CLIMA. Svizzera, Portogallo e Francia: tre verdetti della Corte europea dei diritti dell’uomo sanciscono l’indifferibilità delle azioni statali per contrastare il riscaldamento globale
La decisione della Corte europea dei diritti dell’uomo di riconoscere all’associazione elvetica «Anziane per il clima» il diritto di presentare un reclamo in merito alle minacce derivanti dal cambiamento climatico nel caso Verein KlimaSeniorinnen Schweiz e altri contro Svizzera è estremamente rilevante. Anche perché va ricordato che la Convenzione europea dei diritti dell’uomo (Cedu) non ammette reclami in astratto contro norme di legge o prassi amministrative che non incidano, in modo diretto o indiretto, o anche potenziale, sui diritti del soggetto che presenta il ricorso (actio popularis).
Nel caso specifico, la Corte ha ritenuto che il cambiamento climatico sia una questione di interesse comune per l’umanità e che la necessità di promuovere la condivisione degli oneri intergenerazionali porti a considerare il ricorso a organismi collettivi quale unico mezzo accessibile per difendere efficacemente interessi particolari. La Corte di Strasburgo ha dunque stabilito che la Svizzera non ha adempiuto agli obblighi («positivi») sanciti nell’articolo 8 Cedu, norma che deve essere considerata come comprendente il diritto degli individui a un’effettiva protezione da parte delle autorità statali dai gravi effetti negativi del cambiamento climatico sulla loro vita.
Se dunque si rilevano azioni statali inadeguate per combattere il cambiamento climatico che aggravano i rischi di conseguenze dannose (e le conseguenti minacce per il godimento dei diritti umani) si pone in essere un illecito omissivo, ben più difficile da accertare: è un gran successo quindi che la Corte lo faccia individuando il rapporto di causalità fra l’inazione dello Stato relativa al cambiamento climatico e i danni, o il rischio di danni.
Stabilito un ruolo centrale per i tribunali: dovranno verificare che i governi stiano facendo abbastanza per tutelare anche in questo campo i diritti fondamentali dei cittadini
Sulla nozione di vittima si basa invece il rigetto nel caso Carême contro la Francia in cui l’ex sindaco di Grande Synthe accusava la Francia di non aver adottato misure sufficienti per scongiurare il rischio che la cittadina venga sommersa dalle acque del Mare del Nord. La Corte ha ritenuto che il ricorrente non ne avesse lo status, perché non è più residente in quel comune, né ha legami sufficientemente rilevanti con la città, non vivendo attualmente neppure in Francia.
Infine, nel caso dei ragazzi portoghesi, forse il più noto, anche per la numerosità degli Stati convenuti, fra i quali il nostro, la Corte non è entrata nel merito della posizione rivendicata dai ricorrenti in quanto ha ritenuto il ricorso irricevibile perché i sei giovani non avevano utilizzato le vie giudiziarie e amministrative disponibili in Portogallo per presentare le loro denunce e non avevano quindi esaurito i mezzi di ricorso interni. Va infatti ricordato che il meccanismo di salvaguardia instaurato dalla Convenzione assume un carattere sussidiario rispetto ai sistemi nazionali di tutela dei diritti dell’uomo.
Amazzonia, la giusta causa delle niñas
I tre verdetti vanno quindi in un’unica direzione: quella della rilevanza delle cause climatiche e della indifferibilità delle azioni statali volte a contrastarne gli esiziali esiti. In modo plateale nel caso contro la Svizzera, dato l’accoglimento del ricorso, ma anche in quello dell’ex sindaco di Grande Synthe, perché va ricordato che il Consiglio di Stato francese aveva accolto il ricorso del piccolo comune costiero, accordandogli un risarcimento oltre a ingiungere allo Stato di adottare ulteriori misure volte al contrasto del cambiamento climatico, nonché nel caso dei ragazzi portoghesi perché aver detto che il ricorso è – oggi – irricevibile per motivi procedurali, rappresenta solamente una sorta di rinvio a quando, adite le competenti autorità giudiziarie lusitane, queste si pronunceranno.
