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IL VATICANO VUOLE EVITARE CHE IL PAPA SIA «ARRUOLATO». Non ci sarà la tappa in Ucraina, auspicata a gran voce da Kiev e dallo stesso presidente Zelensky, ma rinviata ad altra data dalla Santa sede.
Francesco: la terza guerra mondiale va fermata subito e in ogni modo

«Non dimentico la martoriata Ucraina», ma bisogna fermare la «guerra mondiale» in corso. Papa Francesco, nella consueta udienza generale del mercoledì – ieri svolta non al chiuso, in aula Paolo VI, ma in una piazza San Pietro particolarmente affollata – è tornato a parlare del conflitto in Ucraina, ribadendo la propria posizione, espressa anche nelle due precedenti udienze: condanna per l’aggressione della Russia a Kiev, senza però giustificare la guerra – la «terza guerra mondiale», l’aveva chiamata mercoledì scorso rivolgendosi ai fedeli polacchi, nell’anniversario dell’invasione di Hitler nel 1939 –, che anzi va fermata subito e in ogni modo.

L’intervento non era previsto nel testo ufficiale del discorso, e lo spunto è arrivato da alcune bandiere ucraine che sventolavano in piazza. «Di fronte a tutti gli scenari di guerra del nostro tempo, chiedo a ciascuno di essere costruttore di pace e di pregare perché nel mondo si diffondano pensieri e progetti di concordia e di riconciliazione», ha detto il pontefice a braccio. E ha aggiunto: «Oggi stiamo vivendo una guerra mondiale, fermiamoci per favore!». Concludendo poi con una preghiera per «le vittime di ogni guerra, in modo speciale la cara popolazione ucraina».

Martedì prossimo Bergoglio partirà per Nur-Sultan, capitale del Kazakhstan, dove si svolgerà il settimo congresso dei capi delle religioni tradizionali mondiali, che si concluderà, il 15 settembre, con la firma di una Dichiarazione comune presso il palazzo della pace e della riconciliazione.

Non ci sarà l’atteso incontro con il patriarca ortodosso russo Kirill, per la rinuncia di quest’ultimo. «Il colloquio non può svolgersi a margine del meeting, ma deve diventare un evento indipendente, preparato con la massima cura e con un comunicato congiunto concordato in anticipo», ha spiegato il “ministro degli esteri” del Patriarcato di Mosca, il metropolita Antonij di Volokolamsk. Sono troppe le divergenze sul conflitto, definito dal papa un’«aggressione» e invece ritenuto una sorta di «guerra santa» da Kirill, a sua volta etichettato da Francesco come il «chierichetto di Putin».

E non ci sarà nemmeno la tappa in Ucraina, auspicata a gran voce da Kiev e dallo stesso presidente Zelensky ma rinviata ad altra data dalla Santa sede, che evidentemente, saltato l’incontro con Kirill, non vuole rischiare che il pontefice venga «arruolato» da una delle due parti, indebolendo così la linea di ferma e assoluta condanna della guerra.

Intanto da alcune realtà cattoliche di base è stato lanciato un appello in vista delle prossime elezioni politiche: non dare il voto a chi ha sostenuto l’aumento delle spese militari fino al due per cento del Pil, come chiesto anche dalla Nato, che sta rifornendo di armi l’Ucraina.

«Questo vuol dire preparare la guerra, non la pace. Vuol dire sovvertire il progetto della Costituzione che ripudia la guerra, gettare al vento il sacrificio di chi è morto nella Resistenza», si legge nell’appello lanciato, fra gli altri, dalla Comunità di base delle Piagge di Firenze (animata da don Alessandro Santoro), da don Andrea Bigalli (parroco in provincia di Firenze e referente per la Toscana di Libera), da padre Bernardo Gianni (abate della comunità monastica di San Miniato) e da Sandra Gesualdi (vicepresidente della Fondazione don Milani), che chiedono «di non votare per nessuno che abbia votato per l’aumento delle spese militari» né per chi «non si impegni esplicitamente a invertire la rotta, riducendo quella spesa scellerata».

