IL NODO STRETTO. Rappresaglia contro gli Houthi per gli attacchi nel Mar Rosso. Sale il prezzo del greggio
Piazze piene a Sana’a per il raid anglo-americano sullo Yemen contro gli Houthi. Gli Usa: «Difendiamo il commercio mondiale nel Mar Rosso», ma anche Israele. Che all’Aja si difende dall’accusa di genocidio. La guerra è già larga, e sempre di più nord contro sud
L'ANALISI. All'Aja il Sudafrica post-coloniale si fa portavoce del sud per un diritto globale non più solo "bianco". In Yemen al via una guerra a sostegno di Israele, e non tanto per la libertà di commercio
Soldati britannici verso il mar Rosso - Ap
«È stato il devastante j’accuse del secolo, la voce della decolonizzazione. Due ore di fatti e prove davanti alla Corte di Giustizia internazionale, dopo le quali non esiste più la scusa del “non sapevamo”. È caduta a pezzi la facciata di moralità e rettitudine che Israele e Stati uniti rivendicano; è stata fatta la Storia, indipendentemente da cosa poi decideranno i giudici, da a cosa si piegheranno».
Così Priyamvada Gopal (studi postcoloniali, Cambridge) ha commentato l’arringa sudafricana contro l’azione di Israele a Gaza. Quasi a darle ragione, le stesse grandi catene televisive, che non hanno trasmesso la diretta all’accusa, hanno poi mandato in livestream la risposta degli avvocati di Israele.
CASOMAI qualcuno nutrisse dubbi su come il processo arrivi a toccare in profondità i rapporti fra gerarchie coloniali e violenza di massa, a rappresentare il Sudafrica c’è un’avvocata irlandese, Blinne Ní Ghrálaigh, mentre la difesa di Israele è guidata da un avvocato britannico, Malcolm Shaw KC.
Laureata a Cambridge, Blinne Ní Ghrálaigh ha rappresentato la Croazia contro la Serbia e ha difeso le famiglie delle vittime del Bloody Sunday nordirlandese: ha dipinto Gaza come il primo genocidio nella Storia in cui le vittime trasmettono la loro stessa distruzione, nella speranza che il mondo possa fare qualcosa. Anche Shaw è già stato davanti alla Corte, in difesa di Serbia, Emirati arabi e Camerun: ha denunciato la distorsione di fatti e circostanze presentate dal team sudafricano.
Del resto, per quanto quest’ultimo abbia
Commenta (0 Commenti)Schlein conferma la sterzata sull’Ucraina: «Mai più deleghe in bianco al governo». I dem, ma anche Conte, chiedono di riconoscere lo stato di Palestina. Fratoianni raccoglie firme per condannare Netanyahu. A sinistra è competizione sulla pace con vista sulle europee
GUERRE. La leader Pd conferma: «Mai più deleghe al governo in politica estera». Resta il sostegno a Kiev. Il capo 5S: i leader non corrano alle europee. Gentiloni annuncia: non mi candido, torno in Italia. La segretaria dem: il partito è casa sua
Mercoledì in Parlamento «non c’è stata un’astensione del Pd sul pieno supporto sull’Ucraina. Abbiamo votato compattamente la nostra mozione che prevede un sostegno anche militare a Kiev e chiede alla Ue uno sforzo diplomatico molto più forte di quello che c’è stato finora. Ma ci siamo astenuti sul testo del governo perché non diamo più deleghe in bianco sulla politica estera a un esecutivo che non ha fatto nulla sul piano diplomatico». Elly Schlein, incontrando i giornalisti per presentare il convegno di oggi in Campidoglio per ricordare David Sassoli a due anni dalla morte, mette i puntini sulle “i” rispetto alla posizione del partito sull’Ucraina.
Il decreto che prevede il rinnovo del sostegno militare a Kiev (che arriverà in aula a fine gennaio), sarà votato dai dem, pur con alcuni dissensi individuali che già si erano manifestati l’anno scorso. Ma il punto ora è segnare una distanza dalla linea di Giorgia Meloni. «In questo anno l’unica iniziativa diplomatica del governo è stato l’annuncio di un piano fatto nella telefonata di Meloni con i due comici russi. Ma di quel piano non c’è traccia», spiega Schlein.
