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Conferenza stampa di fine anno «Pronti a parlare con tutti», ma non con la leadership «illegale di Kiev»: E alle donne il presidente chiede di fare più figli

Il presidente russo Vladimir Putin durante la sua conferenza stampa annuale con una replica dello stendardo della 155a Brigata dei Marines della Flotta del Pacifico, impegnata in un'operazione militare speciale in Ucraina foto Alexander Zemlianichenko /Ap Putin durante la conferenza stampa annuale con una replica dello stendardo della 155a Brigata dei Marines della Flotta del Pacifico impegnata in Ucraina – ApAlexander Zemlianichenko /Ap

È un Putin concentrato più a rassicurare i propri cittadini che a galvanizzare un eventuale spirito patriottico quello che ieri si è prodigato in quattro ore e mezza di botta e risposta con giornalisti e pubblico nella consueta conferenza stampa di fine anno. “Incalzato” dai conduttori, il presidente russo parla con una certa ponderazione e anche qualche sprazzo di ironia di fronte a una gigantesca mappa del paese che mostra come già inglobate le quattro regioni ucraine annesse tramite referendum farsa due anni fa.

MA LA GUERRA, appunto, resta sullo sfondo. A trainare il discorso sono in particolare le questioni economiche, subito affrontate affermando che le condizioni rimangono «stabili e positive» nonostante l’inflazione in crescita. In questo senso, un’economia forte è anzi il segno di un «rinvigorimento della sovranità», presentata come vera e propria “pietra angolare” della concezione della Russia secondo Putin: «Difesa, tecnologia, educazione e cultura sono tutti elementi di fondamentale importanza per la nostra nazione, perché se perdiamo sovranità rischiamo di indebolire lo stato».

L’isolamento nei confronti dell’occidente causato dalle sanzioni, allora, non può che essere un bene: in questo modo, le aziende e i diversi settori dell’industria del paese sono stati spinti a migliorare e a innovarsi.

PER CERTI VERSI, è la rivendicazione della dinamica che molti analisti hanno chiamato «keynesismo militare» per descrivere la strategia socio-economica che è andata accoppiandosi all’invasione in Ucraina: il balzo in avanti della spesa per la difesa (che dovrebbe arrivare il prossimo anno a oltre il 6% del Pil) a trainare il resto, gonfiando i salari e favorendo l’occupazione (indici in cui la Russia ha effettivamente avuto ricadute positive grazie alla guerra).

Con un dettaglio non da poco: «Ci servono più ragazze, più donne», ha sottolineato Putin nel riconoscere che una delle priorità da affrontare è il calo demografico e la componente femminile del paese va incoraggiata ad avere più figli.

IL BINOMIO guerra e spinta economica coinvolge ovviamente anche i territori occupati. Si fa infatti vanto di piani di ricostruzione «che si estendono fino al 2030» e che sono già visibilmente in atto nelle diverse zone conquistate con l’invasione. A questo proposito, vengono compiute alcune delle affermazioni che potrebbero suonare più sorprendenti: la “vittoria” russa in Ucraina viene dichiarata più vicina che mai, grazie agli avanzamenti dell’esercito negli ultimi mesi (esercito che si appresta a riconquistare anche il territorio occupato delle truppe di Kiev nella regione russa di Kursk, sebbene non è ancora possibile sapere con certezza quando). Così, pure i negoziati sono sul piatto e la Russia, secondo Putin, è «aperta a parlare con chiunque».

ANCORA, PERÒ, ci sono diversi caveat: un cessate il fuoco ora sarebbe solo una pausa che permetterebbe all’avversario di riprendersi e di proseguire i combattimenti – dice il presidente russo ribaltando specularmente la retorica di Kiev – e quello che serve è anzi, e addirittura, una «pace giusta»; inoltre, l’attuale leadership ucraina è da considerarsi «illegittima» dal momento che non vengono indette elezioni.Impossibile dunque aprire un dialogo.

