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L'INTERVISTA. Il presidente nazionale dell’Arci Walter Massa: straordinaria la vostra proposta, questo 25 aprile segna un punto di svolta: "Ci troviamo all’opposizione del peggior governo della storia della Repubblica e non per caso, la sinistra ha sbagliato"

Milano, alla festa per la Liberazione del 25 aprile Milano, alla festa per la Liberazione del 25 aprile - LaPresse

«L’appello del manifesto segna un punto di svolta». Walter Massa è il presidente di Arci, un milione di soci su tutto il territorio nazionale.

Lo scorso 9 marzo la storica associazione è stata la prima, dal 7 ottobre 2023, a convocare a Roma una grande piazza nazionale per il cessate il fuoco in Palestina.

«Non l’abbiamo fatto per il primato ma perché eravamo nauseati dai discorsi da bar sull’uso dei termini mentre a Gaza era in corso una strage. Non cambia nulla se lo si chiama genocidio o sterminio ma bisogna alzare la testa: in 5 mesi ci sono state 32mila vittime non solo per i bombardamenti, anche per fame e mancanza di cure. Prendere una posizione è urgente. Ben venga la manifestazione del 25 aprile a Milano per rilanciare un progetto pacifista».

LA REDAZIONE CONSIGLIA:

Si potrebbe tornare a Milano il 25 aprile

Il mese scorso avete organizzato la missione di alcuni parlamentari al valico di Rafah, testimoniando quel che sta succedendo ai gazawi

Mentre noi giravamo fra hangar pieni di cibo mandato a marcire da Israele, ci hanno comunicato che erano morti 10 bambini per denutrizione. Fa venire una grande rabbia pensare al dolore che stiamo provocando a quella popolazione nell’indifferenza. Si viene sopraffatti da una sensazione di degrado umano, qui si tratta di vero sadismo.

Walter Massa
Walter Massa

La guerra è anche nel cuore dell’Europa.

Ci indigna che, a due anni dall’inizio del conflitto sul terreno ucraino causato dall’occupazione russa, nessuno dica ancora quanti siano i morti mentre i giornali sono pieni di gossip militare. In Ucraina, come in Palestina e nel Sud Sudan sono in corso tragedie umanitarie causate anche dalle politiche europee.

Dobbiamo denunciare con forza che questi conflitti non arrivano per caso: l’Ue deve smetterla di esternalizzare le frontiere e di far fare si dittatori cose che noi europei non possiamo ammettere di fare. E con altrettanta forza dobbiamo dire che il nostro continente ormai galleggia in un cimitero a cielo aperto, il Mediterraneo.

Il voto di giugno potrebbe portare a un’ulteriore avanzata delle destre negli organismi europei.

Bisogna trovare un’alternativa a un’Unione Europea che vuole l’economia di guerra e che per la prima volta sospende l’austerity ma solo per produrre armi. I rigurgiti fascisti in Germania, come in altri paesi, sono inquietanti. La proposta del manifesto raccoglie un bisogno anche su questo argomento.

Walter Massa

Ci troviamo all’opposizione del peggior governo della storia della Repubblica e non per caso: la sinistra ha sbagliato

Oltre alla questione internazionali ci sono anche valide motivazioni interne per manifestare.

Facevo parte dell’organizzazione del Genova Social Forum a luglio del 2001. Tutta quella violenza istituzionale è stata autorizzata e coperta dall’alto. Non ho fatto fatica a ricordare questo avvenimento quando ho visto le immagini degli studenti manganellati a Pisa.

Questo governo non è nato dalle tv Fininvest, ha una storia centenaria alle spalle avvezza a costruire la sua narrazione attorno al capo che parla direttamente al popolo e chi dissente è un nemico. Siamo in presenza di un fenomeno di involuzione culturale fondato sulla paura, sulla repressione e sull’odio verso i giovani.

