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TOGHE E POLITICA. la destra mentre è già imbarcata per una riscrittura della forma di governo vuole partire anche per un’altra modifica della Costituzione. Sempre a botte di maggioranza

Il vecchio pallino di farla finita con l’indipendenza

 

Mentre infuriano le guerre mondiali, il parlamento italiano discute di premierato, così può essere una prova di contemporaneità il fatto che un senatore di maggioranza provi a risolvere la faccenda a botte. Certi conflitti, però, sono più sceneggiati che agiti e così quando i senatori dell’altra parte si tolgono le giacche è solo per protesta e non per rispondere colpo su colpo. In ogni caso da oggi le camere vanno in pausa per le europee e la pessima riforma della Costituzione che vuole intestarsi Meloni ha fatto solo un passo avanti.

Quello che serviva a confermarla come argomento di richiamo elettorale: chi non vuole un solo capo che decide senza troppi impicci? Anche il fatto che in parlamento scatta la rissa e si finisce in maniche di camicia può essere la prova che le aule sono ingovernabili. Per cui viva i pieni poteri. Non viene il sospetto che il parlamento è ridotto a un teatro proprio perché le decisioni già oggi non passano più di lì. Eppure basterebbe dare un’occhiata alla lista dei decreti legge (uno a settimana) per averne la prova.

Mentre le guerre mondiali fanno scempio di giustizia e i crimini internazionali sono diventati una linea di politica estera, il governo italiano si occupa anche, effettivamente, di giustizia. Nel senso, però, dei giudici con le toghe nere e rosse di casa nostra. Si potrebbe pensare che non è una cattiva idea, visto che una causa civile ci mette qualche anno a partire e poi quando parte almeno tre anni a concludersi.

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Solo che il governo non si preoccupa di questo: sarebbe in fondo troppo semplice, basterebbe ad esempio assumere nuovi addetti all’ufficio del processo che sta funzionando bene o confermare le migliaia di precari che già ci lavorano. E non si occupa neanche delle carceri, dove il sovraffollamento è esploso e l’estate si annuncia come una tortura al quadrato. Si occupa, invece, di un’altra bandierina elettorale, questa volta quella che vuole sventolare Forza Italia.

Nello scambio a tre, la Lega è probabilmente quella che è cascata meglio, perché l’autonomia differenziata è l’unica legge ordinaria delle tre “riforme” ed è anche quella più vicina all’approvazione definitiva. A cascar male anche in questo caso è il paese, che si troverà a breve con i diritti graduati per residenza e l’egoismo stabilito per legge.

La riforma della giustizia merita attenzione, malgrado sia stata evidentemente messa insieme in tutta fretta per dare anche a Forza Italia quello che chiedeva a una settimana dal voto. Non bastava il nome di Berlusconi nel simbolo del partito e la sua foto nei santini elettorali. Si sa che la buonanima ci teneva e la «separazione delle carriere» arriva come ennesimo omaggio alla memoria. Festeggiato non a caso dai ministri con la stessa esclamazione che fu del Cavaliere – «una riforma epocale» – quando di questi tempi tredici anni fa il suo governo approvò una riforma simile (scritta un po’ meglio). Le cronache informano che fu tanto poco «epocale» che se ne parlò solo per qualche settimana, sui giornali e mai in parlamento.

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Questa approvata ieri è, da allora, l’unico caso di un testo di riforma costituzionale sulla giustizia che sia stato ufficialmente varato dal Consiglio dei ministri. Così la destra mentre è già imbarcata per una riscrittura della forma di governo – che per Meloni un giorno è «la madre di tutte le riforme» e il giorno appresso «chi se ne importa» se non viene approvata – vuole partire anche per un’altra modifica della Costituzione. Sempre a botte di maggioranza, quindi a volerla prendere sul serio il referendum costituzionale non sarà alla fine uno ma saranno addirittura due.

