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AIUTIAMOCI A CASA LORO. Prendono forma dati economici, obiettivi e finalità dei progetti del governo Meloni per l'Africa. Tanto petrolio (e caffè) per il Sistema Italia

 Giorgia Meloni con il presidente tunisino Kais Saied - Ap

Finalmente il fantasmagorico piano Mattei ha preso forma, con dati economici, obiettivi e finalità. Sul piano strettamente economico questo grandioso piano a favore del popolo africano preleva 4,2 miliardi in quattro anni dal Fondo per il Clima e 2,5 miliardi in quattro anni dal Dpt. Cooperazione allo Sviluppo. Si tratta di una media di 1,7 miliardi l’anno che rappresentano meno del 3% di quello che gli immigrati africani nei paesi occidentali mandano alle loro famiglie. Solo dall’Italia le rimesse dei migranti africani si stimano in cinque miliardi l’anno. Secondo l’ultimo rapporto Oim (Organizzazione internazionale per le migrazioni) dal 2001 a oggi le rimesse internazionali dei migranti sono passate da 128 a 831 miliardi (sic!), cifra impressionante, ignorata da questo cosiddetto piano per l’Africa che punta tutto sugli investimenti pubblici e privati dell’Italia che dovrebbero rivoluzionare il modo di intendere la cooperazione con il Continente africano.

E veniamo alla filosofia di questo piano. Due sono gli obiettivi che hanno determinato le scelte dei paesi prioritari: Egitto, Tunisia, Etiopia, Kenya, Mozambico, Costa d’Avorio, Algeria, Marocco, Repubblica del Congo. Primo obiettivo: petrolio e gas per renderci indipendenti dalla Russia. Sono particolarmente interessati a questa operazione di estrazione delle risorse petrolifere l’Egitto, l’Algeria, il Mozambico, la Repubblica del Congo, e in misura minore la Tunisia. Secondo obiettivo esplicitato chiaramente: valorizzare la filiera del Sistema Italia, a partire dai paesi produttori di caffè: Etiopia, Costa d’Avorio, Kenya. Vengono scelti come partner (ma c’è stato un bando pubblico?) le seguenti imprese: Illy, Lavazza e Borbone. Si tratta, in sostanza, di dare una mano pubblica di sostegno a queste imprese che oggi risentono delle difficoltà di approvvigionamento, a causa del mutamento climatico che ha colpito alcuni importanti paesi produttori dell’America Latina, e di una continua e forte oscillazione dei prezzi. Se l’accordo con questi paesi africani esportatori di chicchi di caffè assumesse il metodo del fair trade internazionale, che stabilisce con i produttori di caffé contratti di medio periodo a prezzi nettamente superiori a quelli che le quotazioni di Borsa danno, allora sarebbe corretto inserire questa attività in un piano Mattei, dal nome del partigiano, grande manager pubblico e protagonista di una lotta alle multinazionali del petrolio che gli è costata la vita. Per Enrico Mattei bisognava rompere questo monopolio e trovare un accordo con i paesi africani produttori con vantaggi reciproci.

Niente di tutto questo, del metodo con cui Mattei voleva creare nuovi rapporti di scambio con i paesi africani, emerge da questo piano Meloni, al di là degli slogan «vogliamo negoziare alla pari», «non vogliamo rapinare le risorse dell’Africa come si è fatto finora».

C’è ancora una nota particolarmente interessante in questo piano: la riduzione della frammentazione delle risorse finanziarie. Ovvero, saranno presi in considerazione solo progetti da 200-300 milioni di euro come minimo. Quindi, nessuna possibilità di partecipare per le Ong di cooperazione internazionale, né per i Comuni che in questi anni, anche facendo salti mortali su bilanci risicati, hanno portato avanti progetti dal basso che vanno incontro alle esigenze delle popolazioni locali. D’altra parte, sono completamente ignorati i paesi della fascia del Sahel, quelli che soffrono di più la fame, la sete e l’emigrazione, ma non sono interessanti per il business e quindi usciranno fuori dai programmi governativi di cooperazione.