Un paese come un passato come il nostro deve stare attento. La società civile democratica scenda in piazza massicciamente e unitariamente il 25 aprile per dimostrare che non ha paura.

LA REDAZIONE CONSIGLIA:

Il sindaco Sala: apprezzo l’appello del manifesto, la città risponderà

Ha usato un avverbio particolare: «Unitariamente».

La Liberazione è la festa di chi ha contribuito storicamente a liberare l’Italia dal nazifascismo e a scrivere la Costituzione ed è la festa di tutti coloro che si riconoscono nei principi della Carta e si impegnano ad attuarli.

Questa è l’unica discriminante. Chi intende fare distinguo deve ricordare che ci troviamo all’opposizione del peggior governo della storia della Repubblica e non per caso ma perché a sinistra qualcosa non abbiamo capito, qualcosa l’abbiamo sbagliata.

Non è un vezzo retorico ammetterlo, dobbiamo imparare dagli errori e trovare punti in comune per costruire un’alternativa al sistema economico e sociale attuale. L’appello del manifesto è straordinario perché non guarda indietro ma avanti: ai diritti, alla pace, al lavoro ed è necessario che tutte le forze democratiche diano un contributo, senza divisioni di bottega.

E il giorno dopo, il 26 aprile che succederà?

La manifestazione deve mettere in piedi un progetto alternativo di società e il manifesto ci sta dando una grande opportunità per costruire un percorso di alternativa al neoliberismo degli ultimi 30 anni che non dobbiamo sprecare

 

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I malati e i feriti di Gaza accolti negli ospedali italiani sono finiti in un limbo. Affidati alle associazioni o ai centri per migranti, senza finanziamenti né protezione speciale. Così l’operazione di soccorso del governo italiano è uno spot, mentre Roma taglia i fondi all’Unrwa e alle ong in Palestina

ACCOGLIENZA A METÀ. La vicenda dei bambini gazawi curati e "abbandonati" da noi e la tragedia di quelli che restano senza cure nella Striscia

Italia-Gaza, com’è umanitaria lei Gaza City, 24 novembre 2023, corsa disperata verso l'ospedale al-Shifa - Ap

Sedotti e abbandonati. Prima trasferiti in Italia per essere curati, poi relegati in una zona grigia umiliante che con la protezione internazionale ha poco a che fare. Scaricati come pacchi ingombranti a quello stesso terzo settore che sul terreno, nei teatri di crisi dove è spesso l’ultimo baluardo di umanità, viene scientemente esautorato, screditato, de-finanziato. Sulla falsariga di quanto successo sempre in tema di Palestina con l’Unrwa.

Sono i bambini gazawi feriti o malati giunti in Italia con le loro famiglie per ricevere cure adeguate. Gli ultimi palestinesi costretti ad andarsene, in fondo. Come ai primi, non sembra essergli concessa la prospettiva di un ritorno, né quella di una permanenza serena. Visti sbagliati, fondi non previsti e e altri piccoli dettagli non compresi nel pacchetto di accoglienza.

La vicenda esemplifica il modo in cui il governo di Giorgia Meloni intende l’azione umanitaria. Uno spot come un altro, stile Piano Mattei, il beau geste a favore di telecamera e poi il contrario di quanto quell’immagine, il sorriso della premier nella foto di rito, per quanto tirato, vorrebbe annunciare. Tuttalpiù è un “30” che non diventa mai “31” perché qui l’azione, il blitz della Difesa c’è stato ed è stato sì, vivaddio, umanitario. Non è stato neanche semplice, dovendo negoziare con gli israeliani, ma alla fine ci si è riusciti. Strano che non si riesca a chiedere con altrettanta convinzione, da alleati di Israele, non dico di fermarsi, ma che almeno gli aiuti accatastati alle porte di Rafah imbocchino la strada inversa seguita da quei bambini, per salvare altre migliaia di persone ridotte alla fame.

