Tel Aviv vara il piano di conquista totale della striscia: Gaza apparterrà solo a Israele e al suo popolo. Palestinesi da rinchiudere in un fazzoletto di terra, a sud. La destra oltranzista scavalca anche i dubbi dei militari. Il genocidio è sotto gli occhi del mondo, senza filtri
Palestina Il governo Netanyahu ha approvato l’espansione dell’offensiva volta al controllo totale della Striscia. Contro il voto del gabinetto protestano le famiglie degli ostaggi: vogliono un accordo con Hamas
Gaza. Soldati israeliani prendono posizione – AP/Leo Correa
L’attacco, devastante, condotto da Israele assieme agli Stati uniti contro lo Yemen è scattato ieri dopo il tramonto, mentre l’attenzione era concentrata sul piano approvato domenica sera dal gabinetto di sicurezza israeliano per la rioccupazione della Striscia di Gaza. I primi a colpire, in rappresaglia per il lancio da parte dei guerriglieri Houthi del missile balistico che domenica ha raggiunto il perimetro dell’aeroporto di Tel Aviv, sono stati i cacciabombardieri statunitensi decollati dalle portaerei e dalle basi Usa attorno allo Yemen, che hanno preso di mira Sanaa. Poi è intervenuta l’aviazione israeliana contro la città portuale di Hodeidah, già bersaglio in passato di attacchi violenti. I raid sono proseguiti per ore, e non è escluso che continuino anche nei prossimi giorni. La ritorsione israeliana potrebbe estendersi all’Iran, che il premier Netanyahu considera lo sponsor principale del movimento sciita Houthi, tornato a lanciare missili e droni verso Tel Aviv da quando Israele ha rotto, il 18 marzo, la tregua a Gaza.
C’è chi ieri scriveva che la decisione di Benyamin Netanyahu di espandere l’offensiva israeliana e di (ri)conquistare Gaza – con l’Operazione «Carri di Gedeone» – sarebbe stata dettata dalla necessità del primo ministro di rinviare, ancora una volta, la convocazione dell’inchiesta ufficiale sulle responsabilità sue e del governo nel fallimento della sicurezza israeliana il 7 ottobre 2023. Può darsi che anche questo abbia giocato un ruolo, ma l’approvazione, da parte del gabinetto di sicurezza, del nuovo piano di attacco per la rioccupazione della Striscia è soprattutto il risultato di convinzioni ideologiche e dell’idea dalla guerra ad oltranza che Netanyahu ha dichiarato ad Hamas, a tutti i palestinesi e a mezzo Medio oriente. Ha prevalso quella che alcuni chiamano la «dottrina Smotrich» che considera legittime la parola «occupazione» e tutte le politiche che Israele attua nel suo interesse, senza curarsi del diritto internazionale.
Smotrich, ministro delle Finanze e leader dell’ultradestra, nei giorni scorsi aveva fatto clamore affermando che la liberazione degli ostaggi israeliani a Gaza (59 di cui 24 vivi) rappresenta un obiettivo secondario rispetto alla distruzione di Hamas e alla trasformazione radicale della Striscia. La reazione delle famiglie degli ostaggi e dei loro sostenitori è stata immediata: alla Knesset e nelle strade di Gerusalemme, centinaia di persone hanno contestato Netanyahu e chiesto un accordo con Hamas per riportare a casa i loro cari, vivi e morti, a casa. A nulla è servito l’avvertimento giunto dallo stesso capo di stato maggiore Eyal Zamir sui rischi molto elevati che corrono gli ostaggi con l’avvio della potente e distruttiva azione militare approvata dal gabinetto di sicurezza.
