ELEZIONI. A poco più di tre settimane dal voto, nuovi sondaggi stimano che la coalizione in testa ha la maggioranza dei due terzi del parlamento a portata di mano e quella dei tre quinti già in tasca
Il tabellone delle votazioni alla camera
Tra ieri e martedì, altri tre sondaggi (Swg per La7, Euromedia per La Stampa e Noto per Porta a porta) hanno stimato come ormai accade da settimane la coalizione di destra tra il 46 e il 47 percento dei voti. È un’ulteriore conferma che Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia ai quali si può aggiungere la lista Noi moderati – perché è stimata sopra l’1% e dunque è in grado di dare il suo contributo alla coalizione anche restando sotto lo sbarramento del 3% – hanno a portata di mano un traguardo storico. Reso più facile dalla riduzione dei parlamentari. Possono cioè concretamente aspirare alla maggioranza dei due terzi dei componenti, sia alla camera che al senato.
Secondo una simulazione di ieri del sito Youtrend realizzata con i dati della loro «supermedia» (una media ponderata dei sondaggi nazionali), «il centrodestra può ottenere tra i 240 e i 265 seggi alla camera e tra i 120 e i 135 al senato». È un risultato molto simile a quello che aveva stimato il manifesto il 25 agosto sulla base dei sondaggi di quella settimana.
Numericamente questo vuol dire che la maggioranza dei due terzi dei componenti non è sicura, ma molto probabile. Il quorum dei due terzi ha rilievo per le leggi i revisione costituzionali e per le votazioni in seduta comune – quando cioè camera e senato funzionano da collegio elettorale unico per eleggere i giudici della Corte costituzionale e i consiglieri del Consiglio superiore della magistratura che spettano al parlamento. I nuovi numeri del parlamento dicono che gli aventi diritto sono 606: 400 deputati, 200 senatori elettivi e 6 senatori a vita e a vita di diritto. Per raggiungere i due terzi il centrodestra deve arrivare a 404 voti. Adesso, secondo Youtrend, sarebbe tra i 360 e i 400. Siamo quasi lì. O forse siamo già lì, considerando che in parlamento ci saranno rappresentanti di Azione-Italia viva, delle minoranze linguistiche e potrebbero esserci (sempre a stare ai sondaggi) anche di Italexit: non è affatto impossibile che i pochi voti che mancano possano essere trovati senza troppe difficoltà.
Non solo. Fin qui l’allarme per il possibile exploit della destra si è concentrato sull’ipotesi di modifiche alla Costituzione senza l’obbligo del referendum confermativo. In questo caso la maggioranza che occorre è sempre quella dei due terzi dei componenti e in due votazioni separata (la terza e la quarta) alla camera e al senato. Dunque servono 267 voti alla camera (Youtrend stima 265 come quota massima) e 138 al senato (Youtrend stima 135).
Ma ci sono anche altre votazioni delicate perché riguardano le istituzioni di garanzia, votazioni che peraltro a differenza di quelle sulla Costituzione non sono eventuali ma certe e anche abbastanza vicine. Entro fine anno o al più tardi a inizio 2024 le camere in seduta comune dovranno infatti eleggere dieci (non più otto) consiglieri “laici” (cioè non magistrati) del Consiglio superiore della magistratura. Serve la maggioranza dei tre quinti delle camere in seduta comune nelle prime due votazioni, poi ancora i tre quinti ma calcolati sui votanti. I senatori a vita partecipano raramente alla votazioni e pesano solo sui quorum calcolati sugli aventi diritto. La maggioranza dei tre quinti dei componenti è di 364 voti, quella calcolata senza senatori a vita 360. Sono due soglie che la destra raggiunge anche prendendo per buona la stima più prudente di Youtrend. Certo, è molto difficile che non vorrà concedere alle opposizioni un diritto di tribuna nel Csm. Ma non sarà costretta dai numeri a farlo.
Infine, la maggioranza dei tre quinti dei componenti è sufficiente, dalla terza votazione in poi, a eleggere anche i giudici della Corte costituzionale che spettano al parlamento. La destra può fare da sola anche in quel caso. E nei prossimi due anni avrà la possibilità di eleggerne ben quattro.
