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La missiva dei capigruppo di Pd, M5s, Italia Viva e Alleanza Verdi Sinistra (assente Azione) a Lorenzo Fontana per protestare per il metodo scelto dal governo per le modifiche alla legge di bilancio.

Le opposizioni scrivono al presidente della Camera: Impossibile esaminare la manovra, valuti l'inammissibilità 

Tutte le opposizioni, a parte Azione, hanno scritto una lettera al presidente della Camera Lorenzo Fontana chiedendo di valutare l'inammissibilità di un emendamento alla manovra presentato ieri sera in commissione Bilancio. La notizia con il testo della lettera è stata anticipata da Giuseppe Colombo su Repubblica.

"Appare evidente - si legge nella missiva dei capigruppo di Pd, M5s, Iv e Avs in commissione - come la struttura estremamente eterogenea dell'emendamento comprometta significativamente la possibilità per i deputati di esprimere una scelta libera e consapevole sulla volontà legislativa".

https://www.huffingtonpost.it/economia/2024/12/15/news/le_opposizioni_scrivono_al_presidente_della_camera_impossibile_esaminare_la_manovra_valuti_linammissibilita-18003024/?ref=huff-hm-p-3

 

 

 

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Tra la sua gente la premier difende con orgoglio la stabilità e l'operato del governo e si scaglia contro i gufi e chi rema contro l'Italia. Con nomi e cognomi: Schlein, Landini, Prodi e "la sinistra che non difende i lavoratori", ma anche Saviano e ovviamente la magistratura, a cui promette che "i centri in Albania funzioneranno, a costo di doverci passare tutte le notti". Con Salvini e Tajani più che mai junior partner, che le promettono lunga vita insieme

La via italiana di Meloni e i nemici pubblici di Giorgia

Sale sul palco a raccontare i successi del governo Meloni e torna a essere Giorgia. La statista orgogliosa da un lato, l'underdog rabbioso dall'altro. Alla festa "Atreju" di Fratelli d'Italia al Circo Massimo, tra la sua gente che la acclama come fa da anni, la presidente del Consiglio rivendica i risultati del suo governo - "La via italiana" è lo slogan scelto quest'anno, mentre sorvola ad arte su molti punti critici, compreso il recentissimo rinvio dell'approdo della manovra in Aula - e ringrazia le persone che le stanno vicino.

https://www.huffingtonpost.it/politica/2024/12/15/news/la_via_italiana_di_meloni_e_i_nemici_di_giorgia-18002024/?ref=HHTP-BH-I18001868-P1-S1-T1

 

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Sindrome siriana Il nuovo leader di Damasco lascia però intendere di non voler attaccare Israele. In Giordania si discute il «processo di transizione»

Un veicolo israeliano si muove lungo una strada verso il lato siriano del confine tra Israele e Siria nelle alture del Golan annesse da Israele foto Atef Safadi/Ansa Un veicolo israeliano si muove lungo una strada verso il lato siriano del confine tra Israele e Siria

«Le Forze di difesa israeliane (Idf) hanno oltrepassato la linea rossa in Siria e rischiano di provocare un’escalation ingiustificata delle tensioni nella regione», ha dichiarato in un’intervista al canale tv siriano al Julani, leader del gruppo islamista Tahrir al-Sham.

Dal momento della caduta del regime di Assad, Israele, approfittando del vuoto di potere a Damasco, ha avviato un’incessante campagna di bombardamenti sui siti militari della Siria. Secondo alcune fonti, fino a ieri 400 obiettivi sono stati colpiti dall’aviazione israeliana. Tel Aviv ha anche schierato unità militari nella zona cuscinetto lungo le alture del Golan, che separano la Siria da Israele, contravvenendo all’accordo di cessate il fuoco mediato dalle Nazioni unite nel 1974. Nel mirino israeliano è finito anche tutto ciò che potrebbe avere un minimo uso militare: istituti scientifici, laboratori, aeroporti, ecc.

AHMED AL-SHARAA, noto fino a pochi giorni fa con il nome di battaglia Mohammad al-Julani e considerato uno dei terroristi più pericolosi precedentemente affiliati ad al-Qaeda, dopo la presa di Damasco sembra essere entrato in una fase di moderazione e ragionevolezza, che potrebbe dipendere dalla convenienza del momento.
Senza menzionare esplicitamente Israele, al-Sharaa lascia intendere che sotto la sua guida la Siria non attaccherà lo Stato ebraico. Afferma che in questa fase Damasco non verrà trascinata in conflitti che potrebbero portare a ulteriore distruzione, sottolineando che la ricostruzione e la stabilità sono le priorità principali. Apre verso l’Occidente: «Siamo in contatto con le ambasciate occidentali e stiamo discutendo con la Gran Bretagna per ripristinare la sua rappresentanza a Damasco».

