Roberto Fico, ex presidente della camera e militante del Movimento 5 Stelle dalle origini, leggendo il voto europeo parte dall’astensione. «È impossibile non notare che è andato a votare meno del 50% degli aventi diritto – afferma – È un problema che in una democrazia forte e sana deve interrogare tutti».
Giorgia Meloni si dice vincitrice. Ha ragione?
Non ne esce vincitrice fino in fondo, si registra un arretramento dei voti. E non possono dirsi vincitori sull’astensione che è un segnale anche al governo. Se non è riuscita a portare la gente al voto significa che non ha stimolato la partecipazione. Anche perché tanti settori della società sono sotto attacco. E c’è una parte del paese che è costantemente attaccata da questo governo: il sud. Basta guardare a Caivano, dove si sono spesi, hanno mandato i ministri ma il M5S, nonostante tutto, è il primo partito.
Cosa intende per attacco al sud?
Penso all’autonomia differenziata, alla cancellazione del reddito di cittadinanza, all’utilizzo strumentale dei Fondi di sviluppo e coesione, alla Zona economica speciale unica per il sud. Questo governo ha un problema molto serio con il Meridione. E noi ci dobbiamo preparare a una battaglia durissima, dobbiamo essere uniti per sconfiggere autonomia differenziata e premierato.
In tutto ciò, il M5S conosce una sconfitta.
È vero, non siamo andati bene. E se non abbiamo preso i voti che pensavamo ci prendiamo la nostra parte di responsabilità. Va detto però che per noi le elezioni europee sono sempre state difficili, siamo sempre rimasti al di sotto delle aspettative. È accaduto nel 2013 e anche nel 2019. Sapevamo della difficoltà di questo voto, sono elezioni che molti sentono lontane, c’è il voto di preferenza e pesa di meno il voto di opinione, che per noi è importante.
Pasquale Tridico è stato eletto proprio al sud con il record assoluto di preferenze per il M5S. Forse dovevate fare qualcosa di più per incontrare il consenso di chi ha perso il reddito di cittadinanza.
Su questi temi ci siamo esposti candidando Tridico, che da presidente dell’Inps è stato colui che ha messo in pratica il reddito. In posti come la provincia di Napoli abbiamo avuto un risultato importante, anche se mi aspettavo di più a livello nazionale. E, ripeto, non pensavo a questo calo dell’affluenza.
Di fronte a questa battuta d’arresto qualcuno parla di ritorno alle origini. Ma si dimentica che molti degli eletti protagonisti di quella stagione sono andati via alla fine della scorsa legislatura insieme a Luigi Di Maio.
Abbiamo subito una scissione molto pesante in un momento particolarmente complicato. A quel punto ci siamo rimboccati le maniche con Giuseppe Conte affinché si potesse andare avanti, continuando a rappresentare le istanze a tutela dei cittadini.
Adesso cosa farete?
Viviamo un momento difficile. Tuttavia, di momenti del genere in questi venti anni di storia, dai primi MeetUp del 2005 a oggi, ne abbiamo conosciuti diversi. Sempre dopo le elezioni europee: ricordiamo di quando Beppe Grillo, nel 2013, prese il Maalox con Renzi al 40%, o quando, nel 2019, ci fermammo al 17% e nei mesi successivi Di Maio si dimise. Ne abbiamo sempre approfittato per rilanciare. Ora lo facciamo con una riflessione profonda che è iniziata martedì nell’assemblea dei parlamentari e che continuerà giorno per giorno, come fanno tutte le forze politiche mature che vivono situazioni del genere.
Come funzionerà il processo di «autoriforma» di cui ha parlato Conte?
Ne stiamo discutendo. Penso sia importante tornare a parlare di futuro e di temi come la guerra, l’inflazione, la difesa dei salari a fronte di aziende che fanno profitti enormi. Ma anche la giustizia ambientale. Sono problemi di una società che non funziona, con una classe media sempre più povera. Si tratta di contraddizioni che vanno aggredite: l’Istat ci dice che più di 5 milioni di italiani si trovano sotto la soglia di povertà. E intanto Meloni ha accettato il patto di stabilità come se niente fosse: avranno un problema enorme già dalla prossima legge di bilancio.
