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Mimmo Lucano e la parabola del 'modello Riace' - Notizie ...
 
Il mio sogno è stato quello di una politica che crede nell'impossibile. Una politica che non si rassegna e porta avanti battaglie di liberazione, contro muri e fili spinati.
 
*** Puoi ascoltare la mia intervista a @fanpage qui sotto:
 
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Ainid Bandiera della Palestina, bandiera della Palestina libera, 90 x 150  cm, con 2 occhielli in ottone, poliestere di alta qualità (bandiera della  ...

Sono passati 76 anni dalla Nakba, quando centinaia di migliaia di persone furono costrette a lasciare la loro casa e a rifugiarsi in campi profughi nei paesi limitrofi. Tutt’ora sono lì sfollati
in attesa di fare ritorno a casa loro come prevede il diritto internazionale. In questo interminabile periodo di tempo il popolo palestinese ha subito ogni forma di violenza fisica, morale, etica e culturale, è stato umiliato, emarginato, isolato e anche torturato nella sua dignità.
Da allora non ha mai smesso di lottare in tutte le forme, partendo dalla lotta armata fino alla diplomazia, attraversando diverse difficoltà, senza essere stato sconfitto nonostante i vari tentativi ed i complotti contro di esso. 

Nel lontano 1988, al Consiglio Nazionale Palestinese ad Algeri, il presidente Arafat proclamò unilateralmente l’indipendenza della Palestina con la formula dei “due Stati per due popoli”. Da allora ad oggi sono state adottate decine di risoluzioni dell’Onu, il consiglio di Sicurezza e l’Assemblea Generale, a favore della Palestina. Ma nessuna risoluzione è stata applicata da
Israele per la complicità degli Usa e del mondo occidentale.
Dal 1988 ad oggi hanno riconosciuto la Palestina oltre 146 Stati su 193 facenti parte delle Nazioni Unite. Per ricordare a tutti quali sono, si trovano qui elencati con l’anno del riconoscimento.
Fu l’Algeria nel 1988 il primo paese a riconoscere la Palestina per la sua storia, la sua lotta e guerra di liberazione, che ancora non è finita purtroppo. Hanno seguito l’Algeria: Bahrein, Iraq, Indonesia, Libia, Kuwait, Malaysia, Mauritania, Marocco, Somalia, Tunisia, Yemen, Turchia, Afghanistan, Bangladesh, Cuba, Madagascar, Giordania, Nicaragua, Pakistan, Malta, Qatar, Zambia, Arabia Saudita, Serbia, Emirati Arabi Uniti, Gibuti, Albania, Brunei, Mauritius, Sudan, India, Egitto, Repubblica Ceca, Cipro, Gambia, Nigeria, Seychelles, Slovacchia, Sri Lanka, Bielorussia, Namibia, Unione Sovietica, Vietnam, Cina, Burkina Faso, Cambogia, Isole Comore, Guinea, Guinea Bissau, Mali, Mongolia, Senegal, Ungheria, Repubblica democratica popolare di Corea, Capo verde, Niger, Romania, Tanzania, Bulgaria, Maldive, Ghana, Zimbabwe, Togo, Ciad, Laos, Sierra Leone, Uganda, Repubblica del Congo, Angola, Mozambico,
Sao Tomè e Principe, Gabon, Oman, Polonia, Repubblica democratica del Congo, Nepal, Botswana, Burundi, Repubblica del Centro Africa, Bhutan (tutti nel 1988); Rwanda, Etiopia, Iran, Benin, Guinea Equatoriale, Kenya, Vanuatu, Filippine (1989); Swaziland (1991); Kazakistan, Turkmenistan, Azerbaijan, Georgia, Bosnia (1992); Tagikistan, Uzbekistan (1994), Papua Nuova Guinea, Sudafrica, Kirghizistan (1995); Malawi (1998); Timo Est (2004); Montenegro (2006); Costarica, Costa d’Avorio, Libano (2008); Venezuela, Repubblica dominicana
(2009); Brasile, Argentina, Bolivia, Ecuador (2010); Cile, Guyana, Perù, Suriname, Paraguay, Uruguay, Lesotho, Liberia, Sud Sudan, Siria, Salvador, Honduras, Saint Vincent e Grenadine, Belize, Dominica, Antigua e Barbuda, Grenada, Islanda (2011); Tailandia (2012); Guatemala, Haiti (2013); Svezia (2014); Santa Lucia, Vaticano (2015); Colombia (2018); San Kits e Nevis (2019); Barbados, Jamaica, Trinidad e Tobago, Bahamas, Spagna, Irlanda, Norvegia (2024). 