 
 
 
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ELEZIONI. Il segretario dem prova a sottrarre il partito dalle responsabilità sul sistema di voto che adesso può condannarlo. Ma racconta una storia a metà. Fu lui stesso a scommettere sulla sopravvivenza del sistema maggioritario e a non forzare sul proporzionale. La profezia di Calderoli, vero autore della legge, che cinque anni fa disse: Renzi ha imposto il sistema che estinguerà il Pd
Letta, il Rosatellum e il Pd. Storia di un suicidio perfetto Giorgia Meloni ed Enrico Letta - LaPresse

La profezia del senatore Calderoli, autore occulto della legge elettorale nota come legge Rosato o Rosatellum, rischia di avverarsi con cinque anni di ritardo. «Renzi fa approvare una legge elettorale che probabilmente determinerà l’estinzione del Pd», disse Calderoli il 26 ottobre 2017, giorno dell’ultimo passaggio della legge al senato. In aula ci vollero allora i voti di fiducia imposti dal governo Gentiloni – procedura assai discutibile ma consentita sia alla camera che al senato dai presidenti Boldrini e Grasso – ci volle l’appoggio decisivo del gruppo di Denis Verdini, ci volle l’astuzia di conteggiare le astensioni permettendo a una decina di dissidenti del Pd di dissentire senza sabotare, ci vollero insomma forzature e impegno per consentire al Pd di approvare, assieme a Lega e Forza Italia, la legge elettorale che adesso ripudia.

Su un punto ha ragione Enrico Letta. «Il Rosatellum lo impose Renzi pensando di prendersi il 70% del parlamento», ha detto ieri ed è vero che a quel tempo lui era a Parigi a insegnare. La cosa sulla quale Letta comprensibilmente glissa è che quella legge elettorale fu votata dalla quasi totalità dei gruppi dem; com’è naturale molti dei senatori e deputati di allora sono adesso ricandidati nelle liste del partito – o le hanno composte – senza aver avuto bisogno di fare autocritica sul punto. In definitiva è difficile presentare il Pd, anche quello di oggi, come un estraneo rispetto al Rosatellum.

Vero è, invece, anche se lo si ricorda poco, che il partito democratico aveva messo nero su bianco una mezza critica al Rosatellum già nell’autunno del 2019, quando decise di concedere ai 5 Stelle il via libera al taglio dei parlamentari. Esito per il quale lavorò soprattutto Renzi, già fuori dal partito ma convinto che la riduzione delle «poltrone» (del resto già da lui predicata con la riforma costituzionale fallita) fosse il miglior suggello per la nascita del governo giallo-rosso Conte 2. Ed ebbe ragione, il Pd cambiò linea all’ultimo voto e approvò il taglio (che oggi, anche quello, talvolta denuncia) annunciando però che sarebbero stati necessari dei correttivi alle leggi di contorno. Innanzitutto alla legge elettorale, tant’è che il 7 ottobre 2019 i capigruppo dell’allora maggioranza (Pd, M5S, Leu e Iv) si impegnarono a riformare il sistema elettorale dichiarando che la riduzione dei parlamentari «aggrava alcuni aspetti problematici del Rosatellum», che dunque si ammettevano.

