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PARTITO DEMOCRATICO. Il Pd è rinnovabile? Il M5S è compatibile? Un cacicco è per sempre? Precipitata nel labirinto degli specchi pugliese dove nulla è come appare, Elly Schelin deve uscirne trovando il […]

Elly Schlein. E l'arte di svicolare - HuffPost Italia

 

Il Pd è rinnovabile? Il M5S è compatibile? Un cacicco è per sempre? Precipitata nel labirinto degli specchi pugliese dove nulla è come appare, Elly Schelin deve uscirne trovando il modo di riportare a casa non solo la sua leadership fino alle prossime, lontanissime elezioni politiche.

Ma anche affrontando i nodi che con la sua ascesa alla guida del Pd si era prefissa – e con una buona dose di caparbietà, di fronte al tiro incrociato immediatamente scattato nel partito – di sciogliere o tagliare di netto. Le ultime settimane Schlein le ha passate sulle montagne russe: la vittoria in Sardegna aveva aperto prospettive inedite al campo “largo”, “progressista”, “giusto” o che quel che sarà (e già questa indefinitezza imposta da un Giuseppe Conte apparentemente pronto a cementare l’alleanza era più che sospetta).

La sconfitta in Abruzzo aveva frenato gli entusiasmi e rianimato i nemici interni della segretaria e dell’asse giallo-rosso, ma non troppo. L’Helzapoppin’ della Basilicata aveva gettato nello sconforto, ma in fondo poco male, il candidato unitario in extremis è stato trovato e l’incredibile vicenda è stata sepolta tra i brutti ricordi al punto che i leader sembrano anche essersi dimenticati che in quella regione si voterà tra due settimane. E poi, ecco Bari, la città del sindaco più amato, la Puglia della “primavera” (e, coincidenza, la Puglia di Giuseppe Conte), dove dopo vent’anni di governo del centrosinistra tutto precipita e l’idea del rinnovamento del Pd torna a essere una chimera e l’alleanza con i 5 Stelle un simulacro.

La Puglia come metafora di un partito irrisolto e senza linea non perché ha troppe linee che confliggono tra loro, ma perché nato per essere un partito di governo è subito diventato partito di potere. E di potentati: in Puglia ma anche in Campania, in Toscana, nel Lazio… Sono sempre lì i cacicchi e i capibastone che la segretaria diceva di non voler più vedere, i collettori di voti pronti a indirizzare i loro pacchetti in base alle convenienze o a usarli come armi di deterrenza, il trasformismo che cresce di pari passo con l’accresciuto potere dei moltiplicatori di pani e di pesci. La segretaria per questo motivo si è opposta con nettezza alla cancellazione del tetto dei due mandati e sta cercando di costruire – con fortissime resistenze – liste per le europee che con alcune candidature civiche e la sua stessa presenza dovrebbero rianimare lo spirito dei gazebo che la hanno portata alla guida del Pd.

Ma il rinnovamento non si fa con una manciata di nomi, per quanto di prestigio. Si fa nei famosi territori, che vanno battuti e disossati palmo a palmo. E costruendo anche alleanze virtuose prima di tutto dentro al partito, aprendo porte e finestre. Con gli “inner circle” non si va lontano.

Quanto alla possibilità, passata la buriana e scavallate le europee, di costruire una alleanza con il movimento 5 Stelle, al momento sembra quasi lunare. Il leader dei 5S ha sferrato un colpo basso proprio alla segretaria del Pd, con l’azzeramento delle primarie come dato di fatto (poco importa quando e con una conversazione quanto lunga Conte lo abbia «comunicato» a Schlein). E l’argomento di averlo fatto in nome della legalità è chiaramente capzioso, visto che sul motivo per cui i 5Stelle non abbiano contestualmente deciso di uscire dalla giunta e dalla maggioranza della regione Puglia, Conte si rifiuta di rispondere.