E sarà comunque una vittoria: perché o queste ultime si parametreranno a quanto stabilito dalla Corte di Strasburgo nella sentenza in cui si condanna per inazione la Svizzera, oppure negheranno la bontà di questo approccio ma, in tal caso, i giovani ricorrenti potranno nuovamente rivolgersi alla Corte europea dei diritti dell’uomo che, ça va sans dire, si esprimerà presumibilmente a sfavore del Portogallo.
L’impatto a cascata, quasi un effetto domino, di queste sentenze, che enfatizzano il ruolo cruciale dei tribunali (nazionali, regionali e internazionali) nell’esaminare se i governi stiano facendo abbastanza per ridurre le emissioni di gas serra e quindi per salvaguardare i diritti fondamentali dei loro cittadini, lo vedremo nelle capacità dei legislatori dei 46 Paesi membri del Consiglio d’Europa, per i quali le sentenze della Corte di Strasburgo costituiscono un precedente, di prenderne atto e di intervenire di conseguenza in modo efficace per far fronte ai propri impegni climatici. Rispettando la traiettoria di riduzione delle emissioni di gas climalteranti, necessaria per raggiungere gli obiettivi fissati per il 2030
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MORTI IN APPALTO. A Suviana come a Brandizzo è il sistema ad aver ucciso i lavoratori. La manutenzione è la prima ad essere esternalizzata a ditte dove lo sfruttamento e la poca formazione sono la regola
Una immagine dei soccorsi alla diga di Suviana - Foto Ansa
Morti atroci di operai, schiacciati, divelti, sommersi. Il copione «in appalto» è sempre lo stesso da decenni. Le aziende, anche quelle grandi come Enel, riducono i lavoratori non rimpiazzando quelli che vanno (faticosamente) in pensione. E tagliano fortemente sul costo del lavoro: la voce più grande di questo risparmio è quella sulla manutenzione. Per farla serve personale qualificato, sono lavorazioni complicate e saltuarie. Dunque vengono tutte esternalizzate a ditte in appalto o in sub appalto. Il guadagno – per i grandi – è duplice: riduzione dei costi e deresponsabilizzazione totale degli esiti.
La gran parte delle ditte in appalto che effettuano manutenzione sono quanto di più precario esiste nel già disastrato mondo del lavoro odierno. Lo abbiamo imparato a Brandizzo, lo scopriremo ora per Suviana.
Ancora non sappiamo quanti dei morti dell’incendio nel trasformatore a 40 metri sotto terra nella diga dell’appennino bolognese fossero in appalto. Di certo la colpa di quanto accaduto sarà fatta ricadere su di loro.
Se a Brandizzo abbiamo scoperto che si lavorava senza bloccare la circolazione dei treni facendo affidamento sull’urlo del responsabile della squadra che avvertiva quando la locomotiva stava arrivando sui binari in rifacimento, per Suviana probabilmente scopriremo che il personale della ditta in appalto non era formato, utilizzava attrezzature obsolete, aveva cambiato la squadra in corsa, aveva la pressione di dover concludere i lavori nei tempi stabiliti anche se era in ritardo.
Cambiano le categorie – in Piemonte erano edili o ferrovieri, in Emilia elettrici – non cambiano le condizioni, comuni oramai a tutti i settori.
Il sistema lo impone e solo cambiandolo totalmente si potrà migliorare il nefasto computo dei morti giornalieri sul lavoro. L’inarrestabile striscia di sangue è figlia della trentennale deregulation liberista: è facile trovare qualcuno che sia disposto a tutto pur di lavorare, lo si sfrutta senza rispettare alcun diritto con una paga da fame. Magari promettendogli soldi fuori busta in cambio di straordinari pesantissimi.