Eppure sul serio questa destra va presa, se non per le probabilità che un simile testo sgangherato arrivi in porto – il modo in cui si dovrebbero «eleggere» senza eleggerli, ma sorteggiandoli, i rappresentanti nei Csm, che diventano due ma conservano un solo vertice, e com’è disegnata l’«Alta corte» disciplinare che spezzerebbe l’autonomia della magistratura, ma senza spezzarla, resta del tutto oscuro – almeno riguardo alla ispirazione. Quella sì è chiarissima.

Perché altrimenti impuntarsi a cambiare la Costituzione per dividere giudici da pm (ai quali al contrario farebbe benissimo provare quella esperienza) quando già adesso cambia funzione appena l’1,5% dei togati? La risposta allude chiaramente ad altro, non all’efficienza e neanche alla terzietà delle toghe. Allude all’indipendenza della magistratura, che adesso disturba i manovratori per esempio quando una giudice smonta i provvedimenti anti migranti perché si ricorda che leggi comunitarie e Costituzione valgono più dei mille decretini di Piantedosi. E dunque fare del pubblico ministero, un po’ alla volta, un braccio della polizia può fare tanto comodo. Soprattutto quando con l’altro braccio la polizia ha cominciato a picchiare

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A CINQUANT'ANNI DALL'ECCIDIO DI PIAZZA DELLA LOGGIA A BRESCA. I volumi di Benedetta Tobagi per Laterza, e di Pietro Garbarino e Saverio Ferrari per Red Star Press. Sfatato il falso mito per cui quegli eventi sarebbero inintelligibili e ricostruite precise responsabilità. I legami tra la destra eversiva, gli apparati militari dell’intelligence italiana e dell’alleanza atlantica. Due analisi rigorose del fenomeno che ha insanguinato a lungo il Paese all’ombra della Guerra Fredda e nel quale hanno giocato un ruolo di primo piano i neofascisti
Stragi, la memoria ritrovata Maurizio Galimberti, Studio N03, piazza della Loggia, Brescia

In uno spazio pubblico in cui la rimozione del passato ha assunto una funzione centrale nella costruzione di un presente senza storia, i lavori che muovono in «direzione ostinata e contraria» divengono preziosi. È il caso di due volumi che, mentre procede l’iter giudiziario dei processi per la strage di Bologna del 1980 e di Piazza Loggia a Brescia del 28 maggio 1974 (di cui ricorre oggi il cinquantesimo anniversario), si incaricano di costringerci a ragionare sulle vicende umanamente più tragiche e democraticamente più drammatiche della storia repubblicana. È il caso dei libri di Benedetta Tobagi, Le stragi sono tutte un mistero (Laterza, pp. 288, euro 18), e di Pietro Garbarino, Saverio Ferrari, Piazza della Loggia cinquant’anni dopo (Red Star Press, pp. 152, euro 15).

ENTRAMBI I TESTI si presentano apparentemente come strumenti divulgativi ma in realtà mostrano da subito la capacità di approfondire (in modo convincente) e spiegare (in modo chiaro) temi assai complessi come quello relativo alla natura dello stragismo in Italia ovvero di un fenomeno storico duraturo, collocato dentro il cuore della Guerra Fredda e capace di incidere sulla qualità del sistema democratico e costituzionale della Repubblica. Ciò grazie al concorso di neofascisti come esecutori materiali; di apparati di forza dello Stato (nei suoi vertici tanto dell’Ufficio affari riservati del Ministero dell’interno quanto del Servizio informazioni difesa) come operatori della logistica delle stragi, dei depistaggi e delle esfiltrazioni; di significative parti delle classi dirigenti e proprietarie come finanziatori; di alti ufficiali della Nato non solo come interlocutori e protettori dei responsabili ma come osservatori decidenti seppur in un quadro non univoco, anzi «polimorfico», come ricorda Tobagi.

La storica, che maneggia con sapienza il tema, passa in rassegna larga parte del dibattito pubblico sugli anni del tritolo sfatando il falso mito secondo cui gli eventi stragisti sarebbero inintelligibili; chiarendo che non esistono servizi segreti «deviati» ma solo servizi segreti; smontando teorie dietrologiche protese alla costruzione di immaginarie piste alternative come quella palestinese o internazionale per la strage di Bologna del 1980.