Il leader just in time ha deciso di riconvertirsi in fretta per capitalizzare i guai del Pd alle europee, sognando il sorpasso. Comunque andrà quel voto, dopo sarà comunque più difficile ricucire lo strappo, ammesso che l’ex premier lo voglia. E la Sardegna potrebbe restare a lungo un caso isolato, un’isola felice dove è stato costruito un sodalizio politico senza sgambetti, avendo chiaro in testa qual era l’obiettivo comune: battere la pessima destra al governo della regione. A farlo sono state soprattutto due donne, Elly Schlein e Alessandra Todde. Sarà un caso?

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PALESTINA. Intervista a Stefano Bertone, parte del team legale che ha fatto causa al governo italiano per conto dell'avvocato palestinese Salah Abdel Ati: «L’eventuale sentenza sarà vincolante. L’Aja ha segnato un precedente per le corti di tutto il mondo. In Olanda è già successo»
Una famiglia sfollata sventola una bandiera bianca mentre lascia Gaza City foto Afp sventola una bandiera bianca mentre lascia Gaza City - Afp

Stop alla vendita di armi a Israele, ripristino dei fondi all’agenzia Onu per i rifugiati palestinesi, impegno a votare in ogni sede (che sia l’Onu o l’Ue) a favore del cessate il fuoco a Gaza: sono le richieste contenute nella denuncia presentata dall’avvocato palestinese Salah Abdel Ati contro l’Italia, per complicità nei crimini commessi da Israele a Gaza.

Sfollato più volte dal nord al sud dell’enclave palestinese e infine costretto a rifugiarsi in Egitto, ha perso sei membri della sua famiglia in un raid israeliano sulla casa della sorella a Nuseirat. E ha perso la sua casa, a Beit Lahiya, distrutta in un altro bombardamento.

Ne abbiamo parlato con Stefano Bertone, membro del team legale che rappresenta Abdel Ati nella causa mossa alla presidenza del Consiglio e ai ministeri di difesa ed esteri.

Avete presentato ricorso d’urgenza al Tribunale di Roma.

Il ricorso d’urgenza si utilizza nei casi in cui è necessario un intervento immediato. Non c’è causa nel merito ma un’anticipazione della causa. Le uccisioni di membri della famiglia di Abdel Ati sono purtroppo già compiute, non rappresentano un’urgenza. Ma Salah ha altri familiari a Gaza che sono a rischio: il giudice può evitare che le conseguenze dell’illecito raggiungano livelli ancora peggiori. Inoltre Salah è stato costretto a lasciare le sue terre e intende tornarci, deve poterlo fare in sicurezza. Immaginiamo di trovarci al suo posto, senza più casa, famiglia, lavoro. Ai palestinesi è stato tolto tutto e non deve più succedere.

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Il Tribunale è tenuto a rispondere subito?

È tenuto a rispondere in pochi giorni e può non sentire le parti citate in giudizio. Il presidente del tribunale ha assegnato il fascicolo alla sezione Immigrazione e Diritti della personalità che venerdì scorso lo ha rimandato indietro dicendosi non competente in materia e suggerendo la sezione Risarcimenti danni, competente in questo caso per le misure cautelari.

Che effetti potrebbe avere l’eventuale accoglimento?

Influirebbe nell’immediato, almeno in modo parziale, perché esiste una responsabilità solidale nella commissione del crimine: c’è chi lo compie sul campo, in questo caso Israele, e chi fornisce sostegno logistico, militare e politico, come l’Italia. Il Tribunale ha in mano un pezzo del futuro di Salah.

Non è una questione simbolica, dunque, ma concreta.

