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«Siamo noi la maggioranza». Piazze piene a Roma e in tutto il centro Italia nel primo giorno di sciopero generale di Cgil e Uil contro la manovra e un’idea autoritaria di governo. Adesione oltre il 70% anche in risposta agli attacchi di Salvini. «Ci ascoltino o non ci fermeremo»

IL PIANO MATTEO. Un successo lo sciopero generale. Piazza del Popolo e le altre del centro gremite «come non succedeva da molti anni». Il ministro Salvini è il più evocato: tanti cartelli con titolo del manifesto «Precetto la qualunque»

«Siamo maggioranza» Cgil e Uil, piazze piene e adesione oltre il 70% Piazza del Popolo a Roma gremita per lo sciopero generale di Cgil e Uil - Foto di Adreas Solaro

Finita la manifestazione a piazza del Popolo, parte della folla si dirige verso la stazione della metro A di Flaminio, che si trova a pochi passi. La trova chiusa e si mette in diligente fila, molti con bandiere di Cgil e Uil in mano, in attesa che riapra. È la plastica dimostrazione della riuscita dello sciopero generale di ieri mattina nelle regioni del Centro – «straordinaria adesione oltre al 70%» – e della risposta alla precettazione del ministro Salvini che ha dimezzato a sole quattro ore nel settore dei trasporti.

Alcuni di quei lavoratori erano in piazza e una delegazione è salita perfino sul palco con lo striscione improvvisato «Lavoratori trasporti precettati» con lo spray rosso, applauditissimo dai 60 mila che riempivano la piazza come un uovo, metà rosso Cgil e metà azzurro-ciano Uil.

MATTEO SALVINI IN PIAZZA C’ERA eccome. Era presente nella maggioranza dei cartelli, parecchi con la prima pagina del manifesto di mercoledì col titolo «Precetto la qualunque». Ed è stato evocato in tutti gli interventi, specie da Pierpaolo Bombardieri mentre Maurizio Landini ha evitato – come fa sempre – di pronunciare il suo nome.
La piazza era la stessa di due anni fa quando Cgil e Uil scioperarono contro la manovra del governo Draghi, sebbene ieri fosse ancora più gremita e dominata dalla scritta “Pace” su sfondo arcobaleno sostenuta dai palloncini.

PER IL TERZO ANNO CONSECUTIVO la Cisl non fa parte della compagnia, ma nessuno ne ha sentito la mancanza o ne ha fatto cenno diretto, quasi fosse un’abitudine. E anche questa è

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THE OLD OAK. Incontro con il regista britannico tornato nelle sale: dalle battaglie dei lavoratori, migranti e residenti, al conflitto in Medio Oriente: «Dobbiamo lottare per uguali condizioni di lavoro e salari in tutto il mondo. Al momento l’internazionalismo più efficace è quello delle multinazionali»

Ken Loach: «Reagire uniti contro l’attacco al diritto di sciopero»Ken Loach ieri a Roma

Ken Loach è a Roma per presentare il suo nuovo film, The Old Oak. Uscito ieri nelle sale italiane, racconta i rischi di conflitto ma anche le possibili forme di solidarietà che nascono dall’incontro tra i migranti fuggiti dalla Siria e una comunità segnata dalla deindustrializzazione e abbandonata dalle istituzioni nell’Inghilterra del nord. In questi giorni il regista britannico, 87 anni, ha incontrato centinaia di persone nelle presentazioni presso lo spazio occupato Spin Time Labs e vari cinema della capitale.

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Nel suo infaticabile tour alza la voce a sostegno di tutti i lavoratori – migranti e residenti – e per il rispetto del diritto internazionale in Medio Oriente. Lo incontriamo a margine di una tavola rotonda con i giornalisti in un hotel del centro di Roma.

Governo e autorità garante sono intervenuti per limitare lo sciopero nel settore dei trasporti. Cosa direbbe ai lavoratori che per questo non potranno partecipare alla protesta e a quelli che non avrebbero scioperato comunque perché hanno perso la «speranza», parola chiave nel suo ultimo film?