Insomma, come spesso accade, la Russia prova a mostrarsi tranquilla e sicura di sé, mischiando minacce più o meno velate (si parla dei missili Oreshnik, che non sarebbero intercettabili dalla Nato) a bonarie attestazioni di benevolenza e minimizzazioni (si nega che la caduta di Assad sia una sconfitta).

Le domande vengono calibrate per permettere a Putin di toccare diversi punti critici e di non negare che esistono difficoltà. Per quelle si opera altrove: in serata i media russi riportano delle dimissioni «volontarie» del capo del controspionaggio Nikolai Yurev, giusto a pochi giorni dall’attentato al generale Kirillov…

 

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Politica La premier promuove il modello Albania poi lascia il vertice causa febbre. L’esponente di Fdi Lucaselli straparla su Mattarella: «Il presidente usa la Costituzione per esprimere le sue posizioni»

Giorgia Meloni con il primo ministro olandese Dick Schoof al vertice Ue Giorgia Meloni con il primo ministro olandese Dick Schoof ieri al vertice Ue

A Bruxelles la premier è allettata ma soddisfatta. Prima che i colleghi stessi la invitassero a mettersi sotto le coltri col febbrone facendosi rappresentare in sede di Consiglio europeo dal premier greco Kyriakos Mitsotakis si era incontrata con i capi di governo di altri nove paesi, due dei quali socialisti, e con la presidente Ursula von der Leyen.

Tema all’ordine del giorno la lettera della presidente della Commissione Ue sull’immigrazione di due giorni fa: accordo generale e dato che potrebbe averla scritta Giorgia Meloni di suo pugno va da sé che la febbricitante è molto contenta. Nuovo quadro giuridico in tema di rimpatri entro i primi mesi del prossimo anno, definizione più precisa di cosa si intenda per Paesi sicuri, sia d’origine che terzi, ma anche ricerca delle «soluzioni innovative», formula con la quale si allude direttamente al protocollo italo-albanese che la premier non ha alcuna intenzione di considerare sepolto. Insomma, come al solito Giorgia Meloni procede a stento in patria ma si rifà con gli interessi in un’Unione europea che per lei se non ci fosse bisognerebbe inventarla.

TUTTO BENE DUNQUE? No, perché come al solito si mettono in mezzo i Fratelli, anzi in questo caso una Sorella d’Italia, Ylenja Lucaselli, non l’ultima arrivata, relatrice sulla manovra. In televisione prende di mira di brutta quel capo dello Stato col quale la premier cerca in tutti i modi di evitare frizioni: «Secondo me utilizza spesso il riferimento alla Costituzione per esprimere la propria posizione rispetto ai provvedimenti del governo».

Poi, se possibile, peggiora la situazione: «Sicuramente c’è molto interventismo che poi non si traduce in blocco dei provvedimenti, come sull’immigrazione o sul ddl Foti sulla revisione della Corte dei Conti perché sono misure imprescindibili e necessarie». Come se Sergio Mattarella non si fosse sgolato per spiegare che il presidente non firma solo le leggi che gli piacciono e se le firma non vuol dire che le condivida ma solo che l’approvazione è stata costituzionalmente in regola.

L’opposizione tutta si scatena, la richiesta rivolta alla premier di prendere le distanze dall’incauta “sorella” è corale. Un po’ tutti segnalano che la parlamentare in tutta evidenza non ha proprio idea di cosa sia la Costituzione. Ma i più costernati non sono gli oppositori: si trovano a palazzo Chigi e se la cavano con un eloquente «E che dobbiamo fare?». Lei, Lucaselli, alla fine non può far altro che tirare fuori un super classico: «Parole strumentalizzate», perché «ho sempre considerato e considero il presidente della Repubblica Sergio Mattarella un punto di riferimento per tutte le forze politiche e per gli italiani».