Guardate cosa è successo in Olanda: un tribunale ha bloccato la vendita di pezzi di ricambio degli F35 destinati a Israele. Ora non ne arrivano più e il governo è stato costretto a fare ricorso. Se accadesse lo stesso in Italia, se il tribunale ordinasse di interrompere la vendita di armi e di ripristinare i fondi all’Unrwa, il governo dovrà attenersi a tale ordine. La decisione è vincolante. Il governo potrebbe ricorrere in appello ma nel frattempo la sentenza sarebbe esecutiva. Una simile decisione avrebbe un valore ancora maggiore se si pensa che l’Italia è il terzo fornitore di armi a Israele. Sebbene si tratti di quantità inferiori a quelle in arrivo dagli Stati uniti, una sentenza potrebbe attivare tribunali in altri paesi. Avrebbe degli effetti anche il ripristino dei fondi all’Unrwa: l’Italia è uno dei pochi paesi a non averli ancora reintegrati e non farlo ha delle conseguenze, è come staccare la spina a una macchina salva-vita. E chi la stacca ne paga le conseguenze legali.

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Quanto incide sulle sentenze di tribunali nazionali la decisione della Corte internazionale di Giustizia del 26 gennaio scorso che ha parlato di genocidio plausibile a Gaza?

La prima decisione della Cig del 26 gennaio e la seconda del 28 marzo hanno segnato un punto di svolta: i ricorrenti non devono più dimostrare che esiste un genocidio plausibile a Gaza. Lo ha fatto il Sudafrica e la Corte ha accettato il caso, un precedente vincolante anche per il giudice italiano perché emesso dal più alto tribunale del mondo. Le due ordinanze, aprendo ad azioni di tribunali in tutto il mondo, hanno già avuto effetti in Olanda, in Australia, ora forse in Italia. Accade perché le corti nazionali sono attori del diritto internazionale: il Tribunale di Roma è responsabile di rappresentare l’Italia e di garantire che si conformi alle Convenzioni di Ginevra e alla Convenzione sul genocidio, di darne corretta interpretazione e applicazione. Oltre alla difesa del popolo palestinese, il Sudafrica ha agito anche per pretendere che ci sia una rigida applicazione del diritto internazionale. È lo stesso motivo per cui stiamo agendo anche noi

 
 
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BARI. Intervista a Nicola Fratoianni, segretario di Sinistra italiana

Nicola Fratoianni Nicola Fratoianni - Ansa

Attuale leader di Sinistra italiana, Nicola Fratoianni è stato segretario di Rifondazione in Puglia ormai vent’anni fa e dal 2010 assessore nelle giunte di Nichi Vendola. Dunque, conosce il territorio in cui arresti e indagini stanno colpendo la politica regionale. «Le inchieste si osservano e si rispettano – ci dice – Queste inchieste sono diverse tra loro, ma segnalano un problema: la vivacità di un mondo criminale che punta ai infiltrare la politica. Non è una novità, e la politica ha il dovere di combattere questi tentativi, di essere argine e parte attiva nella lotta alla criminalità, come ha come ha fatto in questi anni l’amministrazione De Caro».

Sembrava che le mafie avessero fatto un passo indietro da questo punto di vista…
Il fatto che ci sia stato anche attivismo della politica contro le infiltrazioni mafiose non autorizza ad abbassare la guardia. Anzi, deve spingere a un presidio più attento e a una pratica politica che ricacci indietro ciò che rende permeabili alla criminalità: il trasformismo e il cambio di casacca. Di questo occorre discutere. Ora se ne parla in Puglia, ma è un problema generale di cui occuparsi sempre.

Cosa ne pensa del modo in cui Giuseppe Conte giovedì scorso ha annunciato il ritiro dalle primarie?
Quando si assumono decisioni ognuno è libero di farlo, ma nell’ambito di una coalizione. In un contesto come questo bisognerebbe discuterne con gli alleati e le altre forze protagoniste della vicenda. Magari schierarsi per la sospensione delle primarie era anche una scelta opportuna, che in quanto tale toccava a Laforgia. Ma in questi passaggi un elemento comune di decisione sarebbe stato necessario.

