Trump irrompe sul conclave postando una sua immagine vestito da papa. La Casa bianca fa il tifo per il tradizionalista Dolan e prova a condizionare le votazioni. Mentre i cardinali, disorientati e divisi, chiedono più tempo per scegliere il successore di Bergoglio
Stati Uniti L’immagine di Trump-pontefice si somma all’iconografia religiosa del presidente, alleato della reazione nella chiesa
Il cardinale Dolan con Donald e Melania Trump a un evento di beneficenza a New York – Getty Images
L’immagine del papa-re di Mar a Lago, Trump con mitra ed talare da pontefice, va ad aggiungersi all’iconografia autoprodotta di selfie presidenziali, le immagini virali che lo raffigurano come imperatore romano, apostolo di Cristo, culturista o supereroe, una galleria in cui il grottesco si sovrappone alla constatazione della pseudo religione che soffonde il culto di Trump. L’immagine era stata preceduta di qualche giorno da una risposta estemporanea sulle preferenze per il conclave.
Trump si era autonominato ma aveva aggiunto «devo dire però che abbiamo un ottimo cardinale di New York» riferendosi all’arcivescovo tradizionalista Timothy Dolan.
LA PUBBLICAZIONE dell’immagine è poi coincisa con un’ennesima cerimonia di preghiera, imposizione delle mani, inni religiosi e almeno un uomo letteralmente prostrato dinnanzi al benevolo sovrano. I riti abituali dell’immaginario integralista soprattutto evangelico che è componente fondamentale della colazione Maga.
«Dio ha installato questa amministrazione», ha affermato Trump, decretando decaduta la separazione costituzionale fa stato e chiesa e approfittando per annunciare una nuova Commissione per la libertà di religione (in aggiunta alla precedente commissione contro la «persecuzione dei cristiani»). Fra i designati difensori della fede vi è lo stesso cardinale Dolan sostenuto da Trump per il trono di Pietro.
E nella galassia integralista i cattolici tradizionalisti americani occupano un posto chiave da quando negli anni ‘30 Charles Coughlin, sacerdote conservatore ed antisemita, inventò quello che sarebbe divenuto un canale privilegiato della comunicazione di destra, con le geremiadi anti Roosevelt trasmesse per radio.
LA CONFERENZA dei vescovi americani, di cui fa parte Dolan, esprime oggi alcune delle posizioni più reazionarie all’interno della chiesa e ha costituto un principale polo di opposizione alle riforme e alla dottrina della chiesa povera di Francesco. Alcuni dei prelati conservatori erano giunti a chiedere
Commenta (0 Commenti)Germania Il servizio di intelligence tedesco certifica che si tratta di un «partito di estrema destra che viola la dignità umana», i partiti si interrogano sulla messa al bando. Scholz: «No a un percorso affrettato, non è così che dovremmo procedere»
La leader AfD Alice Weidel – Ap
Dopo tre anni di indagine approfondita su programmi, dichiarazioni e iniziative di Alternative für Deutschland il servizio di intelligence lo certifica definitivamente come «partito di estrema destra che viola la dignità umana».
Nulla di nuovo per i milioni di tedeschi scesi in piazza lo scorso gennaio per alzare il muro in difesa della democrazia, ma la notizia a Berlino equivale comunque a una bomba politica che riaccende il dibattito sulla messa al bando.
Per la prima volta l’Ufficio della protezione della Costituzione (BfV) “sentenzia” su Afd a livello nazionale dettagliando l’inequivocabile natura anti-islamica, contro gli ebrei e i migranti, del partito guidato da Alice Weidel.
«LE POSIZIONI XENOFOBE rappresentate sono discriminatorie nei confronti dei tedeschi di origini straniere. Afd mira a escludere precisi gruppi di popolazione dalla partecipazione paritaria nella società, sottoponendoli a una disparità di trattamento incostituzionale» si legge tra le oltre 1.000 pagine della relazione del Bfv.