E sappiamo bene quali benefici comporta l’estrazione del petrolio in questi paesi. Basta chiederlo ai rappresentanti della diaspora africana in Italia: le royalties del petrolio/gas finiscono nelle mani di funzionari e governanti corrotti mentre la popolazione locale si prende l’inquinamento dell’aria, dell’acqua e dei terreni.

Alla fine andando alla Fiera di Roma in questi giorni si poteva visitare il Codeway-Business for Cooperation, la Fiera dedicata al settore privato nel mondo della cooperazione internazionale. Basta – scrivono gli organizzatori – con una narrazione pauperistica e rassegnata, l’Africa è oggi la terra per eccellenza delle opportunità di business, come sostiene la presidente del Consiglio. Non c’è altro da aggiungere: la regina è nuda

 

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IRAN. Con la morte del presidente Ebrahim Raisi (e del suo ministro degli Esteri Amirabdolahian) si apre in Iran una doppia successione. La prima, a breve, è quella per la presidenza […]

Memoriale davanti all'ambasciata iraniana a Bucarest dopo la morte del presidente iraniano Ebrahim Raisi e del ministro degli Esteri Hossein Amir-Abdollahian APE/ROBERT GHEMENT Memoriale davanti all'ambasciata iraniana a Bucarest dopo la morte del presidente iraniano Ebrahim Raisi e del ministro degli Esteri Hossein Amir-Abdollahian - Ap

Con la morte del presidente Ebrahim Raisi (e del suo ministro degli Esteri Amirabdolahian) si apre in Iran una doppia successione.

La prima, a breve, è quella per la presidenza dove il suo vice Mohammed Mokhber dovrà guidare il Paese a nuove elezioni entro cinquanta giorni.

La seconda riguarda quella alla Guida Suprema Ali Khamenei, anziano e di salute malferma, di cui Raisi veniva indicato come un probabile successore (insieme allo stesso figlio di Khamenei Mojtaba).

Il tutto avviene in un Paese dove si manifesta un sempre maggiore scollamento tra il regime e la popolazione e in un contesto regionale e internazionale incendiario in cui, con la guerra di Gaza, l’Iran e Israele il mese scorso si sono confrontati per la prima volta nella storia sul piano militare.

La scomparsa di Raisi ha già delle conseguenze immediate interne insieme ad altre che potrebbero incidere sulla repubblica islamica sciita e su tutta la regione. In primo luogo la transizione alla presidenza – che in Iran è di fatto la direzione governo mentre la massima istanza è la Guida Suprema Alì Khamenei – viene assunta dal vice di Raisi, Mohammed Mokhber, personaggio non di primissimo piano ma gerarca di alto livello in quanto capo della Setad, la fondazione della Guida Suprema che costituisce il più grande conglomerato economico del Paese.

Ma Raisi non era soltanto il presidente con una lunga carriera come capo della magistratura: era il leader ultraconservatore che avevano voluto Khamenei e i Pasdaran, le guardie della Rivoluzione, per conquistare la presidenza nel 2021 e succedere al più moderato Hassan Rohani che aveva firmato gli accordi sul nucleare con l’amministrazione Obama nel 2015, contestati per altro dall’ala più radicale del regime.

La sua ascesa è stata dovuta al più rilevante cambiamento del regime iraniano degli ultimi decenni: la sempre maggiore influenza dell’ala militare dei Pasdaran che ha condizionato anche l’establishment religioso.

Le Guardie della Rivoluzione – fondamentali durante rivoluzione e nella guerra contro il dittatore iracheno Saddam Hussein negli anni Ottanta – avevano già conquistato la presidenza con Ahmadinejad ma dopo la fase di Rohani volevano riaffermare la loro preminenza nel Paese sia sul fronte della sicurezza che su quello economico. Le linee di politica estera e interna un tempo venivano elaborate nel dibattito, a volte assai aspro, all’interno delle sfere religiose di Qom, una sorta di Vaticano dello sciismo, oggi l’ala militare, già in primo piano con il generale Qassem Soleimani – eliminato dagli americani il 3 gennaio del 2020 a Baghdad – è diventata sempre più decisiva. E per un motivo evidente: dopo l’11 settembre 2001, la guerra afghana e l’invasione americana dell’Iraq nel 2003, i militari sono andati sempre più in prima linea su un fronte mediorientale diventato ribollente con l’ascesa in Mesopotamia di Al Qaeda e dell’Isis, due formazioni sunnite terroristiche ostili ai musulmani sciiti e all’Iran. Con le primavere arabe, la rivolta contro il siriano Assad nel 2011 e lo scontro tra Hezbollah libanesi e Israele, i Pasdaran hanno di fatto guidato non solo le truppe ma anche determinato la politica estera e le alleanze Teheran.