AL NAZARENO NON considerano i 9 voti a favore del testo della maggioranza (tra loro anche l’ex ministro Guerini) come una fronda verso la segretaria. Anche se l’ex responsabile Esteri Lia Quartapelle, ieri in un’intervista, ha usato parole dure. «Manca una posizione chiara e netta sull’Ucraina. Formalmente Schlein dice le parole che si devono dire. Ma si vede quando non ci mette il cuore». La segretaria non replica alle critiche interne e tira dritto: «La mozione del governo non si poteva votare, era uguale a
Commenta (0 Commenti)Oggi il Sudafrica porta Israele davanti al tribunale dell’Aja con l’accusa di genocidio. Tel Aviv si prepara a rispondere: appello agli alleati per impedire che si giunga a una sentenza storica. È il primo vero tentativo di fermare il massacro della popolazione palestinese di Gaza
ISRAELE/PALESTINA. Prima udienza alla Corte internazionale dopo la denuncia di Pretoria per genocidio, Tel Aviv prova a impedire l’ingiunzione. L’eventuale decisione dei 15 giudici è vincolante: possibili sanzioni Onu se non viene rispettata
Una bambina palestinese ferita all’arrivo all’ospedale Al-Aqsa Hospital di Deir al Balah - Ap/Hatem Moussa
Quello che si apre oggi all’Aja, comunque vada, è un procedimento storico. Alle 10 ora italiana la Corte internazionale di Giustizia (Cig), il principale organo giudiziario dell’Onu, ascolterà dalla delegazione sudafricana i contenuti della denuncia presentata lo scorso 29 dicembre contro Israele, accusato di violazione della Convenzione per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio del 1948.
Tre ore di udienza a cui seguirà, venerdì, la risposta israeliana. Ad ascoltare le due parti saranno i 15 giudici della Cig – a cui se ne aggiungono due ad hoc, uno sudafricano e uno israeliano – da 15 paesi del mondo (restano in carica nove anni e operano in modo indipendente dai rispettivi governi; al momento alla Cig siedono giudici di Stati uniti, Russia, Cina, Francia, Australia, Brasile, Germania, India, Giamaica, Giappone, Libano, Marocco, Slovacchia, Somalia e Uganda).
A DIFFERENZA della Corte penale internazionale che giudica individui ritenuti colpevoli di crimini contro l’umanità, la Cig dirime le controversie tra Stati e le sue decisioni sono vincolanti. Sta qui la natura storica delle udienze che si aprono oggi: se una
Commenta (0 Commenti)Il misterioso Piano Mattei resta tale anche nel giorno in cui arriva in aula come decreto d’urgenza. Molte promesse, pochi soldi, è l’idea antica di «sviluppo e prosperità» su cui punta il governo per soddisfare il nostro bisogno di energia e risolvere tutti i problemi dell’Africa
PIANO MATTEI. Italia a tutto gas e zero rinnovabili. L'unica urgenza di procedere con un decreto è il bisogno delle risorse energetiche africane
Il presidente mozambicano Filipe Nyusi inaugura l'impianto gasiero di Coral - Zuma Press
Gas Pride. L’orgoglio italiano che Giorgia Meloni sprizza da tutti i pori ha trovato da qualche tempo un fulgido riferimento anche nella figura di Enrico Mattei, a cui è intitolato – copyright Eni – l’assai fumoso piano di cui ieri si è intravisto a malapena il solo contenitore. Un orgoglio vagamente spaccone, che sconfina appunto nella superbia e nella debordante autostima. «Sentimento unilaterale ed eccessivo – per restare alla prima definizione del dizionario – della propria personalità o casta».
Stando invece alla terminologia ricca di «valori etici» e «doveri morali» con cui viene infiocchettata la scatola ancora vuota del Piano Mattei, e volendo credere alla solenne promessa di rinunciare allo spirito «predatorio» che fin qui ha istruito l’asimmetrico rapporto tra potenze occidentali e paesi africani, la destra di governo italiana sembra voler divaricare ancora un po’ il suo sogno contro-egemonico. E così, dopo aver macinato indistintamente le saghe di Tolkien (tipico predatore seriale che ha attinto a piene mani dal Kalevala, l’opera magna dell’epica finnica) e l’epopea di Mattei, Marinetti, D’Annunzio, e persino Gramsci, ora minaccia di allungarsi fino a Thomas Sankara e alla sua rivoluzione rosso-verde. Se mai lo scopo fosse quello di stabilire rapporti paritari, di scommettere sulla sicurezza alimentare e sulle risorse umane, invece che fossili, dell’Africa.
