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Inseguito dalle accuse di torture, stupri e altri crimini violenti, un altro gerarca libico dopo Elmasry è stato tranquillamente in Italia. Una viaggio in compagnia dei miliziani del Ssa, criminali per l’Onu e indagati dalla Corte penale internazionale. Ma alleati nella tratta dei migranti

Overtourism Il miliziano visita il ministro Juma, ricoverato dopo un attentato. Le accuse delle ong, dell’Onu e del Dipartimento di stato Usa. La Farnesina: «Ha un visto maltese». Ma i suoi crimini sono conosciuti. A fine gennaio il viaggio a Tripoli del capo dell’Aise. Il caso degli 86 mandati «coperti» della Corte dell’Aja

Al Kikli in gita a Roma, l’Italia meta preferita dei torturatori libici

L’Italia continua ad essere meta prediletta per aguzzini libici in libera uscita. Dopo la vicenda del capo della polizia giudiziaria di Tripoli Osama Elmasry, arrestato su mandato della Corte penale internazionale a gennaio a Torino e rimandato a casa su un volo di Stato nel giro di 48 ore, tra il tardo pomeriggio e la sera di mercoledì, a Roma, si è fatto vedere Abdel Ghani Al Kikli, noto anche come Gheniwa, capo del Ssa (Stability Support Apparatus), milizia accusata da più parti di crimini contro l’umanità e abusi vari, dal 2021 sotto il controllo diretto del governo libico. La denuncia della presenza di Al Kikli sul suolo italiano è arrivata dagli account di X della ong Refugees in Lybia e dell’attivista Husam El Gomati, che hanno trovato le foto della trasferta del torturatore sui social dei suoi accompagnatori: almeno sei persone tra miliziani, diplomatici, uomini d’affari e classe dirigente vicina al premier di Tripoli Abdelhamid Dabaiba. Il motivo del viaggio era far visita al ministro Adel Juma, ricoverato alla clinica privata European Hospital di via Portuense a Roma dal 18 febbraio perché, una settimana prima, era stato gambizzato in patria in circostanze misteriose.

NON È CHIARO se Al Kikli sia o meno nella lista dei boia libici ricercati dalla Cpi: i nomi coperti da segreto sono 86 e, a richiesta di maggiori informazioni sull’esistenza di eventuali iniziative giudiziarie contro il capo del Ssa, il portavoce della procura dell’Aja ha risposto secco che «l’ufficio non commenta questioni operative relative alle indagini in corso. La riservatezza è un aspetto cruciale delle attività della procura. Questo è essenziale non solo per proteggere l’integrità delle indagini, ma anche per garantire la sicurezza e la protezione delle vittime, dei testimoni e di tutti coloro con cui l’ufficio interagisce».

Persone detenute dalle forze controllate da Gheniwa sono state sottoposte a sequestri, torture e maltrattamenti anche con esiti mortali Amnesty International

IN OGNI CASO, le attività di Al Kikli, che era già stato a Roma l’estate scorsa per assistere ai play off della Libyan premier league, sono note in virtù di una denuncia di quasi 200 pagine inviata alla Cpi nel novembre del 2022 dall’ong Ecchr (Centro europeo per i diritti umani e costituzionali) nel quale si circostanziano 501 casi documentati di

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La strage in mare Il presidente della Fondazione Migrantes sui quasi 50 morti davanti Lampedusa: «Bisogna accompagnare le persone, non bloccarle. Dobbiamo difenderci dal riarmo, non dai migranti. Pensare che avere un arsenale pieno sia uno strumento di sicurezza è un’illusione che qualcuno vuole coltivare»

Monsignor Perego: «Il silenzio del governo sul naufragio nasconde le sue responsabilità» Monsignor Gian Carlo Perego, presidente della Fondazione Migrantes

Dieci superstiti, sei cadaveri e altre quaranta persone inghiottite dal mare è il bilancio dell’ennesima strage avvenuta martedì a poche miglia da Lampedusa, nel mutismo di autorità e governo. «Un silenzio che aggrava il disinteresse rispetto a una politica del Mediterraneo che si prenda cura delle persone in fuga», afferma monsignor Gian Carlo Perego, arcivescovo di Ferrara-Comacchio e presidente della Fondazione Migrantes, organismo pastorale della Confederazione episcopale italiana (Cei).