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IL LIMITE IGNOTO. «Ma la situazione è preoccupante»: il direttore dell’Agenzia atomica internazionale strappa ai russi il prolungamento dell’ispezione
Ispettori dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica visitano l’impianto nucleare di Zaporizhzhia - Ministero della difesa russo
«Ammirevoli» i tecnici ucraini che lavorano in questa situazione, «estremamente complessa» la situazione, «necessario e fattore di stabilizzazione» l’intervento dell’Aiea. Il direttore generale dell’Agenzia nucleare internazionale, Rafael Mariano Grossi, in una conferenza stampa a Vienna ha parlato della sofferta visita degli ispettori Aiea alla centrale nucleare di Zaporizhzhia. Rifiutandosi di fare alcun paragone con la catastrofe di Chernobyl.
GROSSI HA LASCIATO dietro di sè alcuni uomini. Sotto la costante sorveglianza dei militari russi, alcuni ispettori Aiea continuano infatti a controllare gli impianti di Zaporizhzhia dopo che il direttore generale ha denunciato che «l’integrità fisica della centrale è stata violata più volte». Grossi ha anche aggiunto che gli esperti internazionali non lasceranno la centrale sino a quando tutti i punti del loro mandato non saranno chiariti e «cosa più importante, noi stiamo stabilendo una presenza costante dell’Aiea» nel sito nucleare.
Saranno due, infatti, i membri del team di esperti nucleari che resteranno a controllare il sito dopo che anche gli ultimi loro colleghi se ne saranno andati. Una dichiarazione che non fa certo piacere a Mosca, che aveva concesso solo una giornata alla squadra delle Nazioni unite per ispezionare la centrale più grande d’Europa. Un compito impossibile.
GLI OSSERVATORI hanno effettivamente constatato che i russi hanno trasformato alcuni degli edifici in garage per mezzi militari anche se, è stato detto loro, i mezzi apparterrebbero a reparti Nbc (nucleare batteriologico chimico) e non sarebbero impiegati nei combattimenti. Da parte loro, la precisa volontà dei militari di mostrare la loro presenza all’interno della centrale, contravvenendo alle regole internazionali sulla sicurezza, indica che Mosca ha intenzione di sfidare il consesso internazionale.
LA DELEGAZIONE AIEA si riunirà a Vienna alla fine di questa settimana, quando verrà raggiunta anche dagli altri colleghi che sono rimasti temporaneamente a Zaporizhzhia. Qualunque sia il rapporto che verrà stilato, l’agenzia atomica internazionale non avrà autorità per obbligare Mosca e Kiev a mettere in pratica le raccomandazioni, a chiedere un cessate il fuoco o a creare una zona demilitarizzata attorno alla centrale come chiesto dalle autorità ucraine. I bombardamenti e le reciproche accuse probabilmente continueranno.
Prima di lasciare la centrale, una delegazione di cittadini di Energodar ha consegnato a Grossi una petizione firmata da 20mila residenti per chiedere che l’Onu intimi all’Ucraina di cessare i bombardamenti contro la città e contro la centrale. Una mossa criticata dai funzionari di Kiev, che hanno definito la dimostrazione un’azione di propaganda inscenata dalle autorità russe.
DELUSO ANCHE ZELENSKY, che si aspettava un comunicato più incisivo da parte del direttore della Aiea che invece ha mantenuto il suo tradizionale aplomb diplomatico. In particolare gli ucraini, dopo aver più volte denunciato fughe radioattive, imminenti scoppi (impossibili a verificarsi) o fusioni dei rettori, danni irreparabili ai vessel (il recipiente in pressione che contiene il nocciolo) e distruzioni di depositi radioattivi, hanno dovuto prendere atto che, ad oggi, la centrale non ha mai subito danni che possano aver messo in pericolo la salute dei cittadini.
Petro Kotin, il presidente della Energoatom, l’agenzia atomica ucraina, che non ha mai avuto parole tenere verso l’Aiea e verso Grossi, ha detto che considererà positiva la visita dell’organizzazione internazionale solo se riuscirà a stabilire una zona demilitarizzata attorno alla centrale, cosa che, però, non è compito dell’agenzia istituire. Ha inoltre aggiunto che, a causa della manipolazione, distorsione dei fatti e delle prove a loro carico compiute dai russi, sarà difficile che l’Aiea abbia una visione e una valutazione oggettiva della situazione.
Grossi ora spera che gli ispettori rimasti nella centrale a continuare il lavoro iniziato giovedì scorso, riusciranno ad intervistare un numero rappresentativo di lavoratori senza che questi abbiano timore per la sicurezza loro e dei familiari. Le pressioni a cui sono stati sottoposti i dipendenti da quando l’esercito di Mosca ha occupato la centrale sono ormai confermate e il clima che si respira nel sito non è ideale perché il lavoro proceda senza tensioni psicologiche.