Ostacoli simili sono usati anche in Gran Bretagna e la cosa viene giustificata dicendo che bisogna continuare a erogare i servizi essenziali. Così alcune categorie non potranno mai astenersi dal lavoro al 100%. Ma simili azioni sono anche un segno di debolezza della classe politica: mostrano che lo sciopero può funzionare e fare paura. Può sembrare un momento buio ma è sempre buio prima dell’alba. Comunque la cosa importante è che quando il diritto di sciopero viene attaccato non si tratta di un’aggressione a un singolo sindacato, ma a tutto il movimento dei lavoratori. Perciò serve una risposta unitaria. Tutto il movimento sindacale deve smettere di lavorare. O fai così o perdi. È questa la sfida per i leader sindacali.

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Negli ultimi giorni sono esplose molte divisioni nella sinistra europea: la Nupes in Francia, Syriza in Grecia, la Linke in Germania. In quest’ultimo caso tra le ragioni c’è anche un preteso conflitto di interessi tra la classe lavoratrice locale e i migranti. Tema di «The Old Oak».

Le divisioni della sinistra dipendono dalle leadership. Queste dovrebbero spiegare alle persone chi sta distruggendo il pianeta, come le grandi multinazionali che chiedono più fossili per sostenere i loro profitti. Sono le stesse che impongono il lavoro precario e attaccano i sindacati perché non vogliono rispettare conquiste come le otto ore al giorno o le ferie retribuite. Queste grandi corporation competono a livello globale per aumentare lo sfruttamento e con esso i loro profitti. Spesso controllano i media e sostengono la propaganda a favore di questo sistema. Hanno tutto l’interesse a frammentare i lavoratori. Una classe divisa è debole. Come la dividi? Facendo in modo che non se la prenda con chi alimenta la povertà, distrugge i servizi pubblici o fa soldi sul sistema sanitario, ma con le persone che stanno peggio.

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I migranti?

Certo, i migranti, i più vulnerabili e poveri di tutti. È chiaro che i migranti non hanno distrutto i nostri sistemi sanitari o creato i senza tetto. Questi fenomeni sono iniziati prima. I migranti fuggono dalla fame, anche se abbiamo le tecnologie per nutrire tutti. Fuggono dalle guerre che hanno fatto collassare i loro paesi. Sono lavoratori che hanno bisogno di aiuto. Vanno integrati nei sindacati. Dobbiamo lottare per uguali condizioni di lavoro e salari in tutto il mondo. Ma al momento l’internazionalismo più efficace è quello delle multinazionali perché sono capaci di creare profitti a livello globale.

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In queste settimane da Gaza arrivano continuamente immagini di morte e distruzione. Vede il rischio che, guerra dopo guerra, si generi una sorta di assuefazione?

Quelle foto e quei video sono orribili. Se vedessimo quelli del 7 ottobre lo sarebbero altrettanto. Il mondo non può più continuare a guardare questo atroce massacro. La negazione dei diritti fondamentali dei palestinesi, la violazione del diritto internazionale, il fatto che quelle persone non possano vivere nel loro paese o eleggere il governo sono fatti che conosciamo da decenni. È tempo che le Nazioni unite intervengano, che tutti i paesi del mondo sostengano i palestinesi nella creazione di uno Stato con confini definiti. È una responsabilità internazionale collettiva.

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A Londra ci sono state mobilitazioni enormi per Gaza, ma nessuna reazione forte dalle forze politiche. Secondo lei, che due anni fa è stato cacciato dal Labour per aver sostenuto Corbyn e le sue posizioni sulla Palestina, per quali ragioni esiste una frattura così grande tra ciò che sentono le persone e le politiche dei governi, di destra e di sinistra?

Perché l’Occidente ha screditato e minato le Nazioni unite. La Gran Bretagna ha lanciato insieme agli Usa una guerra illegale contro l’Iraq e ucciso quasi un milione di persone. Sfollandone altri quattro o cinque milioni. Lo stesso era successo in Afghanistan. La Gran Bretagna deve riconoscere le proprie responsabilità insieme agli altri paesi occidentali. Accettiamo le nostre colpe del passato e impegniamoci in una risoluzione collettiva dell’Onu che dia giustizia a tutti i popoli della regione, perché possano vivere in pace e sicurezza.

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Cosa significano oggi queste due parole?