Il governo non ha rilasciato nessuna dichiarazione su questo grande naufragio. Aveva altre priorità o è una scelta?
Mi pare sia una scelta per cercare di lasciar cadere in secondo piano la sua forte responsabilità, quella di un governo che ha sostanzialmente abbandonato la cura del Mediterraneo e delle persone che lo attraversano. Il silenzio aggrava questo disinteresse a una politica del mare che non sia di abbandono, rimpatrio e affidamento ad altri del doversi occupare delle persone in fuga anziché farlo in prima persona. Con un’operazione che avrebbe dovuto coinvolgere ancora una volta l’Europa.

Anche i media, con poche eccezioni, hanno evitato di dare rilevanza alla nuova strage. Dopo Cutro l’Italia si è stancata di vedere questi morti?
Si è girata dall’altra parte. Purtroppo si mostra disinteresse per l’appello che papa Francesco fece a Lampedusa chiedendo «Dov’è tuo fratello?», le parole della Genesi con cui il Signore ricordava a Caino di Abele. C’è un’indifferenza che cresce anche dentro un’opinione pubblica fortemente condizionata dall’idea di arrendersi di fronte al dramma di queste persone.

Migrantes ha parlato di «una tragedia evitabile». Come si possono evitare queste tragedie?
Lo abbiamo detto tante volte. Il Mediterraneo è una delle strade attraverso le quali rigenerare l’Europa con persone che sono in fuga, ma dentro di sé hanno anche tanta speranza, grande capacità e forza di rinnovamento. L’abbandono del Mediterraneo è il primo aspetto colpevole, mentre ci dovrebbe essere attenzione a farlo diventare una strada per vie legali di ingresso, per la capacità di ciascuno di riconoscere in queste persone una risorsa importante per le nostre città che, come sappiamo, stanno morendo. Poi si possono evitare anche attraverso i canali legali, che mancano da vent’anni perché sono sostituiti da quote per quanto riguarda i lavoratori e da nessun interesse, se non quello dei corridoi umanitari, per quanto riguarda i richiedenti asilo e i rifugiati.

Secondo la premier Meloni il modo per fermare le morti in mare è bloccare le partenze. Magari con gli accordi con Tunisia e Libia. È d’accordo?
Assolutamente no. Noi non abbiamo bisogno di bloccare le persone, abbiamo bisogno di accompagnarle nei luoghi, nelle città, nei territori dove hanno già una comunità di riferimento, dove c’è esigenza non di manodopera da sfruttare ma di nuovi lavoratori e nuovi lavori, di persone che con la storia, la freschezza e la capacità che hanno dentro possano da una parte rigenerare le nostre città e dall’altra costituire una risorsa per una vera cooperazione allo sviluppo nel loro paese, come lo furono i nostri emigranti. Non dimentichiamo che le rimesse sono sempre state il volano più importante per la cooperazione allo sviluppo: le politiche migratorie e di sviluppo camminano insieme. Diversamente c’è il rischio che una annulli l’altra.

Secondo il governo un altro strumento per ridurre le traversate sono i centri in Albania, che dovrebbero produrre un effetto dissuasivo. Funzioneranno?
È sotto gli occhi di tutti che, al di là di rappresentare un grande spreco di risorse gettate a mare, al momento sono chiusi. Anche se potrebbero tornare a essere delle carceri, dei lager per persone che si vogliono non rimpatriare ma mandare in un luogo altro rispetto al loro paese. Da questo punto di vista sono una soluzione, oltre che costosa, disumana e già condannata dal diritto internazionale.

Oggi ci sono leader statunitensi ed europei che dicono: la principale minaccia per l’Europa non è la guerra, ma i migranti. Dobbiamo difenderci?
Dobbiamo difenderci dal riarmo, questo sì. Pensare che avere un arsenale pieno di armi e le città vuote di migranti sia uno strumento di sicurezza è un’illusione che qualcuno vuole coltivare. Ma non genera altro che morte perché diventa il sonno della ragione, come diceva Piero Calamandrei.

