«L’Ucraina non ha la forza per riconquistare i territori controllati dai russi». Per la prima volta Zelensky ammette che la via d’uscita dalla guerra non può essere militare. Ma chiede ancora armi
Giocoforza Il presidente ucraino sembra aprire al negoziato, poi ci ripensa: «Ce lo vieta la Costituzione». E chiede maggiore sostegno a Trump
«L’Ucraina non ha la forza per riconquistare i territori controllati dai russi» e potrà affidarsi solo alla «pressione diplomatica della comunità internazionale per costringere Putin a sedersi al tavolo delle trattative». Se a dirlo è Volodymyr Zelensky in persona vuol dire davvero che siamo a un momento di svolta. Ma attenzione: «Non rinunceremo ai nostri territori – aggiunge -, è la Costituzione ucraina che ce lo vieta».
Dunque, la domanda sorge spontanea: Zelensky si rassegnerà a cambiare la Costituzione oppure sta tentando nuove vie, come quella di chiedere garanzie di sicurezza dai paesi dell’Ue per affrontare il discorso dell’integrità territoriale nel futuro prossimo? Nel caso della seconda eventualità nessuno dei leader della Nato dubita che lasciare il Donbass, forse la Crimea definitivamente e chissà che altro a Mosca voglia dire cambiare le mappe una volta per tutte. Ma il vero punto è quanto la futura amministrazione statunitense tenga all’integrità territoriale ucraina a fronte di un cessate il fuoco permanente.
IN UN’INTERVISTA INSOLITA, organizzata sotto forma di video-incontro con i lettori di Le Parisien a fare le domande, Zelensky ha interpretato una parte ben diversa da quella a cui ci ha abituato negli ultimi tre anni di conflitto con la Russia. Ha parlato di difese aeree, ovvio, della barbara violenza del nemico e della sofferenza dei suoi concittadini. Ma per la prima volta ha ammesso in modo inequivocabile che la via militare non riparerà ai torti di guerra. «Putin deve essere messo al suo posto», ma non saranno le armate ucraine a farlo, se non altro perché non ne hanno la forza materiale. E quindi il leader ucraino chiede agli alleati di farsene carico: «Non dimenticate tutto ciò che è successo: i missili, l’occupazione delle nostre terre, i morti, l’esilio di 8 milioni persone e i milioni di sfollati interni. Putin è come un boomerang: ritorna finché non ottiene ciò che vuole. E per la prima volta in 30 anni ha trovato un paese che gli ha resistito».
MA QUESTA NARRAZIONE ora eroica della guerra in corso si scontra con la dura realtà del
Commenta (0 Commenti)Striscia di sangue Si riduce la distanza tra Israele e Hamas, cessate il fuoco possibile nei prossimi giorni. La tregua, si dice, potrebbe essere legata alla normalizzazione tra Tel Aviv e Riyadh
Una casa distrutta nel campo profughi di Al Nuseirat, nel centro della Striscia di Gaza – Omar Ashtawy/Ansa
Non era al Cairo ieri Benyamin Netanyahu, ma sul Jabal Sheikh (Monte Hermon), nelle alture del Golan occupate, a fare il punto della situazione lungo le linee di armistizio con la Siria abbondantemente superate dalle truppe israeliane – il 603° Battaglione del Genio dell’Esercito ha raggiunto villaggi a 20 chilometri da Damasco e girano voci di unità speciali alla ricerca dei resti di Eli Cohen, la spia israeliana giustiziata dalla Siria nel 1965 – dopo l’8 dicembre, quando Bashar Assad è fuggito dalla Siria mentre i jihadisti occupavano Damasco. Sul Jabal Sheikh, Netanyahu ha messo le cose in chiaro, confermando ciò che era stato palese a tutti nei giorni scorsi. Israele, ha annunciato, rimarrà sulla cima del monte «finché non verrà trovato un altro accordo (con la Siria) che garantisca la sua sicurezza». L’occupazione si espande, va ben oltre i 1200 kmq del Golan che Israele occupa dal 1967.