PARLA ANCHE dei due paesi sostenitori del deposto presidente Assad: «La Russia avrà l’opportunità di rivalutare le sue relazioni con il popolo siriano. L’Iran ha rappresentato un pericolo per la Siria, tuttavia non consideriamo il popolo iraniano come nostro nemico».

I paesi arabi, dopo aver passato momenti duri con la Siria sotto il dominio di Assad, si sono riuniti ieri in Giordania a sostegno di un «processo di transizione inclusivo», in cui siano rappresentate tutte le forze politiche e sociali siriane. Il documento finale sottolinea che «questa fase delicata richiede un dialogo nazionale globale e la solidarietà del popolo siriano con tutte le sue componenti. Costruire una Siria libera, sicura, stabile e unita che il popolo siriano merita dopo molti anni di sofferenze e sacrifici».

DELLO STESSO TENORE è anche l’affermazione di Antony Blinken, intervenuto dopo l’incontro con i ministri degli Esteri delle nazioni arabe e della Turchia in Giordania. Blinken ha affermato che l’accordo di oggi chiede un governo inclusivo che rispetti i diritti delle minoranze e non offra «una base per gruppi terroristici». «L’accordo invia un messaggio unificato alla nuova autorità ad interim e alle parti in Siria sui principi cruciali per garantire il sostegno e il riconoscimento tanto necessari», ha concluso.
È evidente che la nuova Siria ha bisogno di una mole di investimenti per la ricostruzione del paese. E i probabili investitori sembra stiano ponendo le loro condizioni alla nuova amministrazione siriana. Occorre vedere come i conquistatori di Damasco intendono seguire una riconciliazione nazionale.

Nel frattempo, la Russia sta ritirando il suo esercito dalle linee del fronte nel nord della Siria e dagli avamposti sui Monti Alawiti, ma è altamente improbabile che abbandoni le sue due basi principali nel Paese. Mentre la Turchia sta cercando di trarre rapidamente vantaggio dal momento per regolare diversi conti in Siria, il gruppo principale nel mirino di Ankara sono le Forze Democratiche Siriane (Sdf), formate nel 2015 con il sostegno degli Stati uniti. Si sono registrati scontri tra l’Esercito nazionale siriano (Sna), sostenuto da Istanbul e le Sdf nel nord-est del paese, tra la città di Manbij e la città di Kobane. Molti civili e combattenti sono stati uccisi nelle ultime due settimane nella regione autonoma della Siria settentrionale e orientale, ma il numero esatto di morti e feriti non è chiaro.

SI REGISTRANO anche scontri in varie parti del paese. Nella provincia di Lattakia, violenti scontri sono scoppiati tra i sostenitori dell’ex regime e i membri della Tahrir Al-Sham, con 15 persone uccise.
Il Paese cerca di tornare rapidamente alla normalità e di restaurare almeno la sua economia di sopravvivenza. Negli ultimi due giorni, la lira siriana si è rafforzata di almeno il 20% rispetto al dollaro statunitense, a seguito dell’afflusso di siriani da Libano e Giordania e della fine dei rigidi controlli sul commercio di valute estere.

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Assalto finale alla diligenza e ultimi emendamenti, la fiducia sarà votata entro venerdì prossimo. Nel valzer dell'ultim'ora degli emendamenti spunta un ripensamento dei sussidi sulla povertà: sarà allargata la platea, e un parziale rifinanziamento del taglio del fondo per l'automotive (800 milioni su 4,6 miliardi tagliati e dati ai militari). La logica resta sempre la stessa: quella classista

 

 

 

  • Giancarlo Giorgetti e Giorgia Meloni foto LaPresse

Venerdì prossimo la legge di bilancio sarà votata con la fiducia alla Camera. È arrivato il momento dell’assalto alla diligenza. Un classico che si ripete come il Natale, il freddo di inverno e il caldo d’estate. Si riscrivono emendamenti e si cercano coperture in un folle rincorrersi di voci e paradossali retromarce. Ieri le opposizioni hanno criticato la trasparenza del processo, la gestione dei tempi, la mancata copertura degli emendamenti e l’approssimazione della maggioranza.