Se la colpa di una situazione ormai incancrenita è anche dei governi di centrosinistra, dalla riforma Treu al Jobsact renziano, il governo Meloni sta indubbiamente peggiorando la situazione. La modifica al codice degli appalti di Matteo Salvini ha fatto tornare il settore edile (privato) alla giungla più totale: il sub appalto è il teorema, lo sfruttamento il corollario. La ministra Calderone – che non dimentichiamo è una consulente del lavoro: categoria alla quale le aziende si affidano per trovare il modo di risparmiare sul costo del lavoro – dopo la strage di Firenze si è inventata una norma spot senza alcun effetto deterrente. La «patente a crediti» è un’espressione tanto scontata quanto falsa. Il filone delle «patenti» applicato al lavoro ha poco senso e ancor meno costrutto: nessuna azienda verrà bloccata, tutto andrà avanti come ora.
Non va infine dimenticato quanto sta succedendo a Enel, colosso globale dell’energia a maggioranza pubblica. Dopo la svolta green di Francesco Starace, il governo Meloni ha deciso di cambiare affidando al boiardo per tutte le stagioni Flavio Cattaneo un compito molto semplice: tagliare su tutto, «anche sulla sicurezza», denunciano i sindacati che unitariamente – dunque anche compresa la Cisl – hanno scioperato contro il suo piano non più di un mese fa. Rilette oggi le motivazioni della protesta risultano profetiche: «Vogliamo un’azienda che guidi la transizione energetica, che investa sulle persone e la loro professionalità, che faccia assunzioni e che crei valore per il paese. Di un’Enel che pensa solo alla finanza, dismettendo parti importanti delle proprie attività e delle proprie competenze peggiorando le condizioni di lavoro ad operai e impiegati, il paese non sa che farsene».
E domani Cgil e Uil chiamano allo sciopero generale – seppur di sole 4 ore, otto per il settore edili – tutti i lavoratori proprio sul tema della sicurezza sul lavoro. I morti di Suviana non potranno farlo, il sistema «in appalto» li ha uccisi prima che potessero farsi sentire. Bisogna scendere in piazza anche per loro
Commenta (0 Commenti)INTERVISTA. Sui territori non devono più esistere comitati elettorali di singoli. Il Pd deve essere permeabile solo alle esigenze della società sana, a partire dalle persone più deboli
Marta Bonafoni - foto LaPresse
«Per dare consigli interessati a Schlein su cosa dovrebbe fare il Pd c’erano già Renzi e Calenda, non si sentiva il bisogno che Conte si unisse al coro. Il leader 5S vuole iscriversi al Pd? Se vuole può farlo, partecipare alle nostre assemblee e dire come la pensa. Io credo che sia meglio che lavori per il suo partito e miri all’obiettivo giusto: costruire un’alternativa alle destre astenendosi da sgarbate intrusione nella vita del nostro partito».
Marta Bonafoni, coordinatrice della segreteria Pd. Dalle primarie annullate a Bari, la scorsa settimana, è partita un’onda che rischia di travolgere l’alleanza tra voi e il M5S.
Torniamo all’origine di questa storia. A Bari una parte della coalizione non voleva le primarie, poi ci eravamo accordati con regole chiare. Conte ha deciso di strappare, per noi invece dopo le inchieste era chiaro che la risposta migliore era un bagno di partecipazione, e questo volevano gli elettori di centrosinistra. Nessuno ha mai messo in discussione che i due candidati, Leccese e Laforgia, siano due persone integerrime. L’obiettivo comune doveva essere confermare il buon governo del centrosinistra a Bari e creare le condizioni, nel resto d’Italia, per battere le destre.
Ci sono indagini per voti di scambio, dalla Puglia al Piemonte, che riguardano esponenti dem. Conte ha toccato un vostro nervo scoperto sul tema della legalità?