Come se ne esce?
Nell’unico modo possibile, che peraltro sta nella storia di questi anni di riscatto della città. Se ne esce testardamente ricercando una soluzione unitaria. E mi rivolgo in particolare ai candidati, Vito Leccese e Michele Laforgia, perché si incontrino e trovino loro una soluzione. Loro sono sostenuti dalle forze politiche ma nessuno di loro è proprietà della forze politiche che li hanno sostenuti. Sono loro che si candidano, con le loro facce e le loro storie per svolgere questo lavoro complesso. Dunque è da loro che deve venire una risposta. Nulla c’è di peggio di una rottura che favorisca la destra. Io sono pronto in qualunque momento a sottoscrivere una proposta di soluzione. I due candidati devono farlo, per loro stessi e per i cittadini di Bari.

Alleanza Verdi Sinistra potrebbe svolgere un ruolo di cerniera, visto che Europa Verde sta con Leccese e Sinistra italiana con Laforgia.
Non sarebbe la prima volta che esercitiamo questo ruolo, io e Angelo Bonelli. Da mesi nella sua autonomia Avs si è distinta per il fatto di richiamare alla necessità non di un vago generico senso di responsabilità ma nell’invitare a farci tutte e tutti parti responsabili nella costruzione dell’alternativa alle destre. L’impressione più generale è che questo campo largo si incrini a ogni refolo di vento. C’è debolezza e immaturità. C’è assenza di codici di comportamento e di regole comuni. Ma dall’altra parte possiamo costruire elementi di riscatto come è avvenuto in Sardegna o di convergenza come avvenuto sul salario minimo e come spero accadrà sarà sulla riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario. Ci sono tutte le possibilità di indicare una svolta. Si tratta di definire fino in fondo la necessità di farlo. È inevitabile sennò che ci si incarti.

Con la candidatura a capolista di Ignazio Marino alle europee provate ad allargare il perimetro?
È una candidatura di grande profilo. Prima ne avevamo annunciate due altrettanto importanti, quelle di Mimmo Lucano e Massimiliano Smeriglio. Marino sta nel profilo della nostra proposta politica: radicalmente pacifista, ambientalista, attento ai temi sociali e ai diritti civili. La sua candidatura che risponde alla vocazione di Avs: non siamo la riproposizione di qualcosa che c’è stato o una sommatoria di forze. Rappresentiamo un punto di vista autorevole, radicale nei contenuti e ambizioso sul merito. Perché è radicale la crisi che attraversiamo, ma non abbiamo paura di confrontarci con storie e linguaggi che non corrispondono all’album di famiglia delle nostre culture politiche. Da questo punto di vista puntiamo a crescere, sul piano dell’autorevolezza e della pluralità delle figure che abitano Avs

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PREMIERATO E AUTONOMIA DIFFERENZIATA ENTRO APRILE. Occorre evocare il teatro dell’assurdo di Beckett e Ionesco per rendere conto di quanto avvenuto in Parlamento su due riforme che cambierebbero completamente il quadro costituzionale del Paese, vale a […]

Roberto Calderoli e Maria Elisabetta Alberti Casellati durante una conferenza stampa del governo Roberto Calderoli e Maria Elisabetta Alberti Casellati durante una conferenza stampa del governo - Roberto Monaldo /LaPresse

Occorre evocare il teatro dell’assurdo di Beckett e Ionesco per rendere conto di quanto avvenuto in Parlamento su due riforme che cambierebbero completamente il quadro costituzionale del Paese, vale a dire l’Autonomia differenziata e il premierato elettivo.

Ieri è stato deciso che sostanzialmente la Camera non esaminerà il ddl Calderoli, approvando a scatola chiusa il testo inviato dal Senato, in quel monocameralismo alternato che abbiamo imparato a conoscere sui decreti legge.

Per quanto riguarda il ddl Casellati sul premierato, l’elemento surreale consiste nel fatto che la Commissione Affari costituzionali del Senato ha stabilito che il testo può essere interpretato in molteplici modi, ma che verrà approvato lo stesso in questa versione per un accordo politico tra Fdi e Lega per affrontare la campagna elettorale delle europee sventolando i due provvedimenti bandiera, e soprattutto sventolando lo scalpo della attuale Repubblica.