Il 28 maggio scorso i primi ministri norvegese Jonas Gahr, spagnolo Pedro Sanchez e irlandese Simon Harris hanno dichiarato formalmente il riconoscimento della Palestina. Una decisione storica che ha un valore politico di grandissimo rilievo non solo dal punto di vista simbolico. I tre primi ministri hanno definito questa scelta politica “un riconoscimento
necessario per favorire la pace e la sicurezza nella regione”. La risposta rabbiosa di Israele è arrivata subito dopo l’annuncio: ha richiamato gli ambasciatori a Dublino, Madrid e Oslo. E
poi ha messo in atto la vendetta contro i palestinesi.
Informazioni riservate dicono che prossimamente altri Stati europei seguiranno Spagna, Irlanda e Norvegia. A questo va aggiunto il consenso generalizzato delle opinioni pubbliche mondiali che fa sì che nessuno possa trascurare o giocare con l’ambiguità come si è fatto per lungo tempo nel mondo occidentale. Oggi gli Stati devono decidere se si collocano dalla parte giusta della storia, come hanno fatto i popoli, oppure continuano con la loro ambiguità, a partire dall’Italia, perché la storia non perdonerà.

Il mondo deve rendere giustizia a questo popolo e deve chiedere scusa in modo solenne a quei bambini massacrati e bruciati vivi solamente perché palestinesi.
Con questa barbarie non hanno ucciso e bruciato vivi solo quei bambini, ma hanno bruciato anche la nostra dignità, il nostro essere persone libere. Per ricordare quelli angeli uccisi nel sonno e perché non accada mai più ovunque il 26 maggio potrebbe essere la loro Giornata della Memoria.
Si chiamava Palestina, si chiama Palestina, sarà chiamata Palestina! La Palestina, signora Meloni non ha bisogno del suo riconoscimento, lei stessa e il suo governo ha/avete bisogno del riconoscimento della Palestina.

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PACE. Ma allora, perché nelle piazze d’Italia si fanno i picchetti militari, e a Roma sfila la parata delle Forze Armate?

Si celebra una vittoria referendaria. La Repubblica italiana nasce dalle urne. Gli elettori bocciarono la monarchia che aveva consegnato la patria al fascismo, condannandola a venti anni di violenza e dittatura, e poi una sanguinosa guerra. Una Repubblica, come vuole la Costituzione, fondata sul lavoro.

Ma allora, perché il 2 giugno nelle piazze d’Italia si fanno i picchetti militari, e a Roma sfila la parata delle Forze Armate?

La scheda elettorale e la matita simboleggiano questa giornata, che festeggia la Repubblica, cioè democrazia, libertà, pace, e non certo divise militari e fucili.

La Repubblica è di tutti, non dell’Esercito.

Il 2 giugno dev’essere una festa di popolo, senza transenne a dividere autorità e militari dai cittadini, che sono i veri protagonisti. Tutti uniti attorno alle istituzioni repubblicane e democratiche.

La Repubblica italiana ripudia la guerra, per questo alle Feste del 2 giugno, nelle città dove siamo presenti, sventoleremo le nostre bandiere della pace e della nonviolenza. Le associazioni della società civile, i sindacati dei lavoratori, i partiti democratici, devono essere gli attori principali di questa Festa degli italiani.