Il 7 ottobre Hamas ha commesso una barbarie e dei crimini di guerra. Anche il lungo attacco da parte di Israele contro il popolo di Gaza è un crimine di guerra. Mi piace citare la posizione del segretario generale delle Nazioni unite, Antonio Guterres. Credo abbia tenuto un discorso molto saggio dicendo che gli attacchi di Hamas non sono avvenuti nel vuoto. Il contesto che ha citato è quello dell’oppressione dei palestinesi che va avanti da decenni. I palestinesi hanno il diritto di resistere quando i loro diritti vengono negati. Ancora una volta, è responsabilità delle Nazioni unite intervenire. L’Onu ha inviato forze di peace-keeping in altre aree. Perché non può farlo anche per difendere i diritti dei palestinesi?

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Torna lo sciopero. Generale nelle regioni del Centro, a Nord e Sud si fermano i lavoratori pubblici e per quattro ore quelli dei trasporti, frenati dai dispetti di Salvini. «Piazze ancora più piene» prevedono Cgil e Uil. Per i diritti e per i salari, è solo il primo giorno

SPIAZZIAMO. Prima delle cinque date: manifestazione a piazza del Popolo a Roma e in tutte le regioni del Centro. L’Usb a palazzo Vidoni. Otto ore per tutti, esclusi i trasporti «precettati». Landini: è solo l’inizio, non riusciranno a fermarci

Cgil e Uil, è il giorno dello sciopero generale. Fermo tutto il «pubblico» Una manifestazione di Cgil e Uil a piazza del Popolo a Roma - Foto Getty Images

La prima delle cinque giornate di mobilitazione di Cgil e Uil di oggi è anche la più importante. Nelle regioni del Centro – Toscana, Lazio, Marche, Umbria, Abruzzo e Molise – è previsto un vero sciopero generale che coinvolge tutte le categorie. Nel resto d’Italia scioperano tutti i dipendenti pubblici, della scuola e della conoscenza, di Poste Italiane e dei trasporti, sebbene questi ultimi siano stati precettati dal ministro Salvini e potranno astenersi dal lavoro solo dalle 9 alle 13 e non per le intere otto ore di turno di lavoro come gli altri lavoratori.

ASSIEME A LORO a Roma ci saranno anche studenti medi e universitari che con la Rete degli studenti e l’Udu terrano un corteo da piazza Barberini verso piazza del Popolo dove è prevista dalle 9 e 30 la manifestazione di Cgil e Uil che sarà chiusa dai comizi di Pierpaolo Bombardieri e Maurizio Landini.

Manifestazioni in programma a Firenze dove in piazza Santissima Annunziata terrà il comizio Francesca Re David, a Campobasso in piazza della Prefettura Giuseppe Gesmundo; a Macerata in piazza Cesare Battisti Lara Ghiglione; a Fermo in piazzale Azzolino Maria Grazia Gabrielli; ad Ascoli Piceno in piazza Ventidio Basso Daniela Barbaresi; e poi a Perugia a piazza IV Novembre, a Jesi a piazza Colocci con comizio di Domenico Proietti (Uil); e infine a Lanciano.

La mobilitazione è stata promossa «per alzare i salari, per estendere i diritti e per contrastare una legge di bilancio che non ferma il drammatico impoverimento di lavoratrici, lavoratori, pensionate e pensionati e non offre futuro ai giovani. A sostegno di un’altra politica economica, sociale e contrattuale, che non solo è possibile ma necessaria e urgente. Adesso basta!», conclude il

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GAZA. Gli uomini tra i 16 e i 40 anni radunati e schedati. I soldati cercano anche tra i cadaveri. Arrestati due tecnici dell'ospedale

Truppe israeliane entrano all’interno dell’ospedale Al Shifa foto Ap Truppe israeliane entrano all’interno dell’ospedale Al Shifa - foto Ap