Sull’Autonomia differenziata la Commissione Affari costituzionali sta ancora svolgendo le audizioni, da cui stanno emergendo richieste di modifiche al testo approvato dal Senato.

Tuttavia la maggioranza ha oggi deciso una improvvisa accelerazione. Il provvedimento, che la Commissione di palazzo Madama ha esaminato per sei mesi, dovrà essere approvato dalla Commissione della Camera in pochi giorni, entro il 24 aprile, ricorrendo a sedute notturne se necessario, per bocciare gli emendamenti delle opposizioni.

Sì, perché l’accordo è di non modificare il ddl Calderoli così da portarlo in Aula il 29 aprile e farlo diventare legge entro le europee. È il frutto del nuovo patto tra Meloni e Salvini, comunicato ai capigruppo di maggioranza da Calderoli in persona. L’unica chance per non far tracollare la Lega al Nord alle europee e garantire la tenuta del governo.

Il corrispettivo di tale dazio è l’accelerazione del premierato in Commissione Affari costituzionali del Senato, che concluderà l’esame del ddl Casellati sul premierato il 23 aprile, senza modifiche all’ultima versione del testo, benché la ministra abbia ieri ammesso che è sbagliato. Essendo tuttavia il frutto di una delicata mediazione tra Lega e Fdi è meglio non toccarla.

Ma in cosa consiste lo sbaglio del testo? Nel fatto che, ha convenuto la ministra, può essere interpretato in svariati modi su un punto essenziale: i poteri del premier eletto ma dimissionario di chiedere le elezioni anticipate al Presidente della Repubblica, i poteri di questi di accedere o meno a tale richiesta, il potere del premier dimissionario di chiedere un reincarico, magari con il sostegno di una maggioranza diversa, o passare la mano a un altro esponente della sua coalizione.

Andrea Giorgis (Pd)

Una riforma dannosa per l’intero Paese, non risolve i problemi che dice di voler risolvere, non garantirà stabilità, unico effetto ridurre la partecipazione democratica

È chiaro, come ha rilevato Giorgis del Pd, che interpretazioni diverse conducono a un conflitto tra organi dello Stato. Nell’ultima versione dell’art 4 del ddl Casellati vengono infatti normati i casi di dimissioni volontarie del premier eletto, ma non quelli del premier a cui il Parlamento nega la fiducia e che si dimette obbligatoriamente e non volontariamente.

Ma Casellati ha detto che il governo «interpreta» queste dimissioni come volontarie e non obbligatorie, come invece vuole la prassi (vedi i governi Prodi del 1998 e 2008 e il governo Draghi nel 2022) e la dottrina.

Inoltre, il leghista Paolo Tosatto ha fatto notare che la formulazione grammaticale del testo può essere intese nel senso che il Presidente della Repubblica può respingere la richiesta di scioglimento delle Camere fatta dal premier dimessosi volontariamente: anche qui Casellati ha detto che il governo «interpreta» diversamente il passaggio, che cioè il Capo dello Stato dovrà sciogliere il Parlamento come richiesto dal Presidente del Consiglio, anche se non c’è scritto così.

Ci si sarebbe aspettati emendamenti al testo che rendessero espliciti gli intendimenti del governo. Ma così non è avvenuto.

Il testo è sbagliato sul versante giuridico istituzionale, ma è «giusto» su quello della politique-politicienne. Un chiarimento farebbe saltare le possibilità di manovre di Palazzo che la Lega vuole che siano contemplate, nella convinzione salviniana di essere destinata a rimanere un junior partner di Fdi e Meloni.

Si fa così una riforma costituzionale? Come non condividere il grido alla maggioranza dalla senatrice 5s Alessandra Maiorino: «Ravvedetevi!».