Contestualmente si potrebbe aggiungere anche che la retorica celebrativa delle istituzioni «lo Stato ha vinto» e quella postfascista «la destra vittima di persecuzioni giudiziarie» hanno concorso ad erodere, nell’immaginario collettivo, l’evidenza dei fatti.

È POSSIBILE AFFERMARE la vittoria dello Stato con tanta solennità quando, in media dopo mezzo secolo dai fatti, i processi non sono ancora conclusi; il grado di impunità dei responsabili resta altissimo; la memoria pubblica è praticamente evaporata nelle nuove generazioni per le mancanze di quelle precedenti? Così se da un lato Tobagi cita il sondaggio del 2006 condotto nelle scuole superiori di Milano (secondo cui il 41% degli studenti riteneva le Brigate Rosse e non i neofascisti di Ordine Nuovo responsabili della strage di Piazza Fontana) dall’altro non ci si può esimere dal sottolineare come il lavorio di tutti quei «narratori» pubblici, che l’autrice definisce generosamente «filo-governativi rassicuranti», abbia iniziato a fare breccia facendo leva non su argomenti e contenuti di merito quanto piuttosto su banalizzazioni, uso del senso comune, stanchezza e disattenzione dell’opinione pubblica.

IN QUESTO SENSO Garbarino e Ferrari riallineano fatti e documenti offrendo un focus importante sulla strage di Brescia del 1974 e soprattutto su quella organizzazione «denominata Ordine Nero nella quale erano confluiti i reduci del gruppo Movimento politico Ordine Nuovo, a loro volta eredi di quel Centro studi Ordine Nuovo, fondato nel 1956 da Giuseppe Umberto (Pino) Rauti e confluito in parte, nel 1969, nel Msi di Giorgio Almirante». Un gruppo che, lungi dall’essere «solo» filo-nazista, rappresentò una struttura intranea agli apparati militari dell’intelligence italiana e dell’alleanza atlantica negli anni della guerra non ortodossa al comunismo fatta di stragi, attività eversive e minacce golpiste. Un percorso che oggi ha portato il processo di Brescia sulla soglia degli uffici del Comando Nato di Verona.

Gli autori offrono così, per il tramite dell’intelligenza dei fatti, elementi conoscitivi imprescindibili e richiamano l’osservazione sul modo in cui nella sfera pubblica è rappresentato il «racconto» delle stragi e, dunque, sul modo in cui noi, in ultima istanza, rappresentiamo noi stessi

 
 
 
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INTERVISTA. Fabrizio Barca (Forum Disuguaglianze e Diversità): "Un viaggio di più di cento tappe in Italia per la giustizia sociale e ambientale. Meloni dice che il progetto Ue sulla transizione ecologica è "disumano". La sinistra dovrebbe rispondere che è il sistema di produzione a frenare la trasformazione"

 Fabrizio Barca (Forum Disuguaglianze e Diversità) - Aleandro Biagianti

Fabrizio Barca, co-coordinatore del Forum Disuguaglianze e Diversità, è con molti altri membri del Forum impegnato in un tour di presentazione del volume Quale Europa (Donzelli), scritto in vista delle elezioni europee dell’8 e 9 giugno.

Le tappe saranno più di cento. Quale Italia sta incontrando in questo viaggio?
Un’Italia viva, non a caso. Ci invitano i grumi del formicolio produttivo e sociale esistente nel paese. Dal Friuli alla Sicilia ci sono isole di diritti auto-costruiti che agiscono in molti settori, dal fare impresa sociale e industriale ai servizi. Sono impegnate di fatto ad attuare l’articolo tre della Costituzione, rimuovere gli ostacoli dello sviluppo della persona umana. Emerge un dato.

Quale?
C’è una consapevolezza della scarsa conoscenza di ciò che avviene nel parlamento europeo e una sfiducia nel potere, e nel volere, contare in Europa. Una lontananza forte dalle sue istituzioni che rispecchia la situazione attestata anche da un sondaggio dell’Eurobarometro.