Ovviamente ogni ferito o malato che si riesca a tirare fuori da Gaza in questo momento di cieca violenza è oro colato. Ma non cura l’ipocrisia di fondo, la scarsa volontà di esercitare tutte le pressioni possibili nelle sedi più opportune perché questo diritto di protezione – tralasciando per un momento quello fondamentale di vivere in pace nella propria terra – si estenda subito a ogni minore, ogni donna, ogni innocente che stia soffrendo le pene, dirette o indirette, della guerra scatenata contro la Striscia

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Sono un cittadino italo palestinese, da 40 anni in questo bel paese. In questi lunghi anni, oltre gli studi universitari, ho svolto varie funzioni lavorative, a livello sindacale e nel volontariato. Posso dire di avere due culture di riferimento e ne sono orgoglioso: sono d’origine contadina e, prima di venire in Italia, ho lavorato la terra e fatto pascolare gli animali. Ho anche lavorato con l’Unrwa, l’agenzia Onu che assiste i nostri profughi in Palestina e nella diaspora.

Abitavo nella casa di famiglia in un villaggio vicino a Ramallah, eravamo tutti contadini e il lavoro della terra era l’unica fonte di reddito per tante famiglie. Per questo il legame con la terra è molto significativo per tutti noi palestinesi, contadini e non.

Nel vedere le terribili immagini in tv di bambini palestinesi a Gaza che piangono e chiedono al mondo (civile) un pezzo di pane, di genitori che gridano nel deserto di Gaza chiedendo solo di potere dare il pane ai loro figli, provo dolore, rabbia e disperazione. Queste urla rappresentano un pugno in faccia all’umanità, o meglio alla poca umanità rimasta. Tutto questo, come genitore, cittadino, palestinese, uomo libero, mi fa piangere il cuore e non mi fa dormire la notte.

In casa mia in Palestina, come in tutte le case dei nostri contadini, dominavano certi costumi, tradizioni e usanze che non hanno a che fare con la religione. I miei genitori in ogni stagione di raccolta (olive, cereali, ecc..) prima di portare il prodotto a casa, ne portavano un po’ alle famiglie meno fortunate, di solito profughi rifugiati nel paese dopo la Nakba.

Quando ci mettevamo a tavola, era obbligatorio riservare un posto vuoto, ma apparecchiato per l’ospite, il viandante, chi può passare e avere fame. Casa mia si trova fuori dal centro, nella prima periferia del paese, quindi tutti i concittadini che andavano in campagna ci passavano davanti. È un paese vicino al deserto: da aprile a ottobre non si vede una goccia di pioggia e l’acqua rappresenta una fonte di vita. Così i miei hanno piantato nella terra una giara di ceramica, coprendo l’imboccatura con un piatto di alluminio e mettendo una tazza. La giara veniva sempre riempita così chi passava aveva l’acqua da bere: nella nostra cultura non si nega l’acqua a nessuno, nemmeno al peggior nemico. A quell’epoca non avevamo l’acqua in casa: mia mamma faceva quasi 5 chilometri a piedi per recarsi al pozzo.

La strage della farina del 28 febbraio scorso, quando l’esercito israeliano ha ucciso non meno di 115 palestinesi, ha aperto un po’ gli occhi del mondo sul dramma che stanno vivendo due milioni e mezzo di palestinesi a Gaza.

Non ho mai creduto che la guerra risolva i conflitti e non avrei mai pensato che, nel 2024, venissero usate la fame e la sete per costringere un popolo ad arrendersi. Già a fine novembre, un’amica di Gaza mi diceva: “Qui non si muore solo di bombe, i bambini iniziano a morire di fame”. Fonti ufficiali dicono che il ritardo già cumulato per gli aiuti umanitari potrebbe portare a circa 85mila persone morte per fame e sete. La gente ha già iniziato a mangiare il cibo degli animali, compresi i mangimi, quando si trova. Non si vedono animali domestici, molti uccisi dall’esercito, ma tanti altri potrebbero essere stati usati per sopravvivere. La stragrande maggioranza della popolazione di Gaza è di fede islamica e certi alimenti sono vietati, ma di fronte alla morte o alla vita dei figli tutto diventa lecito.