Immediata la reazione dei partiti del Bundestag. Hanno accolto tutti con soddisfazione l’ineccepibile analisi tecnica anche se la risposta non è univoca. Da un lato i deputati concordano nella volontà di emarginare i fascio-populisti dalla vita politica del paese; dall’altro il divieto formale ad Afd riapre i dubbi sulla reale sostenibilità della mossa prevista dalla costituzione solo nei casi più estremi.
NON SOLO IL RAPPORTO del Bfv non innesca alcun automatismo sul piano giuridico ma la messa fuorilegge di Afd significherebbe, di fatto, azzerare il partito in testa ai sondaggi e il secondo per numero di seggi in Parlamento, con tutte le conseguenze del caso a cominciare dall’aspetto non secondario della gestione dell’ordine pubblico.
Per questo motivo al Bundestag, dopo il plauso congiunto di Cdu-Csu, Spd, Verdi e Linke al riconoscimento ufficiale del razzismo di chi siede nei banchi dell’opposizione, il primo a frenare è proprio il cancelliere Olaf Scholz, in carica ancora per pochi giorni. «Il divieto non si può fare in fretta e finora la Corte costituzionale di Karlsruhe ha respinto tutte le richieste.
Non è in questo modo che dovremmo procedere». Massima cautela anche da parte di Nancy Faeser, ministra dell’Interno-uscente, insediatasi a suo tempo con la promessa di condurre la lotta senza quartiere contro l’ultradestra. «Dobbiamo tenere separato il veto ad Afd dal necessario dibattito politico. Non dobbiamo escludere l’eventualità, ma gestirla con grande cautela».
IL DIBATTITO NON FERMA chi chiede di ridurre immediatamente l’agibilità politica di Afd. La prima è la vicepresidente della Spd, Serpil Midyatli, decisa a cogliere fino in fondo l’occasione offerta dal Bfv senza dibattere sull’efficacia del provvedimento: «Finalmente ora abbiamo nero su bianco ciò che già sapevamo. Il divieto deve arrivare quanto prima e questa volta l’iter istituzionale deve essere preparato con cura, in modo solido, senza errori.
I padri fondatori della nostra democrazia hanno inserito questa possibilità nella costituzione; non guardavano ai sondaggi ma ai nazisti, di allora e di oggi».
Così anche nelle file della Cdu, pure guidata dal “collaborazionista” Friedrich Merz accusato di aver sdoganato Afd al Bundestag votando insieme il pacchetto anti-migranti, egualmente spaccata fra prudenti e intransigenti.
L’influente deputato Marco Wanderwitz, volto di punta dei democristiani nella Germania dell’Est e responsabile culturale del partito, non vuole sentire ragioni di realpolitik: «Rapida procedura di messa al bando. Il governo, il Consiglio federale e il Parlamento devono avviare subito e senza indugio la procedura» tuona fra le perplessità di non pochi colleghi dell’Union.
MENTRE LA LINKE invoca contromisure dirette alla manifesta incompatibilità dell’ultradestra con la democrazia, ma chiede soprattutto di asciugare il mare torbido in cui sguazzano i fascio-populisti. «Naturalmente come sinistra faremo di tutto affinché il Bundestag porti avanti la mozione di divieto.
Però a rafforzare oltremodo gli estremisti di Afd sono stati i fautori della campagna per la loro normalizzazione. Questi, anche, mettono a repentaglio la nostra democrazia» ricorda la co-leader Heidi Reichinnek.
