rifiutato di incontrarci».

LA MOBILITAZIONE prosegue, i collettivi hanno chiamato a una nuova assemblea pubblica domani alle 17 nel campus: «Giovedì – prosegue Fabio – sarà la prima tappa di un processo di auto-organizzazione dal basso perché l’università sia un luogo di resistenza. Siamo partiti in 50 oggi, abbiamo finito in 400. Nell’ultimo anno sono stati sgomberati spazi universitari autogestiti o anche concessi, con la motivazione che non ci possono essere spazi di parte».

La rettrice Antonella Polimeni ha poi preso parola. Non con gli studenti ma con una nota: «Vista la particolare veemenza delle proteste di un gruppo di persone intenzionate a entrare in aula per interrompere il convegno, il dirigente del servizio predisposto dalla Questura di Roma ha deciso di intervenire per garantire la sicurezza collettiva. L’Università deve essere un luogo in cui si studia, si cresce, in cui bisogna incontrarsi e confrontarsi».

Il confronto appare però a senso unico. Se come ribadisce Polimeni il convegno di AU era «regolarmente autorizzato», lo stesso trattamento non è stato riservato all’iniziativa di venerdì 28 ottobre sul Kurdistan: ospiti la parlamentare curda svedese Aminah Kakabaveh (minacciata dal governo turco che ne ha chiesto ufficiosamente l’illegale estradizione alla Svezia in cambio del via libera all’ingresso nella Nato di Stoccolma), Moni Ovadia e il responsabile di Uiki, Yilmaz Orkan.

Si svolgerà all’esterno dell’università: la Facoltà di Scienze politiche non ha concesso aule. Il motivo addotto dal preside Tito Marci, secondo quanto verificato dal manifesto, è l’assenza di contraddittorio: necessario garantire anche le posizioni della Turchia per evitare incidenti diplomatici.

«CON LA NUOVA RETTRICE La Sapienza si pone come università innovativa e progressista – conclude Fabio – ma è una narrazione solo mediatica: quando si parla di Kurdistan, Palestina o spazi autogestiti rispondono sempre con la necessità della presenza della controparte».

Una “pluralità” di posizioni che nel caso degli esponenti della destra italiana non c’è stata. C’era nel marzo scorso: il rettorato negò lo spazio per presentare il rapporto di Amnesty International sull’apartheid israeliana (cinque anni prima lo stesso: un’altra iniziativa sulla Palestina impedita perché «discriminatoria»).

«Lo vediamo, l’università è schierata – continua il Collettivo di Scienze politiche – Dà spazio alla destra, agli antiabortisti come Pillon, ai razzisti».

Tante le reazioni ieri. Flc Cgil ha definito «inaccettabile la reazione della polizia»: «Non tolleriamo mai che il dissenso venga represso con la violenza e che questo avvenga all’interno dei luoghi della formazione».

FILIPPO ZARATTI, deputato di Alleanza Verdi e Sinistra italiana ha fatto sapere che presenterà un’interrogazione parlamentare sulle cariche agli studenti. Lo stesso farà +Europa.

«Mentre il neo-governo Meloni esordisce alle Camere, lo spazio dell’università diventa teatro della peggiore repressione», il commento di Amedeo Ciaccheri, presidente del Municipio VIII di Roma.

A Montecitorio il leader 5stelle Giuseppe Conte si è detto preoccupato nel «vedere le immagine di cariche e manganelli alla Sapienza». «Gruppettari che si professano democratici», risponde la Lega. Ovviamente riferendosi ai collettivi antifascisti.

 
 
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MIGRANTI. Il ministro dell'Interno Matteo Piantedosi accusa: «Soccorsi senza coordinamento». A Lampedusa arrivano due neonati morti. L’Oim: dal 2021 oltre 2.800 vittime nel Mediterraneo centrale

 Il Ministro dell’Interno Matteo Piantedosi - Ansa

In mare due navi si impegnano a salvare persone, a terra tre ministri si occupano di creare loro problemi. Sulle Ocean Viking e Humanity 1 ci sono 326 naufraghi. Viaggiavano su barchini instabili o gommoni sovraffollati, con il rischio di ribaltarsi o affondare in qualsiasi momento, senza le più basilari condizioni di sicurezza. Secondo le autorità italiane, però, sono le Ong ad aver agito fuori dalle convenzioni sul soccorso in mare e dalle norme per il contrasto dell’immigrazione. È il contenuto di una nota verbale con cui il ministero degli Affari esteri, guidato da Antonio Tajani (Forza Italia), ha contestato alle ambasciate norvegese e tedesca, stati di bandiera delle imbarcazioni, un comportamento irregolare: «operazioni di soccorso svolte in piena autonomia e in modo sistematico senza ricevere indicazioni dall’autorità responsabile dell’area Sar, Libia e Malta, informata solo a operazioni avvenute». Le due navi non hanno fatto nulla di diverso dalle ultime missioni, portate a termine lontano dai riflettori della politica. Ma con la destra al governo il vento è cambiato e l’esecutivo ci tiene a segnare subito il punto.

