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LA CLASSE OPERAIA TORNA IN PARLAMENTO/2. L’ex bracciante: per rappresentare questa moltitudine serve superare vecchie concezioni. Tenere insieme partite Iva e migranti con al centro il tema salariale e i diritti facendo sintesi come Di Vittorio. La sinistra sia quella del sorriso degli ultimi senza toglierlo a nessuno
Aboubakar Soumahoro: «Per la nuova classe operaia serve radicalità immaginaria» Aboubakar Soumahoro fuori da Montecitorio

Aboubakar Soumahoro, appena eletto deputato nell’Alleanza Verdi-Sinistra da indipendente: insieme all’ex operaio Tino Magni si sente parte della classe operaia che torna in parlamento dopo due legislature?
Mi sento orgogliosamente della classe operaia. Un’entità non statica, ma dinamica. La classe operaia oggi è fatta da una moltitudine di realtà: di partite Iva, dei lavoratori delle piattaforme.

Si sente in grado di rappresentarle tutte?
L’obiettivo è quello di mettermi non solo al servizio di questa moltitudine di esperienze, di volti, di sofferenze, di aspettative. Ma farlo con la consapevolezza che tale missione sarà possibile solo mantenendo i piedi nel fango dell’immiserimento e della precarietà di questo mondo. Quindi dentro il parlamento ma allo stesso tempo dentro le dinamiche del mondo reale e le sue contraddizioni.

Per questo già nei primi giorni da parlamentare è stato molto in giro: ha trovato novità rispetto alle sue esperienze precedenti?
Sto girando da tre giorni: da Lecce, dalla provincia di Bari, nel Foggiano e ancora prima a Bologna e nell’Emilia. È quello che ho sempre fatto ma ora cerco anche di rappresentare le condizioni sociali che incontro e i loro bisogni che non sempre, specie negli ultimi anni, hanno trovato rappresentanza dal punto di vista politico.

Quali sono le priorità per rappresentare questa moltitudine?
Il lavoro, innanzi tutto. Per rappresentare questa moltitudine bisogna entrare in sintonia con questa realtà fatta di partite Iva, di piccole e medie imprese. Anche se qualcuno dirà: “Ma cosa c’entrano con la classe operaia?”. Invece proprio questa visione arretrata, ferma, statica non permette di entrare in contatto con la realtà che cambia. Allo stesso tempo rappresentare il lavoro significa rappresentarlo dal punto di vista della sua dimensione legata alle disuguaglianze salariali di genere. In questi giorni ho incontrato persone plurilaureate che percepiscono un salario irrisorio, da fame. Questa “classe operaia” essendo stata dimenticata da un certo modo di interpretare la sinistra si è ritrovata a sua volta rigettata dalla stessa classe operaia che dovrebbe rappresentare.

Lei con Tino Magni comunque rappresenta una minoranza della minoranza. Come pensate di far sentire la vostra voce – obiettivo da lei realizzato riuscendo a bucare anche l’informazione mainstream – e ancor di più di ottenere risultati?
Innanzitutto bisogna distinguere ciò che possiamo considerare “classe operaia” da punto di vista sociologico dalla realtà che è diffusa e plurale che c’è nel nostro paese. Questa seconda non è minoranza. Anzi, è maggioranza che nel corso di questi anni non ha trovato rappresentanza politica. Quindi io non sono minimamente espressione di una minoranza. Detto questo, serve la capacità di non seguire l’onda del nuovismo e avere l’audacia di interpretare le voci, le aspirazioni di questa maggioranza sociologica senza per questo abbracciare la cultura dell’alienazione che tende a rinunciare alle proprie aspirazioni. E allo stesso tempo fare in modo che questa narrazione possa essere condivisa in modo popolare, che non chiamerei mainstream, ma è la capacità di confrontarsi con quelli spazi mediatici che devono diventare luoghi di confronto e di dialettica senza rinunciare o rinchiudersi dentro la cultura del minoritarismo.