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Un attacco di droni nel cuore del Mediterraneo, al largo di Malta. Colpita e quasi affondata la nave della Freedom Flotilla. Voleva portare aiuti umanitari a Gaza, ma il blocco di Israele è impenetrabile. Da due mesi non entra più nulla, nella Striscia lo sterminio è per fame
In fondo al male La nave con a bordo 30 attivisti colpita al largo di Malta. Un C-130 israeliano ha sorvolato per ore la zona. Tel Aviv non commenta
La nave Conscience dopo l’attacco in mare – foto Epa
A mezzanotte e ventitré di ieri, due droni da guerra hanno colpito diverse volte la nave Conscience della Freedom Flotilla, mentre si trovava in acque internazionali. Il primo sparo ha centrato l’esterno dello scafo, che ha cominciato a imbarcare acqua. Gli altri il ponte di prua e la zona dei generatori, lasciando l’equipaggio senza energia. La radio ha smesso di funzionare e le comunicazioni sono diventate complicate e discontinue. Si è subito sviluppato un incendio e sono giunte sul posto una nave di Cipro del Sud e una maltese. Thiago Avila, della ong, ha dichiarato che la Flotilla ha inviato due barche in supporto ma che le navi maltesi non hanno permesso loro di avvicinarsi. In serata, gli attivisti hanno comunicato di temere un nuovo attacco e che la nave resta gravemente danneggiata. Ma la Guardia costiera maltese blocca lo scafo, impedendogli di giungere in un porto sicuro.
AL MOMENTO dell’attacco la Conscience ospitava trenta operatori umanitari provenienti da Turchia e Azerbaijan, cibo e medicine. Una nave disarmata, ferma a tredici miglia a nord-est di Malta nell’attesa di ricevere il permesso di attraccare al porto per far salire a bordo altri volontari e ulteriori beni essenziali. La Freedom Flotilla Coalition, che dal 2008 organizza azioni con lo scopo di rompere l’assedio israeliano e raggiungere le coste di Gaza, aveva scelto di mantenere il riserbo sulla missione della Conscience. Per evitare di essere bloccata, come già diverse volte è accaduto.
A MALTA si sarebbero dovuti imbarcare decine di altri volontari, tra cui l’attivista Greta Thunberg, che avrebbe proseguito verso Gaza insieme agli altri. In attesa a La Valletta anche due italiani, Simone Zambrin e Chiara Di Silvestro. Ma i meccanismi di boicottaggio godono di sistemi di supporto internazionale che usano la burocrazia come un’arma affilata. «Tutte le missioni hanno registrato ritardi causati dalle autorità marittime – ci ha detto Michele Borgia, che si occupa in Italia della comunicazione per l’ong – Spesso le imbarcazioni vengono controllate e ricontrollate per giorni».
Gli attivisti puntano il dito contro Israele e i suoi partner. Chi poteva avere interesse a mettere fuori uso con le armi una nave umanitaria diretta a Gaza? Non ci sono prove certe ma un C-130 Hercules dell’aeronautica israeliana è partito da Tel Aviv giovedì pomeriggio e ha sorvolato, a bassa quota e per diverse ore, l’area in cui si trovava la Conscience. Secondo i dati di volo disponibili online sui siti di tracciamento e condivisi dalla Cnn, l’aereo è ritornato in Israele sette ore dopo il decollo, quando l’attacco era già stato compiuto. Tel Aviv si è rifiutata di commentare.
QUINDICI ANNI FA, a maggio del 2010 Israele attaccò la Mavi Marmara, una delle sei navi della Freedom Flotilla che tentavano di forzare il blocco navale di Gaza. I militari uccisero nove attivisti turchi. Il presidente Erdogan, tra i primi a denunciare l’attacco di ieri, ha dichiarato la sua solidarietà al gruppo internazionale. Eppure, è stata proprio la Turchia a bloccare per mesi la nave al porto di Istanbul, lasciando che il cibo si deteriorasse e che parte degli aiuti diventasse inservibile. Anche per questo motivo l’imbarcazione doveva attraccare a Malta, dove la attendeva un’agenzia incaricata al trasbordo del nuovo carico umanitario. Agenzia che ha inaspettatamente dichiarato di non intendere far fede al suo impegno e Malta non ha rilasciato il permesso di ingresso nelle sue acque territoriali.