Come lo spiega?
Con la solitudine. Oggi sono soli i cittadini, che votano sempre meno. Ed è solo anche chi è eletto a Bruxelles perché perde il rapporto con la società. Noi cerchiamo di riannodare i fili. Stimiamo che, in questo viaggio, parleremo con 7 mila persone. Se ciascuno discutesse con altre 15 potremmo coinvolgere 100 mila persone sulle questioni della giustizia sociale e ambientale affrontate nel libro. Tireremo le conclusioni al festival «Desiderabili futuri», organizzato con Legacoop a Oristano dal 26 al 29 giugno.

Nel libro ci sono tredici proposte offerte come strumento per scegliere chi eleggere. Di cosa si tratta?
Di rovesciare il modo di votare. L’Europa è in bilico tra distopia e eutopia; quelle proposte fanno la differenza. E allora noi suggeriamo di partire da lì, da bandiere che vorremmo veder portate in Parlamento europeo e poi pescare dalle liste chi può farlo. A usare il libro così è anche la rete paneuropea coordinata dalla tedesca Brand New Bundestag. Chiamando in 10 Stati membri candidate e candidati a esprimersi, ne hanno selezionati cento, in diversi partiti. Quindici sono italiani. Nel nostro paese il nodo della rete è «Ti Candido».

Il progetto di Meloni è creare una nuova maggioranza «per cambiare l’Europa». Che tipo di Europa sarebbe?
Quella che purtroppo si profila, ma peggiore. Esiste un moto reazionario che ha già spostato l’asse politico. La coalizione moderata che ha governato fino ad ora, e il modo in cui ha reagito nell’ultimo periodo alle pressioni della destra, è già la prefigurazione di una distopia. La frenata sul Green Deal è avvenuta. Si ipotizza un debito pubblico europeo per aumentare la spesa per la difesa e non per la ricerca. È stato sospeso il patto di stabilità per il Covid, ma poi è stato reintrodotto. Nella pandemia Sudafrica e India hanno chiesto di sospendere i diritti intellettuali sui vaccini, il Parlamento europeo si è espresso in maniera favorevole, ma la Commissione ha rifiutato.

Le sinistre le sembrano all’altezza?
No. Non vedo la risposta giusta quando la Presidente Meloni accusa il progetto di trasformazione ambientale di essere «disumano».

Perché il messaggio passa?

Perché lei coglie il tratto dirigista del progetto e la disattenzione per il suo impatto sulle persone. Il blocco che governa l’Europa ha avuto il gran merito di avere impostato questo progetto, ma ha trascurato la società, lo ha attuato senza il dialogo sociale che ti consente di adattarlo ai contesti, di farlo diventare di proprietà delle persone più vulnerabili.

Come si risponde, a suo avviso, alla critica di Meloni?
Dicendo che la responsabilità è del sistema di produzione e non delle persone, puntando alla sua trasformazione e dicendo che a essere «disumano», a colpire l’umanità, è chi frena questa trasformazione.

Manfred Weber, il leader dei popolari europei, ha accusato il Pd di non avere votato il patto europeo sulle migrazioni sul quale si trova d’accordo con i conservatori e una parte dei socialisti.
A me sembra invece che Elly Schlein abbia fatto bene a rigettare una soluzione deprecabile che mostra un approccio neocoloniale con l’Africa, un continente che ci disprezza per gli abusi compiuti per secoli. Senza contare che il testo usa la cooperazione internazionale come strumento repressivo. Almeno su questo il centro-sinistra italiano ha fatto centro.

Le speranze di una ripresa in Italia sono state legate ai soldi europei del Pnrr. Riuscirà a mantenere le promesse?
Mi auguro che si possa fare il meglio possibile, ma il metodo di attuazione è vecchio. Rivela un dirigismo benevolo: miri a migliorare la sanità o la pubblica amministrazione, ma non intercetti i saperi delle persone nei territori. Piombi sulla loro testa. È una boccata di ossigeno, ma dopo che succede?