Pensa che bisogna occuparsi di tutto ciò in coalizione con il centrosinistra?
In questo momento credo che debba essere il M5S a imbracciare questi argomenti. Il che non significa che non si debba lavorare nel contesto di un progressismo innovativo.
Vi occuperete del tetto dei due mandati?
Fin quando la regola dei mandati rimane in vigore, io la rispetto. A me interessa parlare di temi che riguardano i cittadini in difficoltà. Altrimenti subiremo gli eventi invece di gestirli. Come potrebbe accadere per l’intelligenza artificiale, che rischia di penalizzare soprattutto i lavoratori
Il nuovo gruppo della Sinistra Europea si è già insediato a Bruxelles. A comporlo i rappresentanti dei partiti che sono riusciti a passare attraverso le varie regole di accesso al parlamento dell’Unione in circa 12 paesi, gli italiani accolti da un caloroso applauso.
Perché tornati dopo cinque anni di assenza dovuta alla sconfitta della Lista per Tsipras nel 2019. E tuttavia non ancora fisicamente in loco, causa la nota efficienza del nostro paese nel dare conferma ufficiale della loro elezione agli eletti. In tutto, nel gruppo Left, i deputati provenienti da 12 paesi, non sempre riconoscibili dal nome dell’organizzazione che rappresentano, come era un tempo quando quasi tutti si chiamavano «comunisti» o, tutt’al più, socialisti di sinistra.
Ora una grande varietà di denominazioni, e però nella confusione politica che domina l’Europa la certezza in questo caso che per tutti si tratta di una buona sinistra, e anche, di una buona provenienza storica. Sono pressappoco tanti quanti ce ne erano la scorsa legislatura ( 39 o 40 ,non si sa ancora), ma, in definitiva, vista la temperie che scuote il mondo, più o meno altrettanti.
Ho preso la penna per scriverne perché nessuno dei nostri grandi quotidiani pur – ufficialmente molto europeisti – ha pensato di dedicare ai risultati della sinistra-sinistra una qualche attenzione. Come sempre, del resto. E però a me sembra che questo voto vada valutato: nel generale disastro che vede il successo quasi ovunque della destra estrema e il calo, in alcuni casi, clamoroso, dell’area socialdemocratica,la sinistra-sinistra (anche io faccio fatica a darle un nome), si caratterizza per un inusuale e in alcuni casi significativo aumento di voti, non si tratta di casi isolati, ma di un andamento generale di tutta l’area. (Un solo vero e drammatico “buco”: in Germania, dove la presenza più importante svanisce per via della spaccatura nella Linke).
Innanzitutto il grande nord, quello della migliore socialdemocrazia della storia postbellica che anche noi abbiamo sempre ammirato e che negli ultimi tempi è stata quasi ovunque sostituita da orrendi governi quasi fascisti che ci hanno lasciato sgomenti. Ma anche nel sud, penso al Portogallo, per esempio, e persino alla Spagna dove si assiste ad una triste crisi del nostro mito più recente, Podemos, che si spezzetta, ma nel complesso non perde voti.
Per non dire del tranquillo e moderato Belgio, di cui da sempre ho inseguito le sorti del suo Partito comunista, che mai ha avuto un parlamentare nel Parlamento della “capitale” europea, Bruxelles, dove “Le Parti des travailleurs “arriva oggi, in città, al 20,8 %, come mi dice commosso il mio ex assistente Paul Emile Dupret, il solo membro del vecchio Pcb che abbia mai conosciuto. «Nel mio quartiere – un popoloso quartiere popolare della capitale belga – mi dice – siamo il primo partito».