Raisi, pur con il turbante nero dei Seyed, segno distintivo dei discendenti di Maometto, era il risultato di questa evoluzione. Non è un caso che ieri ci sia stato il cordoglio di Hamas e degli Hezbollah, oltre a quello russo e cinese, perché Raisi come presidente e possibile successore di Khamenei rappresentava

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20 maggio 1970 - 20 maggio 2024

 Pochi eventi nella storia repubblicana italiana hanno assunto una valenza tanto emblematica e straordinaria da assurgere, nell’interpretazione degli analisti, ad autentico spartiacque fra un prima e un dopo, come il biennio operaio 1969-70. La centralità del conflitto, culminato nell’ “autunno caldo”, offrirà una testimonianza per molti versi unica, per intensità e durata, in virtù di un protagonismo delle masse come solo di rado si verifica nella storia di una nazione. Al punto da indurre vari osservatori a instaurare un parallelo fra quel biennio e pochi non meno cruciali altri, come quello del 1943-45 e finanche del 1920-21. Lo Statuto dei lavoratori ne sarà, il 20 maggio 1970, l’approdo normativo più celebre e rappresentativo.

Fin dal suo III Congresso del 1952, a Napoli, la Cgil chiedeva una “Carta dei diritti dei lavoratori”, volta a riconoscere l’esercizio dei diritti civili e politici, anche nei luoghi di lavoro. L’obiettivo, si sarebbe detto più avanti, era quello di “fare entrare la Costituzione in fabbrica”.
Il suo iter non fu semplice, e non soltanto a causa della prematura morte del ministro del Lavoro, il socialista Giacomo Brodolini, nell’estate del ’69, quando il Ddl era ancora in discussione.
Obiezioni e resistenze provenivano da un variegato fronte di organizzazioni e interessi. Sorvolando su quelle, scontate, del mondo datoriale e liberal-conservatore, ricordiamo
come il Pci si opponesse a causa dell’esclusione degli organismi politici dai luoghi di lavoro; la Cisl per via della sua programmatica ritrosia verso la legge, già manifestata
nel ’66, in tema di licenziamenti individuali; la sinistra extraparlamentare per il timore di imbrigliare e cristallizzare rapporti di forza che, allora, dovevano apparire come inesauribilmente progressivi.

Alla fine lo Statuto venne approvato (legge n. 300) e si trattò, come ha scritto Gian Primo Cella, dell’ “atto di ‘ammissione’ (se non di ‘promozione’) delle relazioni industriali più significativo messo in atto nei sistemi liberal-democratici”. Articoli come il 18 e il 28 doteranno i lavoratori e il sindacato italiano di alcune fra le misure più intensamente garantiste del

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NO ALLA DEPORTAZIONE “VOLONTARIA” DEI PALESTINESI DA GAZA E DALLA CISGIORDANIA.

Palestinians take part in a protest against the US move to freeze funding for the UN agency for Palestinian refugees at the Rafah refugee camp in the...

L'Assemblea generale della Nazione Unite ha approvato venerdì 10 maggio una risoluzione che riconosce la Palestina, per cui da quella data la Palestina è qualificata a diventare membro
a pieno titolo dell’Onu. L’Assemblea generale raccomanda al Consiglio di Sicurezza di “riconsiderare favorevolmente la questione”. Va ricordato che la Palestina partecipa da decenni ai lavori della Nazione Unite in qualità di Osservatore.