Il governo dice che sta andando tutto bene…
Non è proprio così, a cominciare dalla mancanza delle informazioni sui progetti. Come Forum abbiamo denunciato dall’inizio l’assoluta inadeguatezza del sistema di monitoraggio. Abbiamo suggerito alla Commissione di adottare il sistema che esiste per i fondi di coesione europei, OpenCoesione. E invece si è andati indietro, non abbiamo una fotografia adeguata della situazione. È fondamentale coinvolgere i cittadini nella gestione delle risorse europee. Non ci si può ricordare di loro solo quando si vota

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DAVANTI ALL’ORRORE. Cambiati per sempre senza sapere ancora come, senza poterci ridefinire in qualcosa. È così che riceviamo le immagini irricevibili di quei corpi che ondeggiano nel fuoco, dello sterminio compiuto dall’esercito israeliano, l’altra notte a Rafah

Fantasmi in un tempo senza parole La Guernica di Pablo Picasso al museo Reina Sofia

Fosse una questione filologica, staremmo qui a spiegare perché si può usare la parola genocidio, a spiegare che sì: si può usare questa parola, perché le parole hanno una definizione e poi vanno libere nel mondo in attesa di incarnarsi ancora e ancora, belle e brutte, nelle azioni, e quindi il fatto che sia stato usato per gli ebrei e per gli armeni purtroppo non esclude che la si possa usare ancora. Ma non è una questione filologica.

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Sulle tende di Rafah bombe da 2 tonnellate. Poi il rogo: 45 uccisi

È un’altra questione, e chi la sposta lì, io lo capisco: è perché è difficile mettere insieme le parole quando mancano le parole.
Le parole mancano davanti alla morte dei civili palestinesi nelle tende di Rafah perché la realtà è così oltre l’immaginazione e implica così tanti aspetti che non riesce a essere porzionata in gruppi di sillabe, quelli che vanno bidimensionali su di un foglio a comporre frasi.

Quando mancano le parole si vorrebbe essere tutti Picasso e fare Guernica, per il suo talento e per quell’arte che ha una capacità di sfondamento verso la terza dimensione, si vorrebbe essere tutti Goya. È che il significante è troppo più grande del significato, qualunque cosa io scriva non contiene quello che vedo, quello che accade.

Al salone del Libro di Torino di quest’anno l’incontro più devastante è stato un incontro di poesia. Con me e Paola Caridi c’era uno dei poeti di lingua araba più conosciuti: Najwan Darwish. È palestinese. Noi eravamo in questa sala “internazionale”, davanti a noi persone con la cuffia per la traduzione simultanea e persone che non ne avevano bisogno, ragazze, tante ragazze, velate e con i capelli sciolti, c’erano i libri, l’ufficio stampa (in Italia è pubblicato da Hopefulmonster con la traduzione di Wasim Dahmash, titola Esausti in croce), tutto quello che siamo abituati a vedere alla presentazione di un libro, ma poi c’era il corpo di questo poeta, giovane, bruno, come abitato da uno spettro.

Tenere la conversazione sulla poesia era difficilissimo: c’era questo spettro dentro di lui che ci agitava, che voleva venir fuori, e fuori dalla struttura fieristica c’erano degli studenti in pacifica protesta per il genocidio di Gaza. Ovviamente circondati dalla polizia – scelta del questore non della direzione del Salone – ma capite che nessuno è al sicuro finché davanti agli studenti c’è la polizia in tenuta antisommossa.

E poi, finalmente o purtroppo, quando una persona gli ha chiesto se la sua poesia fosse cambiata, e come, dal 7 ottobre, lo spettro è uscito, Darwish ha risposto: «Non è la mia poesia che è cambiata, io sono cambiato. E anche voi siete cambiati, magari non ve ne siete accorti».
È così – cambiati per sempre senza sapere ancora come, senza poterci ridefinire in qualcosa – che riceviamo le immagini irricevibili di quei corpi che ondeggiano nel fuoco, dello sterminio compiuto dall’esercito israeliano, l’altra notte a Rafah.