Questa eredità del Pd – zingarettiano – Letta la rivendica tutta, e infatti su twitter scrive: «Con il taglio dei parlamentari si sarebbe dovuto cambiare la legge elettorale. Così le cose si sarebbero equilibrate. Abbiamo tentato. Non ce lo hanno permesso. Ora la riduzione dei seggi con questa legge maggioritaria rende il sistema maggioritario all’eccesso. Un rischio». Purtroppo anche in questo caso il ricordo è selettivo.
Intanto all’epoca il Pd non era affatto favorevole a una legge elettorale proporzionale, che invece avrebbero voluto 5 Stelle e Leu, tant’è che in quell’accordo non se ne fa cenno e si parla solo di «garantire più efficacemente il pluralismo politico e territoriale». Poi il Pd, con Zingaretti prima e con Letta poi, ha rimandato per due anni la questione, lasciando che macerasse in commissione la proposta di legge proporzionale presentata dal grillino Brescia. Che ieri si è fatto sentire, per smentire Letta: «Un testo di partenza era stato approvato, la presentazione degli emendamenti avrebbe fatto chiarezza. Il Pd invece ha voluto solo perdere tempo».

Vero è che sarebbe stato inutile spingere in commissione senza aver trovato un accordo politico con gli altri partiti. Renzi rapidamente ritirò la firma sul patto, la Lega è rimasta a lungo indecisa tra la fedeltà maggioritaria al centrodestra e la voglia di smarcarsi in una conta proporzionale. Però è stato sempre Letta – con l’attenuante di guidare un partito diviso sul punto e con una storia favorevole al maggioritario alle spalle – a dire per mesi che i tempi della riforma elettorale non erano maturi. Rinviando il discorso fino a quando è diventato impossibile: lo era già a prescindere dalla chiusura anticipata della legislatura. E infatti proprio Letta, a novembre dell’anno scorso, «scommise» pubblicamente sul fatto che nessuno avrebbe toccato il Rosatellum. Non proprio il modo migliore per propiziarne la riforma. Giorgia Meloni, quel giorno accanto a lui per la presentazione del libro di Vespa, avendo capito tutto commentò: «È una buona notizia, confido in Letta».

 
 
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PROPOSTE. Dagli scienziati di «Energia per l’Italia», coordinati dal prof. Balzani un decalogo che suggerisce ai politici la giusta strada per una vera transizione
10 comandamenti per un’energia pulita Mamphela Raphele

Avevano annunciato ad agosto la volontà, in vista delle elezioni del 25 settembre, di pubblicare un «Decalogo» sulla transizione energetica da presentare e discutere con le forze politiche disposte ad ascoltare. Gli scienziati e accademici del gruppo Energia per l’Italia, coordinato dal professor emerito dell’Università di Bologna Vincenzo Balzani, hanno stilato i dieci punti da adempiere per garantire un futuro sostenibile a fronte della grave crisi climatica ed energetica. Dopo la proposta per cambiare radicalmente strategia puntando su efficienza ed energie rinnovabili, a cui ha aderito anche il premio Nobel per la Fisica Parisi, è stato pubblicato un documento puntuale sulle scelte che i nostri politici dovrebbero compiere.

SI PARTE DALL’ABBANDONO DELLE FONTI fossili, alla luce dai dati relativi alle perdite economiche stimate in 72,5 miliardi di euro che il nostro Paese ha subito in 40 anni, dal 1980 al 2019, a causa dei danni prodotti dalla crisi climatica. Dipendenza dal gas, speculazione dei mercati, eventuali ricatti da regimi autocratici – secondo gli esperti – possono essere evitati soltanto laddove si investa su risparmio energetico, efficienza ed energie rinnovabili.

IN MERITO AL PIANO DEL MINISTRO della Transizione ecologica Roberto Cingolani di ridurre di un’ora e di un grado il riscaldamento durante l’inverno – precisano – «agisce solo sulle utenze civili e punta ad una riduzione della domanda stimata in 6 miliardi di metri cubi. Per fare a meno di gas e carbone di provenienza russa dobbiamo puntare su vento, sole e accumuli, arrivando a coprire almeno il 60% della produzione, inclusa quella necessaria ad alimentare termopompe e motori elettrici supplementari. L’incremento sarà a carico dei settori solare ed
eolico, per i quali occorre il sostanziale raddoppio della potenza installata. La rete è già pronta per gestirne il trasporto e la distribuzione»
Al secondo punto c’è l’energia come bene comune e la necessità che ciascun cittadino condivida e scambi l’energia prodotta, ricorrendo ad esempio a batterie al litio e pompaggi idroelettrici. È indispensabile – scrivono – che per realizzare la democrazia energetica si sviluppino le comunità energetiche. Sul futuro dei colossi dell’oil&gas – precisano – l’autoconsumo collettivo diventerà prevalente fino a coprire il 70% del fabbisogno. Le multinazionali si riconvertiranno a gestori delle reti e fornitori di servizi di rete».