Un cittadino racconta il testamento di un padre di quattro bambine che ha perso la vita nella strage della farina. Abbracciava il sacco di farina e stava sanguinando, chiedeva al suo amico di portare il sacco alle sue figlie perché hanno molta fame e lo stavano aspettando: un testamento estremo, che rappresenta la fine dell’umanità: chi di noi non rischia la vita per garantire la sopravvivenza dei propri figli e figlie?

Tutto il mondo governativo e non, le società civili, le organizzazioni internazionali, a partire dall’Onu e tutte le organizzazioni ad essa affiliate, come Oms e Unicef, stanno denunciando questo tipo di genocidio. Bisogna smetterla con l’ipocrisia: da un lato si forniscono ad Israele armi sofisticate per uccidere i nostri bambini, e dall’altro si lanciano aiuti umanitari dal cielo per tranquillizzare le proprie coscienze.

I politici europei devono liberarsi dalla paura di essere etichettati di antisemitismo e assumere una posizione netta di fronte al genocidio in atto. Il silenzio è complicità. Credo che debbano anche liberarsi dalla paura dell’Islam, dall’islamofobia. Senza l’Islam, che ha illuminato il mondo in diversi campi scientifici e culturali, l’Occidente non sarebbe quello che conosciamo oggi.

Tutti, Ue compresa, hanno scommesso che gli “Accordi di Abramo” avrebbero liquidato una volta per sempre la causa palestinese. Ma il popolo palestinese crede nel diritto e nella giustizia, crede profondamente che la forza della ragione sia più forte della ragione della forza. Tutti noi palestinesi non chiediamo nulla di più che i nostri diritti inalienabili sanciti dal diritto internazionale

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L'ATTENTATO A MOSCA. Il terrorismo fabbrica attentati ed eventi che si muovono al confine tra la realtà più sanguinosa e la manipolazione più destabilizzante. Per questo non è decifrabile come un conflitto aperto: […]

Un militare russo protegge un'area mentre un enorme incendio divampa al Crocus City Hall, a Mosca, a seguito di un attacco armato foto Ap

Il terrorismo fabbrica attentati ed eventi che si muovono al confine tra la realtà più sanguinosa e la manipolazione più destabilizzante. Per questo non è decifrabile come un conflitto aperto: il messaggio può apparire chiaro, gli autori noti, le motivazioni apparenti pure, ma le conseguenze e le vere ragioni si valutano con il tempo.

Chi poteva immaginare che dopo l’invasione sovietica dell’Afghanistan nel 1979 gli Stati uniti e i loro alleati avrebbero utilizzato i jihadisti contro Mosca? Questi erano degli islamisti radicali, nemici della cultura occidentale. Eppure Osama bin Laden con Al Qaeda per anni è stato un alleato degli Usa, del Pakistan e dell’Arabia saudita prima diventare l’ispiratore dell’11 settembre, epoca in cui – con una giravolta della storia – gli interessi americani e quelli russi si erano saldati di fronte al comune nemico rappresentato dai jihadisti.

Le ambiguità nelle vicende terroristiche sono molteplici. Il fondatore dell’Isis Al Baghdadi è stato nelle carceri americane in Iraq da dove venne liberato dalle stesse autorità Usa passando dalla porta principale. Lo stesso Califfato, che poi colpì anche in Turchia, è stato un interlocutore dei servizi segreti di Ankara per contrastare i curdi siriani – nostri alleati contro il Califfato – ed Erdogan l’unico leader della Nato a trattare direttamente con i jihadisti. Forse ce lo siamo dimenticati.