LA NOTIZIA DELLA PARTENZA del premier israeliano per la capitale egiziana, poi smentita, ha subito fatto il giro del mondo avvalorando le indiscrezioni su un accordo imminente (mediato da Egitto e Qatar) tra Hamas e il governo Netanyahu per una tregua temporanea a Gaza e lo scambio tra ostaggi israeliani e prigionieri politici palestinesi. Accordo che sarebbe legato, dietro le quinte, alla normalizzazione delle relazioni tra Israele e Arabia saudita. In sostanza, secondo le voci, Netanyahu si sarebbe
Leggi tutto: Bibi sul Golan: resteremo qui. A Gaza si spera nella tregua - di Michele Giorgio
Commenta (0 Commenti)Quirinale Il Capo dello Stato durante gli auguri alle alte cariche: «Democrazie insidiate dalle grandi società che concentrano capitali e sfuggono alle regole». «Chi opera nelle istituzioni deve rispettare i limiti del proprio ruolo, senza invasioni di campo e contrapposizioni. La Repubblica vive di questo ordine». «Sostenere il pluralismo nell’informazione non affidandosi soltanto alle logiche di mercato»
Di fronte alla tante «faglie» che minano il tessuto politico e sociale delle nostre democrazie, Sergio Mattarella lancia un messaggio ai chi ricopre cariche istituzionali. Richiama il «senso del dovere che richiede a tutti coloro che operano in ogni istituzione, di rispettare i limiti del proprio ruolo. Senza invasioni di campo, senza sovrapposizioni, senza contrapposizioni». E «a prescindere dalle appartenenze politiche». «La Repubblica vive di questo ordine. Ha bisogno della fiducia delle persone che devono poter vedere, nei comportamenti e negli atti di chi ha responsabilità, armonia tra le istituzioni».
MATTARELLA PARLA DAVANTI alle più alte cariche dello Stato per i tradizionali auguri di fine anno nel salone dei corazzieri. E, senza allarmismi che non sono nel suo dna, descrive un’Italia esposta a molti rischi, che derivano dalle guerre che «seminano in profondità paura, divisione e odio» (per questo occorre «riaffermare con forza e convinzione le ragioni della pace»), ma anche dalle polarizzazioni e dalle divisioni che limitano lo spazio «del dialogo e della mediazione», portano a una «radicalizzazione che pretende di semplificare escludendo l’ascolto e riducendo la complessità alle categorie di amico/nemico».
«Si rischia che non esistano ambiti tenuti al riparo da questa tendenza alla divaricazione incomponibile delle opinioni», avverte il Capo dello Stato, che cita i conflitti sui vaccini e sui cambiamenti climatici come esempi di temi su cui lo scontro non riesce ad approdare ad una «serena riflessione comune». Di qui l’invito a chi esercita le maggiori responsabilità in campo istituzionale, ai governanti che devono tenere conto di come il tasso di astensionismo stia indebolendo la democrazia, fino al rischio di «una democrazia senza popolo e di fantasmi».
PER IL PRESIDENTE L’ANTIDOTO a questi rischi non è solo la «stabilità» dei governi e neppure la crescita dell’occupazione. Ma ritrovare «spirito di servizio. passione civile, senso del dovere». Una «miniera di valori» che il Capo dello Stato non si limita ad evocare in senso astratto. Ma che richiama citando esempi, dai sindaci ai militari dell’Unifil in Libano, a tante espressioni della società civile. Il monito alle alte cariche è di «poter essere all’altezza delle nostre responsabilità. Di riuscire a farvi fronte con lo stesso impegno e la stessa fiduciosa determinazione con la quale tantissimi nostri concittadini, affrontando difficoltà, mandano avanti, ogni giorno, le loro famiglie e le nostre comunità».
IN PRIMA FILA GIORGIA MELONI ascolta: nel discorso del presidente, come ovvio, non ci sono riferimenti al comiziaccio di domenica ad Atreju, in cui la premier ha attaccato con veemenza molti avversari, compresi il leader della Cgil Landini e l’ex presidente della commissione Ue Romano Prodi. Ma è difficile dire che le orecchie non le siano fischiate quando il capo dello Stato ha esortato ad evitare la «costante ricerca di contrapposizioni» ricordando che «le istituzioni sono di tutti» e chiedendo «comportamenti» adeguati.
