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FABBRI: NON CONTESTIAMO LEGITTIMITÀ, MA UN MECCANISMO DISTORSIVO

Risultati immagini per immagini Hera multiutility

(DIRE) Bologna, 27 set. - Hera conferma la richiesta di rimborso della prima tranche della tassa sugli extraprofitti contestando il metodo di calcolo delle somme da sottoporre a tassazione straordinaria. Lo spiega l'ad di Hera Comm, Cristian Fabbri, ai consiglieri comunali di Bologna nella commissione sull'emergenza luce e gas di ieri mattina.

"Noi non contestiamo la legittimità o meno del fatto che ci sia una tassa sugli extra-profitti, quello che contestiamo è il metodo di calcolo di questa tassa", spiega il manager della multiutility rispondendo alla domanda del consigliere di Coalizione civica, Detjon Begaj. "Questi sono i motivi per cui andremo a fare ricorso", ripete Fabbri puntando il dito contro il metodo di calcolo, elaborato forse in maniera frettolosa per far fronte a una situazione di emergenza, che, però, rischia di generare degli "elementi distorsivi".

Come nel caso di Hera, sostiene l'ad di Hera Comm: "Nel 2021 per un mese è stata bloccata la fatturazione, perché stavamo facendo una migrazione sui nostri sistemi informativi, nel 2022 quello stesso mese i sistemi funzionavamo e abbiamo fatturato: questo differenziale viene considerato un extra-profitto. E' chiaro che non lo è. Lo strumento di misurazione degli extra-profitti non è coerente con la natura vera di quanto avvenuto", puntualizza Fabbri, aggiungendo che, di fatto, Hera extraprofitti non ha registrati.

"Se si guarda il nostro bilancio a giugno, risulta che i nostri numeri sono allineati a quelli dello scorso anno, al netto del fatturato. Sa se si guarda alle marginalità sono in linea, a livello di utile netto leggermente più basse. Lo strumento misura per esigenze di tempestività non è stato costruito in maniera efficace per cogliere alcuni elementi distorsivi", conclude.

(Vor/ Dire) 14:06 27-09-22

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Letta apre a una "nuova generazione" e tutti pensano alla vice-presidente dell'Emilia Romagna. Intanto Bonaccini: "Serve un progetto più forte e più grande". L'analisi del primo cittadino di Bari: "Modello da smantellare. Perdiamo tutte le elezioni politiche, vinciamo quelle locali". E c'è il gioco di sponda con Ricci, collega di Pesaro che per primo ha costruito una giunta con i Cinque Stelle: "Ripartire dai sindaci, sinistra di prossimità"

 

Pd, si apre la corsa alla segreteria: da Bonaccini a Decaro, le proposte per ripartire. Anche Ricci verso la candidatura. E c’è l’incognita Schlein

La gente con cui tornare a parlare, un nuovo centrosinistra, la rigenerazione. Per altri un modello da smantellare, la necessità di dire addio ai capi corrente e azzerare i meccanismi perversi, così da riaprire il dialogo con le persone sui territori. Dopo la notte più nera, quella in cui è affondato come mai dalla sua fondazione, il Pd vaga smarrito alla ricerca di un’analisi che spieghi il flop e, quindi, di una nuova guida capace di rivitalizzare un partito senza un progetto. Tutto passerà dal congresso, convocato di fatto dal segretario Enrico Letta. Si sarebbe dovuto tenere nel marzo 2023, ma vista la debacle nelle urne e l’appuntamento con il voto per le Regionali in Lazio Lombardia è probabile che si decida per una procedura accelerata. Ma chi saranno i papabili successori di Letta, che ha già annunciato il proprio addio una volta giunti alla scelta?

