Il dato politico saliente è però un altro: nonostante le polemiche dei mesi scorsi, in ben 22 casi su 29 si presentano coalizioni più o meno ampie che vedono comunque la presenza insieme del Pd e del M5S. Il voto in queste città, e il contemporaneo voto europeo, potrà dirci qualcosa sul «rendimento» di queste alleanze, ma soprattutto sul vero e proprio rebus che riguarda il partito di Conte: quale è la sua vera «consistenza»? Quella fragile del voto locale e regionale o quella robusta che tutti i sondaggi, in questi mesi, hanno continuato stabilmente ad attribuirgli sul piano nazionale? Forse sono vere entrambe; ma avere un’ulteriore conferma di questo divario strutturale, o capire se si riduce o si accentua, assume un notevole rilievo politico.
Ovviamente, saranno importanti le sfide di Firenze e Bari; ma, scorrendo la mappa delle città al voto, si possono trovare molti altri luoghi da tenere sotto speciale osservazione, ossia alcune città conquistate dalla destra cinque o dieci, o anche più anni fa: Perugia, in primo luogo; ma poi anche Forlì e Ferrara; o in Toscana, anche una città operaia come Piombino o storiche roccaforti rosse come Cortona. Nelle ex-regioni rosse, più in generale, si tratta di capire se l’insediamento della destra, avvenuto negli ultimi dieci anni, si sta consolidando o può essere ancora rimesso in discussione.
E POI CI SONO LE EUROPEE: in che misura queste elezioni possono essere viste come un indicatore affidabile dell’andamento dei rapporti di forza tra i partiti? La cautela è d’obbligo: in passato, com’è noto, le europee sono state elezioni segnate da una grande volatilità degli elettori, con risultati poi spesso sconfessati dalle successive elezioni politiche. Può darsi però che il contesto politico, italiano ed europeo, porti oggi ad una maggiore stabilità del voto: sarà un voto che si colloca sulla scia delle elezioni politiche del 2022, o ci sarà una, sia pur parziale, inversione di tendenza?
Sui giornali impazza il tradizionale gioco delle “asticelle”; un solo dato, tuttavia, ci sembra utile ricordare: il 22,7% fu ottenuto nel 2019 da un Pd che aveva dentro sia Renzi che Calenda (oggi dati, insieme, al 5-6%). Ecco un altro parametro di valutazione: un risultato del Pd che graviti intorno almeno al 20% può essere considerato un successo politico per il partito. E sarà anche molto interessante guardare ai voti di preferenza nelle liste del Pd: una delle poche occasioni in cui le varie “anime” e posizioni possono davvero misurare la loro effettiva presa sull’elettorato e anche dentro il partito.
Ma decisivo, come sempre più spesso accade, sarà il livello della partecipazione, su cui incide la percezione della rilevanza politica del voto. Tradizionalmente, le europee hanno registrato sempre il più basso ranking di interesse: sarà ancora così, o queste elezioni ridurranno il divario? Nel 2014 votò il 58,7% e poi alle politiche del 2018 il 72,9%; nel 2019, il 56,1% alle europee e poi il 63,9% alle politiche del 2022. La forbice sembra ridursi, pur nella generale tendenza al ribasso: sarà ancora così?
L’ASTENSIONISMO non è un fenomeno indifferenziato: il livello di partecipazione esprime in primo luogo il grado di mobilitazione dei vari segmenti dell’elettorato, è un fenomeno asimmetrico. E alle europee questo fattore può giocare un ruolo rilevante: la combinazione tra un calo dei votanti (degli altrui votanti) e una buona mobilitazione dei propri elettori può essere il vettore di un significativo successo elettorale e produrre notevoli sbalzi nelle percentuali. Anche qui vedremo chi sarà premiato o punito da queste dinamiche: i dati sulla partecipazione, e la loro geografia, prima ancora dello spoglio dei voti, ci potranno dire molto.
Infine, una notazione di carattere più generale sulla campagna elettorale. Forse per la prima volta queste elezioni europee segnano alcuni elementi di novità: il tema delle «famiglie politiche» che si confrontano in Europa, e delle loro possibili alleanze, è stato molto più presente che in passato, e in ogni paese europeo se ne sta discutendo; così come si è diffusa una certa consapevolezza del ruolo che queste elezioni potranno avere sulla futura governance della Ue, a cominciare dagli equilibri con cui sarà composta la nuova Commissione. Siamo ancor lontani da una vera democrazia trans-nazionale, ma, per il momento, ci possiamo accontentare: andare a votare per fermare Le Pen-Salvini-Orban-Meloni-Abascal, e compagnia bruta, ci sembra già un motivo più che sufficiente a farci prestare attenzione a questa prossima scadenza
Sulle elezioni europee pesano anche i conflitti in corso e le posizioni assunte dalle forze politiche. Il contributo di Fabrizio Coticchia, Università di Genova
In occasione delle elezioni europee del 2024 il tema bellico ha assunto un peso notevole per il voto di molti cittadini di ogni Stato membro, di coloro che decideranno come votare anche valutando le posizioni assunte dai governi, dai partiti politici e dai singoli candidati circa le guerre in corso e le politiche che l’Unione dovrebbe adottare in materia.