IN UN PULVISCOLO di misure concepite per lo più nell’interesse di corporazioni, gruppi d’interesse e clientele elettorali si può stare certi che non verrà meno l’impianto della manovra: recessivo, iniquo e guidato dal patto di stabilità europeo che ha imposto l’austerità fatta di tagli ai ministeri e agli enti locali (12 miliardi). Non ci si sofferma su questo problema politico, che preannuncia sette anni duri di austerità, ma tutt’al più sul rinvio di un paio di giorni dell’approdo della manovra a Montecitorio e sull’ultimo pacchetto degli emendamenti presentati ieri in serata. Il risultato è rendere incomprensibile la legge di bilancio, già ridotta a un esercizio ragionieristico dalla governance europea. Non è solo così.

NELLA COMMEDIA degli emendamenti che vanno e vengono dalla commissione bilancio alla Camera, tra quelli annunciati e quelli riscritti, si può alla fine trovare una logica politica inversamente proporzionale. C’è il super-aumento degli stipendi dei ministri «tecnici» equiparati a quelli eletti da oltre 7 mila euro al mese e l’elemosina da 1 euro e 80 al mese ai pensionati minimi. I ministri beneficiati sono sette: Abodi, Calderone, Giuli, Locatelli, Piantedosi, Schillaci, Valditara. Quello alla Difesa Crosetto ieri ha detto: «Sono d’accordo con la misura, ma meglio rinviarla al prossimo governo». In effetti, potrebbe essere una soluzione per non evitare di fare pesare troppo l’arroganza della decisione e la sua inopportunità politica in un momento come questo. Tuttavia altri ministri (Abodi, o Tajani) non hanno avuto ragioni per sindacare sul premio natalizio. Per la precisione prenderanno 3.503,11 euro in più rispetto alla diaria e altri 3.690 euro di rimborsi per l’esercizio del mandato. A questi si aggiungono rimborsi per viaggi e spese telefoniche per 1.200 euro.

MA IL RAGIONAMENTO a partire dalla manovra è necessariamente più ampio e di sistema. Per esempio alle imprese che hanno visto un aumento dei profitti senza precedenti, e che non hanno licenziato nel frattempo, andranno 400 milioni di euro in più di «Ires premiale» presi da un contributo aggiuntivo che sarà chiesto alle banche e assicurazioni (oltre 3 miliardi, per le prime è un prestito che sarà restituito tra due anni). Questi soldi si aggiungeranno ai 55,2 miliardi di benefici fiscali ricevuti dalle imprese nel 2023 ai quali vanno aggiunti i ricchi premi garantiti dal Pnrr.

ALLO STESSO TEMPO, i lavoratori dipendenti e pensionati pagheranno, a causa del drenaggio discale, un maggior gettito Irpef di ben 17 miliardi nel 2024. Non solo: la misura più costosa della manovra voluta dal governo Meloni, cioè il «taglio del cuneo fiscale», userà 10 miliardi di questo gettito in una «partita di giro» per darli al «ceto medio». Con il passaggio dalla decontribuzione alla fiscalizzazione avvenuto quest’anno, questo taglio evocato dal governo come un colpo di genio produrrà l’effetto opposto. La stragrande maggioranza dei lavoratori con redditi fino a 25 mila euro e poi quelli dai 26 mila ai 35 mila non solo non vedrà 1 euro in più in busta paga, ma perderà fino a 200 euro annui sotto i 35 mila, con perdite anche di oltre mille euro in alcune fasce. Chi ha un reddito dai 35.500 euro in su guadagnerà invece 79 euro lordi. Come si chiama questa? Logica classista. La stessa che ispira l’aumento delle spese militari (33 miliardi, 13 solo alle armi ha scritto il rapporto MIL€X). Però non si trovano i soldi per recuperare l’inflazione cumulata negli ultimi anni e dare aumenti di salari degni a chi aspetta il rinnovo del contratto.