 

 

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NATO E "LINEA RUSSA". Come è già avvenuto per le crisi nei Balcani, l’Occidente è caduto nella trappola slava e ora si fa dettare l’agenda da Zelenski e da Putin. Stiamo avanzando come sonnambuli verso la guerra, senza capire come e perché

Alberto Negri | ISPI

 

Come è già avvenuto per le crisi nei Balcani, l’Occidente è caduto nella trappola slava e ora si fa dettare l’agenda da Zelenski e da Putin. Stiamo avanzando come sonnambuli verso la guerra, senza capire come e perché.

In Italia il governo e la maggioranza dei partiti, come l’opinione pubblica, sono contrari a usare le armi fornite all’Ucraina per attaccare dentro al territorio russo. Si sta creando una sorta di illusione di parziale “neutralità” del Paese che però è appunto un’illusione. A parte che non abbiamo alcun controllo sugli ucraini che le armi venute dall’estero le hanno già usate in territorio russo. Ma l’Italia ha oltre cinquanta basi militari americane e Nato e sul suo territorio ospita decine e decine di testate nucleari, ovviamente controllate dagli Stati uniti.

La nostra – come Paese uscito sconfitto nella seconda guerra mondiale – è una sovranità assai limitata. Noi abbiamo alleati che sono ex nemici e ce lo ricordano appena si presenta l’occasione, come nel 2011 quando Francia, Gran Bretagna e Usa decisero di distruggere il regime di Gheddafi, il nostro maggiore alleato nel Mediterraneo, fornitore di gas, petrolio, guardiano della Sponda Sud, che soltanto sei mesi prima avevamo ricevuto a Roma in pompa magna.

Non abbiamo margini di manovra. L’articolo 5 della carta atlantica mobilita tutti i membri dell’Alleanza a sostenere gli stati della Nato nel caso fossero attaccati. Un eventualità che poteva apparire remota qualche tempo fa ma che adesso fa parte di uno scenario possibile. Non siamo neutrali e nel caso di allargamento del conflitto entriamo in guerra, ci piaccia o meno. Non solo. Noi non decidiamo nulla perché le mosse di vari Paesi europei favorevoli a usare le armi in modo offensivo contro la Russia ci portano verso una escalation. Decisivo sarà ovviamente l’atteggiamento di Washington che sta definendo il nuovo patto di sicurezza con Kiev.

Come siamo arrivati a questo? Nel caso dell’Ucraina ha inciso assai la propaganda di guerra. Ci siamo forse già dimenticati che l’Ucraina aveva lanciato mesi fa un controffensiva secondo la quale avrebbe riconquistato un parte consistente dei territori perduti. In realtà non solo non era in grado di farla la controffensiva ma si è esposta a una nuova avanzata dei russi. Un disastro la cui responsabilità è dei vertici ucraini ma anche degli strateghi militari occidentali e in primo luogo di quelli americani. Hanno accettato la “bufala” della controffensiva senza battere ciglio: un errore imperdonabile che ora stiamo pagando tutti. Del resto cosa potevamo aspettarci dagli Stati uniti, reduci da clamorosi fallimenti come l’Afghanistan, l’Iraq, la Libia e la Siria? Chi, come chi scrive, li ha visti dipanarsi davanti agli occhi come inviato di guerra non è sorpreso da questa evoluzione disastrosa.

Del resto gli europei per storia e sensibilità diverse non potevano rimediare agli errori americani. Anzi hanno contribuito a rendere la situazione più difficile. Stati come Polonia, Paesi Baltici, Finlandia, Danimarca e Svezia prima erano tenuti a bada dalla Merkel, uscita di scena lei agiscono in proprio.

Del resto era destino che accadesse così con l’allargamento della Ue: deciso negli anni Novanta dalla Germania e da Prodi per conquistare nuovi mercati – ma al seguito dell’allargamento della Nato a Est promosso in chiave militare tutt’altro che democratica – si è rivelato sotto il profilo politico e strategico una delle mosse più ambigue e contraddittorie della storia. Bastavano degli accordi di associazione. Ma guai oggi a dirlo.