«È VERO CHE abbiamo agito in autonomia. Sono anni che chiediamo il coordinamento alle autorità competenti ma nessuno risponde. Dovremmo lasciare affogare le persone?», dice Francesco Creazzo, di Sos Mediterranée. Sulla base delle contestazioni alle ambasciate il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi ha inviato una direttiva ai vertici delle forze di polizia e delle capitanerie di porto. Dal Viminale fanno sapere che si tratta di una richiesta di monitorare le due navi anche ai fini di un eventuale divieto di ingresso nelle acque italiane. Che per ora non è stato disposto. Immediato il sostegno del vicepremier e neoministro delle Infrastrutture Matteo Salvini (Lega): «Come promesso questo governo intende far rispettare regole e confini». Il manifesto ha potuto visionare il contenuto della nota verbale, che ha una forma scritta, trasmessa all’ambasciata norvegese. Il ministero degli Esteri, che per errore attribuisce la Ocean Viking a Medici senza frontiere invece che a Sos Mediterranée, sottolinea come l’Italia non abbia assunto il coordinamento dei soccorsi, avvenuti fuori dall’area di ricerca e soccorso di competenza, e dunque non riconosca alcuna responsabilità nell’individuazione del porto. Afferma anche di considerare pregiudizievole al buon ordine e alla sicurezza dello Stato l’ingresso della nave in acque territoriali italiane, che quindi potrà essere rifiutato.

UN DÉJÀ-VU del braccio di ferro Salvini-Ong andato in scena tra 2018 e 2019. I decreti sicurezza voluti al tempo dal leader leghista, infatti, sono ancora in vigore. Il successivo governo Pd-M5s aveva promesso di cancellarli all’insegna della «discontinuità» sulle politiche migratorie, ma li ha solo modificati. Per esempio trasferendo nel penale il regime sanzionatorio, con l’aggiunta della possibile reclusione fino a due anni per il comandante della nave, e precisando che non si possono punire i soccorsi «effettuati nel rispetto delle indicazioni della competente autorità per la ricerca e il soccorso in mare». Il diavolo, come sa chi scrive le leggi e chi le emenda, sta nei dettagli. È da oltre cinque anni che l’Italia non coordina i soccorsi fuori dalla sua zona Sar. Né coordinano Malta o i libici, che comunque non dispongono di porti sicuri.

INTANTO DAL 2018 la «flotta civile» è cresciuta. Le navi umanitarie attive sono dieci: Geo Barents, Ocean Viking, Sea-Eye 4, Mare Jonio, Humanity 1, Aita Mari, Open Arms, Open Arms 1, ResQ, Sea-Watch 3 (detenuta a Reggio Calabria). Altre due sono in arrivo: Sea-Watch 5 e Life Support. Tre sono le unità più piccole e veloci: Louise Michel, Rise Above e Aurora Sar (bloccata da problemi con la bandiera britannica). Ci sono poi tre velieri che svolgono missioni di monitoraggio e assistenza: Astral, Imara e Nadir. Anche gli aerei civili che pattugliano il mare sono tre: Colibrì 2 (di Pilots Volontaires), Seabird 1 e 2 (di Sea-Watch). Uno, invece, il centralino che riceve e rilancia le richieste di aiuto: Alarm Phone.

NONOSTANTE TUTTO CIÒ, in assenza di una vera assunzione di responsabilità degli stati, i migranti continuano a morire. Almeno 2.836 dal 2021 nel Mediterraneo centrale (fonte: Oim). Ieri è toccato a due gemellini di appena 20 giorni partiti, con altre 56 persone, da Sfax. Erano sottopeso e sarebbero morti di ipotermia. «La prima a scendere sul molo di Lampedusa è stata la madre, distrutta, in lacrime», dice Giovanni D’Ambrosio di Mediterranean Hope.

NELLA CAMERA MORTUARIA del cimitero dell’isola, sprovvista di cella frigorifera, ci sono anche i quattro cadaveri trovati in mare lunedì, quelli di altri due bambini vittime di un incendio scoppiato sul loro barcone e di due tunisini recuperati il 6 ottobre. Tra lunedì e martedì sulla maggiore delle Pelagie sono arrivate più di 800 persone: oltre 1.100 le presenze nell’hotspot. Ieri, poi, la guardia costiera italiana è intervenuta per soccorrere circa 1.300 migranti partiti su due pescherecci da Tobruk, nella Cirenaica. Geo Barents e Humanity 1 erano in area ma non sono state coinvolte. Sull’operazione non sono state diffuse informazioni ufficiali.