Il ritorno di Elly Schlein? – C’è chi già vaticina di un papa straniero’, ma dentro il partito – in poche ore – sono già arrivate due analisi che assomigliano molto ad altrettante mozioni congressuali. E sono nomi attesi, anche se nessuno dei nuovi si è azzardato a scoprire le carte: Stefano BonacciniAntonio Decaro o Matteo Ricci, con il primo che ha addirittura allontanato l’ipotesi di una propria candidatura per guidare i dem. Sullo sfondo, la figura di Elly Schlein, vice di Bonaccini in Regione Emilia Romagna ed eletta da indipendente nelle liste del centrosinistra. Era tesserata, poi uscì nel 2016 in polemica con l’approvazione del Jobs Act voluto da Matteo Renzi. Prima del voto, Letta aveva auspicato che la guida passasse a una donna, mentre nell’annunciare il proprio passo di lato dopo il 19% raccolto nel Paese ha definito questo il tempo in cui è necessario che “una nuova generazione si metta all’opera”. Identikit che portano dritti a Schlein, finora rimasta in silenzio – senza confermare né smentire – e nel frattempo celebrata anche dalla stampa internazionale come la versione italiana di Alexandra Ocasio Cortez.

Il “progetto forte” di Bonaccini – Parlano senza parlar troppo, invece, Bonaccini e Decaro. “Dobbiamo tornare a dialogare con la gente – ha detto il presidente dell’Emilia-Romagna – Il Pd al 19%? Serve un progetto più forte e più grande. Bisogna costruire un nuovo e diverso centrosinistra”. Questa la sua visione all’indomani della scoppola che ha travolto il partito dal Friuli Venezia Giulia alla Sicilia. Ovunque, tranne che nell’ultima (mezza) regione rossa, la sua, dove il Pd è stato il primo partito nel voto del 25 settembre. Come dire: alla luce di quanto avvenuto in Toscana, dove Fdi ha superato i voti dem alla Camera e li ha sostanzialmente pareggiati al Senato, in Emilia Romagna il ‘sistema Bonaccini’ porta i suoi frutti. Lui però se ne sta in disparte, almeno in pubblico. Un ‘vedo non vedo’ per non bruciare i tempi, anche perché al momento non esiste neanche un timing certo per la scelta del segretario: “Non chiedetemi del congresso – chiarisce subito – In questo momento non faccio nulla, ma proprio nulla. Di certo, deve essere una grande occasione di rigenerazione per noi”. È ‘questo momento’ la chiave da cui ripartire: perché la macchina congressuale è lunga e ben lontana dall’essere avviata.

Come funziona il congresso Pd – Lo statuto dem è molto preciso sui vari passaggi previsti, con tanto di indicazione dei giorni necessari. Alcune procedure sono state snellite di recente ma l’intero iter richiede in condizioni normali 3-4 mesi di tempo. Sono previste due fasi, con vari ‘step’ intermedi. La prima è dedicata al confronto sui documenti congressuali e porta alla selezione dei candidati (almeno 40 i giorni previsti). La seconda comprende il dibattito e il voto nei circoli e arriva fino alle primarie aperte (oltre 50 giorni necessari). Sembrano muoversi con prudenza, ma con affondi ficcanti, anche i sindaci. L’analisi più pesante della sconfitta arriva da Antonio Decaro, primo cittadino di Bari e presidente Anci: “Ha perso il Partito Democratico. Ha perso questa coalizione di centrosinistra. Ha perso l’idea di politica e di Paese che abbiamo proposto agli italiani. Abbiamo perso. E guai se l’analisi del voto, a qualsiasi livello, non partisse da queste due parole. Saremmo di fronte all’ennesimo stratagemma retorico per provare a giustificarci falsificando la realtà”.