NEL FRATTEMPO l’Unione europea, raccogliendo gli allarmi di Zelensky, ha inviato in Ucraina cinque milioni di pastiglie di ioduro di potassio e in alcune zone situate entro 50 chilometri dalla centrale è già iniziata la distribuzione, nonostante la loro necessità sia ancora molto remota. Le pastiglie dovrebbero servire in caso di disastro nucleare solo se le radiazioni fuoriuscissero dai reattori, in quanto lo iodio-131, il radioisotopo più pericolo per la salute, viene rilasciato come sottoprodotto della fissione nucleare e ha un tempo di dimezzamento pari a soli otto giorni. Nei depositi di scorie radioattive a secco presenti a Zaporizhzhia, questo isotopo è dunque assente, visto che i rifiuti presenti sono vecchi di diversi anni.
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Resistenze sul Price Cap. Mosca: stop delle forniture a chi imporrà restrizioni. Cingolani presenta il suo piano minimalista in Cdm
Non parla di imprese il ministro dell’Energia Cingolani quando illustra ai colleghi il suo piano di risparmio energetico. È questo silenzio a connotare quelle che lo stesso ministro definisce «misure minime» e che tali sono davvero. Certamente un grado di riscaldamento in meno, da 20 a 19c, per un’ora in meno al giorno negli edifici pubblici e in quelli privati con riscaldamento centralizzato. Probabilmente lo slittamento dell’accensione dei termosifoni fino a novembre. Ipoteticamente il taglio potrebbe essere raddoppiato, due gradi e due ore in meno, nelle regioni più calde, se sarà proprio necessario. Ma per le imprese nessun taglio, perché la produttività resta l’ossessione di Draghi, la sua unica bussola. Se vorranno limitare per alcuni giorni al mese i metri cubi di gas potranno farlo, ma senza obbligo, solo sulla base del loro calcolo di costi e benefici. Stesso discorso per la Dad: «La scuola non si tocca».
È UN PIANO DAVVERO minimalista, quasi indolore. Il governo è convinto di potercela fare soprattutto sulla base di tre elementi: lo stoccaggio, che è arrivato all’83% della capienza; la diminuita dipendenza dal gas russo, passato dal 40% al 18% del fabbisogno; l’attesa per l’intervento della Ue. Quella però è un’incognita, anzi è l’incognita. Perché non è affatto chiaro quali saranno i contenuti reali delle misure che la Ue si accinge ad adottare e perché non è possibile quantificare ora l’impatto delle contromosse russe, probabili per non dire certe. Sul versante dell’iniziativa europea le cose dovrebbero chiarirsi nelle prossime due settimane. Il 7 settembre è in agenda il vertice dei direttori generali dell’Energia, due giorni dopo la tappa decisiva, il vertice straordinario dei ministri dell’Energia. Non decideranno niente ma sarà sulla base delle loro indicazioni che la presidente von der Leyen stilerà la proposta ufficiale, che dovrebbe essere presentata il 14 settembre.
SULLA RISPOSTA RUSSA si accumulano segnali più che eloquenti. Il vicepremier russo Novak ha annunciato ieri la sospensione delle forniture di petrolio ai «paesi ostili» che applicheranno il Price Cap sul petrolio. Difficile credere che la reazione al tetto sul gas possa essere più morbida. Il Ceo di Gazprom Miller ha poi annunciato un aumento del 60% delle forniture di gas alla Cina ed è una notizia che incide direttamente sulla guerra delle sanzioni tra Russia e Ue, perché l’aumento delle forniture alla Cina rende per la Russia meno onerosa l’eventuale sospensione della fornitura di gas ai Paesi Ue. Lo stoccaggio a passo di carica serve proprio a fronteggiare quella minaccia latente e in generale la Ue è oltre l’80%. Il problema sono i Paesi che non hanno capacità di stoccaggio, come i Baltici, l’Irlanda e la Grecia, e per i quali non è stato ancora predisposto l’eventuale piano di sostegno.