Gioiscono, invece, i coloni del gruppo Nachala, sostenitori della guerra ad oltranza come Netanyahu e Smotrich, che da un anno e mezzo invocano la ricostruzione a Gaza degli insediamenti coloniali israeliani evacuati quasi vent’anni fa con il Piano di ridispiegamento. La loro leader, Daniela Weiss, mesi fa, commentando la contrarietà – almeno di facciata – di Netanyahu alla ricostruzione delle colonie a Gaza, azzardò una previsione: «Tra un anno, ciò che oggi ci viene negato diventerà possibile». Una profezia che è vicina a
Leggi tutto: Il piano di Israele per Gaza: rioccupare ed espellere - di Michele Giorgio
Commenta (0 Commenti)Nella foto: Alle urne in costume da bagno durante le elezioni del 3 maggio in Australia, dove il voto è obbligatorio, via Ap
Oggi un Lunedì Rosso dedicato all’eredità del Novecento. Sta tornando, secondo alcuni commentatori, negli Stati Uniti l’ombra di una stagione di persecuzione del dissenso politico, il maccartismo degli anni cinquanta. Oggi gli strumenti di tutela della libertà di espressione e ricerca sembrano ancora meno efficaci di un tempo.
Caduto in questi giorni l’anniversario della sconfitta degli Stati Uniti in Vietnam, il 30 aprile 1975. Un evento storico che ha influenzato non solo i destini ma anche gli immaginari locali e globali delle lotte anti coloniali.
Ancora più indietro, dentro la trama novecentesca, si arriva con il racconto di una partita di calcio. Quella che si tenne tra sangue e macerie, nella Stalingrado dove l’Armata rossa aveva fermato l’avanza nazista, si sfidano su un campo sminato Traktor e Spartak Mosca.
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A scrutinio praticamente ultimato, il leader del partito nazionalista AUR, George Simion, euroscettico e ammiratore di Donald Trump, ha ottenuto il 40,5% dei voti. Il suo rivale nel ballottaggio del 18 maggio sarà il sindaco centrista di Bucarest Nicusor Dan (20,9%), che ha superato di poco nelle preferenze il candidato della coalizione di governo, Crin Antonescu (20,3%)
Diverso il candidato ma medesimo l’esito: in Romania l'estrema destra è ancora più alta nelle preferenze dei cittadini, cinque mesi dopo l'annullamento a sorpresa del primo turno delle elezioni presidenziali. La svolta nazionalista, infatti, è stata riconfermata anche nel corso della nuova tornata elettorale. A scrutinio praticamente ultimato, il leader del partito nazionalista AUR, George Simion, euroscettico e ammiratore di Donald Trump, ha ottenuto il 40,5% dei voti. Il suo rivale nel ballottaggio del 18 maggio sarà il sindaco centrista di Bucarest Nicusor Dan (20,9%), che ha superato di poco nelle preferenze il candidato della coalizione di governo, Crin Antonescu (20,3%). "Insieme abbiamo scritto una pagina di storia", ha detto Simion in un video messaggio trasmesso nella sede del suo partito, nella quale i sostenitori hanno intonato slogan come "Fuori i ladri, viva i patrioti!". In tutto erano 11 i candidati in lizza per la presidenza della Romania, una carica sostanzialmente cerimoniale ma influente soprattutto a livello di politica estera.
Come detto, si è trattato di una nuova tornata elettorale, a distanza di pochi mesi dalla precedente. La vittoria, lo scorso novembre, di Calin Georgescu, ex funzionario secondo i suoi detrattori vicino al Cremlino, aveva scatenato una diffusa preoccupazione in Europa e gettato la stessa Romania nell’alveo di una crisi politica. La Corte costituzionale, in particolare, aveva deciso di invalidare il primo turno ed escludere dalle elezioni il candidato sessantenne, in virtù di una possibile imponente campagna sulla piattaforma TikTok, spinta forse anche da interferenze russe. Georgescu è stato quindi sostituito da Simion, 38 anni, arrivato quarto lo scorso novembre. I due sono apparsi insieme domenica in un seggio elettorale a Mogosoaia, vicino a Bucarest.