Siccome a me da parecchio tempo mi prendono in giro perché ripeto sempre che «sono ottimista», immagino che dopo questo scritto si accingano a portarmi al manicomio. Quado dico che sono ottimista non è perché sottovaluti il rischio delle pessime conseguenze che potranno arrivare per via della massiccia affermazione della destra anche estrema, soprattutto in riferimento alla questione migranti e ai passi indietro che verranno fatti sulla questione ecologica (anche perché si tratta di due temi su cui questa destra troverà facilmente alleati nella destra cosiddetta per bene).
Lo dico però con convinzione perché riscontro nel lavoro concreto sul territorio che i giovanissimi non è vero che sono spoliticizzati, gli importa solo poco di quanto si discute in parlamento, non si riconoscono nei partiti, non gli interessa votare, in generale perché gli sembra – e come dargli torto – che, a livello istituzionale, non ci sia consapevolezza del fatto che siamo ad un cambio epocale e che la trasformazione necessaria ha proporzioni assai profonde.
Il mio ottimismo non riguarda il prossimo tempo che sarà difficilissimo e anche questo voto complessivo lo dimostra. Il mio è un ottimismo nasce da una valutazione dei processi embrionali di lungo periodo, per questi successi in Paesi dai quali non ce li aspettavamo e dall’Italia quando sento che sui 23.000 studenti fuorisede hanno votato per Alleanza Verdi Sinistra in più del 40 %.
E anche, lasciatemelo dire, per via del risultato di Torino, più dell’11%, perché dentro ci vedo anche l’effetto del nostro rinnovato impegno operaio, la mobilitazione alla Fiat. Penso che da questi piccoli successi possano sortire frutti visibili solo dopo una riscoperta, anche personale, sul terreno, dall’apprendere che le cose possono essere cambiate. Questo voto della sinistra-sinistra mi rassicura. Spero di avere ragione.
(P.s. Qui le percentuali del voto della sinistra-sinistra sul totale, i seggi non sono calcolati ancora, e risultano non sicuri e non completi, ma quasi, per esempio manca l’Irlanda e ovviamente l’est Europa che non elegge nessuno: Belgio totale 10,7 5. (Bruxelles 20,8,Vallonia 12,1,Fiandre 8,3); Germania 2,7 %, Francia 9,9; Spagna (Podemos 3,3 -Sumar 4,7;Olanda,4,5;Portogallo Bloque 1,Pcp 1; Grecia 15 %; Svezia 11,1; DK 7 %;Finlandia 17,3; Cipro 21,7)
EUROPEE. Ma dove l’onda nera ha assunto la potenza di uno Tsunami, dove il “dopoguerra” sembra essersi più bruscamente interrotto, è proprio in quello che fu il pilastro portante dell’Unione europea: l’asse franco-tedesco
Manifesti elettorali in Francia - foto Ansa
L’onda nera c’è stata, ma meno omogenea e pervasiva di quanto si potesse attendere. In Scandinavia si è decisamente arrestata e perfino nell’Est europeo non ha dilagato come era ragionevole temere. Anche l’astensione, ovverosia la sfiducia nell’esistenza stessa di una prospettiva politica europea, si è manifestata nei diversi paesi in proporzioni molto differenti. Resta però il fatto che il peso delle destre estreme è aumentato in tutto il continente e non è facile mettere a fuoco i fattori che sottendono questo fenomeno a partire da quel progressivo esaurirsi del “dopoguerra”, delle mentalità, del senso comune e dell’organizzazione sociale ed economica che ne hanno caratterizzato la storia.
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Ma dove l’onda nera ha assunto la potenza di uno Tsunami, dove il “dopoguerra” sembra essersi più bruscamente interrotto, è proprio in quello che fu il pilastro portante dell’Unione europea: l’asse franco-tedesco. Il principale garante della pace e della cooperazione in Europa. In Francia e in Germania l’esito elettorale ha scosso le fondamenta dell’assetto politico, seppure diverse sono state le reazioni a Parigi e Berlino.