Il terrorismo deve sorprendere, anche quando lascia spazio agli apprendisti stregoni che pensano di usarlo. L’allora generale Lloyd Austin, oggi capo del Pentagono, nel settembre 2015 ci informò del fallimento Usa nel reclutare in Siria e Giordania con 500 milioni di dollari dei «combattenti» arabi e di altre nazionalità da usare contro l’Isis anche contro l’autocrate Assad: di 5mila ne rimasero soltanto 5, gli altri erano scappati vendendo le armi a chissà chi. Di queste contraddizioni la guerra in Ucraina ne è già stata un esempio con l’attentato al ponte di Kersch e ancora di più con quello al gasdotto offshore North Stream: prima che le inchieste giornalistiche americane ci rivelassero come probabile autori del gesto la pista ucraina e occidentale, si sosteneva che a farlo erano stati i russi stessi.

Oggi la scena internazionale è ancora più complicata di prima perché il terrorismo – se questo è uno dei suoi obiettivi – si vuole inserire come un attore tra i conflitti locali e il più ampio e pericoloso scontro di potenze scatenato dall’invasione russa dell’Ucraina. Come ha dimostrato l’invasione sovietica dell’Afghanistan del ’79 si aprono nuovi e imprevedibili scenari.

Anzi con il conflitto ucraino, al quale si è aggiunto quello di Gaza – nel cuore di quel Medio Oriente dove l’Isis è nato – le organizzazioni jihadiste hanno largamente approfittato della situazione per tessere le loro trame dal Sahel all’Afghanistan fino all’Asia, come scriveva l’ultimo numero di Le Monde Diplomatique. Ci possiamo chiedere, soprattutto, quando i jihadisti interverranno in questa guerra di Gaza dove sono già stati uccisi 1200 israeliani e 32mila palestinesi. Quasi ci stupisce che dopo sei mesi non l’abbiano già fatto visto che gli spetterebbe «per competenza.

Eppure anche qui ci hanno in parte sorpresi. Quando si sono fatti vivi in Medio Oriente i terroristi dell’Isis Korassan (Isis-k) hanno colpito in Iran, ovvero uno dei maggiori sponsor proprio di Hamas e dei palestinesi della Striscia. L’Iran tra l’altro è uno dei più importanti alleati anche militari della Russia, oltre che il nemico più temuto da Israele. Il 3 gennaio scorso i terroristi dell’Isis-K hanno rivendicato un attentato con oltre 100 morti a Kerman nel sud-est dell’Iran durante un cerimonia in omaggio del generale Qassem Soleimani, ucciso a Baghdad nel 2020 da un drone americano. Soleimani aveva combattuto a fianco di Assad e delle milizie sciite per fermare l’avanzata dell’Isis in Iraq.

Sui canali Telegram, l’Isis-K aveva specificato che questa azione – la quarta in Iran dal 2017 – era stata portata termine in occasione «di un grande raduno di apostati – gli sciiti – a sostegno dei musulmani, in particolare in Palestina». L’Isis come Al Qaeda ha fatto sempre più vittime tra i musulmani, nel caso gli sciiti, che tra gli occidentali. Che l’Isis-K faccia fuori i seguaci del loro nemico Soleimani è logico, un po’ meno che colpisca l’Iran uno dei maggiori finanziatori di Hamas che loro vorrebbero vendicare dalla furia israeliana. Seguire le logiche del terrorismo come si vede non sempre porta a spiegazioni razionali, se non quella che all’Isis interessa di più colpire i suoi nemici «storici» come l’Iran e la Russia che fare un gesto clamoroso filo-palestinese che forse (speriamo di no) riserveranno all’ Europa o da qualche altra parte.