Simion, che si dichiara "maggiormente moderato" rispetto a Georgescu, disdegna coloro che definisce i "burocrati non eletti di Bruxelles". Ha condannato l'invasione russa ma si oppone all'invio di aiuti militari all'Ucraina, con cui la Romania confina, e vorrebbe ridurre il sostegno proprio ai rifugiati ucraini. Fiero sostenitore di Trump, Simion appare spesso con un cappellino con il famoso slogan del presidente statunitense “Make America Great Again” e spera di diventare il “presidente MAGA” a guidare il suo Paese. Simion, tra l’altro, ha promesso che sarà eletto, porterà "Calin Georgescu al potere", attraverso "un referendum, elezioni anticipate o la formazione di una coalizione in Parlamento che lo nomini primo ministro".
Europa A novembre 2024 il voto era stato annullato per le interferenze russe. Affluenza record dei romeni all'estero. Il favorito è George Simion, euroscettico e anti-immigrazione
I candidati alle elezioni in Romania – Ap
La Romania si appresta a vivere uno dei momenti elettorali più delicati e significativi della sua storia recente. Oggi, infatti, si terrà il primo turno delle elezioni presidenziali, ripetizione forzata del voto di novembre 2024, annullato dalla Corte Costituzionale in seguito a gravi irregolarità, tra cui accuse documentate di disinformazione orchestrata da attori stranieri, in particolare russi, attraverso i social network. L’annullamento del voto precedente ha scosso la fiducia nelle istituzioni e ha costretto l’intero sistema politico a riposizionarsi, con l’esclusione dal nuovo scrutinio del vincitore provvisorio di allora, Calin Georgescu, considerato troppo vicino a interessi filo-russi.
LA LISTA UFFICIALE comprende undici candidati, ma la battaglia reale si concentra su quattro figure di spicco, che rappresentano posizioni politiche molto distanti. George Simion, 38 anni, fondatore e leader del partito ultranazionalista Aur, è attualmente il favorito. Ha costruito una campagna fortemente identitaria, euroscettica e populista, con forti richiami alla tradizione ortodossa, posizioni anti-immigrazione e opposizione al supporto militare all’Ucraina. È il candidato della “rottura”, apprezzato da una base giovane e periferica, grazie soprattutto alla sua abilità comunicativa sui social media.
Crin Antonescu, veterano del Partito nazionale liberale (Pnl), è invece sostenuto da una larga coalizione di governo che include Pnl, Psd (socialdemocratici) e Udmr (partito della minoranza ungherese). Rappresenta la continuità istituzionale e un ancoraggio sicuro alle alleanze euro-atlantiche. Viene visto come il garante dell’equilibrio costituzionale in una fase potenzialmente esplosiva.
NICUSOR DAN, sindaco indipendente di Bucarest, gode del sostegno dell’area progressista e dei partiti riformatori (come Usr). È apprezzato per la sua linea intransigente contro la corruzione e per il suo approccio tecnocratico e filo-europeo. Si presenta come alternativa «né populista né di sistema». Infine, Victor Ponta, ex primo ministro ed ex esponente del Psd, tornato in corsa con una piattaforma marcatamente nazionalista, posizionandosi su una linea anti-Ue più moderata rispetto a quella di Simion, ma comunque critica verso l’establishment di Bruxelles.
I sondaggi più recenti indicano un primo turno molto competitivo. Secondo dati di FlashData e Mkor, raccolti nell’ultima settimana di aprile, George Simion sarebbe in testa con un consenso tra il 29% e il 33%, seguito da Crin Antonescu tra il 21% e il 26% e Nicusor Dan tra il 19% e il 23%. Più staccato Victor Ponta stabile sotto il 10%. Il secondo turno del 18 maggio appare inevitabile. Le simulazioni mostrano che Antonescu batterebbe Simion con un margine di 4-5 punti; Dan, al contrario, rischierebbe di perdere contro Simion, a causa della scarsa penetrazione nelle aree rurali e meno istruite.