E chi ha pagato il prezzo più alto è stata proprio Berlino. Prima la Germania era la locomotiva dell’Unione europea, il Paese più importante, ora non decide nulla. Il cancelliere Scholtz è stato umiliato ancora prima che la guerra cominciasse quando, l’8 febbraio 2022, Biden alla Casa Bianca, davanti al mondo intero, gli ha imposto di chiudere il gasdotto North Stream con la Russia. Merkel lo aveva difeso strenuamente dagli attacchi del Congresso e dell’amministrazione Usa, gli ucraini con gli occidentali poi lo hanno fatto saltare.

La guerra, nonostante le conquiste territoriali russe, poteva finire qui, con questo messaggio evidente: la Russia doveva accantonare per sempre, o per lo meno per decenni, i legami con l’Europa. Con la conseguenza che l’area di influenza europea si era già praticamente dimezzata. Soprattutto se a questo aggiungiamo che l’Europa è praticamente scomparsa come interlocutore rilevante sia in Medio Oriente che in Nordafrica e nel Sahel. La guerra di Gaza insegna.

Adesso ci troviamo con un’Europa a trazione slava, assai lontana dai princìpi fondatori dell’Unione, con alleati come Usa e Gran Bretagna desiderosi di regolare i conti con Mosca e una Francia guidata dalle gesticolazioni politiche di un Macron che proprio in Africa ha subito umilianti sconfitte con i francesi costretti ad abbandonare Mali e Niger. Così siamo arrivati, nella speranza di sbagliarci, sull’orlo di un conflitto allargato.

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VERSO LE ELEZIONI EUROPEE. La sociologa e filosofa francese Dominique Méda: «La crescita del Pil non significa progresso, bisogna cambiare il paradigma». «Le guerre militari e commerciali accelerano il cambiamento climatico e mobilitano enormi risorse che dovrebbero essere destinate a investimenti ecologici». «Abbiamo bisogno di un’Europa più democratica, con un Parlamento che abbia più potere, smetta di cedere il passo alla Commissione e si rifiuti di accettare accordi meschini tra gli Stati»

Dominique Méda: «Ripensare le economie per una riconversione verde»

 

«Abbiamo bisogno di un’Europa più democratica, con un Parlamento che abbia più potere, smetta di cedere il passo alla Commissione e si rifiuti di accettare accordi meschini tra gli Stati. Non abbiamo nulla da guadagnare da un ritorno ai mercanteggiamenti tra Stati nazionali, o da accordi fatti in segreto come è accaduto con le ultime direttive sociali». Queste sono le parole di Dominique Méda, sociologa e filosofa francese, autrice di importanti opere sul cambiamento ecologico e la riforma del lavoro come Il manifesto del lavoro. Democratizzare. Demercificare. Disinquinare (Castelvecchi). L’abbiamo incontrata a Firenze, dove attualmente è visiting researcher presso l’Istituto Ciampi della Scuola Normale.

Dominique Méda

Per Mario Draghi è necessario un cambio di paradigma. L’Europa dovrebbe finanziare una transizione «eco-digitale», la sicurezza militare e la sicurezza economica e sociale. Cosa ne pensa?
Sono totalmente d’accordo con l’analisi sulla necessità di un cambio di paradigma. Ma credo che il paradigma di cui abbiamo bisogno sia più radicale. Da parte mia, utilizzo la nozione di riconversione ecologica, che significa che dobbiamo, da un lato, subire una forma di conversione, un cambiamento radicale nelle nostre rappresentazioni, e dall’altro, organizzare la ristrutturazione delle nostre economie. Credo che la lotta al cambiamento climatico e alla perdita di biodiversità debba diventare una priorità assoluta. Non sono sicura che Mario Draghi sia sulla stessa lunghezza d’onda.

Come mai?
Richiederebbe una pianificazione europea e nazionale, una riduzione radicale del consumo di materiali, la rinuncia alla crescita del Pil, la protezione dei prodotti nazionali ed europei attraverso una forma di protezionismo e una revisione delle regole dell’Organizzazione mondiale del commercio, la priorità data al settore pubblico rispetto a quello privato, una distribuzione organizzata delle materie prime.