IN MERITO ALLE CRITICITA’ SOLLEVATE sulla sostenibilità del litio – spiegano – «è il 25esimo elemento più abbondante che abbiamo in natura e lo stiamo trovando un po’ ovunque, certamente siamo ancora in una filiera estrattivista che va controllata per legge introducendo la tracciabilità». Al terzo posto del Decalogo c’è il taglio dei sussidi alle fonti fossili, ovvero 35,5 miliardi di euro pubblici che dovrebbero essere dirottati verso programmi coerenti con la transizione energetica.

LA QUARTA RACCOMANDAZIONE è di non puntare sull’energia nucleare perché sarebbe una scelta «totalmente sbagliata: il problema delle scorie non ha ancora una soluzione e sussiste il pericolo di gravi incidenti alle centrali». A ciò si aggiunge – dicono gli esperti – l’inadeguatezza del nostro territorio, densamente popolato, sismico e privo di riserve di uranio. La quinta proposta consiste in edifici e trasporti efficienti, sostenibili e non inquinanti: secondo gli scienziati e gli accademici di Energia per l’Italia occorre investire nella coibentazione degli edifici pubblici e privati, il cui fabbisogno energetico va alimentato con fonti rinnovabili.

«È NECESSARIO – SPIEGANO – POTENZIARE i trasporti pubblici locali a trazione elettrica, trasferire quote rilevanti delle merci su treno, vietare la vendita di nuovi motori termici entro una data ravvicinata, istituire prezzi politici per gli abbonamenti mensili o annuali sull’intera rete del trasporto pubblico, utilizzare solo motori elettrici, estendere i treni veloci sull’intera rete e costruire una rete ciclabile nazionale molto capillare».

ABBATTENDO LE SOVVENZIONI STATALI alle fonti fossili, si potrebbero così finanziare le aziende di trasporto locale e le Regioni: «L’efficienza dei motori elettrici – chiariscono – fa calare drasticamente le emissioni di CO2, dai 150 grammi/chilometro di una vettura tradizionale a 50 (un calo del 66%)». Al sesto posto del Decalogo c’è la necessità di attivare subito il Piano nazionale di adattamento al nuovo clima. «L’Italia è in ritardo ed è tempo che si allinei al resto dell’Ue. Esiste una Strategia di adattamento nazionale da dieci anni – denunciano – ma non c’è ancora un Piano. Lo deve approvare il Mite».

IL DOCUMENTO SERVIRA’ AD INDICARE le azioni prioritarie da intraprendere «per ridurre i danni nei settori: risorsa idrica, agricoltura, rischio idrogeologico, trasporti, biodiversità, produzione energia…». Il settimo punto stilato dagli scienziati è relativo alla formazione di una cittadinanza consapevole e alla ricerca su cui investire per affrontare le crisi. «In questo particolare momento – avvertono – dovrebbero essere privilegiati quei temi di ricerca inerenti alle problematiche ambientali, economiche e sociali, ricordando che le possibili soluzioni devono guardare responsabilmente al futuro dell’umanità e del nostro pianeta».