In gioco non c’è solo la direzione politica interna, ma anche il ruolo internazionale della Romania. Un’eventuale vittoria di Simion implicherebbe un raffreddamento delle relazioni con Bruxelles e Washington, e potrebbe riaccendere tensioni nella regione, in particolare in merito al sostegno all’Ucraina. I partner europei osservano con apprensione l’ascesa dell’estrema destra in un Paese strategico del fronte orientale della Nato.
AL CONTRARIO, un’elezione di Antonescu o Dan garantirebbe la continuità dell’impegno euro-atlantico, il rispetto dello stato di diritto e il mantenimento dei fondi strutturali europei, cruciali per lo sviluppo del Paese.
Intanto, un elemento di novità è la fortissima affluenza degli elettori romeni all’estero (ben 161 i seggi organizzati in Italia). Nel tardo pomeriggio di ieri, secondo i dati ufficiali, oltre 250.000 persone avevano già votato nei seggi della diaspora, con 247.109 voti registrati su liste supplementari. Per confronto, alla stessa ora del primo turno del 24 novembre 2024, avevano votato 125.126 persone, di cui 120.899 su liste extra.
Questo raddoppio della partecipazione potrebbe rivelarsi determinante. La diaspora, storicamente più moderata e pro-europea, tende a penalizzare i candidati populisti e sovranisti. Crin Antonescu e Nicusor Dan potrebbero beneficiare in modo diretto di questo incremento.
I seggi in Romania saranno aperti esclusivamente oggi, dalle 07:00 alle 21:00 (ora locale). L’orario potrà essere prolungato fino alle 23:59, in caso di affluenza elevata.
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Russia-Ucraina Dopo l’accordo sui minerali Washington si prepara a dare a Kiev componenti per gli F-16
Ucraina: una miniera di ilmenite, usata per produrre il titanio, nella regione di Kirovohrad – AP
Ci si appresta a commemorare il passato con entrambi gli occhi rivolti al presente. A tenere banco nelle schermaglie diplomatiche fra Russia e Ucraina di ieri ci sono infatti i preparativi per la parata della “giornata della vittoria” che si terrà venerdì prossimo a Mosca, con cui il Cremlino celebra la fine della seconda guerra mondiale. Volodymyr Zelensky si lascia scappare un commento dai toni minacciosi, affermando che Kiev non può garantire la sicurezza dei rappresentanti stranieri che andranno ai festeggiamenti. «Non sappiamo che cosa farà la Russia in quei giorni», ha detto il presidente ucraino durante una conferenza stampa. «Può essere che intraprendano azioni di un certo tipo, come incendi o esplosioni, per poi incolpare noi».
IN PRECEDENZA, il presidente russo Vladimir Putin aveva messo sul piatto una tregua di 72 ore nei combattimenti proprio per il periodo del 9 maggio. Ecco allora che, dopo il rifiuto definitivo delle ultime ore, le autorità del Cremlino colgono l’occasione per segnalare come questo dimostri che Kiev non sia pronta alla pace. «Si trattava di un test da parte nostra», ha commentato il portavoce Dmitry Peskov. «La mancanza di una risposta diretta mostra chiaramente come il neonazismo sia l’ideologia strutturale dell’attuale governo dell’Ucraina». Dal canto loro, Zelensky e i suoi insistono che Mosca non ha mai accettato la proposta di un cessate il fuoco di trenta giorni e che non si è mai rivelata affidabile nel rispettare alcun tipo di tregua (un mezzo tentativo era stato portato avanti a Pasqua, ma vennero denunciate violazioni da entrambi i lati).
Sotto questo scambio di accuse, comunque, c’è più che altro la volontà di accreditarsi sulla scena internazionale e cementificare le proprie alleanze. Una delegazione delle forze armate di Kiev parteciperà infatti alle celebrazioni in Gran Bretagna, quasi a segnalare il distacco sempre più netto dalla memoria sovietica legata alla seconda guerra mondiale. Putin, d’altra parte, cerca di smontare un po’ l’immagine di un’Europa unita nel suo sostegno all’Ucraina puntando quei leader che hanno interessi nello sfidare Bruxelles: pare tuttavia che non ci saranno né l’ungherese Viktor Orban (presente lo scorso anno) né il serbo Aleksandar Vucic (colto da un malore durante la sua visita negli Stati uniti), mentre lo slovacco Robert Fico si dice ancora intenzionato.