Un’attesa di 48 ore che ha svelato il suo significato quando è giunta alla nave la temuta e familiare notizia. L’attesa in acque internazionali serviva a dar tempo alle pressioni di governi e paesi perché venisse ritirata la bandiera dell’imbarcazione. La Conscience batteva bandiera di Palau. L’identica cosa era accaduta lo scorso anno a un’altra missione della Flotilla che con tre navi, 5mila tonnellate di aiuti e centinaia di osservatori internazionali sarebbe dovuta partire da Istanbul. Il governo turco ritardò la consegna dei permessi fino a quando venne comunicato che la Guinea Bissau intendeva ritirare la sua bandiera.
SOLO NEL 2008, la Dignity riuscì a vincere il blocco e a raggiungere le coste di Gaza. Quella volta, insieme a tanti volontari internazionali, sbarcò anche Vittorio Arrigoni.
«Abbiamo valutato i rischi della missione – ha dichiarato al manifesto l’attivista italiano Simone Zambrin – ma abbiamo deciso di provare a fare quello che i nostri governi, complici, non fanno.
Esiste qualcosa di più genuino che portare cibo e medicine a chi ne ha bisogno? È la nostra resistenza non violenta a un atto disumano».
Dopo due mesi di blocco totale, neanche le associazioni internazionali a Gaza hanno gli strumenti per aiutare la popolazione. La risposta umanitaria «è sull’orlo del collasso totale», ha denunciato la Croce rossa. «Senza un’immediata ripresa delle consegne di aiuti, il Comitato Internazionale (Cicr) non avrà access
Leggi tutto: Droni contro la Flotilla che portava cibo a Gaza - di Eliana Riva
Commenta (0 Commenti)Sotto accusa l'eccesso di produzione di energia pulita, ma il premier iberico e i tecnici smentiscono il collegamento. La questione delle reti e perché in Italia non potrebbe accadere
Il premier spagnolo Pedro Sanchez annuncia la creazione di una commissione di inchiesta sul maxi blackout che il 28 aprile ha lasciato il Paese (e anche il Portogallo) senza corrente elettrica. Sono già state escluse alcune ipotesi, come l’attacco informatico e le condizioni meteorologiche estreme, ma per il primo ministro socialista non è possibile neppure parlare di “un eccesso di produzione di rinnovabili” anche perché la rete spagnola è spesso soggetta a volumi molto elevati di tale produzione. E risponde alle critiche del centrodestra rispetto alla decisione di chiudere gli impianti nucleari: “Non sono più resilienti”. In Italia, tra i commenti, quello del vicepremier Matteo Salvini: “La decisione della Spagna di tornare indietro rispetto al dossier del nucleare è stata sicuramente una concausa del buio delle 24 ore”. Anche se vanno ancora chiariti molti aspetti legati soprattutto alle cause che hanno generato una serie di effetti a catena, in conferenza stampa Red Eléctrica, operatore della rete elettrica nazionale, ha fornito una prima ricostruzione. Alle 12.33 c’è stato un primo calo di energia, un’oscillazione, ma la rete nazionale si è stabilizzata quasi immediatamente. Dopo un altro secondo e mezzo, c’è stato un secondo calo più importante e la rete, questa volta, non è stata in grado di compensarla. Dopo altri 3,5 secondi, in base al funzionamento dei sistemi di sicurezza, la linea elettrica tra Spagna e Francia è stata automaticamente disconnessa per ‘proteggere’ la rete elettrica continentale che collega i vari Paesi. “Non c’è stato alcun problema di eccesso di energia rinnovabile, né di mancanza di copertura o di domanda insoddisfatta – ha detto Sanchez – e chi collega questo incidente alla mancanza di energia nucleare, francamente, sta mentendo o dimostrando la propria ignoranza”. A riguardo, è intervenuta anche Beatriz Corredor, la presidente di Rete Elettrica Spagnola (Ree) ed ex ministra nel Governo Zapatero: “Non è corretto mettere in relazione l’incidente così grave di lunedì con una penetrazione delle rinnovabili” nel sistema elettrico spagnolo.