Nella sua esperienza personale recente ha usato un esempio storico importantissimo come Di Vittorio. Pensa che possa stare insieme a questa nuove “classe operaia”?
Assolutamente sì. Di Vittorio aveva una radicalità posturale e cioè la capacità di stare nelle dinamiche dei bisogni materiali e immateriali delle persone anche con il tema della pace. Senza rinunciare alla capacità stessa di portare proposte radicali ma allo stesso tempo innovative: se pensiamo al suo Piano per il Lavoro degli anni ’50 lui riuscì ad elaborarlo mettendo assieme tutte la pluralità del mondo dell’intelligenza, della cultura, dell’economia, della politica. Innescando un processo di dibattito: questo porta alla valorizzazione della pluralità ma andando poi a fare una sintesi: funzione per eccellenza della politica. Come facciamo a entrare in sintonia e mettere assieme i bisogni delle piccole imprese alle prese con il caro bollette, l’eco-ansia dei giovani, chi viene discriminato per il colore della pelle? L’unica strada è fare in modo che il tema dell’impoverimento, dell’uguaglianza, della giustizia sociale diventi il tema per eccellenza. Di Vittorio era in grado anche di innescare una narrativa estetica: di domenica, quando i braccianti non andavano a lavorare, chiedeva loro di vestirsi bene per le strade di Cerignola perché non bisogna mai sacrificare l’estetica sull’altare dell’abbrutimento e anche della durezza dello sfruttamento: esaltare le lotte nella bellezza della vita. Guardare le stelle ma con i piedi nel fango della miseria.

In questo suo percorso da sindacalista a parlamentare vede una coerenza? L’obiettivo è di arrivare a una carica istituzionale o di ministro per incidere nella realtà?
Penso che nella vita bisogna poi dare senso alla propria esistenza. E la mia non sta in ciò che è utile o conveniente per la mia persona ma ciò che credo giusto e utile per il benessere collettivo. Questo porta ad un approccio diverso per come deve essere interpretato l’agire politico: bisogna tornare ad abbracciare la parola “noi” come sentire collettivo dove diventiamo tutti e tutte delle persone che portano avanti una missione. Non per retorica, ma concretamente parlando: nelle campagne sono sempre stato. Ora bisogna prestare orecchio. Non parlare di Aboubakar capotreno ma di chi sta nelle carrozze della sofferenza e della precarietà.

Oggi, con la prospettiva del primo governo guidato da una neofascista, il tema del pericolo del ritorno del fascismo viene sentito da queste persone o si tratta di una questione distante dai bisogni della nuova classe operaia?
Oggi qual è lo stato di salute del nostro paese? Il 40% di cittadini non sono andati a votare. Questo elemento pone la necessità di un dibattito vero sulla democrazia rappresentativa perché con questi numeri significa non solo che c’è disaffezione ma un sentimento di rigetto rispetto alla politica che non suscita più sogni, capacità di trasformare le disperazioni in speranze. L’altro elemento riguarda la condizione materiali delle persone e l’attuale contesto rispetto al carovita e la crisi climatica: mentre parliamo di giustizia sociale dobbiamo tenere accanto la prospettiva di società che ci immaginiamo. Papa Francesco descrive il “conflitto propositivo” che deve trovare forme di respiro dentro il mandato del futuro governo senza assolvere chi ha fatto i primi decreti Sicurezza. Le alternative sono due: o questa o il modello Orban con elementi di restrizione delle libertà.

Se dovesse dare una definizione di sinistra calzante per questo contesto quali parole userebbe?
Una sinistra capace di liberarsi dallo spirito de “i ricchi devono piangere”. E abbracciare la prospettiva de “gli ultimi devono sorridere”, intesa come sorriso di diritti, di libertà, di felicità; senza togliere il sorriso a chi ha sempre sorriso. E con questo non garantire il Reddito di cittadinanza da una parte e dell’altra parte normalizzare la deriva di una società razzista. Vogliamo sì i diritti sociali ma non vogliamo per questo portare chi per il fatto di essere descritto diverso si ritrova trasformato nel nemico pubblico di turno. La politica e il modello di società che sogno si basa su quello che Gramsci sosteneva: riabbracciare la parola immaginazione

 
 
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PARLAMENTO. Scontro sulle vicepresidenze. Renzi alza il tiro, il Pd non riesce a chiudere un accordo con tute le minoranze. Domani il voto per completare gli uffici di presidenza