AL DI LÀ DELLE MANOVRE diplomatiche, la guerra continua. Nella notte di ieri si è verificato un massiccio attacco russo su Karkhiv, che ha causato incendi in diversi quartieri e lasciato sul campo circa 50 feriti. Le autorità locali denunciano inoltre che i droni utilizzati per colpire la città dell’Ucraina orientale erano muniti di testate termobariche, proprio per amplificare l’onda d’urto e fare in modo che i danni fossero maggiori. Ma anche il centro di Kherson (sud-est del paese), che vede una sponda del fiume ancora occupata dall’esercito di Mosca, è statA ripetutamente colpitA (un morto) così come Zaporizhzhia (20 feriti). Allo stesso tempo, però, l’intelligence ucraina rivendica di aver abbattuto un caccia russo che sorvolava il Mar Nero utilizzando un drone subacqueo (sarebbe la prima volta che un’ azione del genere va a segno) e il governatore della regione russa di Krasnodar accusa Kiev di aver attaccato un edificio residenziale a Novorossiysk, causando quattro feriti.
SONO I PRIMI momenti successivi a quello che sembra essere un effettivo disimpegno degli Stati uniti dai tentativi di negoziato. Dopo la fatidica firma dell’accordo di cooperazione economica avvenuta il primo maggio, con cui Washington si è garantita una partecipazione nello sfruttamento delle risorse ucraine, diversi rappresentanti a stelle e strisce hanno segnalato che non prenderanno più iniziative per far dialogare le parti in conflitto. Ma tutto sembra puntare verso un più deciso sostegno a Kiev: secondo il Pentagono, il dipartimento di Stato avrebbe approvato una vendita di componentistica e servizi per gli aerei F-16 pari a 310milioni di dollari, mentre alcune fonti della Reuters riferiscono che sarebbero pronte nuove sanzioni contro la Russia, che prendono di mira fra gli altri il gigante del gas Gazprom.
NON STUPISCE allora che Zelensky lodi l’«accordo sui minerali» e si dica fiducioso che il prossimo 8 maggio sarà ratificato dal parlamento. Stando a lui, l’incontro con il presidente statunitense durante i funerali del Papa è stata una svolta: «Trump mi ha promesso che difenderà l’Ucraina».
Commenta (0 Commenti)Elezioni Confermato il premier laburista con percentuali altissime. Il rivale Peter Dutton perde anche il seggio
Sydney, il primo ministro Anthony Albanese festeggia i risultati con il figlio Nathan e la compagna Jodie Haydon – Dean Lewins/Epa
Quando Peter Dutton ha conquistato per la prima volta il seggio parlamentare di Brisbane, era il 2001. Dopo 24 anni, quel seggio non è più suo. Di anni ne erano passati addirittura 125, senza che un leader dell’opposizione rimanesse senza poltrona. Ieri è successo anche quello. Già, perché le elezioni in Australia si sono rivelate una storica umiliazione per il Partito liberale e per il suo candidato premier. È invece un trionfo dalle dimensioni insperate per i laburisti di Anthony Albanese, che diventa il primo capo del governo a venire confermato per un secondo mandato dopo due decenni. Ci voleva l’effetto Donald Trump, per spazzare via tutti i record consolidati. Ma, nel farlo, ha spazzato via anche i candidati percepiti come più vicini alla Casa bianca. Come si era capito già alla vigilia, l’Australia conferma gli indizi arrivati solo pochi giorni fa dal Canada: resistere al bullismo commerciale di Trump è visto con favore dagli elettori.