Mi sembrano politiche opposte a quelle neoliberiste che ispirano l’Unione Europea.
Sì, ma l’idea di una biforcazione ecologica ha attraversato la storia delle istituzioni europee. Nel 1972, dopo aver letto il rapporto “I limiti dello sviluppo”, il vicepresidente della Commissione europea, Sicco Mansholt propose al presidente della Commissione, Franco Maria Malfatti, di lanciare un programma globale di cambiamento ecologico. Consiglio vivamente la lettura di questo programma. Purtroppo, negli ultimi cinquant’anni le istituzioni e le élite hanno perso la memoria di queste lotte.

Oggi i principali leader europei insistono sulla necessità di finanziare l’industria militare. Non le sembra che l’Europa si stia trasformando in un modello ancora più ingiusto?
Sì, è così. Da un lato, ci sono molte minacce da parte di imperi esterni, e purtroppo dobbiamo essere pronti ad affrontarle. D’altro lato, la tentazione dell’Europa di chiudersi in se stessa è in totale contraddizione con ciò che dovremmo fare: organizzare una cooperazione globale per dedicare tutte le nostre forze alla lotta contro l’immensa minaccia ecologica che ha iniziato a rendere il mondo inabitabile. Oltre a distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica da questo grave problema, le attuali guerre militari e commerciali stanno aumentando il cambiamento climatico e mobilitano enormi risorse umane e finanziarie che dovrebbero essere destinate agli investimenti ambientali.

Si dice che una transizione ecologica nella produzione comporterebbe la perdita di posti di lavoro…
È una possibilità, ma non l’unica. Io sostengo l’idea che, se si riesce a farla bene, la biforcazione ecologica potrebbe essere un’opportunità straordinaria per creare posti di lavoro e cambiare il lavoro. La maggior parte degli studi di cui disponiamo dimostra che la conversione ecologica potrebbe creare molti posti di lavoro perché i settori da chiudere o da ridurre sono a minore intensità di lavoro rispetto a quelli da sviluppare (infrastrutture di trasporto, isolamento degli edifici, agricoltura biologica, energie rinnovabili, ecc.) Inoltre, avremo bisogno di più lavoro umano perché dovremo fare meno affidamento sulle macchine che generano emissioni di CO2 e consumano energia. Ma questa conversione è complicata.

Perché?
La ristrutturazione industriale degli anni ’70, ’80 e ’90 è stata un fallimento in Europa. I lavoratori dei settori in via di riconversione sono stati licenziati o costretti al prepensionamento. Se non sappiamo come anticipare, organizzare e sostenere le ristrutturazioni future, ci sarà una forte resistenza al cambiamento. Ma se riusciamo a organizzare questi cambiamenti con le parti sociali e i lavoratori – democratizzando la governance delle imprese e dell’economia – allora, oltre a creare posti di lavoro, saremo in grado di cambiare il lavoro rendendolo meno intensivo e restituendogli un senso.

Lei sostiene un “modello di post-crescita”. Che cosa significa?
Ho iniziato a lavorare su questo tema alla fine degli anni ’90 e ho pubblicato Qu’est-ce que la richesse? una critica all’equazione tra ricchezza e progresso di una società e crescita del PIL. Il PIL non tiene conto delle attività essenziali per la riproduzione e il buon funzionamento della società; non è influenzato dalle disuguaglianze nella produzione, nel consumo o nel reddito; non tiene in alcun modo conto del degrado del nostro patrimonio naturale o della coesione sociale. Dobbiamo adottare altri obiettivi: soddisfare i bisogni essenziali di tutti rispettando i limiti planetari, e quindi altri indicatori.

Quali?
Se mi permette di usare questa immagine, si tratterebbe di racchiudere il PIL – la produzione – in altri due indicatori: l’impronta di carbonio, per rimanere nei limiti fisici planetari, e l’indice di salute sociale, sviluppato dalla mia collega Florence Jany-Catrice. Questo indice tiene conto del benessere sociale che non sempre è legato a un aumento del Pil.