È UN COPIONE che si ripete. In Europa la premier galoppa. Ieri, nella riunione dei dieci Paesi, la presidente della commissione ha difeso per intero la linea dura e “innovativa” proposta dall’italiana. Se c’è una spina è rappresentata non dall’establishment di Bruxelles ma dai “cugini” Patrioti, o almeno dalla francese Marine Le Pen che boccia senza mezzi termini la trovata albanese: «Non credo che centri come quello in Albania siano la soluzione. Dobbiamo invece attuare una politica di dissuasione. I casi di asilo dovrebbero essere trattati nei consolati e nelle ambasciate straniere».

TRA LE DUE PRIME DONNE della destra europea la competizione sta prendendo piede ma la leader di Rassemblement National non è presidente e non partecipa al Consiglio europeo. Nella riunione di ieri, in compenso, c’era l’Ungheria, d’accordo con la linea Meloni-von der Leyen.

In Italia le cose vanno molto peggio e per vari motivi, alcuni dei quali oggettivi come la crisi europea che mette in ginocchio anche la produzione industriale italiana, che arretra costantemente da mesi. Ma agli strali, pochi, dell’opposizione, e a quelli, molti, della realtà, si aggiunge puntualmente uno stato maggiore tricolore che per l’opposizione è una mano santa. Come è successo anche ieri.

 

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Palestina Haaretz: centinaia di palestinesi uccisi nella «zona della morte», chi passa muore. I racconti dei soldati: «I cadaveri attirano branchi di cani che vengono a mangiarli. A Gaza la gente sa che dovunque veda dei cani è meglio non andare». Human Rights Watch: Israele priva deliberatamente dell’acqua

Bambini palestinesi trasportano taniche d’acqua verso la loro tenda a Khan Younis Bambini palestinesi trasportano taniche d’acqua verso la loro tenda a Khan Younis – Xinhua /Rizek Abdeljawad

I soldati israeliani la chiamano «kill zone» o «line of the dead bodies» e si estende fin dove l’occhio del cecchino può arrivare. Non ha confini precisi, la zona dei corpi morti ha frontiere immaginarie. Si trova all’altezza del corridoio Netzarim, una fascia di sette chilometri con cui Israele – da ben prima del 7 ottobre 2023 – spacca Gaza in due parti.

È QUI, in questo spazio dove non vige alcuna legge né politica né morale, che le unità dell’esercito israeliano giocano il loro tetro torneo della morte: vince chi ammazza più palestinesi possibile. La storia la racconta Haaretz, il quotidiano israeliano da poco sanzionato dal suo stesso governo, dopo aver raccolto le voci di soldati, riservisti e ufficiali di ritorno da Gaza: in quella kill zone sono autorizzati a sparare a chiunque, senza ulteriori via libera.

Così sono stati uccisi centinaia di palestinesi, compresi bambini, e i loro corpi abbandonati. «Dopo gli spari, i cadaveri non vengono recuperati e attirano branchi di cani che vengono a mangiarli. A Gaza la gente sa che dovunque veda dei cani è meglio non andare».

Alcuni corpi vengono seppelliti ed «etichettati» come terroristi. «Il comandante diceva: chiunque passa la linea è un terrorista, non ci sono civili». Nemmeno il ragazzino crivellato di colpi tra le risate dei militari: «Parlo di decine di pallottole. Per un minuto o due, abbiamo continuato a sparare al corpo. Intorno a me sparavano e ridevano. Ci siamo avvicinati al cadavere coperto di sangue e lo abbiamo fotografato. Era solo un ragazzo, forse 16 anni».

Un altro soldato racconta di quattro persone, camminavano disarmate. «Centinaia di colpi», dice, tre sono morti subito. Il sopravvissuto è stato messo in «una gabbia, spogliato e lasciato là. I soldati passavano a sputargli». I corpi degli altri tre sono stati lasciati a terra per qualche giorno, poi un bulldozer li ha ricoperti di sabbia: «Non so se qualcuno ricorda dove».