ALL’OTTAVO POSTO C’E’ L’AGRICOLTURA sostenibile, la conservazione del suolo e la protezione delle foreste. Le scelte da perseguire devono tener conto della diminuzione e compatibilità ambientale delle produzioni animali, del potenziamento del settore biologico e delle produzioni locali e del contrasto al consumo irreversibile di suolo. Secondo gli esperti, «i fondi europei, vigilati dal Ministero per le Politiche agricole e dalle Regioni, devono essere condizionati a misure efficaci di gestione sostenibile, conservazione e miglioramento dei suoli agricoli, puntando alla minima o nulla lavorazione dei terreni, alla copertura continua con vegetazione, al mantenimento di un ecosistema agricolo vitale, applicando le misure suggerite dall’approccio ecologico della moderna agronomia».

L’AGRICOLTURA INDUSTRIALIZZATA OGGI invece – spiegano – «è spinta all’acquisto di macchine agricole sempre più potenti, spesso affidate a contoterzisti che tendono a fare il massimo delle lavorazioni nel minimo tempo possibile. Il paesaggio agrario che ne deriva, immensi campi perfettamente uniformi senza alberi né siepi, è un segnale visibile di insostenibilità».

LA NONA RACCOMANDAZIONE è di proteggere la salute dall’inquinamento dell’aria. A tal riguardo il gruppo scientifico di Energia per l’Italia sottolinea come siano necessari «la decarbonizzazione delle fonti energetiche per qualsiasi settore, dai trasporti, al riscaldamento, alle industrie, e l’utilizzo sempre più esplicito delle Bat – Best Available Techniques – nelle attività produttive e in agricoltura. Pur comprendendo che la transizione non sarà rapida e indolore, è fondamentale – dicono – che durante il passaggio siano minimizzati gli inquinanti derivanti dalle combustioni – aerosol, ossidi di azoto, composti organici volatili, ammoniaca – che hanno impatti devastanti, come osservato in questi ultimi decenni, sia sulla salute sia sul clima».

ULTIMO PUNTO DEL «DECALOGO» è maggiore equità sociale in Italia e negoziazione per la pace in Europa. Il cessato il fuoco è un imperativo. La guerra – secondo gli scienziati – va fermata con i negoziati. Dal punto di vista socioeconomico «i dati Istat informano che nel 2022 la povertà assoluta ha raggiunto il massimo storico in Italia, con circa 5,6 milioni di poveri». La soluzione sul piano fiscale secondo loro non è la flat tax: «Non risponderebbe a criteri di equità e sottrarrebbe risorse al finanziamento del welfare. Energia per l’Italia – chiariscono – si rifà all’articolo 53 della Costituzione ed è quindi favorevole ad un sistema tributario improntato a criteri di progressività: propone la riduzione delle tasse per i redditi sotto i 20 mila euro, la revisione in senso maggiormente progressivo degli scaglioni delle imposte sui redditi e la tassazione dei patrimoni milionari. Vede con favore i contenuti della campagna Tax the rich di recente promossa da Sbilanciamoci!.

 
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IL LUNGO CONFLITTO. Dice bene Stefano Feltri quando nota sul suo quotidiano Domani: se la misura del successo è la crisi dell’economia russa, allora le sanzioni stanno funzionando. I segnali in effetti non […]

Verificare il rapporto tra sanzioni e guerra non è tradimento Accesso al North Stream nel Mar Baltico - Ap

Dice bene Stefano Feltri quando nota sul suo quotidiano Domani: se la misura del successo è la crisi dell’economia russa, allora le sanzioni stanno funzionando. I segnali in effetti non mancano.

C’è prima di tutto il deficit del 2 per cento nel bilancio federale del 2022. C’è l’inflazione oltre il 15 per cento con i tassi di interesse all’8 per cento. C’è la crisi di comparti industriali importanti come quello dell’auto, passato dall’inizio della guerra da centomila a ventisettemila modelli prodotti ogni mese.

C’è, infine, un documento del governo russo pubblicato martedì dal network internazionale Bloomberg con previsioni severe per i prossimi tempi. Il blocco totale dell’import può riportare indietro di cent’anni il settore farmaceutico, l’aviazione civile, le telecomunicazioni, l’allevamento e l’agricoltura, e questa nuova realtà può spingere duecentomila specialisti dell’Information Technology a lasciare il paese.