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POLITICA. Non è chiaro, al momento, come finirà lo scontro interno al Pd sulle candidature alle elezioni europee; si sbaglierebbe però a considerare la vicenda solo come l’ennesimo episodio nella vita di un partito intrinsecamente instabile e litigioso

Elly Schlein, segretaria Pd Elly Schlein, segretaria Pd - Ansa

Non è chiaro, al momento, come finirà lo scontro interno al Pd sulle candidature alle elezioni europee; si sbaglierebbe però a considerare la vicenda solo come l’ennesimo episodio nella vita di un partito intrinsecamente instabile e litigioso: al contrario, è proprio la spia di un deficit strutturale di questo partito, che emerge in tutti i passaggi critici, com’è certamente quello relativo alla posizione sulla guerra in Ucraina e sull’invio delle armi a Kiev. La proposta di candidatura di Marco Tarquinio ha fatto scattare in alcuni una sorta di riflesso condizionato: guai a mettere solo in dubbio la logica dell’allineamento acritico ai dettami dell’ortodossia atlantica.

D’altra parte, sin dall’inizio, dietro la formula passe-partout del «sostegno a Kiev», su cui il partito sembra essersi assestato, si nascondono interpretazioni, o anche solo atteggiamenti o accenti, molto diversi. E non potrebbe essere altrimenti: un sondaggio dell’istituto diretto da Ilvo Diamanti, nel dicembre 2023, raccontava come, su 100 elettori del Pd fossero 56 quelli favorevoli, con varia intensità, all’invio di armi (e sono in calo: erano 60 a giugno): e gli altri 44? contrari o quanto meno dubbiosi, evidentemente. E allora, non sarebbe ovvio, per un partito che si vuole plurale, dare voce a tutte quelle che vengono definite «diverse sensibilità» e verificare il consenso che esse hanno effettivamente, non solo all’interno dei gruppi dirigenti, ma in una più ampia opinione pubblica di sinistra?

È incredibile la regressione a cui stiamo assistendo: il Pci non pretendeva certo che gli eletti della Sinistra Indipendente fossero ligi alla linea del partito!

Il guaio, però, che è alla radice di questi dilemmi vi è qualcosa di molto più rilevante, ossia una strutturale incapacità del Pd ad elaborare collettivamente una linea politica e culturale, di definirne univocamente il profilo, attraverso una vera discussione da cui emergano le diverse posizioni e solo poi le possibili mediazioni (che però non possono andare oltre un certo limite, pena l’incomprensibilità o la genericità del punto di approdo).

Come si fa stabilire che, ad esempio, le cose che dice l’ex-ministro della Difesa Lorenzo Guerini sulla guerra in Ucraina sono «la» linea a cui non si può derogare? La risposta che, in genere, viene data, è la seguente: si discuta negli organismi. Già, sembra facile, ma non è così, e per un semplice motivo: gli attuali organismi dirigenti non sono organi dotati di una propria autonoma e legittima capacità rappresentativa e non svolgono funzioni propriamente definibili come deliberative. Sono organismi letteralmente trainati e nominati dai candidati segretario delle primarie, frutto di liste bloccate che sono, già in sé, molto spesso, coalizioni instabili di filiere e cordate locali e regionali, non certo espressione di orientamenti politici e culturali.

E non si può non notare un paradosso: questa logica plebiscitaria è analoga a quella che sta ispirando la riforma costituzionale del governo Meloni. Il Pd, giustamente, la sta contestando con fermezza proprio perché l’elezione diretta del premier e, al suo seguito, come mera appendice, quella del Parlamento, annullano l’autonomia e la legittimità della rappresentanza politica. Tanto più allora urge un ritorno alla coerenza, anche nel regime interno del partito. C’è bisogno di qualcosa che somigli ad un vero congresso: documenti politici diversi o anche alternativi, dettagliati per tesi, emendabili, votati e discussi in tutte le unità di base, con l’elezione di una platea di delegati che alla fine adotti solennemente questi testi. Sarà questa la sfida dei prossimi mesi, per la segreteria Schlein.