IL CAPO DELLO STATO, come già aveva fatto nel dicembre scorso, analizza anche altri gravi rischi che incombono sulle democrazie: quelli rappresentati dalla «concentrazione in pochissime mani di enormi capitali e del potere tecnologico, così come il controllo accentrato dei dati». Nel mirino non c’è solo Elon Musk «come ci si azzarda a interpretare», chiarisce. Ma tutti quei soggetti, pochi, «con immense disponibilità finanziarie, che guadagnano ben più di 500 volte la retribuzione di un operaio o di un impiegato. Grandi società che dettano le loro condizioni ai mercati e – al di sopra dei confini e della autorità degli Stati e delle organizzazioni internazionali – tendono a sottrarsi a qualsiasi regolamentazione, a cominciare dagli obblighi fiscali».
Mattarella torna a denunciare i rischi di questi soggetti che perseguono la ricchezza come «strumento di potere che consente di essere svincolati da qualunque effettiva autorità pubblica». Fino a sfidare il monopolio della forza e della moneta, architravi dello stato moderno che rischia di essere svuotato. L’unica «garanzia» rispetto alla crescita di questi poteri extrastatali è «la tenuta e il consolidamento delle istituzioni democratiche, unico argine agli usurpatori di sovranità». E se dentro le democrazie si insinua il dubbio su una loro presunta lentezza o inadeguatezza rispetto ai mutamenti della tecnologia e dell’economia, per Mattarella la riposta è una sola: «Bisogna amare la democrazia, prendersene cura».
Come? Evitando «conflitti e radicalizzazioni» che producono «una desertificazione del tessuto civile» che può lasciare «campo libero ad avventure di ogni tipo». E anche «sostenendo il pluralismo, nelle articolazioni sociali come nell’informazione», non affidandosi soltanto «alle logiche di mercato». Tutti i possibili destinatari delle sue parole erano presenti ieri sera al Quirinale. A partire da Meloni
Commenta (0 Commenti)I tagli agli italiani Il governo è stato costretto a chiedere il ritiro dell’aumento ai ministri, vice e sottosegretari da 7 mila euro. Dopo Crosetto lo ha fatto Meloni. Ma le opposizioni: «Hanno cambiato il nome in rimborso da 2500 euro». Il dato politico è un altro: perché la manovra fa poco per i salari
Ritirare l’emendamento che aumenta di 7 mila euro al mese le varie indennità ai ministri, viceministri e sottosegretari «tecnici», cioè non eletti in parlamento. La presidente del Consiglio Meloni ha dato ragione al ministro della Difesa Crosetto. Lo ha detto ieri in una replica alla Camera tra una dichiarazione e l’altra in vista del Consiglio Europeo per dare più ufficialità possibile a un intervento che si è fatto aspettare per giorni. «Non credo – ha aggiunto Meloni – che l’attenzione per la manovra che abbiamo varato debba essere spostata su un’iniziativa del genere. Ma per dovere di giustizia è un tantino diverso da come viene raccontato: l’emendamento voleva solo equiparare i trattamenti dei ministri parlamentari e non».
IL FATTO È STATO RACCONTATO invece com’è avvenuto. Le motivazioni sono state riportate da tutti correttamente. Si è invece discusso, a cominciare dallo stesso Crosetto, sull’opportunità di adottare un simile provvedimento a due anni dall’inizio del mandato in una paese dove i salari sono fermi. La legge di bilancio sulla quale Meloni ha invitato a concentrare l’attenzione compenserà in minima parte quanto i dipendenti con un contratto nazionale sotto rinnovo hanno perduto negli anni della maxi inflazione. E il «taglio del cuneo fiscale», che dal 2025 sarà «strutturale» per i prossimi 5 anni, è costosissima compensazione simbolica da 10 miliardi che esclude i più poveri e non recupera il potere di acquisto del «ceto medio». Dunque, parliamo della manovra. E parliamo del fatto che le destre hanno cercato di aumentare di oltre 7 mila euro al mese gli stipendi dei ministri. Perché ora? Perché non due anni fa?