NEL COMPLESSO MOLTO dipenderà da quali scelte farà la Ue. Sul fronte del decoupling, lo sganciamento del prezzo dell’energia da quello del gas, non si registrano almeno per ora opposizioni e del resto è una riforma che sarebbe stata necessaria anche senza la guerra. Ma sostituire il modello vigente richiede tempo: difficilmente ci si arriverà prima della prossima primavera. Sul tetto al prezzo del gas invece le strategie divergono. L’Italia, come fatto capire da Draghi al meeting di Rimini, pensa a un taglio secco del prezzo limitato alla Russia. La Germania, che continua a temere la rappresaglia russa, punta invece a una sforbiciata più morbida: un limite ai prezzi fino all’80% dei consumi, con la differenza coperta dallo Stato, secondo il modello adottato da Spagna e Portogallo. La Germania può permetterselo, altri Paesi di meno, l’Italia per niente. L’Olanda, tra i paesi che ci rimetterebbero di più, ha smesso di opporsi ma con tutta la cautela del caso: aspetta di capire di cosa si sta parlando e quanto le costerebbe il tetto.
SARÀ NECESSARIA una trattativa forse lunga ma intanto l’inflazione corre, nell’Eurozona è al 9,1% e sul tavolo dei banchieri centrali, che si incontreranno alla vigilia del vertice sull’Energia, c’è l’ipotesi di un rialzo drastico del tasso d’interesse, di 0,75 punti base. Sarebbe la stretta più rigida da quando c’è l’euro e nella situazione data la recessione sarebbe quasi più una certezza che un rischio. Per famiglie e imprese italiane il morso del caro energia è dolorosissimo già oggi. Ma di questo nel consiglio dei ministri di ieri non se ne è parlato. Draghi però starebbe meditando sulla possibilità di alzare ulteriormente la tassa sugli extraprofitti. Sempre che qualcuno la paghi.
Commenta (0 Commenti)CRISI UCRAINA. I rapporti di Ocse e Aie: le principali economie prevedono aiuti a consumatori e produttori per gas, petrolio e carbone a causa dell'aumento dei prezzi. La lotta al cambiamento climatico è rimandata
Un pozzo di petrolio in Colorado - Ap
Nel 2021 le principali economie hanno aumentato drasticamente il sostegno alla produzione e al consumo di carbone, petrolio e gas naturale: il sostegno pubblico complessivo ai combustibili fossili in 51 Paesi del mondo è quasi raddoppiato passando da 697,2 miliardi di dollari nel 2021 a 362,4 nel 2020.
L’analisi è stata pubblicata a fine agosto dall’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) e dall’Agenzia internazionale per l’energia (Aie), secondo cui molti Paesi stanno lottando per bilanciare gli impegni presi da tempo per eliminare gradualmente gli inefficienti sussidi ai combustibili fossili con gli sforzi per proteggere le famiglie dall’impennata dei prezzi dell’energia.
LE PROIEZIONI di Ocse e Aie mostrano che i sussidi al consumo aumenteranno ancora nel 2022, a causa dell’aumento dei prezzi dei carburanti e del consumo di energia.
È un altro effetto dell’aggressione russa all’Ucraina: «La guerra ha minato la sicurezza energetica. Gli aumenti significativi dei sussidi per i combustibili fossili incoraggiano gli sprechi di consumo, ma non raggiungono necessariamente le famiglie a basso reddito – ha spiegato il segretario generale dell’Ocsa Mathias Cormann – Dobbiamo adottare misure che proteggano i consumatori dagli impatti estremi dei cambiamenti del mercato e delle forze geopolitiche, in modo da contribuire a mantenere la neutralità delle emissioni di carbonio, la sicurezza energetica e l’accessibilità dei prezzi».
I dati presentati coprono i principali paesi produttori e consumatori di energia, che rappresentano l’85% dell’approvvigionamento energetico totale del mondo.
L’analisi dell’Ocse riguarda trasferimenti di bilancio e agevolazioni fiscali legate alla produzione e all’uso di carbone, petrolio, gas e altri prodotti petroliferi nelle economie del G20 e ha mostrato che il sostegno totale ai combustibili fossili è salito a 190 miliardi di dollari nel 2021 da 147 miliardi di dollari nel 2020.
Il sostegno ai produttori ha raggiunto livelli mai visti prima nelle attività di monitoraggio, 64 miliardi di dollari nel 2021, con un aumento di quasi il 50% rispetto all’anno precedente e del 17% rispetto ai livelli del 2019.
«QUESTI SUSSIDI hanno in parte compensato le perdite subite dai produttori a causa dei controlli sui prezzi interni, in seguito all’impennata dei prezzi energetici globali alla fine del 2021», spiega un comunicato dell’organizzazione. La stima del sostegno ai consumatori ha raggiunto invece i 115 miliardi di dollari, in aumento rispetto ai 93 miliardi di dollari del 2020.