TRA LE ULTIME NOVITÀ emerse al mercato degli emendamenti abbiamo già segnalato l’aumento dei pedaggi autostradali (+1,8%). L’aumento è uno di quelli concepiti per fare cassa e rastrellare risorse di cui il governo è a corto. Ma, sommato ai prezzi esagerati dei voli (quelli extraUe aumenteranno ora di 50 centesimi) e soprattutto quelli dell’Alta Velocità, si capisce che i «100 euro» promessi dal governo dal taglio del cuneo fiscale saranno già bruciati da un viaggio in treno o su una tratta stradale medio-lunga. Viaggiare in Italia, è cosa nota, è da benestanti. Costa troppo. Tutti gli altri stiano a casa. Più che altro è una conferma.

TRA LE RETROMARCE parziale segnaliamo quella sul rifinanziamento il fondo per l’automotive (800 milioni in 3 anni) dopo che il governo ha tagliato 4,6 miliardi per darli alla spesa militare. Si capisce che ha preso un granchio e cerca una soluzione insufficiente. E poi c’è l’ammissione del fallimento dell’assegno di inclusione e del supporto formazione lavoro. Un emendamento h esteso la platea (aumentando la soglia Isee da 9.360 a 10.140 euro e 6.000 a 6.500 euro) e l’importo del secondo da 350 a 500 euro mensili. Si vede che qualcuno si è accorto che i criteri oggi sono troppo bassi e impediscono l’accesso a tali misure

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Si riempiono le strade di Roma contro il disegno di legge sicurezza e il governo autoritario. È la prima grande manifestazione di opposizione sociale e politica. Arrivano in 100mila: lotte di base, partiti e movimenti. «È solo un debutto, non ci perderemo di vista»

Sicuramente No Il corteo contro il ddl sicurezza centra l’obiettivo. E rilancia: tre giorni di assemblea a gennaio

Manifestazione e corteo da Piazzale del Verano a Piazza del Popolo a Roma contro il Ddl Sicurezza foto Valentina Stefanelli/LaPresse Il corteo di Roma contro il ddl sicurezza – Lapresse

Quando salta la catena che impedisce al camion che apre il corteo di entrare in piazza del Popolo e ci si rende conto che la grande arena all’imbocco di via del Corso illuminato a Natale è destinata davvero a riempirsi, si capisce che la missione è davvero compiuta. Basta un colpo d’occhio per riconoscere l’importanza di una giornata che molti aspettavano da troppi anni, da tutto il tempo che è passato affinché un corteo nato autoconvocato, dal basso, dei movimenti, trascinasse con sé decine migliaia di persone, tutti i partiti dell’opposizione e uno schieramento largo e plurale.

I PRIMI a strabuzzare gli occhi sono gli adolescenti, che non avevano mai assistito a una scena del genere. Ma quando il serpentone si dipana lungo via Regina Margherita, strada larga e rettilinea, e la gente di dispone fitta si scambiano qualche sguardo di incredulità anche quelli che hanno qualche anno in più di esperienza. «Siamo centomila!» è l’urlo liberatorio che comincia a circolare quando il fiume di gente ridiscende dai Parioli verso le mura aureliane.

SI PARTE, come da programma, alle 14 dal Verano. Già questa puntualità è una notizia, perché non c’è bisogno di aspettare che la piazza del concentramento sia sufficientemente gremita. L’altra notizia, dopo ore di pioggia a diritto e la capitale bloccata dalla tempesta perfetta del traffico prenatalizio, dello sciopero del venerdì e del maltempo, è che spunta il sole. E allora il convoglio dei manifestanti si può muovere. Si procede a passo sostenuto, perché tutti sono consapevoli che li aspettano quasi quattro chilometri di marcia e dunque c’è poco tempo da perdere per arrivare a destinazione. In questo flusso rapido si susseguono gli studenti, l’Arci, i centri sociali del nordest e quelli di Napoli, i coltivatori di canapa. Al centro si dispongono gli operai della Gkn con il grande striscione «Insorgiamo». «Più ci criminalizzano e più dobbiamo stare appiccicati e appiccicate – spiegano – Questo ddl è qui per impedirci di trasformare la società con la lotta». Christopher Ceresi dei municipi sociali di Bologna la mette così, parlando dal camion: «Questa è la prima vera grande manifestazione di opposizione al governo Meloni».