Cosa si sa sui minuti che hanno preceduto il black-out – Come sottolineato da Eduardo Prieto, direttore dei servizi operativi di Red Eléctrica, nel giro di pochi secondi si è registrata una perdita improvvisa di 15 gigawatt, ossia il 60% della produzione elettrica nazionale, probabilmente legata ad impianti fotovoltaici in Estremadura, nella parte sud-occidentale della Spagna. Fino a pochi secondi prima, solare, eolico e nucleare insieme stavano fornendo il 76 per cento della domanda. Non c’è al momento una risposta certa su cosa abbia portato a queste oscillazioni. “Bisognerà analizzare il perché si sono prodotte le due disconnessioni, in particolare la seconda che ha portato al collasso del sistema” ha detto Prieto. Per comprendere l’effetto che ha avuto anche la disconnessione tra Spagna e Francia, bisognerà anche capire se lo stato iberico stesse esportando o importando energia verso Parigi. Nel primo caso potrebbe essersi determinato un sovraccarico di energia, nel secondo una ulteriore perdita. “Saranno gli accertamenti a dire cosa sia davvero accaduto e perché, ma un ruolo importante lo ha avuto certamente la frequenza di rete, che riflette l’equilibrio tra generazione e domanda di energia” spiega a ilfattoquotidiano.it Diego Cirio, responsabile di un gruppo di ricerca che si occupa di reti di trasmissioni in Rse (Ricerca sistema energetico). E aggiunge: “Si tratta di una grandezza controllata 50 Hz a livello di sistema interconnesso di cui è dotata l’Europa”. Solo che in pochi secondi questo valore è sceso, rendendo il sistema instabile. “L’isolamento, a prescindere che la Spagna importasse o esportasse energia, potrebbe aver reso la situazione ancora più complicata” spiega Cirio.
Gruppo impianti solari: “In Italia non potrebbe accadere” – Dall’Italia, però, arriva qualche puntualizzazione dall’associazione Gruppo impianti solari: “A parte l’impossibilità tecnica di mandare in default il sistema elettrico di una nazione semplicemente ‘spegnendo’ due impianti, come associazione del settore ci teniamo a puntualizzare che tutte le reti sono dotate di ‘sistemi di difesa’ che intervengono in casi simili senza creare disagi se non alla rete locale e per un tempo limitato. Più probabile che “che una serie di sistemi di sicurezza che si sarebbero dovuti attivare non abbiano funzionato correttamente”. Secondo l’associazione “in Italia una situazione del genere non sarebbe possibile poiché gli impianti da fonte rinnovabile sono connessi alla rete secondo regole e criteri ben precisi che impediscono criticità in caso di guasto”. La Spagna, invece, ha un parco rinnovabili molto più datato di quello italiano e con regole di connessione che all’inizio non erano così restrittive come lo sono oggi. “Terna ha più volte aggiornato il codice di rete implementandolo con l’obbligo di funzioni e dispositivi di controllo a carico del produttore – spiega il presidente Raffaello Giacchetti – che sono stati pensati proprio per evitare situazioni potenzialmente critiche ed impatti sulla stabilità della rete elettrica nazionale”.
Commenta (0 Commenti)Stati Uniti L’economia rallenta per il drastico aumento dell’import e il calo della spesa pubblica. L’età dell’oro promessa è una chimera: l’incertezza pesa su tutti i settori
Dopo aver sconvolto i mercati finanziari e gli schemi commerciali globali, la politica dei dazi voluta da Donald Trump sta sconvolgendo anche gli indicatori di crescita economica. Il Dipartimento del Commercio ha pubblicato il rapporto sui primi tre mesi del 2025, mostrando che il prodotto interno lordo statunitense, corretto per l’inflazione, è diminuito a un tasso annuo dello 0,3%, segnando la peggiore performance degli ultimi tre anni. Un’inversione di tendenza rispetto alla forte crescita registrata alla fine dello scorso anno, quando l’economia si era espansa a un tasso del 2,4%.