La scorsa settimana papa Francesco ha scritto «la guerra è assurda, disarmiamo la terra». È una prospettiva utopistica o persino in un momento come questo c’è spazio per praticarla?
Anche adesso, anzi ancora di più adesso c’è spazio per praticarla. Perché armarsi equivale ad avere in casa e fuori casa un pericolo in più. Il disarmo significa invece avere sicurezza e pace, che è la condizione necessaria perché le persone possano crescere e le città rinnovarsi.

 

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Consiglio europeo La paura del debito fa inciampare i governi ma si cerca un modo per accelerare l’economia di guerra. Alla ricerca di 800 miliardi di euro, 150 di prestiti da finanziare con «eurobond», stop al Patto di stabilità per le spese sulla difesa fino all’1,5 % del Pil

La presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen, Ansa

Partire ad aprile? Troppo presto, anche perché gli 800 miliardi di euro per il piano di riarmo dell’Europa sono virtuali. E i governi europei non intendono per ora chiederli a prestito dalla Commissione Europea, nemmeno con la promessa di restituirli dopo 45 anni. E non hanno ancora trovano un modo per fare nuovo debito pubblico e spremere i cittadini con tagli e tasse in un’economia di guerra. In fondo l’austerità impedisce agli Stati di oliare i nuovi cannoni. È questa la contraddizione che ha rallentato ieri il passo di carica con i quali i capi di stato e di governo dell’Eurozona sono arrivati a Bruxelles.

AL TAVOLO dove si sono seduti è stato servito un piatto condito con toni apocalittici e la melassa dei veti contrapposti. C’è una ragione di fondo per cui non piace il piano di riarmo europeo preparato in fretta dalla presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen. Sono in pochi a trovare convincente l’idea di appoggiare il progetto di rilancio della Germania, l’unica forse ad essere capace oggi di applicare le regole del «ReArm Europe». Lo potrà fare grazie al blitz che ha cambiato la Costituzione. Dazi di Trump permettendo, Berlino prevede mille miliardi in più di debito pubblico in armi, infrastrutture e un contentino per il War Green Deal per i Verdi locali. Su queste basi ora sta facendo pressing affinché anche gli altri governi facciano lo stesso.

SI PARLA molto dello scorporo delle spese militari dal calcolo del debito pubblico previsto dal piano Ue di riarmo. C’è però un problema. Gli stessi Meloni e Giorgetti, che hanno sostenuto la proposta, si sono accorti che il debito comunque si paga e gli interessi aumentano. Chi lo farà per i 650 miliardi previsti da Bruxelles? Meloni tra un diversivo su Ventotene e un altro, sostiene che starà agli Stati decidere se e come aumentare il Pil. Sta prendendo tempo. Trump e la Nato vogliono una spesa militare al 3-5% del Pil e non aspetteranno a lungo.

IL PROBLEMA esiste a tutti i livelli. Ieri è stata rigettata il piano da 40 miliardi per le armi all’Ucraina. Lo ha presentato Kaja Kallas, l’ineffabile commissaria agli esteri e vicepresidente della Commissione Ue. Solo l’Italia avrebbe dovuto pagare tantissimo in base al suo reddito nazionale. Come nel caso dei fondi di coesione per le aree più povere del continente che si vogliono dirottare per il dazio sulle armi, ora si parla di «contributi volontari». Kallas ha dovuto ripiegare su un «piano realistico» da 5 miliardi. Insomma per fare la guerra, bisogna trovare i soldi. All’Ucraina ieri 26 Stati Ue, tranne l’Ungheria di Orban, hanno comunque rinnovato un «sostegno incrollabile».