Questo voto, in piena aggressività e guerra senza precedenti da parte dell’esercito israeliano, rappresenta un referendum mondiale al livello più alto dal punto di vista istituzionale, che ha visto un verdetto chiaro e trasparente con 143 Stati a favore del riconoscimento della Palestina, 9 contrari, tra cui gli Usa, l’Ungheria, l’Argentina e Israele.
Venticinque Stati, fra cui l’Italia, la Germania e l’Inghilterra, si sono astenuti, andando contro ogni logica e diritto internazionale. Questi Stati da anni non fanno altro che parlare di “due Stati e due popoli”, ma evidentemente si tratta di chiacchiere e null’altro. Una ipocrisia politica che con questo ‘referendum’ si è manifestata in modo chiaro e trasparente.
L’Italia guidata dalla destra appoggia in modo incondizionato il governo israeliano, non rispettando la storia che ha “il bel paese” con la causa e il popolo palestinese.
Il governo italiano, con questo comportamento antistorico, annulla e cancella una tradizione oramai consolidata di solidarietà, vicinanza e sostegno del diritto del popolo
palestinese all’autodeterminazione.

Il 10 maggio, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha dato alla Palestina il diritto di operare all’interno del suo plenum, come Stato membro a pieno titolo.
Questo voto rappresenta a tutti gli effetti un referendum mondiale sulla questione palestinese, a cui ne va aggiunto un altro rappresentato dall’opinione pubblica mondiale dei giovani universitari in tutto il mondo, che si stanno mobilitando per sostenere il diritto del popolo palestinese.
Due ‘referendum’ schiaccianti che si contrappongono  allo spirito coloniale ancora vivo in molti Stati occidentali.

Il voto del 10 maggio dimostra in modo inequivocabile che purtroppo non ci siamo ancora liberati da questo concetto.
Il 15 maggio ricorre l’anniversario del Nakba e, purtroppo, dopo 76 anni, anziché affrontare la tragedia di un popolo, il mondo occidentale non solo sta a guardare di fronte alla seconda Nakba che si sta verificando a Gaza e in Cisgiordania, ma agisce diventando esso stesso complice di questa ennesima tragedia del popolo palestinese. Da tempo si parla di deportazione di massa dei palestinesi di Gaza. E siccome questa proposta ha trovato un rifiuto da tutti, sia dai popoli che dai governi di tutto il mondo, si è iniziato a parlare di ‘migrazione
volontaria’, un termine molto soft per evitare la reazione ed il rifiuto della politica verso la deportazione di massa, l’ennesima pulizia etnica.
L’annunciata costruzione di un porto mobile a Gaza da parte dell’amministrazione americana, che ufficialmente doveva essere utilizzato per fare arrivare gli aiuti umanitari ed i medicinali, di fatto serve a permettere la migrazione “volontaria” di chi non vuole morire sotto le bombe oppure per fame.

Chi accoglierà questi “deportati volontari” palestinesi? Sembra pronto un piano di distribuzione. Se queste informazioni si riveleranno fondate, sarà l’ennesimo atto di ingiustizia verso il popolo palestinese, di cui l’Occidente dovrà assumersi la responsabilità di fronte alla storia e alle future generazioni.

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RIFORME. Non bastavano premierato e autonomia differenziata. E adesso la destra al governo vuole costruire il futuro tornando al passato di Berlusconi

Illustrazione Ikon/Ap Illustrazione Ikon/Ap

Nel baratto delle riforme la destra completa la trilogia aggiungendo la giustizia a premierato e autonomia differenziata. Nel mercatino, è la quota di Forza Italia. Dovrebbe comprendere la separazione delle carriere, due organi di autogoverno, un’alta corte. Si parla di cancellare l’obbligatorietà dell’azione penale. Scende in campo l’Associazione nazionale magistrati, che approva nel congresso di Palermo un documento di fermo contrasto. Ma Meloni accelera e annuncia l’arrivo in consiglio dei ministri a giorni, comunque prima del voto europeo.

In realtà, non si guarda al futuro, come sempre ama dire Meloni per le riforme, ma si torna al passato. Già il Piano di rinascita di Gelli, per evitare che la giustizia svolgesse funzioni di “eversione”, chiedeva di separare le carriere requirente e giudicante, di introdurre esami psicoattitudinali per l’accesso in carriera, di rendere il CSM responsabile verso il parlamento.