L’Aie, invece, elabora le stime dei sussidi ai combustibili fossili confrontando i prezzi sui mercati internazionali e i prezzi pagati dai consumatori nazionali, mantenuti artificialmente bassi grazie a regolamentazione diretta dei prezzi, formule di determinazione dei prezzi, controlli o tasse alle frontiere e mandati di acquisto o di fornitura nazionali.
Prendendo in considerazione 42 economie, l’Aie rileva che il sostegno ai consumatori aumenterà a 531 miliardi di dollari nel 2021, più che triplicando il livello del 2020, a causa dell’impennata dei prezzi dell’energia.
IL PROBLEMA è che tutto questo cozza con l’esigenza di rendere sempre meno attraenti anche per i consumatori i combustibili fossili nell’ambito della lotta ai cambiamenti climatici: «I sussidi sono un ostacolo per un futuro più sostenibile, ma la difficoltà che i governi incontrano nell’eliminarli è sottolineata in periodi di prezzi elevati e volatili dei combustibili. Un aumento degli investimenti nelle tecnologie e nelle infrastrutture per l’energia pulita è l’unica soluzione duratura all’attuale crisi energetica globale e il modo migliore per ridurre l’esposizione dei consumatori agli alti costi dei carburanti», ha commentato il direttore esecutivo dell’Agenzia internazionale per l’energia, Fatih Birol.
Il country report dell’Ocse per l’Italia evidenzia un sostegno pubblico ai combustibili fossili stimato in 9,02 miliardi di euro nel 2020. Si sono ridotti del 13% dal 2015. Anche se è cresciuta di un miliardo di euro la voce relativa alle quote di emissione distribuite gratuitamente nell’ambito del meccanismo europeo di scambio delle emissioni (Ets).
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USA/GRAN BRETAGNA. I legali del fondatore di Wikileaks tentano con l'Alto Tribunale del Regno unito per impedire che sia consegnato agli Stati unii. Michelle Bachelet: a rischio la libertà di stampa
Su un balcone di Sydney solidarietà per Julian Assange - Ap/Mark Baker
Sono ormai agli sgoccioli le possibilità di salvare Julian Assange, fondatore del portale Wikileaks, dall’estradizione negli Stati uniti, dove l’aspetta una lunga lista di accuse che potrebbero portare il governo Usa a condannarlo a 175 anni di reclusione.
La settimana scorsa il caso è arrivato all’Alta commissaria dell’Onu per i diritti umani, l’ex presidente cilena Michelle Bachelet; il caso, ha detto alla compagna di Assange, Stella Moris, e ai suoi avvocati spagnoli, Baltasar Garzón e Aitor Martínez, è motivo di preoccupazione per l’impatto sulla libertà di stampa e il giornalismo di inchiesta.
Venerdì scorso i suoi legali hanno consegnato un ultimo appello presso l’Alto Tribunale del Regno unito, ultimo capitolo di una saga giudiziaria che va avanti dal 2010.
QUELL’ANNO la Svezia chiese l’estradizione dell’australiano per stupro, molestie sessuali e coercizione. L’accusa mai provata era di aver rotto il preservativo durante la relazione sessuale con due donne, una circostanza che nel codice penale svedese rientra nel ventaglio dei reati tipificati come stupro. L’indagine negli anni è stata aperta e chiusa molte volte, l’ultima l’anno scorso, senza arrivare a nulla.
La richiesta svedese di estradizione per interrogarlo sul proprio territorio (non legalmente necessaria) ha dato il la a un labirinto giudiziario. Assange temeva, e il tempo gli ha dato la ragione, che segretamente gli Stati uniti avessero allestito un’indagine per la quale avrebbero chiesto la sua estradizione una volta in Svezia.
Quando la Gran Bretagna ha respinto il suo ultimo ricorso contro l’estradizione (un tipo di estradizione che oggi la Gran Bretagna non concede più: bisogna prima essere condannati), Assange ha infranto le condizioni di libertà vigilata e si è rifugiato nell’ambasciata dell’Ecuador, allora guidato dal presidente Rafael Correa, che gli ha concesso asilo. È rimasto rinchiuso in quei pochi metri quadrati, senza accesso neppure alla luce naturale.