POLITICAMENTE impresentabile, economicamente senza fondamento, l’orwelliano piano von der Leyen che prepara la guerra per garantire la pace avrebbe una soluzione: gli «Eurobond» o «Bond per la difesa». Quelli auspicati anche dal governo Meloni. Ieri c’è stato lo scontro tra il governo greco e quello olandese. «Non diciamo No al piano di riarmo, ma siamo contrari agli Eurobond» ha detto il premier olandese, Dick Schoof. Il premier greco Mitsotakis ha invece detto che «l’Ue deve essere «più ambiziosa: penso che dobbiamo discutere seriamente la possibilità di uno strumento di prestito congiunto che offra anche sovvenzioni agli Stati membri», vale a dire un «debito comune» di cui i prestiti da 150 miliardi di euro previsti dal piano «Safe» sono «un primo passo». È il consueto conflitto tra la Germania, l’Olanda, la Finlandia e altri satelliti e paesi come l’Italia o la Grecia che hanno debiti pubblici che non permettono di staccare assegni ai militari. Si raschia il barile. E anche ipotesi disperate come l’uso del Meccanismo europeo di stabilità (Mes) per scopi militari è stata rigettata.

UN’IPOTESI di soluzione al problema è arrivata ieri da un documento del Partito popolare europeo, perno sia della Commissione Ue che del prossimo governo tedesco guidato da Friedrich Merz. Si riconosce la necessità di adottare «strumenti di debito comuni», «purché siano chiaramente mirati a rafforzare la difesa europea, in particolare nelle aree dove la minaccia è attualmente più grave», cioè nei paesi baltici al confine con la Russia. È il riconoscimento che qualcosa in più che dare aria alla sola Germania può essere fatto. Anche i socialisti europei sono d’accordo.

UN SEGNALE di incoraggiamento è stato dato al governo italiano sulla proposta delle garanzie europee «InvestUe». Servirebbe a convogliare i «capitali privati» sul riarmo. Un’idea che rinvia alla creazione di un «Unione dei risparmi e degli investimenti» ripresa dall’Eurosummit e sollecitata dalla presidente della Bce Christine Lagarde che parla di «euro digitale».

SE NE RIPARLERÀ fino a giugno, con il rischio di perdere l’urgenza usata per imporre l’impensabile. Al prossimo vertice Nato, e nel corso delle trattative urticanti sul nuovo bilancio pluriennale dell’Ue, molti saranno i nodi. A cominciare dalla necessità di ripagare il debito sul Pnrr varato al tempo del Covid.

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Palestina/Israele Cannoni ad acqua contro chi manifesta per la cacciata del capo dei servizi. Ronen Bar, uno che ha passato la vita a sorvegliare e punire i palestinesi, diviene il surreale simbolo di un autoritarismo conclamato. Nella Striscia al via operazione di terra a Rafah e Beit Lahiya. La protezione civile non ha più i mezzi per scavare e i medici devono amputare senza anestesia

Sfollati palestinesi si scaldano davanti a un falò in una tendopoli a Gaza City foto Epa/Haitham Imad Sfollati palestinesi si scaldano davanti a un falò in una tendopoli a Gaza City – Epa/Haitham Imad

Cannoni ad acqua, spray urticante, liquido chimico maleodorante, barricate: migliaia di israeliani in marcia verso la residenza gerusalemita di Benjamin Netanyahu sono stati dispersi con i metodi che finora nella città santa sono stati riservati ai manifestanti palestinesi. A differenza delle proteste a Gerusalemme est, sono mancati lacrimogeni, botte e arresti indiscriminati. Ma il senso è chiaro: il primo ministro non ammette sfide, per quanto minime, al suo potere e all’operazione di occupazione di ogni istituzione del paese.

ERANO QUALCHE MIGLIAIA a protestare in Azza Street (per un’orribile ironia del destino il premier vive in Via Gaza) contro il licenziamento del capo dei servizi interni, lo Shin Bet. Ronen Bar, uno che ha passato la vita a mettere in piedi sistemi di sorveglianza totale della popolazione palestinese come forma di oppressione e apartheid, diviene così il surreale simbolo di un autoritarismo ormai conclamato.

La polizia ha bloccato la marcia prima che arrivasse alla residenza di Netanyahu e l’ha dispersa quando ha tentato di superare le transenne. Era accaduto lo stesso ieri sera. Tra i manifestanti spintonati dalla polizia anche un ex parlamentare, Yair Golan: «Proteste e scioperi, sempre più frequenti, per mostrare il fallimento del governo». «Distruggeranno i nostri valori, la nostra giustizia e la nostra moralità», dice ad Haaretz uno dei manifestanti dispersi.