La sera, a «turno» finito si raccolgono i complimenti degli ufficiali. «Gli annunci del portavoce dell’esercito sui numeri degli uccisi – racconta un soldato – sono diventati una competizione tra unità. Se la Divisione 99 ne uccide 150, la prossima unità punta a 200».

I cadaveri attirano branchi di cani che vengono a mangiarli. A Gaza la gente sa che dovunque veda dei cani è meglio non andareUn testimone ad Haaretz

L’ESERCITO – le alte sfere – ha dato carta bianca agli ufficiali sul campo. Quella carta bianca è l’altra faccia della medaglia delle dichiarazioni di rappresentanti del governo israeliano e delle forze armate che, a poche ore dal 7 ottobre 2023, hanno espresso senza ambiguità l’intento genocidiario della campagna militare Spada di Ferro.

È tale intento ad aver permesso alla Corte internazionale di Giustizia lo scorso gennaio di accogliere il caso presentato dal Sudafrica contro Israele per violazione della Convenzione sul genocidio del 1948 e, un paio di settimane fa, ad Amnesty di presentare un ampio rapporto in merito.

A quella mole di lavoro si è aggiunto il rapporto di Human Rights Watch, quasi 200 pagine costruite intorno a interviste, immagini satellitari, video, foto, testimonianze di agenzie Onu ed esperti e raccolta delle dichiarazioni pubbliche israeliane: l’organizzazione per i diritti umani accusa Israele di genocidio e sterminio, focalizzandosi su un aspetto dell’offensiva militare in corso da 14 mesi, ovvero la deliberata privazione dei palestinesi dell’accesso all’acqua.

Attraverso la sete, scrive Hrw, Israele infligge condizioni di vita deliberatamente volte alla distruzione della popolazione. «Non è negligenza: è una politica calcolata che ha già provocato migliaia di morti per disidratazione e malattie, niente di meno del crimine di sterminio e un atto di genocidio».

PRIMA DI TUTTO i numeri. Lo standard minimo indicato dall’Organizzazione mondiale della Sanità è pari a 100 litri di acqua al giorno per persona; in Israele i cittadini hanno accesso a una media di 247 litri, a Gaza prima del 7 ottobre a 83. Oggi, a seconda delle zone e dei periodi, si va da un minimo di due a un massimo di nove litri d’acqua al giorno per persona.

Una tale deprivazione – politica annunciata nei primi giorni di offensiva dal ministro della difesa Gallant – è stata realizzata attraverso il taglio dell’acqua corrente, la distruzione sistematica di pozzi, reti idriche e impianti di desalinizzazione e attraverso il blocco all’ingresso di acqua potabile dai valichi. Hrw aggiunge un elemento fondamentale: le migliaia di morti si aggiungono ai 45mila palestinesi uccisi dall’esercito israeliano con mezzi «diretti», ovvero raid e bombardamenti.

Le diverse pratiche, se messe insieme, conducono in una direzione: ripulire pezzi di Gaza dalla sua popolazione e costringere l’enclave a impiegare anni, se non decenni, a ricostruire se stessa, le reti comunitarie e la vita, mettendo da parte la necessaria spinta all’autodeterminazione.

È una pulizia etnica di ampio spettro, fisica e politica, riassunta ieri da Medici senza Frontiere: «La gente di Gaza combatte per sopravvivere a condizioni apocalittiche, ma nessun luogo è sicuro, nessun essere umano è risparmiato e non c’è via d’uscita dall’enclave in frantumi». L’apocalisse è destinata a durare, anche quando le bombe non cadranno più.