IL RALLENTAMENTO economico è dovuto principalmente a un drastico aumento delle importazioni, dovuto all’urgenza delle imprese che si sono affrettate ad acquistare beni esteri in vista dei dazi promessi da Trump. A pesare sulla crescita c’è anche il calo della spesa pubblica e della spesa dei consumatori che hanno frenato gli acquisti più consistenti. «La crescita è semplicemente svanita – ha scritto dopo la pubblicazione del rapporto, in una nota ai clienti, Chris Rupkey, capo economista di Fwdbonds, società di ricerca finanziaria – Forse parte di questa negatività è dovuta alla fretta di importare prima che i dazi aumentino, ma i consulenti politici non hanno proprio modo di indorare la pillola».
Su Politico il giornalista Sam Sutton ha sintetizzato così: «Trump ha promesso che il suo secondo mandato avrebbe segnato l’inizio di una nuova età dell’oro. I primi risultati economici sembrano più simili al peltro», Nella narrazione di Trump, però, non ci sono tracce di consapevolezza: ha aperto la sua seconda riunione pubblica del gabinetto deviando le accuse sul suo predecessore.
AFFIANCATO dai suoi principali luogotenenti, Trump ha scaricato i pessimi dati del primo trimestre sull’ex presidente Joe Biden: «Tutto questo è Biden, questo non è Trump – ha detto il tycoon – Siamo arrivati a gennaio, questi sono numeri trimestrali. Ero molto contrario per tutto ciò che Biden stava facendo in termini di economia, distruggendo il nostro Paese in così tanti modi». Anche il calo della Borsa è colpa di Biden. «Il nostro paese prospererà, ma dobbiamo liberarci del ‘sovrapprezzo’ di Biden – ha aggiunto su Truth Social – Ci vorrà un po’ di tempo, non ha nulla a che vedere con i dazi, solo che ci ha lasciato con numeri negativi, ma quando inizierà il boom, sarà come nessun altro. SIATE PAZIENTI!!!».
HA ANCHE anticipato che, come i risultati del primo trimestre dipendono ancora da Biden, altrettanto «si può anche dire del prossimo trimestre, in un certo senso, dato che (il cambiamento) non si verifica solo su base giornaliera o oraria, ma stiamo cambiando rotta. È una grande nave da cambiare rotta». I dati, però contraddicono la valutazione di Trump riguardo il mercato azionario. Dopo la sua vittoria l’indice S&P 500 era salito vertiginosamente, a indicare l’ottimismo di Wall Street sulla direzione che avrebbe preso l’economia Usa messa nelle mani del tycoon. E questo Trump l’aveva anche rivendicato nel comizio a Washington, D.C., alla vigilia del suo insediamento: «Dalle elezioni, il mercato azionario è salito vertiginosamente e l’ottimismo delle piccole imprese è aumentato altrettanto vertiginosamente, raggiungendo un record di 41 punti, il massimo degli ultimi 39 anni».
IL VERTIGINOSO ottimismo, però, è crollato, e le azioni sono precipitate il 2 aprile, dopo il “Giorno della Liberazione”, quando Trump ha svelato dazi ben superiori a quanto previsto dagli investitori. Anche dopo aver annunciato la loro sospensione per 90 giorni, i mercati hanno continuato a tremare: era ormai diventato chiaro che i tentativi di Trump di raggiungere accordi commerciali individuali stavano naufragando. L’incertezza si è sentita in tutti i settori, specialmente in quello automobilistico. Dopo aver registrato ricavi in calo, Stellantis ha sospeso le previsioni per l’intero 2025, così come General Motors e Mercedes. Volkswagen è in calo del 40,6% rispetto allo stesso periodo del 2024 e anche per Mercedes il primo trimestre 2025 si chiude con un calo del 43%, nonostante l’ordine esecutivo firmato da Trump per ridurre l’impatto dei dazi sul settore. I dazi del 25% sull’import di auto negli Usa rimangono, ma si evita che i dazi si sommino a quelli sull’acciaio e l’alluminio.