 

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IL LIMITE IGNOTO. La lettera dei 30 deputati liberal statunitensi e le dichiarazioni del neopremier Uk Sunak

Soldati ucraini fanno fuoco con degli M777 Horowitzer nel Donetsk foto Ap 

«Abbiamo bisogno di più armi, di più munizioni per vincere questa guerra» ha dichiarato il primo ministro ucraino, Denys Shmyhal, a latere di una conferenza sulla ricostruzione del suo Paese organizzata a Berlino.
È evidente che quando i funzionari o i politici ucraini fanno tali proclami pensano in modo speciale agli Stati uniti e alla Gran Bretagna, i principali partner militari di Kiev. Ma ogni occasione è buona per ricordare al mondo che la resistenza ucraina ha bisogno di armi. E soldi. Il presidente Zelensky ha dichiarato che il suo Paese ha «letteralmente bisogno (di fondi, ndr) per sopravvivere» e ha stimato anche una cifra. «L’ammontare del nostro piano di recupero rapido è di 17 miliardi di dollari per la ricostruzione immediata e urgente: si tratta di ospedali, scuole, trasporti vitali e infrastrutture energetiche». Ma per il leader ucraino l’Ucraina «non ha ricevuto un solo centesimo per l’attuazione del piano».

SECONDO LA PRESIDENTE della Commissione europea, Ursula von der Leyen, i paesi del vecchio continente starebbero considerando di stanziare 18 miliardi di euro di aiuti all’Ucraina nel 2023 fornendo un’assistenza finanziaria mensile di 1,5 miliardi di euro. Von der Leyen ha anche aggiunto che Kiev ha bisogno di una cifra tra 3 e 5 miliardi di dollari al mese per coprire le spese di bilancio correnti.
Ma proprio ora che l’Ucraina scopre la propria debolezza economica, si levano i primi spiragli di un cambiamento in seno ai più decisi sostenitori della «guerra fino alla vittoria» ucraina. Il Washington Post, ad esempio, ha pubblicato una lettera in cui 30 deputati democratici americani hanno chiesto un cambio di approccio al conflitto in corso in Europa orientale a Joe Biden. Nella missiva si chiede al presidente di puntare su un negoziato diretto con la Russia. Tra i firmatari i nomi di spicco del gruppo progressista al Congresso, da Ocasio Corteza a Pramila Jaypal. Si noti che in seno al Congresso americano negli ultimi tempi sono emerse diverse voci dissonanti dalla linea di Biden nella cosiddetta «ala trumpiana» del partito repubblicano. Mentre il Gop ha chiarito che la propria linea è quella del supporto militare ed economico a Kiev, i gruppi più a destra continuano a insistere su un disimpegno degli Usa dalla guerra. Anche perché a otto mesi dall’inizio del conflitto la situazione sul campo non concede speranze a un imminente «cessate il fuoco».

FORSE PER QUESTO nell’intervista concessa al Corriere della sera, il presidente Zelensky ha dichiarato che «abbiamo ricevuto alcuni segnali che ci hanno preoccupato. Però sembrano più messaggi politici interni agli Stati uniti, legati al dibattito in vista delle elezioni di midterm». Il leader ucraino, tuttavia, si è detto sicuro del supporto indiscriminato di democratici e repubblicani all’invio di armi al suo Paese, ma sembra proprio che alcune certezze inizino a vacillare. Tuttavia, secondo l’agenzia Reuters, gli Usa stanno valutando la possibilità di fornire all’Ucraina i sistemi di difesa aerea Hawk, un aggiornamento dei sistemi missilistici Stinger, più piccoli e a corto raggio, già in uso presso le forze armate ucraine.
Inoltre, ieri si è insediato anche il nuovo governo britannico e il premier appena nominato, Rishi Sunak, ha usato toni meno aggressivi della premier uscente, Liz Truss. Nonostante «la guerra di Putin abbia destabilizzato il mercato dell’energia e le forniture in tutte il mondo», Sunak ha auspicato la conclusione del conflitto. Con il successo dell’Ucraina, si legge tra le righe, ma diversi analisti internazionali hanno subito notato il cambio di registro del nuovo premier conservatore.

IN SERATA è arrivato anche l’apprezzamento del Cremlino per la proposta del presidente francese Macron di includere il Papa nei colloqui per la fine delle ostilità. «Questo è positivo, che ci sia un’apertura di questo genere, evidentemente si tratta di una apertura generica che si dovrà poi concretizzare tenendo conto di tutti gli aspetti ma che ci sia disponibilità a parlare mi pare un segno» ha dichiarato Dmitri Peskov, il portavoce del presidente Putin.

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