L’azzardo di un Emmanuel Macron sempre più avventurista che chiede elezioni politiche anticipate in Francia.
Choc Le Pen, Macron scioglie il parlamento
La prudente flemma del Cancelliere Scholz, che non sembra trarre particolari conseguenze politiche dalla rovinosa frana del suo partito e da quella ancor peggiore dei suoi alleati Verdi. Il governo di Spd, Fdp e Grünen non disporrebbe più di una maggioranza nell’elettorato tedesco. La rincorsa a destra sui temi dell’immigrazione e del disarmo, la marcia indietro sulla politica climatica non hanno arginato l’emorragia del centrosinistra che, nel caso dei Grünen, si è tradotta in una implicita condanna per alto tradimento che ha dimezzato l’elettorato verde. Senza per questo aver acquisito voti moderati.
Germania: Afd e Cdu vogliono elezioni subito, Scholz resiste
Sul versante opposto la paura dell’estrema destra si è molto indebolita, nonostante i ripetuti episodi di conclamato razzismo fascista che hanno coinvolto esponenti dell’Afd, mentre il conservatorismo della Cdu-Csu continua a riscuotere un solido consenso. La sua maggioranza, in lieve crescita, si avvale di una moderazione sempre più fittizia accompagnata dalla promessa, di sapore trumpiano, di restaurare la potenza della Germania senza più circoscriverla all’ambito economico, come imponeva l’assetto del “dopoguerra”. Ma è proprio questo assetto che molti tedeschi e una buona percentuale delle giovani generazioni vivono con crescente insofferenza. Tanto più che quella Germania, governata dall’equilibrio tra i partiti popolari di massa, tra grandi imprese e forti sindacati, garante di crescita, benessere e solide prospettive si è trasformata in una realtà sempre più statica, minata da elementi di crisi e avara di promesse per il futuro. Restare un gigante economico, senza una equivalente forza politica è impresa sempre più difficile nel contesto di una globalizzazione disarmonica e conflittuale come quella che segna il tempo presente. E le destre tedesche puntano proprio su questo problema offrendone soluzioni nazionaliste. Ma la forza politica avrebbe potuto e dovuto essere quella comune europea se la tentazione nazionale non avesse avuto la meglio, a varie gradazioni di intensità, anche nella sinistra. E se l’Europa si fosse evoluta per tempo verso una dimensione politica, invece di limitarsi (rendendosi spesso odiosa) alla cura del mercato e alla regolazione finanziaria.
Quanto a presunzione nazionale la Francia non ha niente da invidiare a Berlino, anzi. E anche qui stabilità e continuità del centrismo repubblicano si danno come stagnazione. Per decenni il centrismo si è avvalso dell’appoggio in ultima istanza della sinistra per fermare l’avanzata della destra: prima del ruvidamente fascista Jean Marie, in seguito della più abile e suadente Marine Le Pen. Per poi condurre politiche sempre più reazionarie sull’immigrazione e sul controllo sociale, praticando un arrogante decisionismo statalista e padronale votato allo scontro frontale e prolungato con diverse forze sociali. Questo gioco è finito, come si poteva prevedere, assai malamente. Nel paese l’estrema destra è maggioranza con il suo mito della «Francia autentica» reso ormai digeribile anche per la borghesia benpensante. A sinistra, con un riflesso quasi pavloviano, si invoca il fronte popolare che nessuno sa bene cosa possa essere oggi. Ci sono solo un paio di settimane per chiarirlo.