Di tutto ciò nel comizio in Michigan per celebrare i primi 100 giorni al potere, Trump non ne ha parlato. Ma prima di salire sul palco ha detto ai giornalisti di sentirsi in grado di ricoprire il ruolo di papa: «Vorrei diventare papa – ha detto – Sarebbe la mia scelta numero uno».
POCO DOPO, più realista del re, il super repubblicano Lindsey Graham su X ha chiesto al conclave di «mantenere una mentalità aperta» riguardo alla possibilità di nominare Trump prossimo papa: «Sarebbe davvero un outsider».
Commenta (0 Commenti)Striscia continua Procede l’esperienza del Freedom Theatre. Mustafa Sheta: «Siamo combattenti culturali». Nel campo profughi, le ruspe israeliane hanno distrutto tra le 600 e le 700 case, 17mila gli sfollati
Jenin. Soldati israeliani chiudono il campo profughi – Nidal Eshtayeh/Xinhua via ZUMA Press
Si deve anche all’impegno del Freedom Theatre se un bambino del campo profughi di Jenin può, qualche volta, ancora ridere, correre, giocare. Può ancora sentirsi, almeno per un momento, soltanto un bambino, nonostante gli ultimi tre o quattro anni siano stati segnati da incursioni militari continue, da spari nella notte, da fughe e distruzioni. E ora, per molti, anche dallo sfollamento e dalla perdita della casa.
«Proviamo a concedere loro di essere ciò che sono: soltanto dei bambini», racconta Mustafa Sheta, direttore e anima di un progetto culturale unico, che continua a sopravvivere contro ogni previsione, attraversando occupazioni, arresti, distruzioni. Sheta parla con voce calma, sorride agli amici italiani e palestinesi venuti a salutarlo. È uscito da poco da un carcere israeliano, dopo quindici mesi di detenzione amministrativa. È molto dimagrito – tanto che alcuni stentano a riconoscerlo – ma non ha perso il suo spirito. «Così sono più in forma, più atletico», scherza. Ma sulla prigionia non scherza affatto: «Era già accaduto in passato. Anche questa volta mi hanno sbattuto in una cella, senza accuse, senza processo. Nessuno mi ha mai spiegato perché. La verità è che Israele non tollera le mie idee e la mia resistenza culturale. Mi considero un combattente culturale», dice davanti a una delegazione di AVS guidata da Angelo Bonelli e Nicola Fratoianni. Il suo impegno, spiega, è permettere ai bambini e ai ragazzi di Jenin – e dei villaggi attorno – di vivere momenti di bellezza, di libertà, di creatività. «Situazioni lontane dall’oppressione, in cui possano crescere come esseri umani. Questo era e resta il nostro obiettivo».
Mustafa accoglie gli ospiti nella sede attuale del Freedom Theatre, assieme ai compagni di lavoro e di lotta: Adnan, Wafaa, Ahmad, Ibrahim. La storica sede all’interno del campo, conosciuta e frequentata da artisti e attivisti da ogni parte del mondo, non esiste più. «Non possiamo più usarla. È stata occupata dall’esercito israeliano. Il campo è quasi tutto distrutto. Le case che ancora stanno in piedi sono chiuse o presidiate dai soldati. Anche la mia casa l’hanno presa. Sopra c’è ora una grossa bandiera israeliana», racconta Adnan.