Di Elham Farah, insegnante di musica in pensione, ferita da una fucilata e morta domenica dissanguata in strada non ha parlato o scritto quasi nessuno. Davanti a migliaia di uccisi e feriti, ai carri armati nel centro di Gaza city e alle truppe israeliane che hanno fatto irruzione nell’ospedale Shifa, anche lo sguardo più attento non riesce a dare visibilità alla sorte toccata a questa anziana palestinese. La nipote Carole sui social ha raccontato che domenica la zia è stata ferita a una gamba mentre dalla chiesa cattolica di Gaza city andava a casa a prendere qualche effetto personale. È bastato un colpo alla gamba per ucciderla. Nessuno ha potuto raggiungerla. Elham Farah sanguinante è morta in strada a poca distanza dall’ospedale Shifa. Alcuni dei suoi allievi l’hanno ricordata sui social con affetto, per la sua dedizione all’insegnamento e l’amore per la musica. Il suo nome si è aggiunto a quello di altre migliaia di civili palestinesi rimasti feriti e che nessuno ha potuto salvare, specie quelli bloccati sotto le macerie. Chi ha sparato? I palestinesi non hanno dubbi: un cecchino israeliano. Alla Chiesa cattolica, dove la donna era molto conosciuta, invece non si sbilanciano.

Martedì notte mentre i parenti piangevano Elham Farah, le truppe israeliane sono penetrate nello Shifa e ne hanno perquisito stanze, dipartimenti e il seminterrato in un’incursione che ha messo in forte allarme l’Oms e l’Onu per la sorte di migliaia di civili intrappolati all’interno: pazienti, staff e sfollati giunti dal nord. Centinaia, forse migliaia di persone. Ieri per tutto il giorno i soldati israeliani hanno cercato sotto e intorno all’ospedale il cosiddetto «cuore pulsante» di Hamas, il quartier generale del movimento islamico a Gaza city. Per settimane i comandi militari israeliani, il premier Netanyahu e il ministro della Difesa Yoav Gallant hanno ripetuto al mondo, con l’appoggio anche dell’intelligence Usa, che lo Shifa nasconde

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POSIZIONI IRRICONCILIABILI. Tutti contro Mélenchon. Alle prossime elezioni europee l’alleanza non esisterà più: socialisti, comunisti, ecologisti e France Insoumise correranno ognuno per conto proprio

Un poster strappato di Jean-Luc Mélenchon foto Ap Un poster strappato di Jean-Luc Mélenchon a Parigi - Ap

Alla prossima scadenza elettorale – le elezioni europee tra 7 mesi – l’alleanza della sinistra francese, la Nupes, non esisterà più. I partiti che la compongono – Ps, Pcf, Ecologisti e France Insoumise – correranno ognuno per conto proprio, per spartirsi un elettorato che al massimo rappresenta un terzo dei votanti, nella tripartizione in cui è ormai diviso il panorama politico francese (destra estrema, centro europeista, sinistra).

Se restavano ancora dei dubbi su qualche possibilità di intesa, almeno parziale, prima dell’inizio della guerra tra Israele e Hamas, la Nupes è esplosa in seguito al rifiuto della France Insoumise di definire Hamas un gruppo terrorista e di condannare l’attacco del 7 ottobre in Israele.

I socialisti hanno chiesto una “moratoria” sui lavori dell’intergruppo parlamentare all’Assemblée nationale, cioè una sospensione del coordinamento. Il Partito comunista si era già allontanato e gli Ecologisti avevano già approvato una lista autonoma alle europee. E persino all’interno della France Insoumise è cresciuta una fronda, che ormai esprime il suo dissenso ad alta voce.

La Nupes è nata come alleanza elettorale per le legislative della primavera del 2022, dopo le presidenziali dove il candidato Jean-Luc Mélenchon aveva raccolto il 22%, sbarazzando i concorrenti (al primo turno la socialista Anne Hidalgo aveva ottenuto l’1,7%, il comunista Fabien Roussel il 2,2%, l’ecologista Yannick Jadot il 4,6%).

Alle legislative la Nupes ha ottenuto 151 seggi, dominata dai 75 andati alla France Insoumise. Lo squilibrio delle forze interne è stato fin dall’inizio un elemento perturbatore. Ma soprattutto, malgrado il programma comune di 650 proposte, l’alleanza ha avuto fin da subito la difficoltà di passare da intesa elettorale a movimento comune. In un anno, le differenze si sono esasperate: laicità, polizia, politica estera, strategia politica.