Il sindaco di Bari per lo smantellamento – Decaro non ne fa una questione di persone: “In queste ore sarebbe troppo facile sparare a zero sul segretario nazionale. E sarebbe inutile”. Piuttosto, avvisa affondando il coltello nella carne viva dei dem, “è l’intero modello su cui il Pd si fonda che va smantellato”. Quindi l’attacco ai caminetti romani e anche più periferici: “Basta con i capi corrente che fanno e disfano le liste a propria immagine e somiglianza. Basta con questo esercizio del potere per il potere”. Ad avviso del sindaco di Bari, capace di essere rieletto nel 2019 al primo turno con quasi il 67% dei consensi, la strada è segnata: “O saremo capaci, finalmente, di azzerare questi meccanismi perversi e di ritornare a parlare alle persone, oppure la sconfitta perpetua alle elezioni politiche sarà il nostro ineluttabile destino”. Il Partito Democratico, del resto, ricorda Decaro, “perde tutte le elezioni politiche nazionali” dal 2008, cioè da sempre, mentre “nelle elezioni locali, non solo riesce a vincere, ma, soprattutto, riesce a tessere una relazione solida, coerente e responsabile con i cittadini”. Gli uomini dem – che governano il 70% dei Comuni italiani – “si dimostrano capaci di amministrare e di proporre un’idea politica seria” e “le vittorie elettorali ne sono la conseguenza”.

Ricci verso la corsa: “Si riparta dai sindaci” – Anche perché, sottolinea, “in quelle elezioni i cittadini hanno la possibilità di scegliere direttamente i propri rappresentanti e di chiedere loro conto, quotidianamente, di quello che promettono in campagna elettorale e di come lo realizzano una volta diventati amministratori”. Un “meccanismo virtuoso di fiducia e controllo” che “salta completamente” quando si è chiamati a scegliere deputati e senatori. Per Decaro è da questa battaglia che i dem devono ripartire: “Ci ritroviamo deputati e senatori che non sanno nemmeno trovare sulla carta geografica i paesi nei quali vengono eletti. Solo perché fedelissimi ai leader di partito, o a qualche capo-corrente”. Dopo aver declinato la candidatura offerta da Letta negli scorsi mesi a lui e agli altri sindaci dem, adesso Decaro abbozza il Pd che dovrà essere. E la sua voce sembra quella dentro un coro, a leggere il messaggio nient’affatto velato di Matteo Ricci, che degli amministratori locali dem è il coordinatore: “Una sconfitta dolorosa pesante. Non si può che ripartire dai sindaci progressisti e riformisti, dalla sinistra di prossimità”.

Orlando, Provenzano Guerini – Ce ne sono sarà solo uno tra lui e Decaro. Quella del sindaco di Pesaro, ad oggi, appare la corsa più probabile: “Già due anni fa – avrebbero detto a Ricci i primi cittadini a lui più vicini, convincendolo a provarci – sei stato il primo ad allargare una maggioranza dì centrosinistra ai Cinquestelle, con successo. Inoltre, per costruire un progetto nuovo, dobbiamo ripartire dalla provincia italiana, da lì dove non pesiamo più e dove continuiamo a perdere”. I sindaci si scaldano, resta solo da capire chi sarà il volto più in vista verso il congresso. Molto, però, dipenderà dal posizionamento delle varie aree interne al partito, proprio quelle criticate da Decaro. La sinistra interna ha sempre avuto un candidato al congresso e quindi si attendono le mosse di Andrea Orlando Peppe Provenzano. Idem per Base riformista, l’area che fa capo al ministro della Difesa Lorenzo Guerini. C’era poi chi, fino a non molto tempo fa, scommetteva sulla presenza di un candidato riformista, tracciando l’identikit di Giorgio Gori. La dura punizione elettorale ha stravolto programmi, ambizioni e prospettive. Gli elettori, più che un congresso, sembrano aver chiesto un repulisti.

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LEGGE ELETTORALE. Premio di maggioranza nascosto: ecco perché il centrodestra con il 44% dei voti si avvia a conquistare i tre quinti del parlamento. Il più penalizzato è il Pd, mentre il Movimento 5 Stelle sfrutta bene la concentrazione locale del consenso. Fratelli d'Italia vola dove l'astensione è più bassa

Il Rosatellum regala il 16% ai vincitori

 

Benedetto Rosatellum. Vincere le elezioni è un conto. Ma c’è una bella differenza tra vincere e restare 26 seggi sotto la maggioranza assoluta o superare di slancio quella soglia con quasi 40 deputati di margine. È la differenza che passa tra il dover cercare complicate alleanze in parlamento e prendersi le camere e il paese con una maggioranza relativa, che è poi una minoranza di voti popolari. Il centrodestra c’è riuscito. Grazie al Rosatellum.