È fondamentale, però, chiedersi quale sia e quale sarà l’impatto delle sanzioni sulla guerra in Ucraina, perché in fin dei conti dovrebbe essere quella la misura con cui valutare la risposta che gli Stati uniti, la Gran Bretagna e l’Unione europea hanno adottato sino a questo momento. Evitare la questione significa accettare senza obiezioni la possibilità di una guerra lunga e tutti i pericoli legati a una escalation, anche quello, sempre più presente nel dibattito pubblico, di un confronto con armi nucleari, in cambio di generici danni alla struttura economica russa.

Quando sono state approvate, le sanzioni avevano due grossi obiettivi. Per prima cosa avrebbero dovuto generare nel breve periodo una crisi di liquidità in grado di fermare l’invasione. Dopodiché avrebbero dovuto colpire la capacità produttiva del paese per rendere meno probabili altre sortite nel medio termine.

A sei mesi abbondanti dall’offensiva su Kiev, su Odessa e su Kharkiv, con le truppe russe ormai assestate nel Donbass e nella parte meridionale dell’Ucraina, si deve ammettere con franchezza che il primo obiettivo le sanzioni lo abbiamo mancato.

La flessibilità mostrata dalla Russia in campo monetario, economico e militare fa temere che anche il secondo possa fallire. La Banca centrale ha impedito il collasso del rublo ed è riuscita a imporre un nuovo sistema di pagamento basato sulla valuta nazionale prima ai paesi europei, poi a due grandi partner come Cina e Turchia. Fra pochi giorni il capo del Cremlino, Vladimir Putin, vedrà in Uzbekistan proprio il leader cinese, Xi Jinping, per chiudere un’intesa sulle enormi scorte di gas che le società di stato non venderanno più in Europa.

Sempre Putin ha firmato giorni fa un decreto per aumentare di oltre centomila unità gli effettivi delle forze armate, con il ministero della Difesa deciso ad allargare la cooperazione con Iran e Corea del Nord per produrre droni e munizioni.

La Russia ha problemi economici, questo è chiaro, ma non sono tali da ridurre le sue mire. Verificare il rapporto fra le sanzioni e la guerra andrebbe considerato un atto di buon senso, non di tradimento. E con la stessa misura l’Europa dovrebbe valutare l’efficacia delle due iniziative senza le quali le sanzioni perdono significato: quella militare, che nelle ultime settimane sembra scemata, e soprattutto quella diplomatica, lasciata completamente al presidente turco, Receep Tayyp Erdogan.

Fermare la guerra è la priorità. In questo il tempo è un fattore determinante. Con ogni probabilità fra dicembre e gennaio la maggior parte dei governi europei, compreso quello italiano, saranno alle prese con una grave crisi energetica e con le sue ripercussioni sul piano economico, politico e anche sociale. A quel punto avrà poco senso incolpare Putin o denunciare influenza straniere.

 

 

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LUTTO A SINISTRA . Ex sacerdote, fu tra i fondatori di democrazia proletaria a Bologna
Falce, martello e Vangelo: addio a Rocco Cerrato 

Quando iniziò a frequentare i circoli Lenin, nella bianca e conservatrice Faenza degli anni Sessanta, era ancora un sacerdote. Coltissimo e innamorato del Vangelo, capì subito che tradurre quel messaggio cristiano in pratica politica marxista non era solo una possibilità, ma un dovere, fino a diventare una missione di vita. Rocco Cerrato se n’è andato all’inizio di settembre, nella sua casa di Casalecchio di Reno, subito dopo aver compiuto 89 anni.