Quasi quarant’anni sono passati dalla fondazione, nel 1987, dello Stone Theatre da parte di Arna Mer-Khamis, un’israeliana ebrea, sposata a un palestinese che aveva scelto di stare dalla parte dei bambini di Jenin. Fu l’inizio di un’esperienza culturale e politica unica. Lo Stone Theatre fu raso al suolo durante la seconda Intifada, nel 2002. Ma quattro anni dopo, nel 2006, il figlio di Arna, Juliano Mer-Khamis – attore, regista, attivista – lo fece rinascere, col nome di Freedom Theatre. Voleva portare avanti il sogno della madre. Anche lui ha pagato un prezzo altissimo: nel 2011 fu assassinato a Jenin da un uomo con il volto coperto. Il caso non è mai stato risolto.
Mustafa Sheta porta avanti quell’eredità. Anche in memoria del padre, ucciso nel 2002 dai soldati israeliani, un mese prima della sua laurea. «La violenza non è iniziata il 7 ottobre 2023», precisa. «La nostra gente vive sotto occupazione da decenni. Ora a Jenin stiamo attraversando una delle fasi più difficili. Eppure, proprio per questo, è il momento di investire ancora di più nella cultura, di proteggere il nostro patrimonio. Anche questa è resistenza».
Il clima in città è cupo. Le attività lavorative sono quasi ferme, la disoccupazione ha raggiunto il 55%. Poche ore prima del nostro arrivo, Jenin – da cento giorni sotto l’assedio dell’operazione “Muro di Ferro” dell’esercito israeliano – ha visto l’arresto del giornalista Ali Samouni, una delle voci più note della stampa locale, collaboratore di testate internazionali. E nel campo sono stati fatti saltare in aria altri due edifici. Cinque barriere metalliche gialle, pesanti e invalicabili, lo circondano: servono a impedire il ritorno degli abitanti. Anche i quartieri attigui sono in buona parte svuotati. «Qualche famiglia ci vive ancora, ma è pericoloso. Dai piani alti dei palazzi i cecchini israeliani controllano le strade. Uscire può costare la vita», ci spiega un giovane commesso in un negozio di telefonia.
Un quadro della situazione lo fornisce Zakariya Zubeidi, noto ex prigioniero palestinese e tra i fondatori del Freedom Theatre. È stato uno dei bambini dello Stone Theatre di Arna. Oggi vive a Ramallah, non può tornare a Jenin: Israele glielo proibisce. «La mia famiglia mi aggiorna di continuo. Il campo profughi è quasi vuoto. Hanno distrutto o gravemente danneggiato fra le seicento e le settecento case, molte fatte esplodere con la dinamite o date alle fiamme. I bulldozer hanno raso al suolo le infrastrutture civili, perfino nei pressi degli ospedali, ostacolando l’arrivo di feriti e malati», racconta. «Diciassettemila persone sono sfollate. Dormono dai parenti, nelle moschee, nelle aule universitarie, negli uffici comunali, dove capita. Intanto Israele attacca l’Unrwa. È un’aggressione contro i campi di Jenin, Tulkarem, Nablus e forse presto anche nella Cisgiordania meridionale, per cancellare il diritto al ritorno dei profughi. Di fronte a tutto questo non c’è alcuna iniziativa né del governo (dell’Autorità nazionale palestinese) né dei paesi arabi per fermare Israele».
Il governatore di Jenin, Kamal Abu Al Rub, lancia un grido d’allarme: «Le ruspe israeliane stanno cambiando la faccia del campo profughi e di una parte della città. Stanno spianando tutto e la gente scappa. Cerchiamo di fare il possibile per aiutarla, ma i bisogni sono enormi». Da un anno e mezzo, Abu Al Rub è anche un padre in lutto. Suo figlio Shamekh, giovane medico, è stato ucciso a fine 2023 da una raffica di mitra. «Avvenne proprio davanti casa, a Qabatya. Shamekh aveva preso la sua valigetta per soccorrere dei feriti durante un’incursione. Appena uscito, i soldati hanno aperto il fuoco. È morto sul colpo. Anche un altro mio figlio è rimasto ferito. L’occupazione non guarda in faccia nessuno: dal governatore al cittadino comune, di fronte ai fucili israeliani siamo tutti uguali».
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