Alla camera i quattro alleati (Fratelli d’Italia, Lega, Forza Italia e Noi Moderati che è rimasto sotto la soglia dell’1% quindi non ha dato un contributo alle liste della coalizione ma ha ottenuto alcuni collegi uninominali sicuri) hanno ricevuto il 43,79% dei voti. E hanno raccolto il 59,75% dei seggi. Hanno goduto cioè di un premio di maggioranza di quasi il 16%. In questo modo invece dei 175 deputati che sarebbero corrisposti alla percentuale effettivamente raccolta dalle loro liste, grazie al meccanismo dei collegi uninominali e del divieto di voto disgiunto ne hanno guadagnati 239. Merito non solo delle legge elettorale, ma anche del fatto che gli avversari di questa coalizione sono andati ognuno per conto loro (i maggiori) regalando così al centrodestra tutto il premio. Infatti il saldo tra la percentuale di voto popolare e la percentuale di seggi alla camera è negativo sia per Calenda (-2,54%), sia per Conte (-2,43%) sia soprattutto per Letta (-5,13%). Il centrosinistra con il calcolo proporzionale avrebbe raggiunto 105 deputati, 21 in più degli 84 che molto probabilmente (scriviamo quando i conteggi non sono ancora definiti) gli saranno assegnati.

Il discorso si può replicare al senato, dove il centrodestra invece del 44% dei seggi che gli assegnerebbe il voto popolare ne ha guadagnati il 57,5% (saldo positivo del 13,5%) e tutti gli altri hanno perso una percentuale che va dal 4% (Pd e alleati) all’’1,5% (Movimento 5 Stelle). Non è tutta colpa (o merito, per il centrodestra) dei seggi uninominali, una quota (minore) di “disproporzionalità” della legge è da attribuire alla soglia di sbarramento, della quale ha fatto le spese soprattutto la lista +Europa, ferma a un passo dal 3% (hanno chiesto il riconteggio delle schede). E non è la sola. Infatti tra partiti rimasti sotto il 3% (Italexit, Unione popolare, Italia sovrana e popolare) e partiti coalizzati fermi a meno dell’1% (Noi moderati e Impegno civico) oltre due milioni di voti validi non hanno contribuito ad assegnare seggi, sono voti da buttare. Non pochi, soprattutto considerata l’alta astensione che ha fermato a 28 milioni il totale degli elettori effettivi: in pratica il meccanismo della legge elettorale condanna all’irrilevanza il 7% delle scheda validamente votate.

E così è solo grazie al premio di maggioranza, occulto ma come abbiamo visto molto alto, che il centrodestra ha a portata di mano quella maggioranza dei tre quinti del parlamento con la quale potrebbe eleggere da sola i consiglieri laici del Csm e i giudici costituzionali: il quorum è a 360 parlamentari e il centrodestra dovrebbe averne già 355.

La legge elettorale non può essere una giustificazione: gli avversari del centrodestra conoscevano bene il funzionamento del Rosatellum e lo conosceva benissimo il Pd che lo aveva voluto cinque anni fa. Pensando di vincere l’anno successivo, ma pensando male.

Il marzo del 2018, data delle precedenti elezioni politiche, è politicamente un’altra era geologia ma il confronto è il più omogeneo e consente una serie di valutazioni interessanti. La prima: il centrodestra ha vinto ma non ha allargato il suo bacino di consenso. Meloni ha costruito il suo successo sfruttando bene la legge elettorale e cannibalizzando i suoi alleati. Infatti in voti assoluti il centrodestra ha guadagnato poco rispetto al 2018, restando sui 12 milioni di voti e aggiungendone circa 150mila alla camera e qualcosa di più al senato (dove però stavolta gli aventi diritto erano di più perché votavano i 18enni). Stesso dicasi per il centrosinistra: aveva 7,5 milioni di voti alla camera e ne ha confermati 7,3. Chi ha subito un tracollo è stato il Movimento 5 Stelle, passato da 10,7 a 4,3 milioni di voti alla camera e da 9,7 a 4,2 milioni di voti al senato.