Camere, l’opposizione rischia l’autogol La camera dei deputati - LaPresse

Mentre la maggioranza mette una pezza sulla rottura che si è aperta in occasione dell’elezione del presidente del senato, le opposizioni allargano lo strappo. Domani si votano vicepresidenti, questori e segretari e la minoranza non si lascia sfuggire l’occasione per una nuova lite, mentre ancora non ha scoperto i franchi tiratori che hanno aiutato La Russa. Magari l’esito delle tre votazioni segrete a palazzo Madama di domani pomeriggio suggerirà la risposta. Ma mentre si alzano i toni in particolare tra Azione-Italia viva e il Pd, il lettore deve aver ben chiaro che se Pd, M5S e centristi fossero in grado di trovare un accordo, non ci sarebbe storia. I regolamenti della camera e del senato infatti, con la regola del voto limitato, garantiscono alle opposizioni unite la possibilità di eleggere due vicepresidenti su quattro, un questore su tre e quattro segretari su otto in entrambe le camere. Senza accordo invece si può solo aiutare la destra a stringere qualche accordo sottobanco con pezzi di opposizione. Come probabilmente è andata nel caso dell’elezione di La Russa.

Per una soluzione ordinata, il gruppo più grande, il Pd, dovrebbe prendersi in carico la mediazione, e gli altri, M5S e Azione-Iv, collaborare. Non si verifica alcuna delle due condizioni. Renzi, che ha circa un terzo dei parlamentari de M5S e un quarto di quelli del Pd, considera un suo diritto intangibile una vicepresidenza, in particolare quella della camera da dare a Maria Elena Boschi o Ettore Rosato. Il Pd pensa invece di blindare un accordo con i 5 Stelle che, sulla carta e numeri alla mano, potrebbe garantirgli due vicepresidenze dovendo però riconoscerne altrettante al partito di Conte. I dem puntano a una delegazione femminile per far dimenticare la scarsa quota di donne elette.

Alla camera, durata lo spazio di un fine settimana l’idea di affiancare Zan all’omofobo Fontana, i nomi sono quelli della capogruppo uscente Debora Serracchiani e di Anna Ascani, con la prima più vicina alla vicepresidenza e la seconda alla guida del gruppo dem. Scarse le possibilità dell’ex segretario Zingaretti. Al senato buone probabilità di confermare l’incarico per la vicepresidente uscente Anna Rossomando, appena più basse le quotazioni di Valeria Valente che però potrebbe prendere il posto dell’attuale capogruppo Simona Malpezzi. Qualche chance anche per il coordinatore della segreteria di Letta, il senatore Marco Meloni, in pista per una vicepresidenza.
Anche i 5 Stelle al senato pensano di spostare la capogruppo uscente, Mariolina Castellone, a una delle vicepresidenze spettanti all’opposizione, mentre alla camera il candidato di Conte è l’ex ministro Sergio Costa. Resterebbero così fuori sia il ministro uscente Stefano Patuanelli che l’ex sindaca di Torino Chiara Appendino che però potrebbero aspirare a una delle commissioni di garanzia. Nel caso in cui i 5 Stelle dovessero rinunciare a una vicepresidenza – alla camera, dove sono percentualmente meno “pesanti” – questa andrebbe a Azione-Iv e appunto a Boschi o Rosato.

Perché questo avvenga, ieri Renzi ha sparato altissimo: «Se Pd e 5S ci tenessero fuori sarebbe un atto di gravità inaudita, dovremmo immediatamente porlo alla attenzione del presidente della Repubblica». «Renzi è scorretto», la replica del Pd Boccia, «con i numeri che hanno potranno accedere a questori e segretari d’aula». Cariche per le quali il Pd non potrà però dimenticarsi dei suoi alleati, Sinistra/Verdi e +Europa almeno. Sempre che la destra non si insinui nell’incapacità di dialogo delle opposizioni, com’è già avvenuto al senato, per dividerle ulteriormente. E imperare.

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Intervista al missionario comboniano, punto di riferimento del pacifismo italiano. "L'unica proposta seria è l'appello del Papa a Putin e Zelensky, perché non umilia la Russia". Un governo guidato da Giorgia Meloni potrebbe aiutare la via diplomatica? "Non credo, lei è schierata con Draghi, che rappresenta il sistema economico militarizzato"

Manifestazione contro la guerra, Zanotelli: “Il 5 novembre ci sarò, nessuno si tiri indietro. Ma niente bandiere, solo quella per la pace”

“Il 5 novembre ci sarò anch’io in piazza perché nessuno può tirarsi indietro in questo momento: serve una manifestazione unitaria, senza bandiere se non quella della pace”. A sostenere a gran voce l’iniziativa promossa da molte realtà, tra cui Arci e Acli è padre Alex Zanotelli, missionario comboniano 84enne: lui non ha mai smesso di puntare il dito contro i governi che hanno sostenuto il commercio delle armi per interessi nelle guerre. Lo fece a metà degli anni Ottanta da direttore della rivista Nigrizia, lo fa oggi dalla sua minuscola abitazione nel campanile della chiesa del rione Sanità di Napoli, dove ha scelto di vivere dopo dodici anni trascorsi nella più grande baraccopoli del Kenya.