Sulla vicenda dello stadio della Roma c’è stata nei giorni scorsi una pesante condanna ai danni di Marcello De Vito, che era presidente dell’assemblea capitolina negli anni della giunta 5S. Nessuno di noi si è sognato di dire che quelle condotte fossero nate dentro un sistema illegale del M5S. Pretendiamo lo stesso rispetto. Schlein è la prima che vuole un rinnovamento e una rigenerazione del Pd e ha intenzione di bonificare le situazioni opache che abbiamo trovato, estirpando i tentativi di arrembaggio da parte di trasformisti o di persone dedite al malaffare. Da noi non c’è spazio per voti che arrivano in modo sporco: questa è la linea di tutto il Pd. Chi prova a sporcare il nostro partito fa torto a migliaia di amministratori e militanti che ci chiedono di andare fino in fondo. La magistratura stabilirà se ci sono stati casi di compravendita di voti. Il nostro compito è far sì che questi sospetti appartengano al passato e non al futuro.
Avete varato un regolamento per le prossime candidature. Non c’era già un codice etico del Pd?
Se c’è bisogno di affinarlo lo faremo. Il punto è che non devono esserci più tra noi persone che vedono la politica come un modo per migliorare le proprie condizioni di vita: vogliamo solo persone che si mettano al servizio di un progetto che punta a migliorare le condizioni di chi è più in difficoltà.
Cè’ stata nel Pd una insufficiente selezione della classe dirigente nei territori?
Non entro nel merito delle inchieste, la giustizia farà il suo corso. Il punto vero è che sui territori non devono più esistere comitati elettorali di singoli che possono essere porosi verso sistemi illegali di ricerca del consenso. Il Pd deve essere permeabile solo alle esigenze della società sana, a partire dalle persone più deboli, e di quelle che non credono più alla politica. Per noi il problema numero uno non sono le inchieste, ma l’astensionismo di tante persone che non si sentono più rappresentate: una sorta di ribellione verso un sistema politico che viene percepito come distante e incapace. Per rimediare serve un codice etico più rigido, ma anche la politica: ad esempio la possibilità di coinvolgere i nostri elettori non solo alle primarie, ma anche votando sui maggiori temi politici.
Conte dice che Schlein rischia di essere risucchiata dal vecchio Pd. Punta il dito contro di voi.
La risposta migliore gliel’ha data Bersani, chiedendogli se vuole rifare il partito del «vaffa». Tutti noi siamo chiamati a impegnarci per migliorare i nostri partiti, per essere più efficaci sui temi che contano come lavoro, salute e conversione ecologica, e costruire l’alternativa a Meloni. Non per randellarci a vicenda. Noi non siamo disponibili a buttare all’aria la prospettiva di un’alternativa per sottrarre un punto alle altre forze progressiste.
Il leader 5S sembra avere impostato una strategia per le europee: colpire il Pd per diventare egemone nel centrosinistra.
Per costruire egemonia bisogna essere in grado di parlare al popolo del centrosinistra, che non tollera divisioni e egoismi e ha ben chiaro chi è l’avversario.
Il treno dello scontro tra voi e i 5s sembra ormai inarrestabile. I riformisti chiedono che il Pd sia più duro con i 5S.
Vogliamo evitare che si arrivi al punto di non ritorno. Schlein ha dato subito una risposta forte e chiara dopo lo stop voluto da Conte alle primarie a Bari. Noi portiamo rispetto alle comunità delle altre forze del centrosinistra, e vogliamo che gli altri facciano altrettanto: è la linea di tutto il Pd.
Schlein ha fatto capire che sulle liste per le europee vuole avere mano libera per imporre il rinnovamento.
Lo schema resto lo stesso: apertura alla società civile e valorizzazione delle personalità interne, a partire dai deputati uscenti. Nel 2014 Renzi decise in solitaria le capilista in una notte, noi non faremo così. Entro la prossima settimana la partita delle liste sarà chiusa.
A Bari è ancora possibile una candidatura unitaria?