Molto avrà pesato l’astensione. Ma non tutto, perché i 5 Stelle domenica hanno ottenuto i risultati migliori (pur nell’arretramento) dove l’astensione è stata più alta. Caso limite la Campania, dove l’astensione è salita al 23% e però i 5 Stelle hanno conquistato ben undici candidati uninominali tra camera e senato (7 su 7 deputati in Campania 1). Anche i 5 Stelle hanno in un certo senso sfruttato bene il Rosatellum, i seggi uninominali premiano chi concentra i voti in un collegio o in una circoscrizione. La controprova è il caso della lista dell’ex sindaco di Messina Cateno De Luca che con lo 0,8% di media nazionale tra camera e senato ha conquistato una senatrice e un deputato, naturalmente a Messina.

Il partito di Giorgia Meloni è cresciuto moltissimo dal 2018, di quasi sei milioni di voti assoluti. È arrivato a 7,3 milioni di voti, quasi gli stessi che nel 2018 aveva tutta la coalizione di centrosinistra. È cresciuto in tutte le regioni, è un partito nazionale, ma non è cresciuto ovunque con la stessa forza. In Emilia Romagna ha moltiplicato i consensi per sei e anche di più, passando dagli 84mila del 2018 ai 575mila di domenica. In Campania il moltiplicatore è dimezzato, il partito di Meloni è passato da 105mila a 401mila voti. A conferma del fatto che si è trattato di un successo diffuso e non legato a specificità territoriali, si può notare che la crescita di Fratelli d’Italia procede parallela alle percentuali migliori di affluenza. Dove gli elettori hanno votato di più – in Trentino, Friuli, Emilia Romagna, Lombardia, Veneto, Toscana – il partito di Meloni è cresciuto di più.

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LAUDATO SI'. Bergoglio ad Assisi ha incontrato mille giovani impegnati a rendere reale la sua visione. "Non abbiamo saputo custodire il pianeta che ora brucia. Serve il buen vivir: la mistica degli aborigeni in rapporto con la terra. Va cambiata la struttura della società, no al maquillage"

L’economia di Francesco: un nuovo modello di sviluppo Papa Francesco incontra i giovani economisti ad Assisi - Foto Ansa

Oltre mille giovani economisti, imprenditori e attivisti sociali under 35 provenienti da oltre cento paesi di tutto il mondo si sono riuniti per tre giorni ad Assisi per il meeting internazionale “Economy of Francesco”, promosso da papa Bergoglio, presente ieri per la conclusione dell’incontro. Un confronto di idee ed esperienze per promuovere «un’economia di pace e non di guerra», che «contrasta la proliferazione delle armi», che «si prende cura del creato e non lo depreda», che «combatte la miseria in tutte le sue forme» e «riduce le diseguaglianze», come si legge nel documento finale, sottoscritto anche dal pontefice.

IL PERCORSO di “Economy of Francesco” – dove Francesco non indica il papa, ma Francesco d’Assisi – ha preso il via tre anni fa, quando Bergoglio, con una lettera datata 1° maggio 2019, ha convocato giovani economisti e imprenditori che studiano e praticano un’economia alternativa («che fa vivere e non uccide, include e non esclude, umanizza e non disumanizza») con l’obiettivo di stilare «un patto per cambiare l’attuale economia e dare un’anima all’economia di domani». Poi è arrivata la pandemia, che ha impedito gli incontri in presenza, consentendo di lavorare solo a distanza, per gruppi tematici e in videoconferenze generali. Fino al meeting di questi giorni, concluso ieri dal pontefice, che in un ampio discorso ha ribadito una serie di punti del proprio magistero sociale, lungo le direttrici già tracciate nelle encicliche Laudato si’ e Fratelli tutti.

«La nostra generazione vi ha lasciato in eredità molte ricchezze, ma non abbiamo saputo custodire il pianeta e non stiamo custodendo la pace», ha detto Bergoglio, indicando come prospettiva il buen vivir, «che non è la dolce vita», ma «quella mistica che i popoli aborigeni ci insegnano di avere in rapporto con la terra».