In Italia nei programmi elettorali le posizioni dei partiti vanno da coloro che chiedono lo stop immediato all’invio di armi agli Stati in guerra come Ucraina e Israele, a chi si pronuncia per la creazione di un esercito europeo, da chi vuole aumentare le spese militari a chi chiede norme molto più severe per l’export delle stesse.
Fabrizio Coticchia, professore ordinario di Scienze politiche e internazionali all’Università di Genova da noi interpellato sottolinea che tendenzialmente per le elezioni i temi di politica estera non sono così cruciali come i temi di politica interna ed economici, o come l’immigrazione. Allo stesso tempo, però, “quando ci sono delle crisi rilevanti, come quelle ora in essere e tra loro collegate, anche i fattori internazionali giocano un peso e un ruolo. Lo vediamo anche nella modalità con la quale i partiti stanno elaborando la loro campagna elettorale anche rispetto al tema della
Leggi tutto: La guerra nelle urne - di SIMONA CIARAMITARO
Commenta (0 Commenti)Fanno campagna elettorale su regalie e condoni, o (indegnamente) sui Cpr in Albania. Vogliamo premiarli i partiti che distraggono lo sguardo dall’orrore planetario che avanza?
Donetsk, Ucraina - foto Libkos/Ap
Questo è solo un sospiro filosofico. Forse un singhiozzo. Metodologico. Ma chiede ascolto. La domanda è: perché un elettore dovrebbe essere “realista”? Con questo termine, solitamente si intende l’una o l’altra di queste accezioni: 1) Non buttare via il tuo voto; 2) Non si vota per i principi e gli ideali, ma per influire sulla realtà; 3) Le anime belle sono degli irresponsabili; 4) Devi avere una visione strategica, una visione meramente ideale è troppo comoda; 5) Di buone intenzioni sono lastricate le vie dell’inferno.
La sola prescrizione alla quale la mia risposta è debole, anche ai miei occhi, è la prima. E può darsi sia quella decisiva, capirei gli amici chi la seguisse. Anche se i sondaggi sono predittivi, ma non profetici. E non sta scritto da nessuna parte che non ci siano grandi sommovimenti sotto i nostri piedi e nelle nostre anime: lì i sondaggi non bastano, ci vorrebbero i profeti. Il fatto è che i profeti, per definizione, non li ascolta nessuno in patria. Ed è questa la cosa più stupefacente. Siamo seduti sulle basi americane, in questo paese, siamo certi che in caso di guerra mondiale il campo di battaglia sarebbe qui o appena più in là in Europa, e sentiamo far campagna elettorale sugli spiccioli da regalare in giro e i condoni, oppure (vergognosamente) sui CPR da costruire in Albania. E vogliamo premiarli, i partiti che distraggono lo sguardo dall’orrore planetario che avanza?
Le prescrizioni 2-5 dicono suppergiù la stessa cosa, tutte. Mi è successo tante volte di notare che se c’è una cosa che definisce lo spirito – le idee, l’etica, iddio, il bello, il giusto – è che queste cose ravvivano, risvegliano, incendiano perfino. Lo diceva meglio il prete una volta: «Salirò all’altare di dio – di dio che ravviva la mia giovinezza». Che l’allieta. Sì, le idee hanno un potere felicitante, e si constata spesso che solo il felice è buono. Buono a tutto: perfino a far politica meglio dell’infelice, che diventa timoroso e confuso.
Tante volte mi è accaduto di notarlo: che senza il respiro dell’alto la democrazia muore asfissiata nel conflitto degli interessi economici e nazionali, smette di motivare la giovinezza, e perde la sua essenza, che è di rinnovarsi ogni giorno dalle sue fonti etiche: non c’è speranza di futuro senza respiro delle idee, del giusto, del bello – o magari, semplicemente, senza il rispetto dell’umanità, oggi piuttosto sfigurata in noi, in tutti noi, che facciamo colazione e andiamo a letto senza batter ciglio alla visione della carne umana schizzata a mucchietti sanguinolenti fra le macerie delle scuole bombardate, a un paio d’ore d’aereo da qui. E soprattutto senza amore del vero: e veri non sono solo i fatti, veri sono i principi, se sono solidamente fondati e infinitamente verificabili o rivedibili. Un principio, oggi, è che la guerra è l’equivalente penale internazionale dell’omicidio. Luigi Ferrajoli e il diritto internazionale specificano: la guerra d’aggressione. Ma forse oggi dobbiamo lasciare cadere la restrizione, per come sono fatte ormai le guerre, e per la sopravvenuta incapacità delle elites dirigenti a definire i loro fini, e quindi i loro limiti.