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Anticipiamo un brano del libro che Papa Francesco pubblica alla soglia del decimo anno di pontificato. Nel volume «Vi chiedo in nome di Dio. Dieci preghiere per un futuro di speranza», a cura di Hernán Reyes Alcaide (Piemme, in uscita martedì), il Pontefice lancia un appello universale a costruire insieme un orizzonte di pace, un mondo migliore

 

 

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MEDIO ORIENTE. Ieri mobilitazioni ovunque, da Teheran a Isfahan, incendio nel maxi carcere di Evin. Da Ardebil giunge la notizia di un’altra giovane uccisa dalle forze di polizia. Parla l'attivista Shaparak Shajarizadeh: «Milioni di donne si sono riconosciute nelle rivendicazioni così com’è accaduto per Black Lives Matter. Non abbiamo bisogno di un leader» 

«Donna, vita, libertà», il grido degli studenti per le strade dell’Iran Manifestanti per le strade di Teheran - Ansa

Nel carcere di Evin, Teheran nord, ieri sera era in corso un incendio. Sono suonate le sirene, quelle per dichiarare una evasione. Nei video in rete, lanci di lacrimogeni e automobili che si dirigono verso Evin urlando morte a Khamenei (il leader supremo). Alcuni detenuti sono saliti sul tetto per evitare le fiamme.

La televisione di Stato dice che è tutto sotto controllo. Secondo l’agenzia Irna, che cita un alto funzionario della sicurezza di Teheran, ci sarebbe stata una lite tra i prigionieri e il personale del carcere di Evin, dopo che aveva preso a fuoco il deposito di abiti dei detenuti.

LA LITE avrebbe avuto luogo tra alcuni prigionieri in carcere per crimini finanziari, e quindi non quella in cui sono rinchiusi l’ex deputata Faezeh Hashemi Rafsanjani, gli attivisti e gli ostaggi stranieri, accusati di propaganda contro lo stato e spionaggio. Nulla si sa, per ora delle vere cause dell’incendio.

Intanto ieri è stata ancora giornata di proteste a Teheran, Karaj, Rasht, Ardebil, Ahvaz, Mashhad. «Donna, vita, libertà» è stato lo slogan più urlato da liceali e studenti di vari atenei, da Teheran a Marivan, fino a Isfahan. Ad Ardebil mercoledì una studente è morta in ospedale dopo essere stata picchiata dalle forze di sicurezza, un altro versa in condizioni critiche.

Nella capitale, vicino a piazza Vali Asr ieri c’era un palco con la musica religiosa. I pullman hanno portato gente da fuori. Uomini e donne, coperte da capo a piedi con il chador. Sembrava la fiera del nero.

Non erano numerosi, ma dalle foto sui media di regime, sembravano tanti. Merito di Photoshop. Il giorno della nascita del profeta Mohammed è diventato pretesto per una contromanifestazione, a favore della Repubblica islamica.

SE IERI LA GENTE da fuori era arrivata nella capitale, sui bus, è solo perché – in cambio – aveva ricevuto un po’ di soldi. In Iran, funziona così. E la letteratura persiana contemporanea, al femminile, lo racconta bene: nel recentissimo romanzo L’ultimo gioco di Banu, la scrittrice Belgheis Soleymani narra di un’orfana costretta dalla madre a sposare un uomo di regime, un religioso colpevole di aver mandato a morte tanta gente.

Da quell’uomo, la madre ottiene denaro. Ed è elargendo toman, aumentando stipendi e pensioni dei dipendenti pubblici e dei militari, che le autorità della Repubblica islamica pensano di poter sedare le proteste in corso.

Queste contestazioni sono però diverse da quelle dei decenni precedenti: «È la prima volta che gli uomini sostengono le donne. Nella storia dell’Iran, non era mai successo. Credo che le proteste porteranno a un cambiamento, al rovesciamento di questo regime. I miei amici in Iran dicono che non si tratta solo di proteste: è una rivoluzione. Siamo stanchi di questo governo corrotto e brutale, incapace di far fronte alle emergenze, incluse quelle climatiche», osserva l’attivista per i diritti umani Shaparak Shajarizadeh.