Dunque è nei paesi forti, nel suo centro di gravità permanente, che l’Unione europea subisce la lesione più grave e profonda. Le conseguenze sono ancora tutte da esaminare. E, quando ci sono in ballo le nazioni, se si chiude un “dopoguerra” facilmente si transita nell’“anteguerra”
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IL NON-VOTO. Italia, abbiamo un problema. E il problema si chiama astensionismo. Da anni, ormai decenni, lo andiamo ripetendo, ma sempre al vento. Perché i partiti, appena scrutinate le schede, preferiscono girarsi […]
Italia, abbiamo un problema. E il problema si chiama astensionismo. Da anni, ormai decenni, lo andiamo ripetendo, ma sempre al vento. Perché i partiti, appena scrutinate le schede, preferiscono girarsi dall’altra parte facendo orecchie da mercante. Ma finché l’astensione è soltanto un piccolo rumore di fondo, un malessere appena percettibile, infilare la testa sotto la sabbia per non vedere il problema può essere un’idea comprensibile, sebbene non ragionevole.
Quando però il problema diventa serio, e i non-votanti superano i votanti (com’è accaduto, per la prima volta in Italia con queste elezioni europee), allora nascondere il malessere sotto il tappeto è solo un modo per aggravare la situazione. La diagnosi è piuttosto chiara: la nostra stanca democrazia italiana si sta ammorbando, passo dopo passo, di un virus che si chiama indifferenza e che colpisce gli organi vitali di un sistema politico democratico.
Nella democrazia dell’indifferenza, dove apatia e protesta si danno manforte, i sintomi della malattia sono ormai evidenti da tempo, ma aver sfondato con le ultime elezioni europee la soglia psicologica – e patologica – del 50% del non-voto ha reso il malessere ancora più acuto. Diamo voce ai numeri: nel giro degli ultimi due decenni, quelli che con poca fantasia alcuni studiosi hanno ribattezzato gli anni della «policrisi», l’Italia ha lasciato per strada oltre 10 milioni di elettori. In media, mezzo milione di potenziali votanti ogni anno ha deciso di restare a casa, di non esercitare il proprio dovere civico elettorale, andando a gonfiare le vele dell’astensione. Nel primo ventennio del nuovo secolo, un elettore su quattro ha ritirato la propria partecipazione dall’arena della democrazia europea, e una tendenza simile si registra tanto alle elezioni politiche quanto in quelle amministrative. Di questo passo, basterà ancora una manciata di elezioni europee per assistere a un processo elettorale a cui prende parte un terzo dell’elettorato, con i restanti elettori chiusi nella loro bolla di indifferenza a lamentarsi del crescente deficit democratico che intacca la legittimità delle istituzioni dell’Ue, per la loro distanza dai bisogni e dai sogni delle «gente comune».
Di fronte a questa diagnosi generale, c’è poi un malessere ancora più profondo e specifico che tocca i ceti sociali più poveri e svantaggiati, i quali – com’è noto a tutti tranne ai fautori dell’autonomia differenziata – risultano sovrarappresentati soprattutto nelle regioni meridionali. Non è un caso infatti che anche queste elezioni europee abbiano certificato quel differenziale partecipativo che, con una media di circa 15 punti percentuali, ha separato le regioni del Centro-nord da quelle del Sud. Così, a una democrazia dimezzata dall’astensione si aggiunge la realtà di un paese che continua a essere spaccato a metà, e dove la storica questione meridionale approfondisce la nuova questione democratica.
Peraltro, come rivelano le prime analisi dei flussi elettorali, il virus dell’astensionismo ha scarse connotazioni partitiche, ma importanti sfumature sociali. Al di là di una perdita un po’ più consistente (e ampiamente prevedibile) del M5s verso l’area del non-voto soprattutto nelle regioni del Meridione, tutti gli altri partiti hanno perso all’incirca un quinto dei consensi ottenuti alle elezioni politiche del 2022 a vantaggio dell’astensione. Parliamo quindi di un fenomeno trasversale, che colpisce tutte le formazioni politiche senza particolari distinzioni ideologiche e che, oltre a questi nuovi ingressi, ha visto consolidarsi al proprio interno un’area di astensionismo ormai cronico, pari al 70% dei non-votanti. In termini assoluti, parliamo di un blocco elettorale multiforme di circa 15 milioni di elettori che non solo mina le fondamenta della rappresentanza democratica, ma finisce anche per darne una pericolosa torsione classista. Infatti, dentro il bacino del non-voto troviamo, in quasi due casi su tre, rappresentanti dei ceti subordinati, molti disoccupati o piccoli artigiani o commercianti in difficoltà rispetto alle grandi trasformazioni del capitalismo globale-digitale.