Così cambiati, senza parole. Vergogna – non basta; orrore – non dice; criminali – aiuta ma non specifica. Il poeta ci spiega ancora, in un’intervista rilasciata il 28 novembre scorso a El Pais:«Non posso proteggere con la poesia la vita di un bambino. Se fossi un politico potrei fare altro, e direttamente; se fossi un medico potrei curare i feriti. È dunque un tempo triste, per essere un poeta».

Un tempo senza parole è un tempo vuoto, nel vuoto si annidano la frustrazione, l’impotenza, la rabbia e il sentimento più inquietante: sentirsi in colpa per essere nati nella parte occidentale del mondo. Ci vorrà tanto tempo per cominciare a trovare le parole nuove, e ascolteremo dai testimoni e dai poeti come fare, impareremo dai sopravvissuti, solo da loro come metterle in fila, intanto non siamo dissimili da quei fantasmi

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Trema il confine est dell’Ucraina. Quattro attacchi russi a Kharkiv, colpito anche un centro commerciale. Kiev indaga i suoi ufficiali per la mancata difesa del fronte. Per il segretario dell’Alleanza atlantica la soluzione è scatenare le armi Nato sul territorio della Russia

Chi più ne ha

IL LIMITE IGNOTO.

«Ciò che sta accadendo oggi a Bruxelles e a Washington… sta creando l’atmosfera per un eventuale conflitto militare, che potremmo anche descrivere come una preparazione all’entrata in guerra dell’Europa»: la dichiarazione del sovranista ungherese Viktor Orbán sembrava una boutade, invece è stata confermata e rilanciata ieri dal segretario della Nato Jens Stoltenberg in una intervista all’Economist nella quale invita gli alleati Nato che forniscono armi all’Ucraina a «porre fine al divieto di usarle per colpire obiettivi militari in Russia».

Insomma, prepariamoci ad entrare in guerra con la Russia. Un intervento il suo a gamba tesa nella delicata campagna elettorale in corso per le europee, dove i governi Ue e gran parte degli schieramenti politici, tacciono sulla questione cruciale per il destino dell’Europa; per l’Economist Stoltenberg si rivolge anche a Biden, che ancora vuole controllare ciò che l’Ucraina può attaccare con i sistemi forniti dagli Usa – ma il segretario di Stato Blinken la pensa come Stoltenberg. Si tirano le somme di quello che finora hanno fatto la Nato, gli Usa, l’Ue e molti governi a partire da Giorgia Meloni: nuovi 60 miliardi in armi per Kiev, decisione di acquisti di munizioni concordate anche con il prelievo dal Pnrr, operazioni d’intelligence, accordi di cooperazione militare decennali, gli F-16 in arrivo dopo aver addestrato i piloti… Tutto perché l’inutile massacro continui e in assenza totale di una iniziativa congiunta dell’Ue per un tavolo negoziale per il cessate il fuoco e per un accordo di pace concordato – non il finto summit senza la Russia di giugno in Svizzera. Mentre dal Sud del mondo le iniziative per la pace non mancano: Xi in Europa di questo ha parlato, tanto che il ministro degli esteri ucraino Kuleba con la moglie di Zelensky sono corsi a Belgrado dopo la sua visita; e a Pechino il ministro degli esteri Wang Yi e il consigliere del presidente brasiliano Lula, Celso Amorim. propongono i temi di una de-escalation del conflitto.