D’altra parte se lasciamo cadere questa restrizione cade la dottrina della guerra giusta. E comunque, vergogna discenda su chi ci ha fatto credere che la logica amico-nemico fosse l’essenza della politica, la sua definizione. Perché questa “politica” non può che essere o inizio o continuazione di guerra. E vergogna ai filosofi che non ce lo ricordano, che la filosofia è nata, invece, dalle menti che nella guerra hanno sì visto il presupposto reale e tragico di tutta l’avventura umana, ma proprio per questo, e per decenza, e per amor di dio, hanno anche visto che la politica è il solo mezzo per spegnerla, la guerra. Il solo, disperato, mezzo per salvare un pezzettino di umanità in noi
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A margine della presentazione dell’inchiesta sul lavoro della Fondazione Di Vittorio, la sociologa parla del ruolo dei sindacati in un mondo del lavoro fragile
Lo stato di salute dei sindacati europei, l’accresciuta fragilità dei lavoratori, il sistema capitalistico da superare per ridurre le disuguaglianze e fermare la devastazione del Pianeta, la democratizzazione delle imprese e la demercificazione del lavoro e, infine, l’uso dello strumento referendario per superare le criticità. Sono i temi trattati nella nostra intervista da Dominique Méda, sociologa dell’Université Paris Dauphine, SNS Ciampi visiting scholar e autrice del saggio Il Manifesto del lavoro.
L’intervista ha avuto luogo a margine della presentazione del volume edito da Futura “Inchiesta sul lavoro. Condizioni e aspettative”, risultato della ricerca svolta dalla Fondazione Di Vittorio con un team di più di 30 ricercatori e ricercatrici afferenti a università, enti pubblici e privati ed enti di ricerca e uffici studio di ambito sindacale. Uno workshop organizzato dalla Scuola normale superiore, classe di Scienze politico-sociali, che si è tenuto presso Palazzo Strozzi a Firenze lo scorso 30 maggio.
Méda ha partecipato ai lavori introdotti da Daniele Di Nunzio, responsabile dell’area ricerca della Fondazione Di Vittorio e curatore del volume. È stato invece Guglielmo Meardi della Scuola normale superiore di Firenze a presiedere gli interventi di Marco Betti dell’Università di Teramo, Armanda Cetrulo della Scuola superiore Sant’Anna Pisa, Clelia Li Vigni della Scuola normale superiore di Firenze, Bernardo Marasco, segretario generale della Camera del lavoro di Firenze, Angelo Moro della Scuola superiore Sant’Anna di Pisa, Mario Pianta della Scuola normale superiore di Firenze e Francesco Sinopoli, presidente della Fondazione Di Vittorio.
Commenta (0 Commenti)EUROPEE. Nicola Fratoianni, segretario di Sinistra italiana, rivendica il «metodo Avs»: «Andiamo oltre noi stessi, non abbiamo pretese di autosufficienza»
Quando intercettiamo Nicola Fratoianni, segretario di Sinistra italiana e deputato di Avs, sta andando alla Camera a consegnare le 150 mila firme raccolte per chiedere che Netanyahu venga processato come criminale di guerra. La nostra discussione parte dalle ultime uscite di Giorgia Meloni. «Segnalano la propensione sfacciata all’uso improprio e contundente della propaganti per mezzo delle istituzioni – sostiene Fratoianni – Sulle liste d’attesa siamo di fronte a un gigantesco imbroglio sul diritto alla salute, uno schiaffo in faccia a medici, infermieri e operatori sanitari che da anni aspettano il rinnovo del contratto, con un sistema che ha il 97% dei macchinari diagnostici obsoleti».
Torna anche, seppure con una nuova veste, il tema della criminalizzazione dei migranti.
Siamo all’ennesima tappa di una strategia che non esiste: nel corso di questa legislatura si sono susseguiti annunci di svolte storiche, accordi con dittatori, ripetizioni di scelte fallimentari degli anni precedenti, per non parla di quello che fanno in Albania. Se Meloni vuole seriamente intervenire su questo tema venga in parlamento e cambi la legge Bossi-Fini, che ha fabbricato irregolarità. E denunci i trafficanti veri: la guardia costiera libica con la quale questo governo, e i precedenti, ha collaborato.