Leccese ha ribadito la sua disponibilità a un passo indietro di entrambi i candidati. Spero che Laforgia accolga il suo appello.
Il voto potrebbe slittare sine die se il governo scioglierà il comune per mafia.
Uno scenario gravissimo che non vogliamo neppure immaginare
LA SCIENZA E GAZA. Intervista al fisico: «La tattica di accusare di antisemitismo chi critica il governo di Israele sta alimentando il razzismo, perché trasforma una questione politica in una questione razziale»
Lo striscione al rettorato della Federico II di Napoli - Ansa/ Ciro Fusco
Il fisico Carlo Rovelli ha preso posizione a favore degli studenti e dei ricercatori che hanno chiesto alle università e al Cnr di sospendere le collaborazioni con Israele nelle ricerche a uso duale, con ricadute sia in campo civile che militare.
Il dibattito sul valore sociale della ricerca scientifica è antico quanto la ricerca stessa. Scienza e potere si sono spesso aiutati a vicenda, almeno da quando Archimede costruiva armi per difendere Siracusa dai Romani e da allora il dibattito non si è esaurito, come mostrano le polemiche intorno alle scelte dell’università di Torino e Pisa nei confronti delle collaborazioni con il governo israeliano. Rovelli è attualmente nel New Mexico, e da lì risponde al manifesto.
Professore, è possibile una scienza separata dal potere, che non imponga quesiti etici agli scienziati?
Spero proprio di no. Penso che qualunque attività porti a domande etiche e politiche. La scienza non è diversa dal resto.
Però la ministra Bernini ha descritto la ricerca scientifica come un dialogo tra diversi, persino tra democrazie e dittature, che non contempla sanzioni internazionali. Lei lo conosce bene: è davvero un mondo così separato dall’attualità da non poter prendere posizione?
La ministra è favorevole a condividere la ricerca militare Italiana con l’Iran? Il mondo scientifico che frequento non riconosce confini: fra i miei collaboratori e amici ci sono cinesi, russi, iraniani e israeliani. Ma questo non impedisce scelte politiche e etiche. Fra chi è favorevole a un boicottaggio ci sono anche israeliani. Essere aperti al mondo non implica si debba collaborare a ogni massacro.
Oltre i nostri confini, c’è una discussione tra accademici sull’opportunità di collaborare con il governo israeliano nella condizione odierna, o è una peculiarità italiana?
C’è la stessa discussione in molti paesi. Penso che ogni amico di Israele, e chi, come me, ama profondamente il mondo ebraico, debba fare il possibile per fermare il massacro in corso che, ahimé, sta facendo rivoltare di indignazione e rabbia contro Israele il mondo intero.
Anche all’estero questo comporta accuse di antisemitismo?
Mi permetta di dire una cosa che credo importante, e vorrei fosse più riconosciuta. La clava dell’accusa di antisemitismo viene brandita a ogni piè sospinto dal governo israeliano contro chiunque lo critichi. Questo è profondamente controproducente per il mondo ebraico, perché trasforma una questione politica e etica in una questione di presunta razza e religione. Leggere il mondo e i suoi inevitabili conflitti, le sue inevitabili gravi divergenze di idee, come conflitti fra razze e religioni: questo è esattamente il razzismo. È esattamente di questo che si alimenta l’antisemitismo. Catalogare le persone per razza, invece che per quello che fanno. La tattica di accusare di antisemitismo chi critica il governo di Israele sta alimentando il razzismo, perché trasforma una questione politica in una questione razziale. Fra i miliardi di persone che oggi chiedono al governo israeliano di fermarsi, c’è una parte molto importante del mondo ebraico.
Fanno discutere le collaborazioni tra scienziati e militari per le ricadute geopolitiche internazionali. Ma quella tra università e enti di ricerca con l’industria militare italiana viene raramente messa in discussione. È una contraddizione?