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Agitare è bene Oggi a Roma a Testaccio (ore 11) e sit-in al ministero dell'università (ore 15): ricercatori precari, studenti, docenti, associazioni e sindacati Critiche alla ministra Bernini ("Nega l'evidenza dei tagli e delle riforme"). "Ci vogliono convergenza massima, azioni significative". L'appello contro i rischi del ridimensionamento della ricerca in Italia della Rete delle 122 società scientifiche

Torino, gli studenti e i ricercatori universitari bloccano l'entrata al Campus Universitario Einaudi per protesta contro la legge di bilancio Torino, gli studenti e i ricercatori universitari bloccano l'entrata al Campus Universitario Einaudi per protesta contro la legge di bilancio

Gli «stati di agitazione delle università» che si terranno stamattina al dipartimento di Architettura di Roma Tre al Mattatoio di Testaccio (dalle 11), e in un presidio alle 15 al ministero a Trastevere, sono il risvolto di quello che non è stato detto, o è stato detto tra le righe, ieri alla Camera dove oggi continuano gli «Stati generali dell’università» organizzati dai rettori della Crui. Nell’assemblea si parlerà infatti dei tagli aggiuntivi previsti dalla legge di bilancio in votazione stasera dalla Camera (702 milioni di euro in tre anni), del DdL Bernini che aumenterà il precariato nella ricerca, della paventata riforma peggiorativa degli attuali assetti che una commissione ministeriale sta preparando, del boom delle università telematiche.

L’«AGITAZIONE» di cui parla il bel titolo dell’iniziativa di oggi rispecchia la rapida fioritura di «assemblee precarie» sbocciate negli ultimi tempi in molti atenei: da Torino a Milano, da Roma a Napoli. Si sono formati coordinamenti interuniversitari a Palermo o a Padova. In una dinamica aperta e in evoluzione si tessono reti tra associazioni universitarie (Andu, Rete 29 aprile, Adi), dei precari della ricerca (Restrike, 90%, Arted), studenti (Udu, Link, primavera degli studenti) e sindacati (Flc Cgil, Clap).

VA EVIDENZIATA la novità, per molti versi significativa, della nuova mobilitazione. È impressionante leggere l’elenco delle 122 società scientifiche accademiche che hanno firmato un drammatico documento sui «rischi di ridimensionamento della ricerca» pubblicata a ottobre sul sito «Scienza in rete». Parliamo di una parte rappresentativa della ricerca italiana che, a partire dai suoi vertici, sta provando a varcare i confini di un mondo gerarchico. L’appello al governo contro i tagli è rimasto finora inascoltato.

NELLE ASSEMBLEE e nei sit-in che si continua a sentire una tensione anti-corporativa e una spinta verso la costruzione di «alleanze» e convergenze dentro e

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Strage Infinita A Bra l’incidente ripreso dalle telecamere, protesta immediata: «Basta, vogliamo sicurezza». Altri morti a Cagliari e Salerno. La dinamica è sempre la stessa: un mezzo che non si ferma e travolge i lavoratori ignari

Lo sciopero di protesta di ieri al porto di Genova, dopo la morte di un portuale nella notte di martedì - Ansa Lo striscione di protesta al porto di Genova – Foto Ansa

A una settimana dal natale il sangue torna a scorrere al porto di Genova così come nella zona industriale di Cagliari e in una fabbrica di Postiglione (Salerno).

Tre operai schiacciati in una delle modalità quotidiane dell’inarrestabile strage sul lavoro.

A PERDERE LA VITA nel capoluogo ligure è stato il 52enne Giovanni Battista Macciò, conosciuto come Francesco, ca,allo da tanti anni. Dell’incidente questa volta ci sono le riprese delle telecamere a circuito chiuso del porto Bra. Si vede nitidamente una ralla – una motrice usata per movimentare i container – fare inversione sulla banchina e girare verso sinistra ma non fermarsi più e andare a travolgere un’altra ralla, davanti alla quale era Francesco, a controllare un carico.

Lo sciopero di protesta di ieri al porto di Genova, dopo la morte di un portuale nella notte di martedì - Ansa
Il varco di ponte Etiopia bloccato per portesta dai colleghi del portuale morto nel porto. Genova, 18 dicembre 2024.
ANSA/LUCA ZENNARO

L’autista, originario del Levante, è stato investito mentre era sceso dal mezzo per controllare il carico. L’incidente è avvenuto intorno alle 4 di ieri notte. Ferito anche un secondo lavoratore, che si trovava alla guida di un altro mezzo. L’uomo è stato trasportato d’urgenza all’ospedale San Martino, con trauma cranico.