È UN INCIAMPO POLITICO da dilettanti. I meloniani si spolmonano, si muovono come una corazzata e si arenano in una pozzanghera. E, per di più, si fanno incastrare su una delle questioni populiste per eccellenza: il taglio dei«costi» alla politica. Ieri c’è stato il prevedibile siparietto tra Meloni che accusava i Cinque Stelle di usare 300 mila euro di fondi pubblici per pagare Grillo e Conte che si indignava per il fatto che Meloni ha omesso che loro si «tagliano gli stipendi per 100 milioni di euro» complessivi. Dibattiti di una certa levatura. Ma il punto è un altro. Nella politica considerata come una piazzata da talk show questi argomenti dovrebbero essere usati da Meloni in uno dei suoi comiziacci. Invece ieri è stata costretta a giustificarsi alla Camera durante un intervento che avrebbe dovuto volare alto. Il governo si è fatto intrappolare dalla sua maggioranza troppo devota e ora si mette a baccagliare in aula su quanti soldi vanno nelle tasche dei ministri e sono negati ai cittadini.
NELLE ORE FATALI dell’approvazione di una legge di bilancio già impacchettata – e non lo è affatto – alcuni garibaldini dell’opposizione hanno trovato l’inganno anche nell’emendamento che ha riformulato la norma sull’aumento degli stipendi. L’ultima stesura del testo riformulato ieri sera dai relatori ha previsto che i «tecnici», «non residenti a Roma» avranno diritto al rimborso delle spese di trasferta «da e per il domicilio o la residenza» al fine di «espletare le proprie funzioni». È stato previsto un fondo presso la presidenza del Consiglio da mezzo milione di euro dal 2025.
SUBITO DOPO quelli dell’opposizione (da Italia Viva al Pd fino ai Cinque Stelle) hanno preso la calcolatrice e hanno fatto qualche conto. «L’aumento per i ministri ha cambiato nome, questa è un’altra presa in giro degli italiani» ha detto uno. «Ora è diventato un rimborso spese: sono 2500 euro netti al mese, molto più dello stipendio medio. Perché continuano a mascherarsi?» ha detto un’altra. E poi, ovviamente, è scattato il moralismo della satira con sapidi giochi di parole: «Nel meraviglioso mondo di “Ameloni” le cose sono due: o Meloni è stata contraddetta dalla sua maggioranza, o siamo di fronte all’ennesima strategia comunicativa pensata per distogliere l’attenzione con notizie fuorvianti». Così l’accusa rivolta in aula da Meloni le è stata rivolta contro. E siamo punto e a capo. Che i ministri si prendano il loro regalo di Natale, anche se qualcuno lo rifiuterà. Il problema è che nessuno intende affrontare il problema dei salari. Questo è il dato politico.
NELLA CONFUSIONE è cambiata anche la norma cosiddetta «anti-Renzi». Saranno i ministri, i parlamentari anche eletti in Europa, i presidenti di Regioni e province a non dovere accettare incarichi con compensi da paesi extra-europei. I parlamentari potranno chiedere una deroga entro i 100 mila euro, i ministri no.
Commenta (0 Commenti)Il limite ignoto Processato in contumacia lunedì per l'uso massiccio di armi chimiche nel conflitto e ucciso ieri con il suo vice da un monopattino-bomba sotto la sua abitazione. Duro colpo subito dai russi sul loro territorio. Gli ucraini rivendicano ed esultano
I rilievi sul luogo dell’attentato in cui all’alba di ieri è rimasto ucciso il generale russo Igor Kirillov – Ap
«Attento con quel coso» grida un energumeno appoggiato al bancone di legno del chiosco, «hai visto lì». Tutti ridono, mentre la radio passa la notizia per l’ennesima volta. «Il generale russo Igor Kirillov, 54 anni, capo delle truppe di difesa nucleare, chimica e biologica delle Forze armate russe, è stato ucciso in un attentato a Mosca stamane intorno alle 6».