Ma la memoria è corta e le spiegazioni non sempre convincenti. Può sembrare infatti poco credibile che Putin accusi l’Ucraina per l’attentato al teatro di Mosca. In realtà il Cremlino non ha nessuna intenzione di acuire le tensioni con le popolazioni musulmane della Federazione dopo gli anni della guerra in Cecenia, delle stragi in Tagiskistan e della guerra in Siria. Ha bisogno di reclutare soldati e di un fronte interno compatto mentre l’azione dell’Isis mette fortemente in dubbio che abbia vinto la guerra contro gli islamisti radicali dell’Asia centrale del Caucaso mentre i suoi servizi di intelligence hanno mostrato un crepa clamorosa.

Il terrorismo non contempla, per lungo tempo, sentenze definitive e oggi quella bandiera nera dell’Isis, che ho visto sventolare tante volte tra Siria e Iraq, appare ancora più di prima come un oscuro e tenebroso sipario sul destino dei popoli e delle nazioni

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ISRAELE/EUROPA. Il clima da caccia alle streghe in Germania continua a peggiorare. Nel mirino anche uno dei più noti studiosi israeliani esperto di Olocausto, sotto accusa per le sue critiche a Israele

Moshe Zuckermann Moshe Zuckermann

Il livello di paranoia in Germania è surreale: qualsiasi critica nei confronti di Israele costituisce antisemitismo, la lotta contro l’antisemitismo è stata snaturata in sostegno acritico a Israele e alle politiche del suo governo.

DOPO YUVAL ABRAHAM alla Berlinale, ora tocca a Moshe Zuckermann, sociologo e professore emerito di storia e filosofia dell’università di Tel Aviv, firmatario della Dichiarazione di Gerusalemme sull’antisemitismo nata in risposta alla definizione adottata nel 2016 dall’Ihra che include undici «esempi» di antisemitismo, sette dei quali incentrati sullo Stato di Israele, generando – secondo i firmatari della dichiarazione – confusione e controversie e indebolendo perciò la stessa lotta contro l’antisemitismo.

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Zuckermann era stato invitato dal Consiglio per la Pace di Heilbronn a un’iniziativa sulla situazione in Israele e Palestina organizzata con la locale Università Popolare (Vhs), presso la sede di quest’ultima. La Deutsch-Israelische Gesellschaft (Dig) ha condannato l’iniziativa affermando che l’oratore sarebbe un sostenitore del movimento Bds (Boicottaggio Disinvestimento e Sanzioni) e che quindi l’evento avrebbe violato la risoluzione del Bundestag del 2019 in cui si dispone che iniziative che invitano al boicottaggio di Israele o sostengono al Bds non possono ricevere sostegno finanziario di enti pubblici.

La critica della Dig ha portato a spostare l’evento in una sede più dimessa. Poi, la Vhs come «misura precauzionale» ha ritirato la compartecipazione e ritenuto addirittura necessario rivolgersi al ministero degli interni con la seguente richiesta di informazioni: «Voi o il vostro ufficio avete informazioni affidabili sul fatto che Z. sia un membro del movimento Bds o sostenga attivamente gli obiettivi perseguiti dal movimento Bds? Siete a conoscenza di dichiarazioni di Z. che abbiano dimostrato di essere uscite dall’area protetta della libertà di espressione e si siano trasformate in violazioni di interessi legali?».

A rispondere è il consigliere personale del Commissario del governo federale per la vita ebraica in Germania e la Lotta all’antisemitismo: «Zuckermann è effettivamente molto controverso a causa delle sue posizioni su Israele. (…) È stato invitato a parlare a un evento organizzato dal Bds nel 2022. Inoltre, sostiene che in Israele vige l’apartheid. Si tratta di una posizione che dovrebbe essere considerata antisemita secondo la definizione di antisemitismo approvata dal governo tedesco e definita dall’Ihra. Non c’è alcun divieto di invitare persone così controverse. Allo stesso tempo, però, lo scambio democratico implica anche che un tale invito debba essere accolto da critiche altrettanto intense».