Cogliamo poi ampie affinità tra quello che la destra mette oggi in campo e la proposta di “riforma epocale” (Berlusconi-Alfano, AC 4275) recante una radicale modifica del Titolo IV, Parte II della Costituzione sulla magistratura. Presentata il 7 aprile 2011, finì per la crisi del IV Berlusconi su un binario morto. Vediamo ora un sostanziale copia e incolla.

L’AC 4275 separava rigidamente le carriere. Sdoppiava il consiglio superiore della magistratura in due organi separati, a composizione paritaria tra laici eletti dal parlamento e togati eletti previo sorteggio. Presieduti dal capo dello stato, eleggevano il vicepresidente tra i laici. Prevedeva una corte di disciplina divisa in due sezioni per giudici e pubblici ministeri, a composizione paritaria, con la componente togata eletta previo sorteggio, con presidente e vicepresidenti di sezione eletti tra i laici. Oggi, un remake. Gli elementi essenziali dell’AC 4275 rimangono, con qualche variazione terminologica.

Vanno segnalati anche altri due punti dell’AC 4275, in specie rilevanti. Il primo. Si modificava l’art. 109 vigente con la formula “Il giudice e il pubblico ministero dispongono della polizia giudiziaria secondo le modalità stabilite dalla legge”. Il secondo. Si riscriveva l’art. 112 prevedendo per il pubblico ministero “l’obbligo di esercitare l’azione penale secondo i criteri stabiliti dalla legge”. Richiami alla legge assenti nel dettato costituzionale vigente. Sono modifiche auto-esplicative, il cui senso era illustrato anche dalla formula del nuovo art. 104: “l’autonomia e l’indipendenza sono prerogative dell’ufficio requirente e non del singolo magistrato”.

Oggi è possibile, anche per le tempeste giudiziarie in atto, che sulla obbligatorietà dell’azione penale la destra proponga una riscrittura. È un punto che più di altri può segnare un radicale distacco dall’assetto costituzionale vigente, aprendo alla subordinazione della potestà punitiva dello stato alla maggioranza politica pro tempore. Di sicuro, richiede si alzino barricate nel confronto parlamentare.

Più in generale, la riforma della giustizia si iscrive tra i sintomi di un complessivo scivolamento verso forme orbaniane di autocrazia. Li segnalano non solo il merito delle riforme, ma anche ad esempio il richiamo insistito di Meloni a una legittimazione plebiscitaria nel futuro referendum costituzionale, lo stallo nella elezione di un giudice costituzionale in attesa che l’uscita di altri dia un pacchetto da spartire tra i partners di governo, la violazione di regole e prassi parlamentari a favore della maggioranza, la gestione della TV pubblica, le manganellate agli studenti, le posizioni sui migranti. Bene le opposizioni – cui si aggiunge la senatrice Segre – che alzano la voce nel dibattito sul premierato in corso in Senato.

Può darsi che l’uscita di Meloni sull’arrivo in consiglio dei ministri sia solo uno spot elettorale o un tentativo di assicurare al governo acque tranquille. Ma sulla giustizia il richiamo della foresta si mostra forte per la destra. Potrebbe cercare sostegno nei lavori dell’Assemblea costituente, come fa la relazione all’AC 4275. È possibile che citi tesi sostenute dalla sinistra. Indubbiamente quel dibattito fu segnato da opinioni diverse e contrasti anche notevoli. Ma non si può riscrivere la storia con posizioni che furono superate e non si tradussero nel dettato costituzionale. Sarebbe comunque falsa la continuità di una Costituzione della destra volta a sostituire la Costituzione antifascista nata dalla ResistenzaRi

 

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INTERVISTA SULLE PRIVATIZZAZIONI. Il segretario generale della Slc: «Svendono la gallina rinunciando all’uovo: Poste garantisce un dividendo da un miliardo l’anno. Aumenterà il deficit. Giorgetti è la controfigura sbiadita di Draghi»