POI I CENTRI sociali romani Esc, Casale Garibaldi, Communia e Acrobax che marciano dietro lo striscione «La vostra guerra è la nostra insicurezza». E la Cgil, che ha partecipato in modo

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Palestina «Israele ci ha trasformato nei poliziotti di noi stessi». Le nuove vie della repressione: i palestinesi si censurano per paura, demoliscono le proprie case per non dover pagare i bulldozer di Israele, consegnano i figli in carcere. La storia del piccolo Ayham

Quando incontriamo Nawaf al-Salaymeh in un vecchio bar nella medina di Gerusalemme si capisce subito che non dorme da giorni. È passata una settimana da quando ha accompagnato suo figlio Ayham nella prigione israeliana di al-Moscobiyeh. La conoscono tutti, è il luogo obbligato di transito per buona parte dei palestinesi dopo l’arresto. Primi interrogatori, prime botte.

A metà mattina la vita nel bar si scalda. Anziani giocano a backgammon con accanto una tazzina in vetro piena di caffè al cardamomo. Gatti siedono soporiferi sulle sedie di plastica, uccellini cinguettano nelle gabbie appese alle finestre. Al cartello «vietato fumare» non fa caso nessuno. Da oltre un secolo parecchia della vita comunitaria di Gerusalemme passa per i bar di quartiere.

Nawaf al-Salaymeh ha 50 anni, vive con la famiglia nel quartiere di Ras al-Amud. Ha un lavoro da panettiere e sei figli, la kefiah avvolta sulla testa e la barba di qualche giorno. Dice che mai avrebbe pensato di diventare il carceriere di suo figlio.

AYHAM ha compiuto 14 anni il 10 giugno 2024, un paio di settimane dopo si è aperto il processo per lancio di pietre. A fine novembre è stato condannato a 12 mesi, il testo della sentenza era lunga 14 pagine.

Il primo dicembre, insieme ai fratelli di Ayham, Nawaf lo ha accompagnato in carcere: le foto li mostrano quasi sorridenti, a dargli un po’ di forza, lo sollevano in braccio, gli baciano la testa. Ayham è piccolo piccolo nella sua tuta nera dell’Adidas e il berretto di lana in testa.

Entrerà con addosso solo quelli: tutti i vestiti che Nawaf aveva portato sono stati rifiutati dalla prigione, non entra niente. La moglie non c’è: ha la carta d’identità della Cisgiordania, è vietato.

«È iniziato tutto il 17 maggio 2023, prima della guerra – racconta Nawaf – I soldati sono entrati nel quartiere e hanno invaso alcune case. I ragazzini hanno lanciato pietre. I miei figli Ayham e Ahmed e due cugini sono stati arrestati». All’epoca Ayham aveva ancora 12 anni e non è stato processato. Ahmed e i cugini, tutti maggiori di 14 anni, sì e sono stati condannati. Era il 30 luglio 2023. Alla fine di novembre sono stati liberati nello scambio tra Hamas e Israele, reato cancellato.

«Ayham è stato posto subito agli arresti domiciliari: troppo piccolo per essere processato. Hanno aspettato che ne compisse 14. È rimasto chiuso in casa per un anno e mezzo. Uno di noi genitori doveva sempre restare con lui a controllarlo, pena una multa da 10mila shekel o il carcere. Ci siamo sentiti i suoi poliziotti». Ci mostra la foto del figlio più grande, Osama, il giorno del suo matrimonio: «Ayham non è potuto venire, era ai domiciliari».

«DURANTE la prima Intifada, nel 1988, anche io sono stato arrestato, avevo 14 anni. Ma era diverso. Le carceri erano diverse. Ora sono davvero dei luoghi infernali. Non so nemmeno dove lo abbiano portato, se ha fame, se ha freddo. Ayham pesa 30 chili, come uscirà?».

Nawaf continua a giocherellare con il pacchetto di sigarette. «Negli anni Ottanta i miei genitori cercavano di tenermi a casa, noi ragazzini andavamo comunque a lanciare pietre. Oggi è lo stesso, ho provato in tutti i modi a fermarlo ma è inutile. Viviamo sotto una cappa di oppressione, i nostri figli ci vedono umiliati e picchiati per strada, costretti a mostrare di continuo le carte d’identità, vedono le nostre case demolite».

Oggi, secondo i dati delle organizzazioni di monitoraggio, sono almeno 270 i minori palestinesi prigionieri politici, parte degli attuali 11mila detenuti. E sono quasi mille i bambini arrestati dopo il 7 ottobre, su un totale di 12mila nuove detenzioni.