Insomma, se questa è la diagnosi confermata anche dall’ultimo voto europeo, bisognerebbe passare rapidamente a riflettere sulle possibili cure e poi agire di conseguenza e con coerenza. La strategia dei partiti è nota: basta nascondere il problema per risolverlo, sperando passi in fretta ‘a nuttata elettorale. Ma fino a quando potrà reggere una democrazia senza popolo?
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LA SCOMMESSA DEM. In una campagna elettorale giocata molto, e spesso anche in modo scomposto, in chiave interna più che europea, Schlein ha avuto il merito di puntare sui temi delle disuguaglianze, della giustizia sociale, dei diritti, dal salario alla sanità all’immigrazione
Il primo vero test della sua leadership, il più atteso anche dai rivali interni e esterni, non solo è stato un successo per Schlein, ma è andato anche oltre le aspettative. E la segretaria dem giustamente sottolinea che solo Pd e Avs crescono in voti assoluti rispetto alle politiche.
Un dato che la autorizza a guardare ai prossimi mesi e anni con ottimismo, ma che lascia sul tappeto tutte le incognite rispetto al rinnovamento promesso e al percorso per la costruzione del mai veramente nato campo largo.
A questo successo tutt’altro che scontato Schlein è arrivata al termine di un cammino accidentato, tra mille insidie, cambi di rotta e qualche scivolone. Ha scommesso su sé stessa candidandosi in prima persona per un incarico in Europa che sapeva non avrebbe mai ricoperto, e ha provato persino a inserire il suo nome nel simbolo ponendosi al centro di una costellazione multitasking di candidature civiche capaci di attrarre consensi in uno spettro più ampio possibile, ma utili anche a rianimare lo spirito delle primarie in contrasto con l’immagine di un irriformabile apparato di correnti l’una contro l’altra armate. Ma con le stesse correnti e con i potentati locali la leader è dovuta poi scendere a patti.
Allo stesso tempo è vero anche che la segretaria aveva chiesto da subito ai “big” del partito che non fanno parte della maggioranza dem di mettersi in gioco correndo per Strasburgo in modo da non rischiare di restare sola con il cerino in mano in caso di risultato non brillante. Quegli stessi “big”, da Bonaccini a Nardella a Decaro, hanno contribuito in modo massiccio al raggiungimento del 24%. Pensare che a questo punto la vittoria vada attribuita proprio ai capibastone e ai “caciccati”, dei quali Schlein è dunque destinata a rimanere prigioniera, sarebbe fuorviante. Esercitare la leadership non significa assumere una postura leaderistica da donna sola al comando, rinnovamento non è sinonimo di rottamazione.
Meloni resta in piedi in casa ma perde lo scettro europeo
La segretaria con questo Pd deve fare i conti ma, passato il giro di boa in scioltezza, ha l’occasione per portare avanti con più decisione la sua linea senza ascoltare l’eterna quanto fatua sirena del “si vince al centro” e il mantra del “riformismo”. Il flop delle liste centriste di Renzi e Calenda e il successo di Avs dimostrano che c’è una domanda di sinistra che aspetta solo risposte.
In una campagna elettorale giocata molto, e spesso anche in modo scomposto, in chiave interna più che europea, Schlein ha avuto il merito di puntare sui temi delle disuguaglianze, della giustizia sociale, dei diritti, dal salario alla sanità all’immigrazione. E, punto non marginale, grazie anche alla coincidenza delle amministrative, di battere palmo a palmo il famoso territorio. Salutari, probabilmente, anche questi quasi due anni di opposizione a una destra mai così destra, dopo una lunga epoca (a parte un paio di parentesi) di larghe intese e governi più o meno tecnici in nome delle compatibilità economico-finanziare, della responsabilità e del «ce lo chiede l’Europa». Insomma: del governo a tutti i costi.