Immediata anche la reazione dei sindacati dei camalli: dopo la tragedia il porto si è bloccato per uno sciopero di 24 ore, indetto dai Cgil, Cisl e Uil, con mobilitazione a Ponte Etiopia e ai varchi centrali dello scalo genovese per chiedere più sicurezza e formazione, richieste racchiuse da uno striscione: «Ci siamo rotti il cazzo di morire sul lavoro». I sindacati unitariamente sostengono di «aver denunciato più volte la pericolosità di quella zona» e chiedono che «gli Rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza (Rls) possano accedere a tutte le zone del porto, alcune oggi sono loro interdette».

FRANCESCO È STATO RICORDATO dal Comitato dei parenti delle vittime del ponte Morandi: «Una grande persona, un uomo che con la sua famiglia è stato vicino in modo particolare alle nostre famiglie fin dal 14 agosto 2018, era con noi sempre ogni 14 agosto, era con noi domenica per l’inaugurazione del Memoriale. Siamo sconvolti. Un giorno che non sarebbe mai dovuto arrivare, un’altra morte sul lavoro che non ha senso. Un mondo alla rovescia», conclude il Comitato Parenti vittime del Ponte Morandi.

UNA MANOVRA SBAGLIATA da parte di chi stava guidando un camion sarebbe all’origine anche della morte del 57enne Stefano Deiana, schiacciato dal mezzo pesante nell’officina dove lavorava nella zona industriale di Elmas, nel cagliaritano. Ferito anche il collega senegalese Abdoulaye Lo, trasportato all’ospedale Brotzu di Cagliari. L’incidente è avvenuto ieri intorno alle 13 nell’officina in via delle Miniere. Secondo quanto ricostruito, l’autista del mezzo, un 47enne, residente a Decimoputzu, non si sarebbe accorto della presenza dei due lavoratori, e avrebbe investito i due meccanici che, in quel momento, si trovavano sotto il mezzo. Il 57enne ha riportato gravi traumi da schiacciamento ed è morto sul posto nonostante i tentativi di soccorso da parte del personale del 118. Il 27enne, invece, ha riportato solo alcune lesioni e le sue condizioni non sarebbero gravi.

MOLTO SIMILE L’INCIDENTE avvenuto a Postiglione, nel Salernitano, costato la vita a Domenico Caputo. Il 36enne è stato travolto da un camion mentre lavorava nella fabbrica di famiglia. Secondo una prima ricostruzione, sarebbe stato schiacciato dal portellone del mezzo pesante, probabilmente a causa di un guasto meccanico. Pare fosse intento a scaricare un carico dal camion quando è rimasto coinvolto nell’incidente.

Si conta un ferito invece nell’Aretino. Nel comune di Castiglion Fibocchi un uomo di 40 anni è rimasto schiacciato da una pressa per l’imbottigliamento del vino. È ora ricoverato alle Scotte di Siena, dove è arrivato in codice rosso

 

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Al senato La premier prova a raccogliere il messaggio del capo dello stato. Ma ne ha per tutti. Scontro con Monti su Musk

Meloni apre spiragli per il confronto con toni da rissa

 

I toni sono quelli di sempre, se possibile più rissosi e a tratti striduli del solito. L’intento di Giorgia Meloni, nella replica al Senato dopo il dibattito sulle sue comunicazioni in merito al prossimo Consiglio europeo, invece è diverso da quello di 24 ore prima alla Camera. È arrivato a destinazione il messaggio del capo dello Stato: un invito perentorio rivolto a tutte le parti politiche ma anche ai media perché abbandonino l’uso smodato della categoria amico/nemico e della contrapposizione insanabile. Dunque qualche apertura al dialogo stavolta Meloni la cerca, anche se è difficile accorgersene nel fragore della rissa da strada in cui trasforma il suo intervento.