Esiste una vivace protesta di molti studenti contro la collaborazione, purtroppo crescente, tra università, enti di ricerca e l’industria militare italiana. Ma sono due questioni diverse. Il peso dell’industria militare nello spingere l’attuale forsennata corsa agli armamenti nel mondo intero è un problema serio: per aumentare i suoi profitti, l’industria militare ci sta spingendo verso il baratro di un conflitto globale. Ma il massacro in corso a Gaza è una questione di urgenza immediata, che chiede impegno rapido.
Un’inchiesta giornalistica israeliana e ripubblicata dal manifesto ha svelato l’uso dell’intelligenza artificiale da parte dell’esercito israeliano nel conflitto. La colpisce?
No, sarebbe strano non la utilizzasse. L’intelligenza artificiale è usata anche nelle lavatrici.
20 secondi per uccidere: lo decide la macchina
Ma nel dibattito sul significato di ricerca «dual use» questa rivelazione apre un nuovo problema etico?
La questione urgente, secondo me, non è cavillare su sottili disquisizioni etiche. Sono stati massacrati israeliani e 30mila palestinesi, e il massacro di palestinesi sta continuando. Ogni piccola pressione politica è utile. Alle Nazioni Unite il Belgio, che non è proprio estremista, ha votato una mozione che accusa il governo israeliano di possibili crimini contro l’umanità. Disquisire su dettagli sul “dual use” significa allontanare la discussione dall’urgenza grave.
Il manifesto ha lanciato una grande manifestazione per il 25 aprile a Milano, affinché non sia solo una commemorazione ma anche una mobilitazione contro la destra sovranista ed estremista che sta conquistando spazio in Europa. C’è un legame tra la lotta contro le destre e la mobilitazione per la pace?
Vorrei che ci fosse. Purtroppo non c’è. La maggioranza della sinistra dei paesi occidentali, compreso il nostro, è più bellicosa della destra. Penso che questa bellicosità sia più pericolosa per il pianeta che non questioni di appartenenze politiche.
Si potrebbe tornare a Milano il 25 aprile
Però negli Usa la base del partito democratico chiede a Biden, in cambio del voto, un diverso indirizzo sul Medio Oriente e la destra italiana (o europea) fa dell’allineamento internazionale occidentale un pilastro della sua legittimazione. Davvero non conterà l’esito delle elezioni europee o di quelle statunitensi?
C’è la stessa viva discussione fra chi fomenta la guerra e chi chiede pace tanto all’interno della destra che all’interno della sinistra. Non raccontiamoci la frottola che oggi la destra sia bellicosa e la sinistra pacifista. Non è vero. Piuttosto impegniamoci perché diventi vero. Spingere la sinistra a farsi portatrice del valore della pace: che non significa prima sterminare i nemici e vincere tutte le guerre
FRAMMENTI. Si chiama "Lo sviluppo e il divenire. Nota sull’autopropulsione sociale", il libro fuori commercio di 75 pagine di Giuseppe De Rita, fondatore e animatore del Censis. Sociologia economia filosofia insieme, in una combinazione a tratti provocatoria, per parlare di noi, dell’Italia e del mondo, in un’epoca di continue e immani trasformazioni
Mario Sironi - Paesaggio urbano con camion - 1920-23
È un piccolo libro fuori commercio di 75 pagine quello che Giuseppe De Rita, fondatore e animatore del Censis – cui forse si può richiederlo: è il centro di studi che ha illustrato, cantato o criticato per più di cinquant’anni le trasformazioni della nostra società, le più appariscenti come le più profonde – ha dato alle stampe, fuori commercio. Si chiama Lo sviluppo e il divenire. Nota sull’autopropulsione sociale. Sociologia economia filosofia insieme, in una combinazione a tratti provocatoria, per parlare di noi, dell’Italia e del mondo, in un’epoca di continue e immani trasformazioni.