L’ong israeliana B’Tselem ha seguito il caso di Ayham, piuttosto esemplare: hanno atteso che compisse 14 anni per giudicarlo, anche se il “reato” era stato commesso quando ne aveva 12. Le cose sono destinate a peggiorare: a novembre la Knesset ha approvato una legge per processare come adulti i palestinesi da 12 anni d’età nel caso di reati di “terrorismo”.

«Arrestare bambini in questo modo è parte della più generale politica oppressiva israeliana a Gerusalemme est e in Cisgiordania», ha scritto B’Tselem. Una politica che si è inasprita negli ultimi 14 mesi: oggi Gerusalemme è la caserma di se stessa.

«Israele ci ha trasformato in secondini», dice Zakaria Odeh dal suo ufficio nel quartiere di Beit Hanina. Esponente della sinistra palestinese, è direttore esecutivo della Civic Coalition for Palestinian Rights in Jerusalem, una delle più note ong in città. La sede è a due passi dal muro, otto metri di altezza e cemento. A poca distanza c’è il checkpoint di Qalandiya che conduce a Ramallah.

IN QUEI POCHI metri quadrati l’occupazione mostra la sua natura apparentemente surreale, un’opera di ingegneria geografica e demografica: un pezzo di Beit Hanina è Area B della Cisgiordania, eppure sta al di qua del muro; al di là ci sono quartieri gerusalemiti, gli abitanti hanno la residenza a Gerusalemme ma per muoversi in città devono attraversare il checkpoint.

«Oggi a Gerusalemme vivono 380mila palestinesi, il 41% della popolazione totale – spiega Odeh – Abbiamo ampiamente superato l’equilibrio demografico che si era prefisso Israele: negli anni Ottanta aveva stabilito che a Gerusalemme non si sarebbe dovuto superare il 20% di popolazione palestinese, poi nel 2020 ha rivisto la percentuale al 30%. Per raggiungere l’obiettivo le autorità operano in maniera diversa: revoche di residenze, demolizioni, colonizzazione, divieto a costruire. Il problema di accesso alla casa è enorme: solo il 13% del territorio è ancora di proprietà privata palestinese, ma siamo tantissimi».

Lo stesso Zakaria vive in un limbo: alla morte del padre, ha ereditato l’abitazione di famiglia insieme ai due fratelli che però non sono residenti a Gerusalemme. «Lo Stato ha dichiarato due terzi della nostra casa proprietà statale, secondo la Legge degli Assenti».

Una legge vecchia quanto Israele, servita a impossessarsi “legalmente” delle proprietà dei rifugiati palestinesi. Tel Aviv la applica ancora oggi, ma non a tutti i suoi cittadini: solo ai palestinesi. A Gerusalemme, poi, la cittadinanza nemmeno ce l’hanno, solo permesso di residenza e status di apolide.

Si costruisce senza permesso («il 70% delle case di Gerusalemme est si stima siano illegali») in attesa degli ordini di demolizione. Dal 7 ottobre, un record: sono state demolite 255 strutture, di cui 182 case. Circa 2mila palestinesi sono rimasti senza tetto, tra loro 750 bambini. Di queste, 87 sono self-demolition: «Significa che i proprietari sono costretti a distruggere da soli per non pagare i costi del bulldozer statale. Quando si riceve un ordine di demolizione si viene puniti tre volte: si paga una multa, si pagano i costi della distruzione e si perde la casa. L’impatto psicologico è enorme. Ho visto bambini chiedere ai genitori perché stessero demolendo la loro casa, dire che non era colpa dell’autorità ma delle loro famiglie».

«SIAMO I POLIZIOTTI di noi stessi», continua a ripetere Odeh. Consegnando i figli in prigione, demolendosi la casa e censurandosi: «In 14 mesi a Gerusalemme si contano 3mila arresti politici, moltissimi per uso dei social media. Nei primi sei mesi c’è stato il picco, ai checkpoint o per strada la polizia controllava se sui telefoni ci fossero foto o post su Gaza, seguivano pestaggi o arresti. Poi i palestinesi hanno iniziato ad auto-controllarsi».

I post sui social si sono ridotti, i canali Telegram sono stati silenziati, si esce di casa senza telefono per evitare i controlli.

«Molti si chiedono perché Gerusalemme, una città esplosiva che è sempre stata una delle anime della resistenza, oggi non si mobiliti. Puoi prendere un anno di galera per un like. La gente è terrorizzata all’idea di finire in prigione. Sa cosa succede là dentro».

 

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