Senza indugiare, in attesa del «prossimo summit internazionale, che può non servire: la terra brucia oggi, ed è oggi che dobbiamo cambiare, a tutti i livelli». E senza proposte minimaliste. «Non basta fare il maquillage, bisogna mettere in discussione il modello di sviluppo», ha esortato il papa, «perché se parliamo di transizione ecologica ma restiamo dentro il paradigma economico del Novecento, che ha depredato le risorse naturali e la terra, le manovre che adotteremo saranno sempre insufficienti o ammalate nelle radici».

LA QUESTIONE AMBIENTALE, come espresso ampiamente nella Laudato si’ – non a caso ispirata a Francesco d’Assisi –, è strettamente connessa alla questione sociale. «L’inquinamento che uccide non è solo quello dell’anidride carbonica, anche la diseguaglianza inquina mortalmente il nostro pianeta. Non possiamo permettere che le nuove calamità ambientali cancellino dall’opinione pubblica le antiche e sempre attuali calamità dell’ingiustizia sociale, anche delle ingiustizie politiche», ha proseguito Bergoglio. «Noi uomini, in questi ultimi due secoli, siamo cresciuti a scapito della terra. È stata lei a pagare il conto! L’abbiamo spesso saccheggiata per aumentare il nostro benessere, e neanche il benessere di tutti, ma di un gruppetto». Ma «fino a quando il nostro sistema produrrà scarti e noi opereremo secondo questo sistema, saremo complici di un’economia che uccide».

UNA PROSPETTIVA di cambiamento che però non sembra dietro l’angolo perché, ha aggiunto il papa, «ci accontentiamo di verniciare una parete cambiando colore, senza cambiare la struttura della casa», mentre «non si tratta di dare pennellate di vernice, no: bisogna cambiare la struttura».

Manca una parola nel discorso di Bergoglio, forse perché implicita, o forse perché indicibile, ed è «capitalismo». O meglio c’è, ma del capitalismo si critica frontalmente solo l’«insostenibilità spirituale» e anzi si afferma – in modo davvero poco comprensibile – che «il nostro capitalismo vuole aiutare i poveri ma non li stima». Il papa è netto invece sulla questione energetica: abbandonare le «fonti fossili» e «accelerare lo sviluppo di fonti a impatto zero o positivo». E sul disarmo: ho parlato con un giovane ingegnere che ha rifiutato il lavoro in una fabbrica di armi, «questi sono gli eroi di oggi».

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CAMBIAMO ARIA. In Italia da nord a sud decine di migliaia di giovani protestano in settanta piazze per lo sciopero globale dei Fridays For Future

Clima, l’onda verde  che non vota interroga la politica Fridays for future ieri a Roma - Patrizia Cortellessa

Da nord a sud tre anni dopo le prime manifestazioni Fridays For Future ha riportato in piazza decine di migliaia di giovani, 80 mila diranno gli attivisti a fine giornata. Un movimento che fin dalla nascita aveva detto che la giustizia climatica è connessa a quella sociale, ieri ha allargato definitivamente gli orizzonti dicendo con forza che la lotta per il clima è connessa alle lotte per i diritti civili, sociali e lavorativi. Questa generazione sarà un’opposizione naturale per chiunque da dopodomani governerà l’Italia.

GIORGIA MELONI È AVVISATA, e del resto è stata la più bersagliata negli slogan delle settanta piazze italiane. Ma è avvisato anche il Pd che non gode di alcuna credibilità tra chi ha manifestato. «Siamo stati ignorati dalla politica, queste elezioni sono una sconfitta per le migliaia di giovani che sono scesi in piazza in questi anni per il clima e la giustizia sociale» ha detto sotto al palazzo della Regione Lombardia uno dei portavoce dei Fridays Milano alla fine del corteo. «Tra la destra negazionista e l’alternativa cosiddetta progressista che riaccende il carbone, non scegliamo nessuno».