Da sacerdote seguiva come assistente spirituale il gruppo scout: e in quelle salite in montagna i ragazzi di allora vennero travolti dalla sua passione per Gesù e da quella altrettanto travolgente per la giustizia sociale, per un cambiamento della società che col ’68 pareva ineluttabile. I genitori di quei ragazzi lo temevano, come il professor John Keating de l’Attimo fuggente. Nel caso di Cerrato lo scandalo era la fede militante, pericolosamente rivoluzionaria, irrispettosa verso le convenzioni borghesi.
La chiesa non gradì e, dopo averlo ostracizzato, lo rimosse dall’incarico di insegnante di religione al liceo di Faenza.

La scelta di lasciare il sacerdozio fu sofferta, e si intrecciò con l’amore profondo che era nato con Marcella, sua moglie per cinquant’anni. Ma la sue fede è rimasta intatta fino alla fine, con l’impegno nei Cristiani per il socialismo e nelle comunità di base. Parallelamente, la militanza in Avanguardia operaia, e poi tra i fondatori di Democrazia Proletaria a Bologna, insieme all’allievo Marco Pezzi e ad Ugo Boghetta. «Eravamo radicali ma non dogmatici, Cerrato era uno dei nostri grandi vecchi, la sua libertà di pensiero ci aiutò molto a non fossilizzarci nel marxismo ortodosso, a guardare avanti. Ci aiutò a capire l’America latina, le lotte di liberazione in cui spesso l’elemento religioso aveva un ruolo centrale. In Dp la presenza cattolica è stata importante», ricorda Boghetta.

Dagli anni Settanta l’impegno come docente di storia contemporanea all’università di Urbino, con gli studi sulla storia del cristianesimo e, in particolare, sulla crisi modernista tra fine Ottocento e inizio Novecento. «Cerrato metteva in risalto il significato positivo dei momenti di crisi, delle rotture, che hanno consentito l’affiorare di posizioni autonome, radicali, preoccupate di testimoniare una maggiore aderenza agli insegnamenti evangelici», spiega Alfonso Botti, suo allievo e ora docente di storia contemporanea all’Università di Modena e Reggio Emilia.

Gli anni dopo la Bolognina segnano l’adesione a Rifondazione, e la partecipazione ai movimenti per la pace, i suoi studi si allargano ai totalitarismi e alla Shoah, si fa strada l’impegno per il dialogo interreligioso. «Bisogna rendere sempre più evidente che la preghiera è gesto di comunione tra gli uomini di tutte le religioni e non esposizione della propria identità», scriveva Cerrato nel 2009. La sua presenza nella comunità di base di Bologna, sul colle di Gaibola, è proseguita fino alla fine. Come la lettura quotidiana del manifesto. Chi lo ha ascoltato leggere e interpretare il Vangelo, anche se ateo, non lo dimenticherà.

 
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VERSO IL VOTO. Mercoledì 7 settembre, Jean-Luc Mélenchon, leader de La France Insoumise e di Nouvelle Union populaire écologique et sociale (Nupes), prima forza di opposizione in Francia, sarà a Roma e incontrerà […]

 Mélenchon a Roma con Unione popolare Jean-Luc Mélenchon, leader de La France Insoumise

Mercoledì 7 settembre, Jean-Luc Mélenchon, leader de La France Insoumise e di Nouvelle Union populaire écologique et sociale (Nupes), prima forza di opposizione in Francia, sarà a Roma e incontrerà in un’assemblea pubblica Luigi de Magistris, capo politico di Unione Popolare, Marta Collot e Giuliano Granato, portavoce nazionali di Potere al Popolo e candidati di Unione Popolare.

Deluse a quanto si dice le aspettative di Giuseppe Conte che secondo i rumors avrebbe sperato in un endorsement. Mélenchon sarà invece con l’Up di De Magistris al Quadraro (17.30, piazza dei Consoli) a pochi metri – si sottolinea – dalla base militare Nato, dove il leader di France Insoumise dialogherà con gli abitanti e gli esponenti delle forze sociali, sindacali e dei movimenti per il diritto all’abitare.

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