«Slava ukraini!» commenta uno degli astanti e tutti in coro rispondono con la formula consueta.
È UNA BUONA NOTIZIA per gli ucraini che non sono impegnati al fronte, uno di quegli avvenimenti che fa sentire che il tuo paese è potente e temibile, nonostante le cose sul campo di battaglia non vadano troppo bene. Mentre l’energumeno urla qualcosa come «tutti la stessa fine devono fare!» usciamo dal piccolo locale riscaldato verso le sponde imbiancate del Dnipro.
Da qualche mese è meglio non capitare in mezzo alle discussioni degli uomini ucraini nelle retrovie: il nervosismo è palpabile e se non è necessario meglio evitare il rischio di essere messo in mezzo perché giornalista, straniero, poco fiducioso sulla vittoria o chissà che altro. Lunedì Kirillov era stato condannato in contumacia da un tribunale ucraino per «aver autorizzato l’uso di oltre 4800 armi chimiche contro i soldati e la popolazione civile», si legge nella condanna. A meno di 24 ore dal pronunciamento del tribunale, l’esecuzione, in grande stile. All’israeliana dicono alcuni, ovvero secondo le strategie di caccia aperta e spregio di ogni giurisdizione adottate dal Mossad per decenni dopo il 1948.
Igor Kirillov era appena uscito da casa sua, sulla prospettiva Riazanskij, nella zona sud-orientale di Mosca per recarsi al ministero della Difesa. Di buon mattino, come d’abitudine. Era un personaggio pubblico, sia per le sue costanti apparizioni televisive, sia per il ruolo che aveva assunto durante il conflitto in corso: accusare l’Ucraina dei più disparati misfatti (era lui uno dei principali sostenitori dei «laboratori segreti di armi chimiche degli Usa nascosti in Ucraina») e fomentare l’opinione pubblica interna contro il nemico. Era noto anche per aver partecipato allo sviluppo di alcune armi, come il lanciafiamme pesante Tos-2 Tosochka. Per questi suoi meriti era stato inserito nella lista delle sanzioni ad personam dal Regno unito. Gli ucraini gli rimproverano, tra le altre cose, di aver dato l’autorizzazione all’uso della cloropicrina, un agente tossico soffocante proibito dalle convenzioni internazionali.
DI SICURO KIRILLOV avrà risposto con sprezzante sicurezza e scherno a chi lunedì sera gli ha domandato cosa pensava della “condanna” del tribunale ucraino. E invece, la sentenza di morte l’ha raggiunto in uno dei luoghi dove forse si sentiva più sicuro, fuori dalla porta della sua palazzina residenziale. Un monopattino parcheggiato nelle vicinanze era stato caricato con 300 grammi di tritolo e dotato di un comando a distanza. Quando il generale e il suo vice si sono incontrati e sono passati di fronte al mezzo, il comando è scattato. L’esplosione è stata potente, sono volati mattoni, pezzi delle auto nelle vicinanze e segnaletica stradale. I due uomini sono morti sul colpo.
Kiev non ha perso tempo e ha rivendicato l’attentato già in mattinata. «Kirillov era un criminale di guerra e un obiettivo completamente legittimo – ha dichiarato una fonte dei servizi segreti di Kiev (Sbu) alla testata Rbc – poiché ha dato ordine di usare armi chimiche proibite contro l’esercito ucraino. Una fine così ingloriosa attende tutti coloro che uccidono ucraini. La punizione per i crimini di guerra è inevitabile». La stessa fonte ha anche palesato che tutta l’operazione è stata organizzata e messa in atto dall’Sbu. Ovviamente, un’operazione così non si organizza dalla sera alla mattina, quindi è plausibile ritenere che la data del processo di lunedì (con condanna già decisa) fosse stata suggerita dai Servizi oppure che la missione fosse già in atto da tempo. Le recenti dichiarazioni di Putin (e il processo) hanno fatto scattare l’ora X.