«Pensare è faticoso», dice l’autore nella premessa, perché «è andare oltre le evidenze dell’attualità, combinare la memoria del passato con l’incertezza del futuro, sondare il non immediatamente apparente», ma De Rita è tra i pochi che ci sembrano autorizzati a farlo, per la costanza della sua ricerca, anno dopo anno, nel grande e nel piccolo delle trasformazioni, e per la solidità delle sue affermazione, per la rara virtù della sua «immaginazione sociologica», basata su dati e su fatti, su una reale conoscenza delle cose e del loro movimento. Oso dire che questo testo è tra i pochi eredi dei grandi sociologi e filosofi che in tempi diversi hanno saputo «leggere la società» e mettere in guardia sulle sue trasformazioni. È in grado di tener testa a quasi tutta la produzione intellettuale corrente, con poche eccezioni al suo livello, che so? i Cacciari, gli Agamben… ma avendo su di loro il privilegio di una conoscenza dei meccanismi di sviluppo e cambiamento della nostra società che nessuno sembra avere chiari come lui, grazie al lavoro del Censis.
Nei confronti del Censis ho avuto in passato (e lo scrissi) delle perplessità, quando i suoi rapporti esaltavano lo sviluppo economico e, possiamo dire, autogestito di certe parti d’Italia, il Veneto, le Marche, l’Emilia… – non vedendone il controcanto, gli effetti negativi di uno sviluppo «egoistico» sul piano culturale, sul piano dei comportamenti sociali. Ci volle un grande pensatore e sociologo anarchico, l’inglese Colin Ward, in un suo viaggio in Italia, a tirarmi le orecchie: le fabbrichette e le piccole imprese che fiorivano in quelle regioni erano un segno di creatività e autonomia e vitalità popolari – e non era un caso se la grande industria le osteggiava con i suoi giornali, e non era un caso che in parte lo facessero anche i sindacati e il Pci, che non erano più in grado di controllarle. (Ricordo che ad avermi messo qualche dubbio fu anche sapere che Rossanda era sua amica, o così si diceva).
Col tempo ho apprezzato sempre di più il lavoro del Censis, che ci offre ogni anno un quadro veritiero del nostro paese non solo sul piano dell’economia, della produzione, ma mettendo in luce le componenti migliori dello sviluppo, i nuovi rapporti sociali che potevano conseguirne… Il fondo religioso del pensiero di De Rita – cattolico praticante – non mi sembra possa più sconcertare nessuno, oggi che il fallimento di uno «sviluppo senza progresso» è diventato evidente, di uno sviluppo senza basi etiche e concretamente comunitarie: il tipo di sviluppo che criticò assieme a De Rita anche Pasolini e con loro criticarono molti altri, ovviamente non solo in Italia.
«Pensare certo è faticoso», ci ricorda De Rita, «perché occorre andare oltre le evidenze dell’attualità, combinare la memoria del passato con l’incertezza del futuro, sondare il non immediatamente apparente». Ma De Rita sa farlo ed è oggi uno dei pochi che prova a dipanare seriamente la matassa delle novità economiche, sociologiche, tecnologiche, culturali ricordandoci che «se vivere nel divenire sociale è il nostro compito e destino, dobbiamo farlo camminando con vigore e passo lungo», e cioè con qualcosa che la cultura dominante trascura più che mai, annaspando al seguito delle mode, delle trasformazioni volute e proposte dal capitale per meglio usarci e controllarci. Si può discuterne, ma si tratta di un confronto fondamentale
Commenta (0 Commenti)FLOTTA CIVILE. La sera del prossimo 25 aprile termineranno i venti giorni di fermo amministrativo inflitti, insieme a una multa fino a 10mila euro, alla nostra nave Mare Jonio da parte del […]
La sera del prossimo 25 aprile termineranno i venti giorni di fermo amministrativo inflitti, insieme a una multa fino a 10mila euro, alla nostra nave Mare Jonio da parte del governo Meloni in applicazione del famigerato decreto legge Piantedosi, come rappresaglia per la missione di soccorso compiuta lo scorso 4 Aprile nel Mediterraneo centrale. Sulla base delle norme inventate quindici mesi fa per colpire, ostacolare, impedire l’attività in mare delle navi di soccorso della flotta civile, il governo vuole infatti far pagare a Mediterranea il fatto di aver strappato dalle mani della cosiddetta guardia costiera libica, con un coraggioso intervento del nostro equipaggio, 56 persone il cui destino doveva essere la cattura e la deportazione, di nuovo, verso i campi di prigionia in Libia, l’orrore da cui stavano fuggendo.