PAROLE SEGUITE da un lungo applauso dei 10 mila che hanno sfilato a Milano. «Non sosterremo nessun partito, perché nonostante le differenze tra i diversi programmi nessuno difende le rivendicazioni che abbiamo portato oggi in piazza» ha ribadito uno dei portavoce nazionali, Filippo Sotgiu, dal corteo dei 30 mila a Roma. Il non voto in realtà è più una questione anagrafica che altro: buona parte di chi ha manifestato è ancora minorenne e non potrà votare. Alla domanda «ma vi sentite rappresentati da qualcuno? Sapreste chi votare?» le risposte variavano tra «no, non mi rappresenta nessuno» e «se votassi sceglierei il meno peggio ma farei fatica a trovarlo». Tra i più grandicelli è limpida, quasi antropologica, l’opposizione alla destra, ma sui temi concreti anche ai partiti della cosiddetta agenda Draghi. Chi guarda agli altri partiti lo fa più per necessità che per convinzione. Il mosaico che si ricompone a fine giornata è di una generazione distante anni luce dai salotti politici del blablabla, come dice qualcuno citando le parole di un anno fa della fondatrice di Fridays For Future Greta Thunberg in piazza a Milano per la pre-Cop 26.

UN PO’ DI SFOTTÒ li riceve anche il sindaco di Milano Beppe Sala che negli ultimi mesi con gli ambientalisti non ne azzecca una e anche ieri è riuscito a scentrare il commento alla manifestazione: «Andate a votare così poi potrete lamentarvi». Risposta lapidaria di una delle attiviste milanesi: «Grazie del consiglio sindaco, ora però torna a lavorare e rispondi coi fatti a quello che ti chiediamo».

AMBIENTE E CRISI climatica, transizione ecologica tradita, ma non solo. In molte città gli studenti hanno ricordato i loro coetanei morti in fabbrica durante le ore di alternanza scuola-lavoro. A Milano davanti ad Assolombarda, la sede degli industriali, si sono seduti a terra per un minuto di silenzio con in mano decine di cartelli rossi con scritto in bianco i nomi di Giuliano, Lorenzo e Giuseppe, i tre studenti morti negli stage legati all’alternanza in questo 2022.

«NON POSSONO MORIRE anche gli studenti di lavoro» hanno poi urlato agli industriali. A terra una scritta: «Contro un sistema colpevole». A Torino lo striscione d’apertura era per i morti sul lavoro: «Difendiamo il nostro futuro, basta stragi». A Trieste con gli studenti hanno sfilato anche gli operai della Wärtsilä, ad Ancona su diversi cartelli le scritte «Non si può morire a 18 anni lavorando gratis; sono tutti responsabili della morte di Giuliano, Lorenzo, Giuseppe; «No alla scuola di padroni e Confindustria». Davanti alla sede della Regione Marche gli studenti hanno lasciato dei sacchi pieni di fango a ricordo della strage nella recente alluvione e delle responsabilità della politica.

DIRITTI AMBIENTALI, del lavoro, sociali, civili. Quando si dice «un movimento intersezionale». A Milano hanno parlato ragazze femministe e di seconda generazione, che hanno preso parola per chiedere cittadinanza: «Perché non possiamo essere italiani anche noi che siamo cresciuti in questo paese?» hanno chiesto. «Perché dobbiamo essere marchiati come diversi?». Sui cartelli autoprodotti spazio all’ironia: « Meloni li voglio solo nella macedonia» oppure «Non sciogliamo i due poli, sciogliamo il terzo polo» o ancora «Il Titanic nel 2022 non avrebbe avuto problemi».

SE QUALCUNO PENSAVA che due anni di restrizioni Covid avrebbero ucciso il movimento dovrà ricredersi. Certo, i numeri delle piazze del 2019 sono un ricordo lontano, ma quello che emerge dalle mobilitazioni di ieri è che questa generazione non parla solo di ambiente, è una generazione che tiene unito quello che i partiti dividono.

