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Per rimanere al potere la strategia «iraniana» del premier israeliano è una pistola puntata contro il mondo, Biden compreso. Cancellando la Palestina e il massacro in corso a Gaza

Netanyahu con il dito sul grilletto Benjamin Netanyahu durante un sopraluogo nel nord di Gaza - Ap

La trappola è scattata. Netanyahu continuerà a tenere il dito sul grilletto con il mirino puntato contro nemici e alleati, riluttanti o meno. Con l’attacco all’ambasciata iraniana a Damasco il primo aprile (in cui è morto anche un generale dei pasdaran) e la conseguente rappresaglia iraniana, in gran parte fermata nei cieli israeliani, ha ottenuto quello che voleva: allargare la guerra e oscurare Gaza dai titoli di prima pagina dei media. La questione palestinese va in secondo piano se deciderà di colpire duramente la repubblica islamica con un conflitto che si potrebbe espandere al Libano, alla Siria, all’Iraq e alla penisola arabica.

Nessuno potrà tenersi fuori, questo è l’obiettivo del premier che vuole coinvolgere tutti per tenersi in sella al potere _ questi sono i suoi calcoli – almeno fino alle elezioni americane di novembre. Ha ottenuto immediatamente con il suo spericolato cinismo la solidarietà militare degli Stati Uniti e di quei governi europei che hanno partecipato all’operazione contro droni e missili iraniani. E ora si parla insistentemente di una coalizione internazionale anti-Iran.

E’ vero che gli Usa e il G-7 hanno detto che non parteciperanno a un’eventuale attacco israeliano diretto contro Teheran. Ma si tratta di una posizione che potrebbe repentinamente cambiare: basta immaginare cosa potrebbe accadere se l’eventuale contro-rappresaglia verso l’Iran fosse seguita da un altro attacco di Teheran contro Israele. Netanyahu e il suo gabinetto di guerra infatti non hanno per niente rinunciato ad attaccare di nuovo gli ayatollah. E dopo avere detto che gli Usa sono al fianco di Tel Aviv in maniera “ferrea” diventerebbe assai sottile la differenza tra una guerra di attacco e una di difesa.

I capi delle potenze occidentali si sono già ampiamente sbilanciati a favore del premier e delle sue iniziative militari dissennate. Nessuno, tranne il segretario dell’Onu Guterres, ha condannato l’attacco israeliano del primo aprile all’ambasciata dell’Iran a Damasco che ha violato il diritto internazionale, la sovranità iraniana e anche quella siriana. In poche parole hanno applicato il solito doppio standard che è il vero e radicato motivo delle guerre in Medio Oriente. Del resto c’era da aspettarselo in una regione dove gli occidentali hanno invaso l’Iraq di Saddam Hussein nel 2003, attaccato la Libia di Gheddafi nel 2011 e fatto di tutto pur di sbalzare dal potere il siriano Assad. Ogni occasione è buona per eliminare qualche potenza mediorientale e fare di Israele l’unico guardiano (e potenza atomica) della regione. Con l’Iran la via diplomatica è stata abbandonata presto: nel 2015 Obama firmò l’accordo sul nucleare con Teheran – al quale per altro non si diede quasi seguito – mentre Trump ebbe gioco facile a uscire dall’intesa nel 2018 e a riconoscere Gerusalemme occupata capitale dello Stato ebraico contro tutte le risoluzioni Onu.

Indovinate un po’ chi è il candidato preferito da Netanyahu alla presidenza Usa? La verità è che qui ci facciamo beffe del diritto internazionale e Trump può essere l’uomo giusto per il premier ebraico. Il tycoon è disponibile ad arrivare a un accordo con Putin, che ha invaso un altro Paese, riconoscendone la sfera di influenza, ma non con l’Iran degli ayatollah e vuole mettere sotto il tappeto con il Patto di Abramo la questione di uno Stato palestinese, cosa che per altro ha fatto anche Biden. Ecco perché Netanyahu tiene la pistola puntata anche contro l’attuale presidente Usa e allo stesso tempo si prepara a fare pressioni sul Congresso Usa per ottenere oltre 17 miliardi di dollari di aiuti militari. Forse solo questo potrebbe trattenerlo da uno “strike” contro Teheran, che per altro troverebbe il modo di giustificare in qualche maniera. Il ricatto alla Casa Bianca è evidente.