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IN UNA PRESA di posizione pubblica in risposta all’accaduto, Zuckermann rileva: «Ora posso vantarmi di essere stato ufficialmente dichiarato antisemita dal governo tedesco». Ma, afferma, «sono le mie posizioni su Israele, non sugli ebrei o sull’ebraismo, a rendermi controverso tra gli amici di Israele. Sono un cittadino israeliano e, come ogni cittadino responsabile, ho non solo il diritto ma anche il dovere civico di prendere posizione contro lo Stato in cui vivo. Questo include, se necessario, posizioni critiche che potrebbero non essere accettabili per la Dig o per il commissario per l’antisemitismo. Il fatto che il governo tedesco si sia impegnato a rispettare la definizione dell’Ihra è un suo diritto. In nessun caso dovrebbe però usare questa precaria definizione come strumento per la lotta all’antisemitismo. Non solo non combatte l’antisemitismo reale nella società, ma produce anche l’oltraggiosa assurdità formulata contro di me».

Zuckermann conclude auspicando che la «critica intensa» si informi finalmente su quanto sta accadendo in Israele soprattutto nell’ultimo anno e prenda posizione sulla barbarie dell’occupazione che Israele pratica da oltre mezzo secolo in violazione del diritto internazionale. «Perché se questo è tutto ciò che la tanto decantata ‘elaborazione del passato’ tedesca ha raggiunto, allora è davvero in uno stato pietoso».
***
Per consultare il testo originale completo dell’intervento di Moshe Zuckermann:
https://overton-magazin.de/top-story/in-nicht-nur-eigener-sache/

 

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prof. Francesco Strazzari

Dove andava, dalla foresta di Bryansk dove è stata intercettata, la Renault con cui il presunto commando jihadista, con le mani ancora insanguinate, ha lasciato la scena della carneficina? Secondo Mosca, da Bryansk si va in Ucraina, dove erano attesi. Non è chiaro come, considerato che si tratta di un confine di guerra fortemente militarizzato. Secondo gli ucraini, siamo invece in prossimità della Bielorussia, allineata a Mosca: un confine assai più tranquillo per un’auto «con targa bielorussa».


Il copione è consolidato: da subito i media russi e social media filo-regime hanno gettato dubbi sull’autenticità della rivendicazione dell’Isis. Questo nonostante il comunicato seguisse modalità che in situazioni analoghe non hanno destato sospetti: la nota è apparsa con tempestività su Amaq, il canale usato sistematicamente da ISIS core.

Il quadro di plausibilità è rafforzato dall’impiego di modalità operative che ricalcano quelle messe degli inghimasi jihadisti in altri attacchi su vasta scala contro obiettivi civili. Contrariamente a una percezione diffusa, l’Isis ha più volte messo nel mirino la Russia, e non solo nelle repubbliche del nord Caucaso (Cecenia, Inguscetia e Dagestan), dove il jihadismo si è arroccato dopo la guerra che Vladimir Putin, per dotarsi di popolarità, scatenò conto l’autonomia cecena, insediando le milizie sanguinarie di Ramzan Kadirov, oggi presenti in Ucraina, mentre su fronte opposto filo-ucraino combattono anche, ma sparute, milizie dell’opposizione cecena.

L’ISIS ha rivendicato otto attacchi fra il 2016 e il 2019 sul resto del territorio della Federazione, mentre miliziani di nazionalità russa sono apparsi più volte nelle cellule di soldati del Califfato in altri paesi. Nell’estate del 2022 l’Isis ha colpito l’ambasciata russa di Kabul.

Alla deflagrazione della guerra russo-ucraina Daesh ha esultato per il carattere fratricida del conflitto, cristiani che si ammazzano fra loro. Anche in tempi recenti, con modalità più che discrete, l’antiterrorismo di Mosca è stato impegnato a sgominare cellule jihadiste. Allargando il campo, la Russia si è trovata e si trova ad affrontare Daesh in diversi quadranti in cui i jihadisti stanno riorganizzandosi, mentre la Provincia di Khorasan dello Stato Islamico ha recentemente colpito il suo alleato iraniano, con una strage fin sulla tomba del generale Suleimani. Teheran ha puntato il dito contro Israele, salvo poi correggere parzialmente il tiro.