CI SI ASPETTAVA comunque un distacco minimo e i laburisti erano già pronti a dover avviare le trattative con gli eletti indipendenti per raggiungere i 76 seggi necessari ad avere la maggioranza assoluta. E invece no. Nel giro di poche ore di conteggi, il centrosinistra aveva già raggiunto quota 86, più che abbastanza per governare da solo. Albanese, visibilmente commosso, ha promesso di governare «per tutti gli australiani». Nella notte di Canberra, ha garantito «lavoro equo, salari equi e il diritto di staccare la spina quando si finisce di lavorare», annunciato «un’azione decisa per il clima e le energie rinnovabili», per poi citare il fiore all’occhiello del suo piano di assistenza sanitaria. Un’agenda assai progressista. D’altronde, già a 12 anni Albanese scendeva per strada a protestare contro la vendita delle case popolari in cui viveva con la madre nei sobborghi di Sydney. Ma il premier è chiamato anche a dare nuove risposte alle First Nations, dopo che il referendum da lui promosso sulla rappresentanza parlamentare per le popolazioni indigene è naufragato. Se ancora non fosse abbastanza chiara la distanza siderale dalle posizioni di Trump, Albanese ha aggiunto che «governerà con stile australiano, perché siamo orgogliosi di ciò che siamo. Non abbiamo bisogno di elemosinare, prendere in prestito o copiare da nessun altro».
DIFFICILE non cogliere qualche eco delle accuse allo sconfitto centrodestra di essersi ampiamente ispirato alla piattaforma Maga durante la campagna elettorale. Dutton, soprannominato dai rivali “Temu Trump” come fosse una versione a basso costo del presidente americano, puntava a una profonda riorganizzazione della burocrazia federale, con tagli alle assunzioni pubbliche e uno snellimento dell’apparato statale che pareva disegnato sulle mosse di Elon Musk. I liberali hanno provato una correzione in corso d’opera, quando si sono accorti che i dazi del Liberation Day stavano cominciando a ribaltare i sondaggi che fin lì erano a loro favorevoli. Troppo tardi, tanto che persino Dutton ha perso il suo storico seggio, conquistato dalla paladina dei laburisti: Ali France, campionessa paralimpica che ha perso da pochi mesi il figlio 19enne, morto di leucemia. Non è bastata nemmeno la corsa alle app cinesi (che fin lì i liberali volevano vietare) per conquistare i voti della comunità di origine asiatica. «Molti australiani si sono sentiti a disagio per le politiche dell’America, proprio mentre i liberali avevano assunto toni Maga», ha commentato l’ex ministro laburista Bill Shorten.
ALBANESE, figlio di madre australiana e padre italiano che ha creduto morto fino a quando aveva 14 anni, ha invece enfatizzato due concetti chiave: stabilità e autonomia. La prima, garantita dalla continuità dell’azione di governo. La seconda, perseguita sulle politiche commerciali e diplomatiche. Il premier lo ha in parte già fatto negli scorsi anni, quando ha sì confermato il patto Aukus con Usa e Regno unito per il dispiegamento di sottomarini a propulsione nucleare nel Pacifico, ma ha nello stesso tempo anche ricucito i dilaniati rapporti con la Cina. Dopo un incontro con Xi Jinping, Canberra è infatti riuscita a chiudere una lunga e dolorosa guerra commerciale con Pechino. Ora Albanese è chiamato a trovare un complicato equilibrio con Trump, con l’economia australiana che rischia di risentire parecchio del protezionismo americano.
IERI SI VOTAVA anche a Singapore, nel primo test elettorale per il premier Lawrence Wong, che ha assunto la guida del governo l’anno scorso dopo il lungo dominio della dinastia Lee. Il suo Partito d’azione popolare si avvia alla conquista di 87 seggi parlamentari su 97. Anche qui, le proporzioni della vittoria sono inattese e prendono forma dopo che Wong ha molto criticato i dazi di Trump, abbandonando parzialmente la storica cautela diplomatica della città-stato
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