All’affermazione del Pd ha certamente contribuito anche la bi-polarizzazione della contesa elettorale perseguita da Giorgia Meloni (singolare ma significativo il fatto che, quasi a tirare la volata all’avversaria, la premier nell’ultimo scorcio di campagna abbia scelto come bestia nera Vincenzo De Luca, figura ingombrante per la stessa Schlein).
La spinta bipolarista semina però mine in quel campo largo che dovrebbe diventare terreno fertile dell’alternativa possibile. Il crollo del M5S, più che persuadere Giuseppe Conte a ammainare la bandiera a lui cara della contesa sulla leadership del campo progressista, potrebbe al contrario convincerlo a tentare una nuova sterzata, anche se i margini di manovra per alleanze à la carte sembrano ormai preclusi.
Ma al leader post-grillino non è bastato sventolare il vessillo della pace per garantirsi un posto al sole. In perenne ricerca di identità e altalenanti in quanto a collocazione e ancor prima a visione, i 5 Stelle dovranno decidere se stabilirsi nel centrosinistra (o più auspicabilmente sinistracentro), un campo il cui elettorato chiede da sempre unità e rifugge le contese personalistiche, o se tentare di risalire la china surfando alla ricerca di origini ormai offuscate. Una destra c’è, e ancora forte. Un’alternativa – senza tentennamenti, opportunismi e ambiguità – non è impossibile
Commenta (0 Commenti)EUROSHOCK. Per quanti sforzi facciano popolari e socialisti a fornire una versione edulcorata della cronaca, la vittoria delle destre estreme è un risultato clamoroso di fronte alla stori
L’Unione europea, con le sue scelte politiche di fondo, ha opposto un argine debolissimo alla destra più nera e questo argine è stato travolto dal voto di ieri. Il simbolo della disfatta è Emmanuel Macron che con la sua resa travestita da rilancio replica la condotta irrazionale che ha avuto sulla guerra in Ucraina.
Il destino del parlamento francese da qui a poche settimane appare segnato e con esso, tristemente, quello del cuore politico del continente. I partiti dell’estrema destra entrano da padroni di casa nell’Unione, una casa che non hanno contribuito a costruire e che hanno sempre provato a demolire.
Agli esiti neri di queste elezioni fa da contraltare la quinta quasi immobile dell’emiciclo di Strasburgo. Dove von der Leyen si proclama vincitrice e prova a raccontarsi come alternativa a quella destra estrema che ha contribuito a gonfiare. Il risultato elettorale è come una scossa potente che sul momento crepa l’edificio senza abbatterlo. L’equilibrio dell’europarlamento in fondo sembra cambiare poco.
La vecchia alleanza tra popolari, liberali e socialisti potrebbe avere i voti sufficienti per riproporsi imperterrita, indifferente al terremoto. Ma non si potrà fare finta di niente. Perché l’Europa unita si regge, ancora, sugli stati che la compongono: la Francia, come la Germania dove i neonazisti raggiungono Scholz, ne è dunque un pilastro sul punto di crollare.
Per quanti sforzi facciano popolari e socialisti a fornire una versione edulcorata della cronaca, la vittoria delle destre estreme è un risultato clamoroso di fronte alla storia. Partiti xenofobi e razzisti, in molti casi apertamente nostalgici e neo fascisti superano di slancio e travolgono formazioni che sono state l’architrave dell’Europa per ottant’anni. È un D-day – celebrato appena l’altro giorno – ma al contrario.
Il risultato italiano, con un’affluenza più bassa di quella media dell’Unione, è solo una conferma per Meloni e non un trionfo. Più chiaro il successo di Schlein che supera le migliori previsioni. Così come fanno abbondantemente Verdi e Sinistra, trainati – vedremo oggi – dai consensi per Ilaria Salis. Una luce, dentro un tunnel nerissimo.
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