Altri nominano gli ostaggi, i 59 ancora a Gaza e che il governo ha ormai palesemente abbandonato a favore di obiettivi politici ben più succosi per l’ultradestra: la devastazione definitiva della Striscia. Per raggiungere lo scopo, Netanyahu ha ripreso l’offensiva assicurandosi il ritorno in maggioranza di Potere ebraico, il partito suprematista di Itamar Ben Gvir: con lui al suo fianco, Netanyahu è certo di incassare il via libera al fondamentale voto sul bilancio della prossima settimana.

TUTTO QUESTO lo paga Gaza, assente dalle proteste dentro Israele. I numeri della rinnovata ferocia sono impressionanti: 600 palestinesi uccisi in 72 ore da martedì, oltre cento solo ieri. Tra loro duecento bambini. Tra gli uccisi, dice l’esercito israeliano, «alcuni membri» di Hamas e uno del Jihad islami. Ci sono anche cinque dipendenti dell’agenzia Onu per i rifugiati palestinesi, l’Unrwa: dal 7 ottobre 2023 ne ha ammazzati 284.

Il bilancio dei massacri dalla rottura israeliana della tregua è

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Fossa comune L’esercito riprende il corridoio Netzarim, Striscia divisa in due. Decine di uccisi ieri. Colpita una guest house per i funzionari stranieri dell’Onu a Deir al-Balah, due uccisi e quattro feriti. Poi Tel Aviv torna ad attaccare Antonio Guterres: «bancarotta morale». Decine di migliaia di israeliani protestano contro la cacciata del capo dei servizi

Una casa distrutta ieri a Gaza City Epa/Haitham Imad Sotto, mappa a cura di Francesca Luci Una casa distrutta ieri a Gaza City – Epa/Haitham Imad

La telecamera inquadra Izzam Wadi, degli adulti accanto si vedono solo le gambe. È piccolo e impolverato, non deve avere più di cinque anni. Si strofina il naso che cola e gli occhi gonfi mentre segue la preghiera. Di fronte a lui su una barella arancione è poggiato un sacco bianco con il nome scritto a penna. Dentro c’è la madre di Izzam, Lubna al-Najjar. È stata uccisa da un bombardamento israeliano su una delle tendopoli di Khan Younis.

A poca distanza, nella “zona umanitaria” di al-Mawasi che umanitaria non è mai stata, Alaa Abu Helal tiene in braccio un sacco più piccolo. All’interno c’è il figlioletto di un anno e un mese, Mohammed. Alaa scosta il sacco, mostra il volto. In un altro c’è la moglie incinta di sette mesi. «Mia moglie è nata il 20 febbraio, mio figlio è nato il 20 febbraio. Mia moglie è morta il 19 marzo, mio figlio è morto il 19 marzo», dice Alaa. Ad al-Mawasi ieri è stata una mattanza, perché non esistono zone sicure, quelle citate dal premier israeliano Netanyahu martedì sera nel suo comunicato giornaliero: invitava i palestinesi a spostarsi, allontanarsi da Hamas, andare in luoghi sicuri.

UN VIDEO mostra un giovane, tra i resti delle tende di al-Mawasi, con la plastica che si è fusa con le stoffe dei vestiti: «È il sangue di mio fratello. Qui c’è la moglie. Questi sono i loro tre figli. Mio fratello non appartiene a nessun gruppo politico. Ripara computer, ha un negozio». Ne parla al presente.

Sono solo alcune delle testimonianze che arrivano in queste ore da Gaza, filmate da giornalisti e cittadini, mentre dal cemento emergono persone senza vita, tantissimi bambini. Sono un terzo delle vittime dal 18 marzo, da quando Israele ha rotto la tregua e ripreso l’offensiva: 183 bambini su 436 morti a ieri pomeriggio (49.500 accertati dal 7 ottobre 2023), un centinaio le donne.