Le primarie dello scorso anno si sono svolte all’insegna della «costituente del nuovo Pd»: fino ad oggi, questo nuovo Pd vive solo, e forse non poteva essere altrimenti, grazie ad una serie di scelte politiche e programmatiche della segretaria, ma per il resto il partito, nella sua struttura e nel ceto politico che esprime (con alcune importanti eccezioni che, qui o là, cominciano ad emergere) rimane ancora quello di prima. Ed è sconfortante vedere come, di fronte al rischio di una coperta troppo corta per i seggi di Strasburgo, sia scattata una logica di mera autodifesa: il sintomo evidente di un ceto politico che non ha alcuna ambizione espansiva, e che pensa, innanzi tutto, a gestire l’esistente.

È un giudizio duro, forse ingeneroso, ma come altrimenti leggere quello che sta accadendo con le liste?

Fa specie poi che, con la massima noncuranza, ci si arroga il diritto di affermare l’intangibilità del Dna del partito (ad esempio in materia di primarie): ma, poi, di quale impianto genetico stiamo mai parlando? Quello che, in dieci anni, ha fatto perdere 6 milioni di voti?

Insomma, dopo le Europee, ci dovrà essere una stretta: o il Pd cambia il proprio modello di partito, o le fibrillazioni di questi giorni si riprodurranno su scala sempre più allargata, rendendolo ingovernabile. Il Pd non può a lungo continuare a cantare i versi di un’immortale aria mozartiana: «Non so più cosa son, cosa faccio»

 

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ISRAELE. Oggi il ritorno sulla scena dell’Isis con giganteschi attentati in Russia e in Iran costituisce per Israele una «opportunità» da sfruttare per colpire i nemici impegnati su più fronti

nuclear war danger - guerra foto e immagini stock Guerra, Getty Images

Con l’attacco israeliano a Damasco è iniziata una nuova fase di destabilizzazione del Medio Oriente, dalla Siria al Libano e oltre, fortemente voluta da Tel Aviv ben prima del massacro di Hamas del 7 ottobre. Già l’8 agosto il ministro della Difesa Gallant avvertiva che «il Libano in caso di guerra rischiava di tornare all’età della pietra». L’obiettivo di Israele e degli Stati Uniti negli ultimi 40 anni non è mai cambiato, come ben spiega il Patto di Abramo: lo Stato ebraico deve restare l’unica superpotenza regionale. È per questo che si fa la guerra e si rischia il suo allargamento non per altro.

Gli ultimi aiuti militari Usa a Tel Aviv, dicono le carte, sono stati concessi »per affrontare conflitti su più fronti». Basta leggere e guardare la mappa. Israele oltre a occupare una gran parte dei territori palestinesi, si è impadronita delle alture siriane del Golan nel 1967 e di pezzi di territorio libanese. Se l’idea a Gaza è di espellere i palestinesi, ai suoi confini Israele punta a stabilire un sorta di nuova “fascia di sicurezza” e a piegare i regimi della regione. E come sempre tutto quanto riguarda la “sicurezza” di Israele, implica necessariamente l’insicurezza degli altri e il loro annientamento come dimostrano le dichiarazioni di Gallant e quanto avviene ogni giorno a Gaza dove le bombe israeliane hanno ucciso 7 persone che lavoravano per la Ong Usa World Central Kitchen. L’orrore non ha mai fine e le giustificazioni israeliane appaiono prive di ogni credibilità quando si sta radendo al suolo un intero popolo.