CONDIZIONI così estreme che nel 2018 il Working Group sulle detenzioni arbitrarie dell’Onu aveva criticato il Regno unito: non permetteva l’uscita di Assange dopo più di sei anni di confinamento nonostante l’inchiesta svedese in quel momento fosse chiusa.
La rivista scientifica Lancet nel 2020 ha parlato di «stato di salute precario dovuto all’effetto di tortura psicologica prolungata sia nell’ambasciata ecuadoriana che nella prigione di Belmarsh», centro di massima sicurezza dove è attualmente rinchiuso.
Il nuovo presidente ecuadoriano, Lenín Moreno, che lo vede con assai meno simpatia, aveva intanto iniziato a mettergli paletti, tagliandogli l’accesso a internet e limitando fortemente le visite, per non parlare dello scandalo, su cui gli inquirenti spagnoli stanno ancora indagando, dell’impresa privata spagnola che gestiva la sicurezza dell’ambasciata, che spiava Assange e i suoi visitatori, e passava informazioni direttamente alla Cia.
NEL 2019 l’espulsione violentissima dall’ambasciata: da allora il ciberattivista è rinchiuso a Belmarsh quasi in isolamento. La pena che gli toccava scontare per aver infranto la libertà vigilata era di qualche settimana di carcere: ma è ancora lì, mentre cerca di non essere estradato negli Usa che nel frattempo hanno reso pubblici i 17 capi di imputazione per cui gli vogliono mettere le mani addosso.
Il fatto è che Assange, con la sua Wikileaks ha messo in luce gli abusi del potere. Con il famosissimo video Collateral murder, in cui soldati americani sparavano a civili inermi in Afghanistan, con i diari di guerra in Afghanistan, con quelli in Iraq, e con molti altri documenti (come i cablo delle cancellerie di tutto il mondo).
A PAGARE per i crimini di guerra denunciati da Wikileaks sono solo coloro che hanno filtrato le informazioni, l’ex soldatessa Chelsea Manning, e lo stesso Assange, che le ha rese pubbliche (in collaborazione con testate giornalistiche, nessuna delle quali è stata mai accusata).
Ma tant’è: a gennaio del 2021 la magistrata inglese Vanessa Baraitser non riconosce che le accuse americane siano politiche (per la legge inglese Assange non sarebbe estradabile) ma blocca l’estradizione perché considera che sia in pericolo di vita; dopo il ricorso degli Stati uniti (che hanno vinto a dicembre assicurando che avrebbe ricevuto un processo e un trattamento equo), la ministra degli interni inglese Priti Patel a giugno ha dato il suo permesso per l’estradizione.
Come ha scritto Ken Loach nell’introduzione al bel libro di Stefania Maurizi Il Potere segreto (Chiarelettere, 2021), questa è la storia del «prezzo terribile pagato da un uomo, trattato con estrema crudeltà per aver messo a nudo un potere che non risponde a nessuno, nascosto da un’apparenza di democrazia».
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Mercoledì sera a Porta a Porta il segretario del Pd Enrico Letta come misure per affrontare immediatamente l’emergenza gas ha citato il «raddoppio del credito d’imposta per le imprese» e «una rateizzazione delle forme di pagamento» delle bollette «per tutti, anche per la famiglie».
Completamente dimenticata invece «la proposta in 5 punti» che lo stesso Letta propagandava solo fino a pochi giorni fa e che prevedeva «un tetto a 100 euro al prezzo del gas in Italia». La spiegazione di una così macroscopica marcia indietro è fra le righe delle dichiarazioni fatte in seguito: «Il 9 c’è questa riunione, il governo italiano sta concertando le misure con gli altri paesi europei».
Dunque, il Pd in piena campagna elettorale si dimostra così «draghiano» da cancellare una sua proposta pur di non mettere in difficoltà il presidente del consiglio uscente.
Una linea realmente suicida che prosegue anche quando Letta non critica l’errore marchiano – ormai riconosciuto da tutti – commesso dallo stesso governo Draghi nel scrivere la norma sulla tassazione degli extragettiti che ha portato a valanghe di ricorsi da parte delle imprese: «Ci sono delle tecnicalità da aggiustare, ci stanno mettendo le mani», si è limitato a dire Letta.
Che è l’unico leader di partito, assieme all’odiato Calenda, a essere contrario allo scostamento di bilancio: «Lo scostamento di bilancio» è una misura «totalmente emergenziale, ed è evidente che può avvenire solo a livello europeo». Insomma, il Pd con Draghi è tornato il «partito Tafazzi».