Infografica sugli attacchi contro Gaza del 18 marzo 2025, a cura di Francesca Luci
Infografica sugli attacchi contro Gaza del 18 marzo 2025, a cura di Francesca Luci

La conta è proseguita nelle ore successive: 14 uccisi nel quartiere di al-Sultan in una casa usata per celebrare funerali; un bambino di due anni e mezzo, Omar Abu Sharqiyya, ucciso da un drone ad Asraa City; cinque uccisi nel raid contro un’auto a Rafah; tre in un appartamento ad Al-Rimal; tre nella casa della famiglia Kilani a Beit Lahiya. Ramy Abdu, fondatore dell’ong Euro-Mediterranean Human Rights Monitor, ieri ha saputo al telefono, dall’Europa, che la sua famiglia è stata cancellata: la sorella Nesreen, il cognato Mohammed e i loro tre figli, Ubaida, Omar e Layan.

Nel pomeriggio di ieri, l’esercito israeliano ha annunciato un’estensione dell’offensiva via cielo con un’operazione di terra «mirata» che il ministro della difesa Israel Katz ha definito «l’ultimo avviso» per Hamas perché accetti la proposta dell’inviato Usa Steve Witkoff (estensione della prima fase della tregua terminata un mese fa, senza passare alla seconda). Il movimento islamico insiste per riavviare i negoziati e procedere con la seconda fase: liberazione dei 59 ostaggi israeliani, cessazione permanente delle ostilità e ritiro totale delle truppe israeliane da Gaza.

Sul terreno accade l’opposto: l’esercito sta riassumendo il controllo del corridoio Netzarim, che divide in due la Striscia, e riavviando l’ampliamento della zona cuscinetto tra il nord e il sud dell’enclave (nei mesi scorsi lì Tel Aviv aveva costruito una vera e propria base militare).

DAL CORRIDOIO Israele si era ritirato il mese scorso, permettendo a centinaia di migliaia di palestinesi sfollati di rientrare nelle proprie case o i loro scheletri a Gaza nord: una marcia impressionante di esseri umani, che ha riunito famiglie divise da mesi e che, seppur nel dolore, è stata vissuta come il primo «ritorno», diritto finora sempre negato dall’occupazione. La rinnovata invasione farà, come prima, da base di lancio per gli attacchi di terra, che si combinano ai nuovi ordini di evacuazione dell’esercito israeliano: avverte la popolazione del nord (Beit Hanoun, Khirbet Khuza’a, Abasan al-Kabira e Abasan al-Jadida) di sfollare per l’ennesima volta verso sud.

I raid israeliani hanno preso di mira anche le Nazioni unite: colpita una delle guest house per i funzionari internazionali a Deir al-Balah, due uccisi e quattro feriti, stranieri della missione Unops. Tel Aviv nega responsabilità, mentre il ministero degli esteri torna ad attaccare con veemenza il segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres, accusandolo di «bancarotta morale» per aver condannato i massacri di martedì.

Nelle stesse ore montava la protesta a Tel Aviv e Gerusalemme contro il governo: decine di migliaia di israeliani si sono ritrovati di fronte alla residenza di Netanyahu nella città santa e nelle piazze della capitale contro il licenziamento del capo dello Shin Bet, Ronen Bar, e i tentativi del premier di assumere il controllo di ogni istituzione del paese. A Gerusalemme la manifestazione è stata dispersa con violenza dalla polizia, quattro arresti.

NETANYAHU va avanti per la sua strada, rafforzato dal ritorno nel governo di Itamar Ben-Gvir: la maggioranza ora non è più in bilico, in vista del fondamentale voto sul bilancio della prossima settimana che avrebbe potuto far saltare l’esecutivo.

Ieri il premier, da una base militare in Cisgiordania, ha annunciato un allargamento delle operazioni militari nel territorio occupato, dove ieri a Nablus altre decine di famiglie sono state cacciate dalle proprie case dai fucili puntati dell’esercito. Decine di ordini di demolizione sono stati emessi per abitazioni a Jenin e Nablus.