DA PARTE RUSSA le reazioni sono state molto dure. Il solito Medvedev ha giurato una «vendetta terribile e immediata» contro quello che definisce «un regime di neo-nazisti allo sbando». La portavoce del ministero degli Esteri, Maria Zakharova, ha parlato di «atto terroristico» e ha insistito sulle «eroiche campagne» di Kirillov «che denunciava l’uso di armi batteriologiche da parte dei paesi della Nato». Tuttavia, a parte il cordoglio, sui social network i blogger russi sollevano un problema ormai troppo evidente per essere ignorato: «Qualunque sia il successo che otteniamo sul campo di battaglia, qualunque sia l’euforia che regna quando si parla di sottrarre l’iniziativa ai nemici, la controparte mantiene sempre la capacità di pungerci dolorosamente».
Dopo l’attentato in cui è rimasta uccisa la figlia dell’ideologo Dugin, quello che ha fatto fuori il blogger Tatarsky, e gli altri due omicidi recenti (non rivendicati) dell’ingegnere militare Mikhail Shatsky e dell’ex direttore della prigione di Olenivka, Sergei Yevsivkov, quello di Kirillov è senz’altro in colpo più duro inferto dagli ucraini ai russi sul loro territorio.
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Le milizie filo-turche assediano Kobane e l’esperienza di autogoverno curdo nato nel nord della Siria dopo la sconfitta dell’Isis. I jihadisti ancora detenuti nel campo di Al Hol aspettano i “liberatori”. Il mondo scende a patti con i nuovi padroni di Damasco e guarda altrove
Sindrome siriana Erdogan attacca, e mira alle infrastrutture in modo da aumentare le difficoltà di chi vive nella regione
Raqqa, il museo archeologico restaurato
Difendere il Rojava, dalla Turchia e da Erdogan, oggi più che mai è la parola d’ordine. La sconfitta di Assad apre un nuovo capitolo della storia della Siria e quanto conquistato e costruito dai curdi nel nord est del Paese è oggi di nuovo in pericolo. Non che non lo sia sempre stato, intendiamoci, ma solo qualche mese fa si respirava, nei villaggi e nelle città, un clima di fiducia come mai prima.
Pensiamo a Raqqa, ad esempio. Nel 2018 era ancora una città ferita. Ed era a pezzi. Quattro anni dopo, nonostante le difficoltà, si è fatto tanto, più di quanto anche il più ottimista potesse auspicare. Sull’Eufrate due nuovi ponti. Chiusi i tunnel realizzati e utilizzati dagli uomini del Califfato. L’acqua finalmente arriva nelle case. Le rive dell’Eufrate così sono tornate ad essere un luogo di svago, di divertimento. Se c’è una città che dimostra che la sfida del confederalismo democratico di ispirazione curda abbia attecchito tra le popolazioni che vivono in questi territori, è proprio Raqqa. Una città che, insieme ad Hassake, è la “meno curda” del Rojava, o forse sarebbe più corretto dire, la “più araba”.
QUI I MILIZIANI di Isis hanno eseguito centinaia di esecuzioni barbare e sommarie. Ora non ci sono più segni del loro passaggio se non si considerano gli edifici ancora a terra. Non si vedono più le gabbie che utilizzavano per mettere alla gogna pubblica le persone e soprattutto è stata ripulita da mine e ordigni. Per le strade ovunque gente. Si sono riaperti i mercati e ci sono cantieri dappertutto. Addirittura il museo è stato riaperto, a Raqqa. Il direttore, il professor Mohammad Abdullah Ai Ezzo, è un uomo sulla novantina che ha fatto della battaglia per riavere indietro ciò che da qui è stato portato via la ragione di questa sua parte di vita. Ci mostra dal suo smartphone pagine del deep web dove vengono messi in vendita reperti archeologici che provengono proprio dalla Siria fino a mostrarci perfino quelli che ha individuato essere proprio del museo.