Nel 2017 era stata protagonista dei «mercoledì bianchi» di protesta: era salita sopra a un blocco di cemento, si era tolta il velo, lo aveva messo su un bastone e lo aveva sventolato.

Per questo, era stata arrestata: «Sono stata detenuta anch’io nel centro di detenzione dov’è morta Mahsa Amini. Per me e per molti altri è stato subito ovvio che era stata uccisa. Ero stata rinchiusa in cella di isolamento e il mio avvocato Nasrin Sotoudeh mi ha liberata su cauzione. Ero molto arrabbiata, per la violenza subita e per quello che avevo visto. Ne parlavo in giro e, per questo, mi hanno riportata nella prigione di Evin. Ma non avevano nulla da rimproverarmi e quindi mi avevano liberato».

«ERO STATA FUORI città e mi avevano fermata di nuovo con mio figlio. Aveva nove anni, si era spaventato moltissimo. Lo avevano tenuto sei ore nella stanza dove mi interrogavano. Ammanettata, davanti al bambino. Avevo iniziato lo sciopero della fame e dopo qualche giorno mi ero rifiutata di bere. Mi avevano rimandata a Teheran e il mio avvocato aveva pagato la cauzione per scarcerarmi. Ero traumatizzata, consapevole che avrebbero fatto del male alla mia famiglia. Ho lasciato l’Iran, illegalmente, con l’aiuto di trafficanti. Non mi sono presentata al processo. Sono stata condannata a 20 anni e a ulteriori 18 se avessi ripetuto il reato, ovvero mi fossi ripresentata in pubblico, o anche solo sui social, senza velo».

In persiano, Shaparak vuole dire «farfalla». Ha 47 anni ed è passata dalla disobbedienza civile alla protesta sulla scia del movimento «My Stealthy Freedom» lanciato nel 2014 dalla giornalista Masih Alinejad, esule negli Usa: «La sua pagina su Facebook è diventata una piattaforma su cui caricare le nostre foto e video senza velo».

«Le proteste sono un sogno che si avvera. L’hejab è il simbolo della violenza sistematica contro le iraniane, non avrei mai immaginato che in tante sarebbero scese in strada senza velo». Le proteste in corso non hanno un leader, ma forse nell’era di Internet e dei social media non è un problema.

«IL MOVIMENTO #MeToo si è diffuso rapidamente, in tutto il mondo, pur non avendo un capo. Non è necessario. Milioni di donne si sono riconosciute nelle rivendicazioni, così com’è accaduto per il movimento Black Lives Matter. In Iran non abbiamo bisogno di un leader. Reclamiamo libertà, diritti civili e tutto quello che ci è stato tolto con l’istituzione della Repubblica islamica nel 1979», conclude Shaparak Shajarizadeh.

Sabato 22 ottobre sarà ospite – in collegamento dal Canada – dell’evento Iran, il fuoco della libertà al Festival «L’eredità delle donne» diretto da Serena Dandini (a Firenze dalle 17.15 alle 18.30).

 

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XX CONGRESSO DEL PCC. Il leader cinese si appresta a governare fino a quando vorrà ritirarsi. Ma ora che ha messo la sicurezza nazionale in testa alle priorità del Paese, il partito dovrà affrontare la questione economica. E fare i conti con una società sull’orlo di una crisi di nervi per gli ostinati lockdown

Tutti i nodi di Xi Jinping e di un partito sordo ai problemi della popolazione Preparativi per il XX Congresso del partito comunista cinese, al via oggi - Ap

Dopo settimane di rumors, di voci, di dicerie, finalmente comincia il XX Congresso del Partito comunista cinese. E per una volta l’anomalia, la sorpresa, non arriva da uno scandalo tutto interno al Partito, ma da due striscioni appoggiati su uno dei tanti ponti pedonali della capitale, nel distretto di Haidan. Nel primo c’era scritto: «Vogliamo cibo, non covid test, vogliamo riforme, non la rivoluzione culturale, vogliamo libertà, non i lockdown, vogliamo il voto, non un leader, vogliamo dignità, non bugie, siamo cittadini, non schiavi». Quello accanto, per chi non avesse inteso bene il messaggio del primo, recitava così: «Rimuovere il dittatore Xi Jinping».