La produzione di annunci è proporzionale alla carenza di risorse economiche?
Hanno fatto un Def senza numeri per non fare scelte lacrime e sangue prima delle elezioni. Meloni gioca una partita tutta interna alla sua coalizione, punta a confermare e consolidare il suo primato ma è una prospettiva cieca, perché non ha sbocchi sul piano politico. E forse non ha sbocchi neanche rispetto alla governance europea: vedremo se i suoi elettori ci staranno.
Avete scelto di tenere il simbolo di Avs per dare un segnale di continuità del progetto. Al tempo stesso avete molti candidati in prima fila (penso a Salis, Smeriglio, Marino e Lucano) che non hanno la tessera di Avs. Come si tengono le due cose?
Abbiamo scelto di correre con il simbolo di Avs per una questione di credibilità. È la conferma di un impianto, di una proposta politica. Mi sento di dire che il 9 giugno verranno eletti diversi parlamentari europei di Avs. A conferma del fatto che siamo in crescita. Quanto ai candidati, è del tutto naturale: abbiamo sempre inteso la costruzione di Avs non solo come ristretta alle due forze politiche che l’hanno creata, vogliamo parlare al di là del recinto dei fondatori.
Avete messo insieme gente di diverso tipo. Immaginate un partito come una coalizione?
È una costruzione nuova che parte dalle sfide attuali, bisogna passare dalla relazione tra molte dimensioni non per risolvere i problemi da un giorno all’altro ma per immaginare nuove soluzioni. Siamo nati di fretta, poi ci siamo consolidati e non ci siamo frantumati. Abbiamo rilanciato: le candidature dimostrano questo capacita di attrazione. Abbiamo lavorato molto su questa nuova proposta, sulle parole, sul linguaggio, sugli strumenti e sulla lettura dei problemi. E abbiamo scelto di mettere in campo una proposta aperta nel senso pieno della parola: perché non si considera autosufficiente e vuole costruire accumulazione di forza, credibilità e radicamento. Il risultato di queste elezioni europee ci darà elementi di valutazione ma possiamo già dire che siamo in una fase nuova. E che possiamo chiudere la lunga stagione di irrilevanza, fragilità e frammentazione a sinistra.
In che gruppo andranno in Europa i vostri eletti?
Alcuni coi Verdi, altri con la sinistra. È quello che accade agli eletti di Sumar in Spagna e ad altre forze altrove. Lo abbiamo detto da tempo, non lo consideriamo un elemento di debolezza ma una grande occasione. I nostri eletti avranno comunque il vincolo del programma, sulle questioni decisive esprimeranno un voto coerente. Bisogna costruire anche in Europa elementi di convergenza. Già sinistra e Verdi votano insieme molto spesso. Ma bisogna andare avanti, mettere insieme punti di vista che sono entrambi largamente necessari.
Però una parte dei Verdi europei ha posizioni molto diverse dalle vostre su un tema decisivo come la guerra.
Chiunque conosca le famiglie europee sa che articolazioni del genere esistono. E ribadisco: i nostri rispetteranno il programma di Avs. Siamo l’unica forza che fin dalla scorsa legislatura nel parlamento italiano non ha mai votato per l’invio di armi. E usiamo parole chiarissime sulla Palestina, come dimostra la consegna delle firme di oggi.
Si vota anche in diversi comuni. Come ci arrivate?
Anche qui, abbiamo lavorato per costruire convergenze e coalizioni in grado di offrire alternative alla destra. Siamo quelli che con più chiarezza dicono quello che pensano sulla redistribuzione della ricchezza e sulla necessità di una patrimoniale, sul lavoro siamo nettamente al fianco della Cgil e dei referendum per cancellare la precarietà. Diciamo nettamente come la pensiamo su guerra e pace e sulla conversione ecologica. Ma nello stesso tempo siamo tra i più determinati nella costruzione dell’alternativa. Non dipendete tutto da noi, ma questa urgenza si pone e da lunedì prossimo si porrà con maggiore forza: il rifiuto di rassegnarsi all’idea che Meloni debba restare per sempre al governo.
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EUROPEE. Intervista a Massimiliano Smeriglio, candidato con Alleanza Verdi Sinistra
Massimiliano Smeriglio - Lapresse
Quando sentiamo Massimiliano Smeriglio, candidato alle europee con Alleanza Verdi Sinistra nella circoscrizione centro e nel nordovest, si trova in giro per il Lazio. Più precisamente a Spigno Saturnia, comune di poco più di duemila anime in provincia di Latina. «Circola disincanto – racconta – L’astensione sarà determinante. E non aiuta un dibattito tutto piegato sulla politica nazionale».