Molti parlano di “crescita verde”. Non ha l’impressione che questo concetto ci impedisca di capire che è il capitalismo a impedire la biforcazione?
Sono assolutamente d’accordo. È solo un trucco che ci fa pensare che la crescita sporca e cattiva possa essere trasformata in crescita pulita con un colpo di bacchetta magica. Certo, sono stati fatti dei progressi in termini di disaccoppiamento: ora produciamo punti di PIL con meno CO2, ma per farlo correttamente avremmo bisogno di un disaccoppiamento radicale che, per il momento, sembra possibile solo con l’aiuto di tecnologie dirompenti che non sono disponibili o i cui effetti potrebbero essere peggiori del male. L’unica strada percorribile è quella della riduzione dei consumi materiali e della sobrietà.

Il suo approccio femminista mette in evidenza il ruolo spesso trascurato ma essenziale del lavoro delle donne. Che ruolo possono avere nella trasformazione che lei prevede?

Una delle prime ricercatrici a evidenziare la responsabilità dello sconvolgimento delle rappresentazioni e dei valori avvenuto nel XVII e XVIII secolo è stata una donna: Carolyn Merchant.In un libro straordinariamente importante, The Death of Nature (La morte della natura), pubblicato nel 1980, l’autrice mostra in che misura la rivoluzione scientifica che ha accompagnato la Modernità abbia determinato la traiettoria dell’Antropocene. In particolare, sottolinea il modo in cui Francis Bacon ha promosso lo sfruttamento della natura e l’estorsione dei suoi segreti, anche attraverso la violenza. Anch’io ho raccontato questo ai miei studenti senza aver letto Merchant.

Forse perché le donne sono più sensibili a questa forma di dominio?
Lo sono, ma non perché siano intrinsecamente diverse, ma perché sono state e continuano a essere dominate e valorizzate negativamente. Le donne sono in una posizione migliore per chiedere l’attuazione di un cambiamento di paradigma: da quello attuale dello sfruttamento, della conquista e dell’estorsione a quello della cura. Questo ci permette di ripensare il lavoro non più come attività finalizzata allo sviluppo e allo sfruttamento, ma come attività che permette la sussistenza rispettando la terra che ci permette di ottenerla. Si tratta di una linea di pensiero molto interessante che diversi ricercatori stanno esplorando. Ed è una buona cosa

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ELEZIONI. Intervista a Raniero La Valle, candidato con Pace, Terra e Dignità

 Raniero La Valle - Ansa

Raniero La Valle, giornalista, ex parlamentare della sinistra indipendente eletto nelle liste del Pci, storico esponente pacifista, ha promosso con Michele Santoro la lista Pace, Terra e Dignità per la quale corre in tutte le circoscrizioni. Lo raggiungiamo durante la campagna elettorale. «Lo avevamo già visto con la raccolta delle firme necessarie a presentare la lista: si interessano alle cose che diciamo persone che ci hanno detto che erano anni che non si interessavano alla politica.

Come si spiega tutto ciò?
La disistima per la politica dipende dal fatto che la gente ha cominciato ad accorgersi che quello che si decide in politica non cambia la loro vita quotidiana. E invece parlando di guerra non è così, tocchi questioni base, c’è di mezzo la vita e la morte il rapporto con gli altri. Ecco perché queste elezioni europee possono essere considerate importanti più delle politiche.

Per la prima volta si percepisce l’importanza dell’Unione europea per i destini dei singoli paesi.
Sì, c’è un rovesciamento. Finora le europee erano trascurabili, stavolta sono diventate più importanti. Noi speriamo che servano a decidere i grandi destini del mondo. Se l’Europa diventasse un grande soggetto sul piano mondiale allora le cose cambierebbero. Purché non sia una potenza tra le potenza e che non si mettano a combattere per il dominio mondiale.