Tutto abbastanza clamoroso, considerando anche i livelli di sicurezza che raggiunge Pechino nei giorni che precedono il Congresso. Ovviamente la censura sul web si è subito mossa, molti account su WeChat che hanno usato le parole proibite (pure «Pechino», pare) sono stati sospesi.

La domanda in questi casi è sempre la stessa: quanto questa sensazione che serpeggia di una società sull’orlo di una crisi di nervi possa sfociare in qualcosa di massa e non solo in sporadiche proteste come questa (o quelle che abbiamo visto a Shanghai).

La sensazione è che Xi Jinping – che pure si appresta con molte probabilità a uscire ancora più potente dal Congresso – in questi dieci anni abbia finito per ricacciare il Partito dove era esattamente dieci anni fa, cioè distante dalla popolazione. E che il Partito venga così percepito come una sorta di organizzazione clanistica para mafiosa che fa i propri interessi e non ha alcuna considerazione della popolazione.

Da un lato il Partito sembra insistere con i suoi riti, dall’altro prosegue imperterrito – in modo quasi testardo – con politiche sociali ed economiche che non stanno risolvendo alcun problema. E che anzi, è il caso della politica “dinamica” Covid Zero, sta esacerbando gli animi e sembra ormai una fissazione della dirigenza giusto perché quella politica è di Xi Jinping e quindi diventa intoccabile.

Il Partito ha sempre basato la sua forza, e tutto sommato la sua legittimità, sulla capacità di percepire i sentimenti della popolazione e di rimediare a errori. Ora siamo di fronte a una situazione in cui o è sordo per una sua involuzione o fa finta di niente.

Negli ultimi giorni i media statali hanno infatti pubblicato, di nuovo, pubbliche lodi alla politica di contenimento del Covid senza porsi alcun problema per la vita delle persone che ormai da tempo sono totalmente in balia di questa policy.

La Cina ha sempre avuto la forza di sperimentare, diversificare e provare a vedere quale soluzione fosse la migliore “tra” un ventaglio di opzioni.

Se poi proprio al Partito non interessasse quello che sta provando – sui propri corpi – la popolazione, c’è un dettaglio non da poco che dovrebbe richiamare a qualche forma di attenuazione della policy: il rischio economico all’orizzonte.

Come ha scritto Yanzhong Huang su Foreign Affairs,«a differenza di quasi tutti gli altri paesi del mondo, la Cina continua a perseguire severi controlli alle frontiere, isolamento aggressivo dei contatti stretti, chiusure improvvise di aeroporti e spazi pubblici e blocchi improvvisi di quartieri e persino di interi comuni. Avendo scommesso un enorme capitale politico sulla strategia Zero Covid, la leadership cinese è restia a cambiare rotta, in particolare alla vigilia dell’importantissimo 20° Congresso nazionale del Partito Comunista Cinese (…). Città dopo città, i funzionari stanno perseguendo misure eccessivamente dure nel tentativo di evitare focolai che potrebbero mettere in imbarazzo il governo».
nnn

Al di là infatti del probabile mandato a vita per Xi, perché la situazione è tale che, senza indicare alcun successore, Xi si appresta a governare fino a quando vorrà ritirarsi, c’è da chiedersi come il Partito affronterà prima di tutto il nodo economico, tanto più dopo che Xi stesso ha posto la questione della sicurezza nazionale come priorità rispetto alla tenuta economica.

La Bank of China ha fatto stime pessime, addirittura una crescita del 3,5%, la disoccupazione aumenta, i giovani sembrano sempre più delusi dalla situazione economica e sociale e lo scenario internazionale è piuttosto fosco.

Per questo, nei giochi di incastro del Congresso, dovremo tentare di scrutare le figure di sfondo. In particolare vedere se avanzeranno quei funzionari che dal punto di vista economico potrebbero provare a cambiare la rotta del paese; Wang Yang, ad esempio, dato come possibile premier ha fama di riformatore, benché abbia fatto di tutto per accreditarsi come fedele di Xi.

E poi c’è l’esercito dei tecnocrati 2.0 promossi dallo stesso Xi: nati negli anni ’60 e cresciuti nell’epoca delle Riforme. Potrebbero essere loro a cambiare, con molto tatto e calma, il paese. Ma qualcuno, prima di allora, di sicuro si brucerà.

 

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