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ELEZIONI. Sul palco Nicola Fratoianni, Angelo Bonelli, Ilaria Cucchi, Aboubakar Soumahoro. Il segretario di Si: «I nostri eletti metteranno i corpi nei conflitti a difesa dei più deboli»

«Per la pace, contro gli extraprofitti». A Roma la chiusura rosso-verde La piazza dell’alleanza rosso-verde - Giansandro Merli

Mentre il sole illumina ancora il Foro di Augusto e una brezza settembrina ricorda l’autunno alle porte, nel centro di Roma va in scena la chiusura della campagna elettorale rosso-verde. Lo slargo di via dei Fori Imperiali non è pieno, ma si sa che tra presenze nelle piazze e nelle urne non c’è proporzionalità diretta. «La sensazione è che stiamo crescendo», dicono gli esponenti dell’Alleanza Verdi e Sinistra. Nessuno si azzarda a dare una forma numerica concreta a questo aumento, né a un obiettivo soddisfacente. Il primo scoglio è lo sbarramento del 3% al proporzionale, «poi si vedrà».

La speranza è convincere un po’ di indecisi, soprattutto tra i giovani, ma a questo punto è più facile pescare tra i delusi dell’alleato Pd. I temi forti del programma cocomero sono stati al centro del dibattito pubblico nelle ultime settimane. L’alluvione nelle Marche ha fatto toccare con mano anche ai più scettici gli effetti della crisi climatica. I rincari in bolletta preoccupano milioni di italiani. Le minacce atomiche di Putin spaventano chi credeva che la guerra potesse fermarsi alle frontiere d’Europa. «La pace è scomparsa dall’agenda, va rimessa al centro dell’azione del governo italiano. Serve il massimo impegno per scongiurare l’olocausto nucleare», dice dal palco Nicola Fratoianni, segretario di Sinistra italiana (Si). In mano stringe una bandiera arcobaleno.

La parola che ricorre più spesso tra interviste e interventi è «extraprofitti». I rosso-verdi propongono di tassare al 100% quei 40-50 miliardi che le compagnie energetiche si sono messe in tasca in pochi mesi. I ricavi dovrebbero fermare la corsa di luce e gas per famiglie e imprese medio-piccole e dare una svolta agli investimenti sulle fonti rinnovabili. «Sono l’unica soluzione – dice Angelo Bonelli, leader verde – non il nucleare». Su cui lancia una stoccata al rivale di Azione: «Per le centrali ci vorrebbero tra i 280 e i 400 miliardi, Carletto ci dici chi dovrebbe metterli?».
Alcuni dei partecipanti all’iniziativa hanno al collo dei cartelli scritti a mano. Sul modello dei Fridays for future, anche se l’età media è decisamente più alta. I temi sono pochi ma ben definiti: scuola pubblica (la grande assente della campagna elettorale); rifiuti; politiche femministe; diritti civili e sociali.

Un po’ di numeri li elenca Aboubakar Soumahoro, criticato nei giorni scorsi per una foto con il presidente dell’Emilia-Romagna Stefano Bonaccini (Pd) postata con un commento particolarmente benevolo. «1,9 milioni di poveri, 3 milioni di giovani Neet, 4,3 milioni di lavoratori privi di un reddito dignitoso. È a loro che parla il nostro sogno. Insieme alle partita Iva, ai rider, ai bambini senza cittadinanza italiana e alle persone Lgbtqi+», dice Soumahoro. Interviene dopo l’altra candidata di punta: Ilaria Cucchi. L’Alleanza incassa il sostegno dei verdi di mezza Europa, di esponenti di Syriza e Podemos.

Mentre il sole scende sulle rovine romane lo sguardo è già oltre il 25 settembre. Bonelli rimanda le riflessioni sulla maggiore vicinanza programmatica ai 5S che al Pd. Fratoianni definisce «strumentale» la polemica su un possibile accordo con Azione in funzione anti-destre. Di una cosa, però, è certo: «Troverete i parlamentari eletti con questa lista nei conflitti, sui territori, a difesa dei più deboli. Le parole non bastano, continueremo a metterci i corpi».

 

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