È in atto un tentativo di gestire politicamente il pesante bilancio dell’attacco del Crocus City Hall, e lo smacco subito dall’apparato di sicurezza del regime (intervenuto in evidente ritardo senza che nessuno possa denunciarlo) trasferendolo sul conto del nemico preferito: ‘i nazisti ucraini’.

La destabilizzazione della verità è del resto un’attività su cui insistono le dottrine sovraniste della ‘democrazia gestita’, sin dalle prime formulazioni del grande burattinaio del primo Putin, poi profeta del Donbas separatista: quel Vladislav Sokurov che si distingueva fra gli oprichniki, il cerchio di cani da guardia dell’autocrate del Cremlino, ma che potremmo anche chiamare Aslambek Dudaev, secondo la verità alternativa di una sua nascita in Cecenia.

Fatto sta che la questione ‘estremisti jihadisti’ bolliva in pentola da un po’. Il 7 marzo scorso Washington aveva lanciato l’allarme pubblicamente, invitando i propri cittadini a non recarsi in luoghi affollati quali le sale da concerto della regione di Mosca.

Una condivisione pubblica che suona come un modo per mettere le mani avanti rispetto a qualcosa che è stato captato dall’intelligence ma su cui non si ha controllo. Per parte sua, rivolgendosi martedì ai vertici dei servizi di intelligence (Fsb), Putin aveva replicato sdegnosamente, rigettando il ‘ricatto’ e il ‘tentativo di intimidire e destabilizzare’. Significativamente si era riferito a come ‘il regime neo-nazista di Kiev’ con sostegno e istruzioni occidentali, avrebbe adottato ‘metodi terroristici’, colpendo le infrastrutture, inclusi gli ‘spazi pubblici’.

Aspettiamoci dunque una nuova ondata di commenti sulla falsariga di ‘l’Isis è un’operazione della Cia’: una campagna ormai più che decennale, nata quando, mentre i combattenti curdi, appoggiati dalla coalizione a guida statunitense, combattevano Daesh in Siria, la Russia offriva le proprie bombe ad Assad, il quale colpiva i civili ma risparmiava le basi dell’Isis, il nemico perfetto nel cinico calcolo di distruzione dell’insorgenza anti-regime.

E’ un dato di fatto che lo Daesh stia rilanciando la propria iniziativa, dal Sahel alle Filippine, passando per l’attacco portato venerdì al cuore dell’Emirato afghano (più di cinquanta vittime a Kandahar, dove i talebani si assiepavano per ritirare il salario). Segnali più o meno diretti del crescente attivismo si registrano anche in Iraq e Siria, dove le forze curde, che hanno il controllo su larga parte dei prigionieri fedeli al Califfato, sono sempre più sotto il fuoco della Turchia.

Questo tentativo di recuperare centralità e protagonismo globale, ingaggiando combattimento anche con la galassia qaidista, è in fase di dispiegamento, cerca di reclutare cavalcando le contraddizioni apertesi nel mondo islamico con l’azione sconsiderata di Israele a Gaza, e ha implicazioni difficili da prevedere. Riconoscere l’apertura di un fronte jihadista, per una Russia aggrappata al mito della forza dell’autocrate, ha un costo notevole, soprattutto rispetto all’imperativo strategico di produrre il massimo sforzo per oliare la macchina da guerra all’offensiva in Ucraina.

Consenso ed efficienza nei regimi autoritari sono spesso incognite. In un romanzo sull’amoralità del potere pubblicato sotto pseudonimo, il burattinaio Surkov descriveva la guerra non lineare del futuro, dove lo scopo non è vincere contro il nemico, ma gestire il processo bellico per destabilizzare la percezione pubblica, “confondendo le piste, oscurando la verità”.

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