 

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Alla vigilia del Consiglio Ue la premier in aula si scaglia contro il Manifesto di Ventotene di Altiero Spinelli e Ernesto Rossi: «Non so se questa è la vostra Europa, certamente non è la mia». Insorgono le opposizioni, che si ricompattano. Schlein: «Oltraggio». Gelo del Quirinale

Montecitorio Opposizioni in rivolta: «Si inginocchi ai padri dell’Europa». La Lega: «No al riarmo». Passa la risoluzione delle destre. Ma il Carroccio avvisa: «Nessun mandato per l’ok a von der Leyen». Il Pd compatto sulla sua mozione. Guerini vota anche quella di Azione. Schlein soddisfatta: «E' andata bene, i problemi sono tutti a destra»

Meloni contro il manifesto di Ventotene: caos alla Camera Giorgia Meloni alla Camera – Ansa

Poteva essere il giorno delle divisioni del Pd sul riarmo di von der Leyen, e invece è stato il giorno dell’attacco sguaiato di Giorgia Meloni contro il manifesto di Ventotene di Altiero Spinelli, Rossi e Colorni. Montecitorio, è da poco passato mezzogiorno. La premier sta facendo la sua replica dopo la discussione in vista del consiglio Ue di oggi e domani. Dopo aver dedicato alcune stoccate a Pd e M5S, inizia a citare alcun i passaggi del manifesto del 1941, scritto sull’isola da un gruppo di confinati dal regime fascista: «La rivoluzione europea dovrà essere socialista». E ancora: «La proprietà privata deve essere abolita, limitata, corretta»; «La metodologia politica democratica sarà un peso morto nella crisi rivoluzionaria».

FRASI ESTRAPOLATE dal loro contesto storico, che le servono per gridare: «Non so se questa è la vostra idea di Europa, ma certamente non è la mia, spero che chi è andato in piazza sabato scorso non l’abbia letto, altrimenti sarebbe spaventoso». I deputati del centrodestra si alzano in piedi plaudenti, dai banchi del centrosinistra partono le contestazioni, le grida «Vergogna», le richieste rivolte al presidente della Camera Fontana (Lega) di prendere le distanze da un attacco così scomposto a padri fondatori dell’Europa ed eroi dell’antifascismo.

In tanti, dai banchi Pd, si alzano in piedi, gridano. Anche persone miti come Roberto Speranza e il moderato Guerini sono paonazzi in volto. «È apologia di fascismo», urla l’ex ministro della Salute. La seduta viene sospesa una prima volta. Alla ripresa dei lavori il dem Federico Fornaro, storico, fa il discorso più forte: «Non è accettabile fare la caricatura di quegli uomini, lei presidente Meloni siede in questo Parlamento anche grazie a loro, questo è un luogo sacro della democrazia e noi siamo qua grazie a quei visionari di Ventotene che erano confinati politici. Si inginocchi di fronte a questi uomini e queste donne, altro che dileggiarli».

Grida tre volte «Vergogna», si commuove, sui banchi delle opposizioni sono tutti in piedi. Poi il 5s Alfonso Colucci cita le parole di Mattarella durante una sua visita a Ventotene. «Il fascismo aveva mandato qui diverse persone per costringerle a non pensare, per impedire che seminassero pericolose idee di libertà». «L’attacco della presidente Meloni al manifesto è un oltraggio alla storia d’Italia. In quest’aula non c’è spazio per il fascismo».

Tocca al capogruppo di Azione Matteo Richetti: «Possibile che quando si pronuncia la parola fascista in questa aula succede il finimondo? Meloni chieda scusa». «Ma basta, finiscila!», lo interrompe il capogruppo di Fdi Galeazzo Bignami, che fa un gestaccio verso i banchi di Avs: riscoppia la bagarre, la seduta viene sospesa ancora e rinviata a metà pomeriggio. Quando Fontana è costretto a intervenire per dire che «chi ha combattuto per la nostra libertà merita il nostro plauso».

I TEMI DEL CONSIGLIO UE, a partire dal piano di riarmo di von der Leyen da 800 miliardi, finiscono in un cono d’ombra. Così come le parole del capogruppo leghista Riccardo Molinari, che poco prima dello show di Meloni aveva mandato un siluro alla premier: «L’Italia non approverà una risoluzione che dà a Meloni il mandato di approvare il Rearm EU, ci aspettiamo che

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