LA PREMIER COME al solito ne ha per tutti. Il caso Fitto se lo è legato al dito: «La Lega ha contestato la Commissione ma non il commissario italiano. Invece c’è chi ha difende la Commissione ma contesta il commissario italiano. C’è una bella differenza». Quando esalta l’aver sloggiato i camorristi da Caivano e qualcuno dall’aula rumoreggia perde quasi la testa. Gli fa il verso. Strilla e sbraita. Sbotta: «Voi non lo avete fatto e questi versi anche no». La rissa minaccia di non restare confinata nella sfera verbale. La presidente insiste: «Quando vengo accusata posso rispondervi o devo restare in silenzio?».

Ma la premier non ha alcuna intenzione di creare frizioni eccessive con il presidente della Repubblica e cerca spiragli d’apertura. Visto che Alfieri, Pd, riconosce l’importanza del piano Mettei, ci si potrebbe lavorare insieme. E se l’opposizione si accordasse per garantire l’approvazione della legge di bilancio entro il termine obbligatorio del 31 dicembre lei sarebbe prontissima a non mettere la fiducia. Sono segnali inviati all’opposizione ma con lo sguardo rivolto al Colle.

SOLO CHE L’ALLARME di Mattarella non riguardava solo la degenerazione del confronto politico in una specie di guerra civile mimata. Anche più marcata era la preoccupazione per il potere che stanno assumendo le corporation, sottratte «a ogni controllo pubblico», quasi in grado ormai di sfidare lo Stato quanto a monopolio della forza e sulla moneta. Ogni riferimento a Elon Musk era puramente intenzionale e quell’amicizia imbarazzante viene puntualmente rinfacciata alla premier in particolare da Mario Monti. «Non so che film abbiate visto. Io posso essere amica di Elon Musk e nello stesso tempo presidente del primo governo che in Italia ha fatto una legge per regolamentare l’attività dei privati nello spazio». Incrocia la lama con la Pd Malpezzi ancora sul tycoon: «Il miracolo di Musk è avervi fatto diventare sovranisti ma quando stava con i democratici non avevate niente da dire su di lui».

Altra amicizia pericolosa, quanto a quarti di democrazia, è quella con il presidente argentino Javier Milei. Se la cava con una battuta, duettando a suon di colpi bassi con Matteo Renzi: «Era lei a mettersi il cappotto come Obama. Io sono amica di Milei ma non mi faccio crescere le basette». Replica facile: «Obama non lo ho mai visto col cappotto. A vestirsi come il suo leader Trump è stato Salvini: ha sbagliato Matteo».

Ma le battute non bastano. La premier italiana è decisa a dar vita con Trump e con Milei a quella «internazionale di destra» che l’argentino ha proposto, non per la prima volta, proprio ad Atreju. Allo stesso tempo però intende difendere e rinsaldare quei rapporti con il Ppe che le hanno garantito quella centralità europea che le stesse opposizioni le hanno riconosciuto in questi giorni, sia pur per accusarla di non saperne trarre nulla di buono. È un esercizio di equilibrismo che potrebbe rivelarsi molto difficile.

SULL’UCRAINA la premier italiana, come del resto l’Unione europea, non ha modificato di un millimetro la posizione assunta quasi tre anni fa. Come se la situazione fosse la stessa di allora. Peraltro il compito di cercare una mediazione e un accordo con i nuovi Usa ricadrà in parte importante proprio su di lei, la «leader più influente in Europa». Forse il nervosismo che neppure più i suoi provano a negare, quello dimostrato ad Atreju ma ancor più in questa due giorni parlamentare perché qui a parlare e urlare non era la capopartito ma la presidente del consiglio, deriva proprio dalla consapevolezza di cosa la aspetta nei prossimi mesi.

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