«Non sono i visitatori che rivoglio in questo palazzo, ma ciò che da qui è stato trafugato. Trafficando petrolio si facevano grandi affari, ma anche con opere d’arte e reperti antichissimi si fanno tanti soldi. C’è gente che ha usato questi fanatici nascondendosi dietro alla religione per fare i propri affari, i propri guadagni». Se le chiese cristiane Isis le trasformava in luoghi di tortura e tribunali, i musei quasi sempre li trasformavano in ristoranti. Così è stato anche per quello di Raqqa. I mosaici che non sono riusciti a portare via e quindi vendere sono gravemente danneggiati. Le figure femminili raffigurate, distrutte a martellate o a colpi di Kalashnikov. Nonostante questo si è scelto di riaprire con quello che c’è, che è poi quello che è stato difeso o recuperato. Per ogni reperto c’è un’altra storia oltre a quella che intrinsecamente porta con sé.
IN TUTTE LE CITTÀ i servizi vengono erogati, nonostante le difficoltà che si hanno ad esempio nel reperire i farmaci o ciò che serve per gli ospedali. Ma non è di medici che c’è bisogno in Rojava, piuttosto di medicine che è molto difficile far arrivare.
I servizi primari riescono ad essere garantiti nonostante Erdogan. E questo anche prima di questa ultima escalation. L’aviazione turca ha da tempo preso di mira le piccole raffinerie che servono per il fabbisogno interno di benzina, le centrali elettriche e naturalmente la rete idrica. La città che ha più problemi sul fronte idrico è Hassake. La strada che da Qamishlo conduce fino a lì la si affronta superando una fila infinita di camion cisterna che ogni giorno portano l’acqua in città. La Turchia con le sue dighe ne trattiene molta più di quanto le sarebbe concesso e la usa come arma di ricatto. Ora poi che Erdogan attacca in Rojava in modo ancora più spudorato mira a danneggiare le infrastrutture in modo da aumentare le difficoltà di chi ci vive.
LA CITTÀ SIMBOLO del Rojava rimane comunque Kobane. All’entrata la statua Lord of Women’s Victory, realizzata dall’artista Zirak Mira in onore delle combattenti curde. Nel 2014 ha resistito alla furia di Isis fino alla cacciata definitiva d’inizio 2015. Anno dopo anno dalle macerie la città è ripartita nonostante sia sempre sotto tiro. Il municipio di Kobane, che guarda proprio verso il muro turco che segna il confine tra i due paesi e divide i curdi turchi da quelli siriani, è crivellato dai colpi che vengono sparati da lì. Peggio fanno i droni che provocano morti e feriti. Nonostante questo la città trasmette una sua certa vivacità. Dal punto di vista architettonico si è ricostruito senza esagerare in altezza e lasciando spazio a piante e alberi. Si vedono anche pannelli solari. Ce ne sono di più nel solo cantone di Kobane, sia alberi che pannelli, che in tutto l’Iraq del Nord. Poco lontano da Kobane, a una decina di km sulle rive dell’Eufrate, “l’Ocalan garden”. Dal 1979 al 1988, uscito dalla Turchia dopo che lui e il suo partito, il Pkk, vengono messi fuori legge dal governo di militari che hanno preso il potere, vive in questo luogo magico dove pianta un albero al giorno e costruisce una grande biblioteca. Oggi qui c’è un bosco nato attorno a questo rifugio di libri. In tanti ci vengono a trascorrere le giornate di festa o solo a gustarsi il tramonto.
MA LA COSA che più colpisce del Rojava è il sistema scolastico. Il numero di orfani è elevato. A questi bambini viene garantito un luogo molto accogliente dove vivere, lo studio in luoghi ottimamente organizzati, personale preparato non solo alla didattica. Minori che hanno subito choc tremendi, ma che non si abbandonano. In ogni città c’è un luogo per loro anche se la maggior parte vengono ricollocati in nuove famiglie. Oltre alle materie scolastiche tradizionali si studia musica, canto, si fa teatro e non mancano le discipline sportive. Attività che si fanno senza dividere chi ha e da chi non ha una famiglia di provenienza.
L’idea di una società paritaria, laica e libertaria che coinvolge persone e comunità, che vede i municipi al centro dell’azione politica, al di là delle teorie dimostra nella vita pratica di poter essere applicato davvero. Nonostante droni e bombe. Che sia questo che spaventa chi il Rojava lo circonda.
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