La Nupes è stata presa nel turbinio del dibattito politico, su terreni scelti da altri o causati dall’attualità – immigrazione, sicurezza, rivolte delle banlieues, identità, politica estera – senza mai arrivare a imporre un’agenda sui temi prioritari della sinistra, a cominciare dalle questioni di giustizia sociale ed economica. La lunga sequenza sulle pensioni è stata certo una parentesi unitaria, ma rappresenta un’eccezione.

L’esplosione sul Medioriente ha messo in evidenza posizioni irriconciliabili. Alla Marcia contro l’antisemitismo, domenica a Parigi, c’erano Ps, Pcf e Ecologisti ma non la France Insoumise, mentre la fronda (François Ruffin, Clementine Autain, Raquel Garrido, Alexis Corbière) ha manifestato a Strasburgo, nel corteo organizzato dalla Licra (Lega contro il razzismo e l’antisemitismo). Ruffin dopo il 7 ottobre ha affermato: «Non siamo stati all’altezza».

La Nupes è finita? «È morta» ha affermato l’ecologista Yannick Jadot. Per Fabien Roussel del Pcf «è ora di voltare pagina», Sophia Chikirou, parlamentare France Insoumise molto vicina a Mélenchon, l’aveva paragonato al collaborazionista Doriot. Olivier Faure del Ps giudica che « Mélenchon è ormai un ostacolo a sinistra». Per l’ecologista Marine Tondellier «il problema della Nupes è il suo pseudo-leader che passa il tempo a provocare tutti con tweet intempestivi». Mélenchon ha parlato di «punto di non ritorno».

I malumori sono venuti alla luce anche prima dell’attacco di Hamas, in particolare sulla rivolta delle banlieues, sulla polizia, anche sul caso Adrien Quatennens (condannato per violenze coniugali e difeso da Mélenchon) e più in generale sulla scelta di esacerbare la conflittualità in parlamento e sull’assenza di democrazia interna. Anche se, per il momento, nel gruppo parlamentare l’unione non è rotta e c’è la proposta di un’assemblea generale dei deputati per cercare di rimettere assieme i pezzi. La base vuole l’unità.

Ci sono alternative? Nel Ps c’è chi spera di tornare al passato. L’ex presidente François Hollande sostiene che la social-democrazia abbia «perso l’anima» con l’intesa della Nupes, definita un «fallimento morale». Ma Hollande ammette: «Lo spirito di rivincita non basta» per ridare alla social-democrazia il «posto centrale» che aveva a sinistra. Anche l’ala che viene dai socialisti in Renaissance (il partito di Macron) è sempre più a disagio e senza voce. Le placche tettoniche della scena politica francese sono in movimento, il superamento della divisione destra/sinistra proposto da Macron è in stallo

 

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GERMANIA. Diciotto anni fa lo storico ingresso della «fraktion» in parlamento, ora, dopo la scissione di Sahra Wagenknecht, la Sinistra tedesca cerca un posto al Bundestag: il futuro è «nella mani degli altri». Non era mai successo, finora i ritiri delle delegazioni parlamentari erano avvenuti esclusivamente in seguito a sconfitte alle urne

Die Linke, foto Getty Images Box elettorale della Linke; in basso i due segretari: Martin Schirdewan e Janine Wissle - Getty Images e Ansa

«La Linke non dipende più da noi. Il destino del partito in Parlamento è ormai nelle mani degli altri». Dietmar Gerhard Bartsch, 65 anni, storico capogruppo, è l’uomo a cui tocca ammainare la bandiera della fraktion della Sinistra issata al Bundestag diciotto anni fa. Con l’ultima decisione in grado di sciogliere i residui dubbi sulla capacità di sopravvivenza alla devastante scissione della linkspopulistin Sahra Wagenknecht che ha arruolato nella sua nuova «Alleanza» sovranista 9 deputati Linke facendo mancare al partito il numero legale per poter rimanere una fraktion con i pieni diritti parlamentari.

«CI SCIOGLIEREMO il 6 dicembre» ufficializza Bartsch, costretto a trasformare la delegazione originariamente composta da 38 eletti in un semplice rappresentanza di 28 deputati. Significa ricevere meno finanziamenti pubblici ma anche avere voce quasi zero nelle commissioni e negli ordini del giorno delle sedute parlamentari. Sempre che gli altri partiti del Bundestag vogliano concedere il loro nulla-osta alla formazione dei due nuovi gruppi.