Ma vogliono anche farci pagare la scelta di essere in mare, insieme alle altre Ong, a documentare, testimoniare, denunciare le quotidiane e sistematiche violazioni dei diritti umani di cui le milizie libiche (e ormai anche i militari tunisini) si rendono responsabili in nome e per conto dei loro padrini e finanziatori italiani ed europei.
Perché sono proprio le politiche di gestione delle frontiere esterne, da parte dei governi italiani e delle istituzioni europee, ad aver trasformato in questi anni le rotte del Mediterraneo centrale in una zona di guerra, di una guerra a più «bassa intensità», ma comunque guerra contro gli esseri umani, frammento di una globale e asimmetrica guerra civile. Civile in quanto le popolazioni civili ne sono il primo bersaglio e le principali vittime.
Una guerra, civile e globale, che negli ultimi tempi ha assunto una nuova e terribile, pervasiva dimensione, in cui ogni linea rossa di rispetto del diritto internazionale ad bellum e in bello è stata valicata, in cui ogni soglia del terrore e dell’orrore è stata oltrepassata, in cui sembra non esservi fine al perverso gioco del domino dell’estensione e dell’escalation. In Siria come in Afghanistan, in Sudan come in Chad, in Ucraina come a Gaza. Nel Mediterraneo centrale (e prima ancora nel deserto del Sahara e nelle città libiche e tunisine) la sua «bassa intensità» significa comunque migliaia di morti ogni anno e decine di migliaia di donne, uomini e bambini, respinti ai confini europei, e vittime di violenze e abusi, torture e stupri.
Ed è là, in questo mare che si esercita, dal 2018, la nostra piccola e parziale, ma tenace resistenza, nella pratica del soccorso in mare come sostegno alla disperata e coraggiosa, quotidiana lotta delle persone migranti per affermare nei fatti il fondamentale diritto alla libertà di movimento e alla speranza, alla ricerca di un futuro diverso e migliore della condizione nella propria terra d’origine, là dove è stato negato loro il diritto a restare.
Resistenza che significa diserzione. In questo caso diserzione alla guerra contro l’umanità condotta dalla politica migratoria dei nostri governi. Ed è per questa scelta di diserzione che, sui diversi teatri della guerra civile globale, la guerra all’umanità diventa sempre più spesso, anche, guerra all’ «umanitario», là dove chi opera per e con le popolazioni civili diventa esso stesso un target, un obiettivo da colpire con i missili dei droni. O con le raffiche di mitra dei miliziani libici in mare, in un crescendo di violente aggressioni che, negli ultimi sei mesi, hanno messo nel mirino, sempre più spesso, diverse navi della flotta civile.
Ma la diserzione dalla guerra civile globale, sia essa a «bassa» o «alta intensità», è forse oggi l’unica concreta possibilità per provare a disegnare un orizzonte di liberazione: in questo caso liberazione di donne, uomini e bambini dall’assurda violenza esercitata, prima, durante e dopo, dai confini, in mare come in terra.
Ed è per questo che il 25 aprile saremo in piazza a Milano accogliendo l’appello del manifesto, fisicamente e con un collegamento dalla nave Mare Jonio, in attesa di essere liberata e pronta a tornare là dove deve stare.
*Presidente di Mediterranea Saving Humans
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