Grave è la responsabilità della Ue. A fronte del fatto che sul campo, dallo stallo alla ritirata ucraina, non si prefigura alcuna possibile vittoria di una parte e nemmeno dell’altra, nonostante la limitata quanto sanguinosa avanzata russa; e che la situazione di stanchezza e di fuga di milioni di giovani russi e ucraini, un’intera generazione, dal fronte bellico, invece richiederebbe uno sforzo negoziale per fermare la guerra, recuperando i

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USCITA DI EMERGENZA. Il fumettista romano in trasferta a Budapest, nel mezzo del tour di presentazione del nuovo libro, per assistere al processo: «Non dico a nessuno se votare o meno, ma le persone devono avere gli strumenti per valutare la gravità della situazione. Che non è risolta con i domiciliari»

Zerocalcare: «Sulla candidatura di Salis tutti devono capire la posta in gioco» Il fumettista Zerocalcare - Ansa

«La cosa più pericolosa è l’idea del rompete le righe. La situazione di Ilaria Salis non è ancora risolta». Nel mezzo di un tour impegnativo e con poche pause per la presentazione del suo nuovo libro, Quando muori resta a me (Bao Publishing), Michele Rech in arte Zerocalcare ha preso un aereo per tornare a Budapest e seguire la terza udienza del processo all’antifascista italiana. Era sulle rive del Danubio anche il 28 marzo scorso, quando il giudice negò i domiciliari ottenuti finalmente ieri. Il fumetto a puntate Questa notte non sarà breve ha aiutato a tenere alta l’attenzione sul caso di Salis e forse anche a renderne possibile la candidatura alle prossime elezioni europee. Zerocalcare lo incontriamo nel tardo pomeriggio, a margine della conferenza stampa di Roberto Salis in un albergo del centro di Budapest.

Perché è ritornato?

Penso che la cosa più pericolosa in questo momento sia l’idea del rompete le righe, pensare che siccome sono arrivati i domiciliari allora è tutto risolto. In realtà non è risolto niente, è una situazione ancora molto rischiosa. È importante mantenere alta l’attenzione e la partecipazione su quello che sta succedendo.

Quindi crede ci sia il rischio che il miglioramento della condizione di Salis riduca la tensione intorno al suo caso, che ha portato al sostegno di ambienti molto diversi.

Il rischio è che nella percezione comune questo alleggerimento delle misure cautelari si traduca nell’idea che il pericolo è scampato. In realtà lei si trova ancora in una situazione detentiva, anche se ai domiciliari. E soprattutto se non viene eletta e il processo va avanti prima o poi si concluderà, forse già questo autunno. Probabilmente la sentenza sarebbe di molti anni di carcere. Quindi, evidentemente, la situazione non è affatto risolta.

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«Votiamo Ilaria». Gli appelli da chi non ti aspetti

Durante questa campagna elettorale ci sono state indicazioni di voto esplicite e nette da parte di soggetti che hanno poca familiarità con le urne, dai centri sociali ai movimenti in Val Susa. Se lo aspettava?

Devo dire che mi ha stupito. Posto che c’è anche chi ha fatto un passo indietro di fronte alla questione elettorale, anche in maniera coerente con le proprie posizioni, si è effettivamente mosso un grosso pezzo che non è riconducibile all’elettorato di Alleanza verdi e sinistra. Perché in tanti hanno riconosciuto che questa situazione è l’occasione per portare finalmente a casa un risultato concreto. Cioè far uscire una persona di galera e forse anche lanciare un messaggio chiaro rispetto a certi temi e ad alcune pratiche.

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«Sappiamo che lottare costa». La Valsusa sceglie Ilaria Salis

Ma per avere una rappresentanza che viene dal mondo dell’antifascismo militante o comunque dei movimenti sociali è necessario un arresto, il carcere e il rischio di tanti anni di galera?

Questo non lo so perché secondo me non è detto che tutto quello che si sta mobilitando lo faccia pensando alla rappresentanza. Immagino che tante persone siano concentrate sulla risoluzione del caso di Ilaria. Poi cosa vorrà portare come contenuti in Europa, se viene eletta, sarà uno step successivo.

Lei la voterà?

Come scelta mia non faccio campagna elettorale, quindi diciamo che non rispondo a questa domanda. Non voglio dire alle persone se devono o non devono votare, però mi sta davvero a cuore che tutti abbiano ben chiaro qual è la posta in gioco e siano in possesso di tutti gli strumenti per decidere cosa fare. Capendo la gravità della situazione.

L’armadillo su questo che dice?

Dice: “scappa, scappa perché stai parlando con questo qua?”

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