Per questo Bartsch ammette che la sorte della sinistra tedesca in Parlamento è appesa agli interessi di Spd, Verdi, Liberali, Cdu e perfino di Afd. Pronti anzitutto a cannibalizzare le presidenze di commissione lasciate vacanti dalla Linke ridisegnando a tavolino gli scranni del Bundestag. In particolare fa gola la poltrona del deputato Klaus Ernst, presidente della commissione per la Protezione del clima. I democristiani temono che la guida possa finire alla Coalizione Semaforo.

A decidere dove dovranno sedere i 10 deputati della neonata “Bündnis Sahra Wagenknecht” sarà formalmente il Consiglio degli Anziani del Bundestag. «Gira già voce che i parlamentari di Wagenknecht saranno collocati fra i cristiano-democratici e Afd, anche se non accadrà perché richiederebbe troppo tempo – osserva Bartsch – Nonostante Cdu e Csu sarebbero ben felici di allontanarsi fisicamente dai banchi dell’ultradestra».

NELLE MANI DEGLI ALTRI, appunto, cioè fra i piedi di chi continua a giocare la propria partita politica come se la crisi della Linke non avesse prodotto un effetto storico: per la prima volta una fraktion del Bundestag viene sciolta nel corso della legislatura. Non era mai successo. Finora i ritiri delle delegazioni parlamentari erano avvenuti esclusivamente in seguito a sconfitte alle urne, come nel caso dei liberali che nel 2013 non superarono la soglia di sbarramento del 5%. Mentre sono in gioco i 108 posti di lavoro dei dipendenti del gruppo Linke, appesi pure loro al via libera degli altri partiti ai due soggetti parlamentari nati dalla scissione a sinistra.

CHE FARE? Di sicuro, più del funerale alla Linke, il cui necrologio è stato stampato anzitempo più di una volta. «Quelli dati per morti» è il sunto dell’autorevole analisi sulla Zeit di Thorsten Holzhauser, storico della fondazione Theodor Heuss di Stoccarda, esperto dell’integrazione del Pds (il partito antenato della Linke nato dalle ceneri della Sed della Ddr) nel sistema politico della Bundesrepublik.

«Quando l’allora segretario Gregor Gysi combatté per la prima volta contro la dissoluzione del partito era il gennaio 1990, la sinistra si chiamava ancora Sed e governava la Ddr. Veniva contestata sia dalla rivoluzione nelle strade che da centinaia di migliaia di iscritti che ne chiedevano lo scioglimento. Tra loro c’era il vice di Gysi, Wolfgang Berghofer, che si dimise dal partito con un effetto dirompente uguale a Sahra Wagenknecht. Allora lo Spiegel lo descrisse come il triste mietitore che avrebbe seppellito la sinistra» ricorda Holzhauser.

Invece il partito cambiò nome, struttura e programma: da Sed a Pds e dal governo dello Stato socialista alla rappresentazione dei tedeschi dell’Est impoveriti dalla riunificazione comandata dai capitalisti dell’Ovest. Poi contro tutte le previsioni la sinistra sopravvisse alla fine della Pds, prima fondendolo con l’Alternativa Elettorale (Wasg) e poi facendo confluire le due anime nella Linke nel 2007.

«Tutto ciò è stato possibile perché in questi anni c’è stato un forte sostegno al partito nei comuni e nel settore extraparlamentare. Sarà cruciale anche adesso se vogliamo tornare al Bundestag» precisa Bartsch. Amareggiato per la fine del gruppo ma anche deciso a continuare a fare opposizione al governo di Olaf Scholz. «Siamo stati eletti al Bundestag da 2,7 milioni di tedeschi per contrapporci da sinistra alla Coalizione Semaforo. Questo è e resta il nostro compito».

PARADOSSALMENTE proprio la chiusura del gruppo gli «dà fiducia» per la sopravvivenza. «In passato la posta in gioco è stata altissima ma ora molti compagni sanno che non possiamo più continuare con i giochi politici. O costruiamo una prospettiva a lungo termine oppure non saremo all’altezza della nostra responsabilità storica come Sinistra»

 

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