Poste italiane Un ufficio di Poste Italiane - Foto LaPresse

Fabrizio Solari, segretario generale Slc Cgil, il governo Meloni, spinto dal ministro Giorgetti, ha deciso di far cassa dismettendo tutto il possibile. Privatizzare è la nuova parola d’ordine della politica economica.
Il governo Meloni in questo modo ha deciso che l’Italia rinuncia ad aver in futuro. La nuova fase geopolitica in cui si torna indietro dalla globalizzazione e la nuova religione, peraltro segnalata dalle guerre, prevede aree di interesse e filiere corte. In questo quadro, per affrontare le tre rivoluzioni – energetica, ambientale, tecnologica – servono investimenti forti e un governo che li guidi. L’Europa è in difficoltà ma l’Italia è proprio alla canna del gas. Tutti gli indici ci danno in dismissione e il sintomo più evidente del mancato futuro del nostro paese sono le centinaia di migliaia di giovani che se ne vanno. In più noi scontiamo un fatto storico: l’Italia è fatta di piccole aziende e le pochissime grandi aziende sono quelle a partecipazione statale. E sono le uniche a poter gestire queste rivoluzioni. Invece le privatizziamo come abbiamo fatto con il trasposto aereo, diventando un mercato per gli altri.

Il segretario generale della Slc Cgil Fabrizio Solari

La logica del montante ritorno dell’austerità, legato al nuovo Patto di stabilità europeo, porta Giorgetti ad avere comunque l’esigenza di far quadrare i conti.
E i conti non tornano. Qui siamo a chi si vende la gallina rinunciando all’uovo che ci fa tutte le mattine. Il piano di Giorgetti è che i proventi delle privatizzazioni vadano tutti per abbattere il debito. Ma sono 20 miliardi su 2.895 miliardi: un’inezia anche sommando qualche centinaio di euro di minori interessi. Ma il caso di Poste fa saltare tutta la logica. Per cedere 4 miliardi di azioni si sta rinunciando a un miliardo di dividendo l’anno – la trimestrale è di 500 milioni con un controvalore di oltre 300 milioni per lo stato – è una follia. Come può sembrare sensato a qualcuno me lo deve spiegare perché così si aggrava il deficit.

E quindi quale motivazione può avere un’idea tanto peregrina dal punto di vista dei conti?
A pensar male, diceva Andreotti, spesso ci si azzecca. L’unica motivazione è l’idea che si debbano accarezzare i poteri forti. È evidente che con queste privatizzazioni il governo Meloni fa un favore a i fondi di investimento internazionali. Stai dicendo ai fondi: “Compratevi l’Italia, noi ve la vendiamo”.

Sarà un caso ma quasi tutte le privatizzazioni sono nel vostro settore e tutto è iniziato con lo spezzatino operato su Tim.
Sì, a parte il fatto che Tim non fa utili, è partito tutto da lì. Come dice finalmente anche Draghi – a cui diamo il benvenuto nel club di chi ha sempre contestato la deriva mercantile del settore comunicazioni – l’Europa ha sbagliato e non ha player globali. Ma ora noi italiani non possiamo più esserci: solo Germania e Francia hanno mantenuto un’azienda di sistema ex monopolista, invece noi abbiamo fatto lo spezzatino e non siamo più della partita.

Poste ha 130mila lavoratori e perfino la Cisl è contro la privatizzazione.
 è la prima azienda italiana per occupazione e raccoglie la gran parte dei risparmi degli italiani sul territorio con l’accordo con Cdp. Ha 14 mila uffici che nelle aree interne del paese sono l’unico presidio dello stato. Se arriva la logica dei fondi di investimento, si tagliano subito gli uffici e addio all’ultimo brandello di unità di questo paese.

Eni però è il gioiello di famiglia. Si dice che De Scalzi è più potente di un ministro.
Sì, però oggi Eni è largamente in mano al mercato. Quando scendi invece al 35%, come anche in Enel, mantieni il controllo ma non puoi usare per fare politica industriale. Con la guerra in Ucraina, Macron ha rinazionalizzato Edf e ha imposto il prezzo politico dell’energia elettrica. Anche questo noi non lo potremo più fare. Non so cosa pensi De Scalzi, ma quando abbiamo chiesto all’ad di Poste Del Fante cosa pensasse della privatizzazione, lui ha risposto che chi decide è il padrone e quindi il governo.

E del Giorgetti tecnocrate cosa pensa?
È la controfigura sbiadita di Draghi ma Draghi è più libero. Risponde a quell’ambiente ma la differenza è che sia sulla Bce che sulle Tlc Draghi dice cose non scontate e che non vanno benissimo al mercato.

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