C’è disincanto anche a sinistra?
Dal nostro punto di vista sta andando bene. Dopo tanti anni noto interesse, vivacità, convergenza di storie, reti, movimenti e liste che si candidano con la declinazione «in comune».
Realisticamente, se Avs dovesse eleggere parlamentari europei, per la maggioranza sarebbero indipendenti e civici.
È un segnale positivo. Va riconosciuto a Si Verdi di aver mantenuto alle scorse elezioni politiche un punto di vista nazionale prezioso per parlare con altri. Poi, nel corso di quest’ultimo anno, c’è stato uno scatto dovuto a una ragione oggettiva: il governo di destra impone discussioni lunari su proibizionismo, razzismo, il gender. A sinistra ci si mobilita. La destra non potendo risolvere questioni materiali si inventa nemici immaginari: i migranti, gli ambientalisti o i raver. C’è anche la delegittimazione dell’antifascismo, che corrisponde al disegno politico di colpire l’architettura costituzionale. E poi la guerra. Bisogna contrastare il riarmo, per un’Europa capace di sganciarsi dall’influenza atlantica. Anche su Gaza: se Meloni dice «due popoli due Stati» faccia come Sanchez e riconosca la Palestina. Da questa posizione si potrebbero contrastare gli estremismi religiosi di Hamas e di Netanyahu.
Avete lavorato sulle esperienze municipaliste.
C’è voglia di rimettersi in cammino, non limitandosi a presidiare in maniera virtuosa la dimensione municipale e provando a costruire un punto di vista nazionale ed europeo. Qualche giorno fa abbiamo avuto al Leoncavallo, luogo di per sé simbolico, un incontro nazionale con diverse reti civiche.
Su questo ha scommesso quando ha lasciato il gruppo dei Socialisti e democratici?
Ho fatto un investimento sui nessi amministrativi, sui conflitti e le vertenze con uno sguardo sui temi internazionali. Questo voto serve a costruire un soggetto politico democratico, trasparente e aperto. Non è solo una corsa alle preferenze. Ci siamo presi la responsabilità della candidatura di Ilaria Salis. Lei è stata coraggiosa, ha scelto la comunità che le somiglia di più. Non possiamo sbagliare: dobbiamo arrivare al 4%. La battaglia per liberarla e portarla in Europa non è finita.
Giorgia Meloni punta tutto sullo spostamento a destra del baricentro della maggioranza a Bruxelles e Strasburgo.
È difficile per la modalità di funzionamento del parlamento europeo, che spinge a cercare il negoziato continuo. D’altro canto, questo spostamento c’è già stato con la scomparsa di David Sassoli e del Next generation Eu, con l’arrivo di Metsola e con l’ingresso dei conservatori di Ecr nel board della presidenza. Ancora, c’è la guerra: un business e un clima in cui la destra sguazza. Meloni ci prova: ha l’ambizione di sdoganare forze impresentabili per costruire un contrappunto al Ppe e trascinarlo a destra. Non hanno espresso lo spitzenkandidat per lasciarsi le mani libere.
Se Meloni fallisce la sua campagna europea che succede?
Non ci sono margini in economia. Nonostante la spinta del Pnrr il paese si trova sostanzialmente in recessione. Dal primo gennaio entra in vigore il patto di stabilità imposto dai paesi frugali. E loro hanno obbedito. Si torna alle regole del pre-pandemia, al laccio al collo della spesa pubblica e dei servizi pubblici locali in un momento in cui la sanità è al pre-collasso. La destra cerca di contenere questa spinta negativa agitando feticci.
E quindi?
Se i numeri dell’attuale coalizione di destra-centro e quelli delle opposizioni da lunedì prossimo saranno comparabili significa che esiste uno spazio politico che bisogna riempire per una piattaforma di alternativa.
In tempi non sospetti lei non si è sottratto alla possibilità di cambiare la Costituzione di fronte al mutamento di alcune condizioni materiali.
Ce lo hanno spiegato i padri costituenti: la Carta può evolvere. Ma non siamo di fronte a un passaggio del genere. Le riforme della destra non hanno nulla di organico, sono mance ai rispettivi elettorati. Tra un premierato che mette fuorigioco il presidente della Repubblica e l’autonomia differenziata che produrrà venti programmi scolastici, venti sistemi sanitari, venti approcci folcloristici alle situazioni locali, torniamo a una dimensione medievale
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