Ma non è il caso di esagerare. Basterebbe cominciare in realtà con l’abbassare i saluti romani e dare una letta ai lavori dello storico Angelo Del Boca, per rinfrescare la memoria sulle
Leggi tutto: Piano Mattei, la memoria fossilizzata della nostra Africa - di Marco Boccitto
Commenta (0 Commenti)Sale a 109 il numero dei giornalisti uccisi dopo il 7 ottobre nella Striscia di Gaza dall’esercito israeliano. Il mestiere di informare equiparato a «terrorismo». Ieri la giornata più sanguinosa dall’inizio dell’anno: 240 morti
OBIETTIVI DI GUERRA. La mano che stringe il microfono è ferita, è fasciata, il filo del microfono parte dalle bende, nell’altra mano si organizza il lavoro con un cellulare. Intanto quel tecnico aiuta il cameraman a «fare il bianco», cioè alza un foglio A4 in modo da perfezionare il colore della ripresa
Wael Dahdouh è direttore e corrispondente di Al Jazeera da Gaza. L’esercito israeliano gli aveva ucciso i figli di sette e quindici anni, sua moglie e altri otto parenti. Ieri l’ultimo figlio, il più grande, giornalista anche lui. Giravano in rete suoi video di quando aveva scoperto della strage della sua famiglia mentre copriva il servizio, mentre seppelliva il figlio: succede durante una guerra, se sei una persona esposta mediaticamente, che qualcuno riprenda le cose tue private, che tutti vedano il lutto che abitualmente è una stanza segreta, preclusa ai più.
Ma ieri è accaduta una cosa diversa, diversa dalle macerie, dai piccoli sudari a cui ci siamo abituati in questi tre mesi, dico abituati, ché non avremmo mai pensato di conoscere così bene l’aspetto di sepolture diverse dalle nostre.
E mentre ci eravamo abituati, dico abituati che non significa accettare, significa solo sapere cosa stiamo guardando, in qualche modo quindi controllare quanto e quale dolore prendere su di noi di questo genocidio, è successa una cosa diversa: che questo omone grosso e piegato dal lutto si è asciugato le lacrime, si è fatto fasciare la mano ferita, ed è tornato alla base – un miserrimo rifugio dove stanno gli altri colleghi, tutti gli inviati – per lavorare. Si vede questo ultimo video in cui arriva, un medico gli porge le sue condoglianze abbracciandolo, con uno dei sorrisi più comprensivi e dolci che io abbia mai veduto sul volto di un uomo, poi un tecnico gli dà
Leggi tutto: Il senso dei reporter per la vita - di Valeria Parrella
Commenta (0 Commenti)SCENARI. Non solo non si intravede mediazione possibile fra due parti in divergenza etica, filosofica ed “ontologica” ma il “divorzio nazionale”, caldeggiato da molti Maga (Make America Great Again), è per molti versi già consumato
Come a sottolineare il paradossale “giorno della marmotta” in cui sembra essere, da tre anni, intrappolato il paese, il fatidico anno elettorale del 2024 viene inaugurato da discorsi incrociati di Joe Biden e Donald Trump nell’anniversario del 6 gennaio.
Le presidenziali sono fatidiche perché prospettano il rematch che quasi nessuno vorrebbe rivedere. Lo scontro fra i due anziani contendenti che al di là delle problematiche anagrafiche, confermano quello che tutti sentono: gli Stati Uniti, superpotenza occidentale, “democrazia fondativa” e “faro di libertà”, non hanno elaborato la profonda crisi politica, istituzionale e, diremmo, antropologica, che tre anni fa l’ha portata sull’orlo del precipizio, e di un colpo di stato.
Tre anni orsono, il Congresso è stato preso d’assalto dalla folla Maga incitata dall’ex presidente, nel tentativo di deragliare l’insediamento del successore legittimamente eletto. Oggi nuovamente candidato, sopravvissuto a due impeachment, pluri-incriminato, ma semmai proprio per questo ancor più riverito dalla base, quello stesso mandante torna a puntare il suo lanciafiamme demagogico sulle norme e le convenzioni della democrazia costituzionale.
Non ha mai davvero smesso. Dal suo “esilio” di Mar A Lago ha continuato a declinare l’aggressivo vittimismo che caratterizza tante destre populiste nel mondo. Non ha mai rinnegato la Big Lie delle elezioni “rubate” e le istituzioni sono state incapaci di contenere il demagogo sovversivo con l’impeachment, strumento costituzionalmente preposto, ma sabotato dalla connivenza di un Gop radicalizzato. Ora Donald Trump grava sulla psiche del paese come il mefitico ed iracondo tiranno raffigurato nella sua foto segnaletica. Il tasso insidioso di violenza che ha introdotto nel dialogo e nella vita pubblica della nazione, quello che declina nei suoi comizi foschi e sgangherati, incombe come un’eversiva minaccia sulla campagna elettorale.
Ha un bel ripetere Biden, come ha nuovamente fatto nell’ultimo discorso, che non si può essere al contempo per la democrazia e per
Leggi tutto: Presidenziali 2024: è davvero in pericolo la democrazia americana? - di Luca Celada
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