Uno dei vostri obiettivi era costringere gli altri soggetti politici in campo a parlare di guerra e pace. Le sembra che stia succedendo?
Direi di sì. L’episodio più evidente è quello dei 5 Stelle che hanno messo la parola «Pace» nel loro simbolo. Direi che esercitiamo un’influenza indiretta, anche se spesso circolano risposte sbagliate. Ora ad esempio in molti dicono che il vero coronamento dell’Ue è arrivare a politica estera e difesa comuni. Apparentemente serve a difendere la pace, ma di fatto è una cosa pericolosissima perché vuol dire avere un esercito. Circola il mito dell’esercito europeo, come se non bastassero la Nato e gli eserciti nazionali. L’esercito europeo sarebbe il sigillo di un super-stato. Ancora peggio, forse, è il luogo comune sulla richiesta di abolire il diritto di veto e decidere a maggioranza. Sarebbe catastrofico: immaginiamoci se si decidesse a maggioranza, magari coi piccoli paesi determinanti, di fare una guerra. A quel punto l’Italia sarebbe obbligata a partecipare.

Raniero La Valle

La gente si è disaffezionata alla politica. Ma parlando di guerra non è così, tocchi questioni base, c’è di mezzo la vita e il rapporto con gli altri

Dunque, vi preoccupa un’Europa che parla con una voce sola?
La democrazia è fatta anche di no, di dialettiche e contrapposizioni. Se ci costringono a fare la politica della Francia o della Germania non va bene. Dunque questa idea di parlare con una sola voce è pericolosa. I nostri amici della sinistra dovrebbero essere messi un po’ in guardia a questo proposito. Su questi temi l’Europa o si suicida o si salva.

Parlare di guerra significa andare oltre la divisione tra destra e sinistra?
Sì proprio perché non è una questione ideologica. Quale è la soluzione di sinistra al genocidio in corso a Gaza? La linea del due popoli e due stati, cioè una cosa che non avverrà mai? Non sarebbe meglio un unico stato non monoetnico? Dobbiamo trovare soluzioni reali ai problemi, altrimenti riempiamo documenti di avveniristiche soluzioni che non si realizzano. Quella della Palestina non è solo una questione politica, li c’è anche un grande dramma religioso. E c’è tutta la grande storia ebraica che va conservata: Gerusalemme deve restare quella che è ma deve essere accogliente nei confronti di tutte le religioni.

Vale anche per la guerra russo-ucraina?
La Russia non deve essere isolata, non deve essere unicamente l’oggetto dei nostri sdegni ma deve far parte dell’Europa delle nostre culture. Spero proprio che non arriveremo al punto che in Italia chi si oppone alla guerra alla Russia è Salvini, se avviene, e sarebbe traumatico, sarebbe per colpa della sinistra. Quando abbiamo fatto la lotta contro i missili Cruise chi stava ci stava: in Sicilia raccogliemmo un milione di persone, e non erano tutti amici di Pio La Torre.

Supererete la soglia del 4%?
La logica mi dice che avverrà. La nostra proposta non vuole manco sconfiggere le altre, le attravesa tutte. Quindi potremmo avere un grande risultato, anche se non ci fanno passare nei grandi canali media.

Raniero La Valle

Circola il mito dell’esercito europeo, come se non bastassero la Nato e gli eserciti nazionali. Ma l’esercito europeo sarebbe il sigillo di un super-stato

Ma c’è Michele Santoro, che è un volto televisivo.
Certamente. Lui è un punto di forza. È pur sempre una persona sola ma sarà determinante.

A che gruppo aderireste se doveste essere eletti?
Bisogna ribaltare la domanda. Quali gruppi sceglieranno noi? Quali gruppi confluiranno sulla nostra proposta?

Continuerete a esistere anche dopo il voto?
Senz’altro. Era questa l’intenzione iniziale. Quando abbiamo cominciato con Michele volevamo costruire una cosa permanente che imponesse questi temi al dibattito pubblico. Poi ci siamo accorti che il primo incidente erano queste elezioni e abbiamo deciso che ci dovevamo stare. E allora abbiamo partecipato.

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