In questo quadro, dove il conflitto in Ucraina appare sempre meno lontano dal Medio Oriente, anche il ritorno dell’Isis appare un evento inquietante. Quando sono iniziate le primavere arabe nel 2011 e con la successiva avanzata dell’Isis, il peggiore nemico degli sciiti in Siria e in Iraq – oltre che in Libano – Tel Aviv ha pensato regolare i conti con i pasdaran iraniani e gli Hezbollah alleati di Assad e di Mosca. La sconfitta del Califfato fermato dell’esercito di Assad con l’aiuto decisivo dei russi, dei pasdaran iraniani, degli Hezbollah sciiti e delle milizie curde alleate dell’Occidente ha rallentato questi piani ma oggi il ritorno dell’Isis sulla scena con giganteschi attentati sia in Russia che in Iran costituisce per Israele un’altra un’opportunità da sfruttare per colpire i nemici impegnati su più fronti. Ed è da ricordare che in Siria e in Iraq le milizie jihadiste hanno continuato a colpire nella totale indifferenza occidentale.

Ed è da ricordare che in Siria e in Iraq le milizie jihadiste hanno continuato a colpire nella totale indifferenza occidentale.

Per fare la “sua” guerra Netanyahu è persino disposto a mettere a rischio il suo patto non scritto con Putin che in questi anni non aveva mai protestato per i raid israeliani in Siria e in Libano, ovvero contro gli alleati stessi di Mosca. Ma l’attacco israeliano contro un edificio dell’ambasciata dell’Iran a Damasco, in cui sono morte almeno 11 persone, tra cui il generale Mohammad Reza Zahedi, comandante della Forza Qods dei Guardiani della rivoluzione (i cosiddetti Pasdaran) in Siria e Libano, rischia seriamente di far saltare qualunque possibilità di accordo, anche sottobanco. Ed è esattamente quello che vogliono i vertici israeliani: mano libera contro i palestinesi e contro tutti gli altri. Netanyahu è sotto la pressione di una piazza a lui ostile che chiede un tregua ma ha dalla sua parte i coloni e le proteste di migliaia di israeliani evacuati dai confini con il Libano nell’alta Galilea.

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Israele sta alzando il tiro per innescare un altro conflitto. In Libano non colpisce più solo le aree intorno alla Linea Blu, dove è schierata l’Unifil con il contingente italiano, ma addirittura la valle di Baalbek che è nell’entroterra ed è più a nord. La stessa escalation si sta verificando in Siria dove i raid israeliani qualche giorno fa avevano colpito Aleppo e adesso sono tornati di nuovo a prendere di mira Damasco. Lo scopo di Tel Aviv è sempre quello della provocazione portata all’estremo limite: spingere Pasdaran iraniani e Hezbollah libanesi verso una reazione fuori luogo e non calcolata che possa legittimare Israele a lanciare un attacco contro il Libano e il regime di Teheran.

Dopo l’attacco israeliano al consolato iraniano a Damasco
Dopo l’attacco israeliano al consolato iraniano a Damasco, foto Ap

Con gli Stati Uniti che in questa tragedia coprono due ruoli contraddittori ma complementari nella loro assurdità. Uno è quello di mediatore: Washington sta trattando per Gaza e ha persino nominato un “inviato di pace” per il Libano che si chiama Amos Hochstein. Una strana figura di paciere che ha servito nell’esercito israeliano e poi per le lobby di Washington. Un pompiere-piromane che esemplifica l’inaccettabile politica americana di appoggiare costantemente Israele con aiuti militari a tutto spiano. Il tutto con la complicità degli europei che mandano armi a Tel Aviv ma non hanno mai il coraggio di mettere una sanzione allo Stato ebraico.

Per Washington, in pieno anno elettorale, si tratta tra l’altro di un strategia assai pericolosa. Questo governo israeliano sta facendo di tutto sul fronte siriano e libanese per trascinare gli americani in un conflitto allargato che si può estendere all’Iran. Ma per fare una guerra più grande di quella attuale ha bisogno probabilmente di un cambio alla Casa Bianca. Sono calcoli rischiosi e spregiudicati ma ormai lo stato ebraico ci ha abituati a ogni cinismo.

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