La realtà è che quando ci si mette nelle mani di un governo estremista d’estrema destra come quello attuale di Israele può accadere qualunque cosa. Ma soprattutto possono verificarsi gli eventi più prevedibili. In primo luogo non finiranno i raid israeliani in Siria dove si è combattuto un conflitto con l’Iran definito in questi anni la guerra “invisibile”: ora può diventare un conflitto sempre più aperto in un territorio dove Israele occupa dal 1967 il Golan e dove di trovano le basi russe, quelle americane, della Turchia, oltre alle milizie di pasdaran, Hezbollah e alle formazioni jihadiste, Isis compreso. Una polveriera. Ma soprattutto gli israeliani vogliono punire il Libano degli Hezbollah, alleato cardine di Teheran. Qui il casus belli, come avvenne già nel 2006, non serve neppure crearlo, c’è già.

E cosa faranno gli iraniani? Il lancio di centinaia di droni e missili – colpiti dai sistemi di difesa anti-missilistica – era diretto al “pubblico” vero degli ayatollah, non tanto l’opinione interna, ignorata o manovrata dalla propaganda, quanto agli alleati di Teheran nella regione (Hezbollah, Houthi yemeniti, milizie sciite irachene) e agli avversari arabi dell’Iran nella regione, soprattutto verso quel Golfo che Teheran vuole assolutamente “Persico” dove è di stanza la sesta flotta Usa. Ma gli iraniani, al contrario dell’iracheno Saddam, non hanno nessuna intenzione di combattere contro Israele e i suoi alleati la “madre di tutte le battaglie”. Il loro obiettivo è la sopravvivenza al potere, come del resto Netanyahu, che non ha nessuna intenzione di togliere il dito dal grilletto. Con lui lo scontro finale continuerà ad aleggiare come un incubo sul Medio Oriente. L’unica alternativa sarebbe la diplomazia ma passa inevitabilmente da una soluzione al dramma palestinese e alla guerra in corso a Gaza. Netanyahu non la vuole e noi siamo sicuri di volerlo?

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ISRAELE/PALESTINA. L’attuale quadro di scontri sinora a bassa intensità con Teheran si collega al «grande gioco» globale per l’egemonia regionale in Medio Oriente

 La nave sequestrata nello Stretto di Hormuz

«Chiediamo all’Iran di non attaccare Israele», questo il mantra distopico che l’amministrazione Biden continua a recitare nella ben mediatizzata, spasmodica attesa d’una qualche risposta armata del governo dittatoriale degli ayatollah all’attacco israeliano contro il consolato iraniano a Damasco del primo aprile 2024.

L’ultimo e il più grave della serie di attacchi militari che negli ultimi mesi Israele ha compiuto contro la presenza militare dell’Iran (e dei suoi alleati dell’«Asse della resistenza») nei territori teoricamente sovrani di Siria, Libano, Iraq e Yemen. Dopo il massiccio e brutale attacco di Hamas del 7 ottobre nel sud di Israele, l’Iran e Hezbollah, il suo principale alleato regionale, si sono presto preoccupati di dichiararsi ignari ed estranei all’attacco, per evitare di essere coinvolti in un scontro diretto e generalizzato con le forze armate israeliani e i presidi militari nella regione del loro alleato americano.

DA ALLORA IN POI e nei sei mesi seguenti si è sviluppato un conflitto a bassa intensità, in cui l’Iran e i movimenti sciiti suoi alleati in Iraq, Libano, Siria e Yemen hanno condotto attacchi contro Israele, gli Usa e i loro interessi in Medio Oriente. (Ricordiamo en passant che gli Houthi, che non sono dei “ribelli”, bensì un movimento politico sciita d’opposizione alla dittatura sorto negli anni ’90, che dal 2014 controlla la capitale e due terzi del territorio dello Yemen, nonostante una feroce campagna militare condotta contro di loro da una coalizione internazionale a guida saudita, tesa a restaurare gli interessi minati dalle rivolte della Primavera araba).

Questo attuale quadro di scontri sinora a bassa intensità con l’Iran si collega al «grande gioco» globale per l’egemonia regionale in Medio Oriente, che dallo scoppio della guerra civile in Siria nel 2011 ha visto il ritorno della presenza militare russa, il progressivo spostamento dell’asse degli interessi economici e strategici del paesi petroliferi del Golfo – Iran incluso – verso la Cina. Specie dopo il disimpegno della politica Usa dal Medio Oriente iniziato già con Obama. E non a caso è stata proprio la Cina a portare Iran e sauditi a firmare un accordo nel marzo 2023 che ha (per il momento) frenato la loro sfida per l’egemonia regionale (e non dimentichiamo che entrambi i paesi si stanno dotando di armi nucleari…).

DUNQUE, UNO DEGLI OBIETTIVI attuali della strategia Usa nella regione (sempre che ne esista davvero una) è quello di riconquistare i paesi del Golfo, riportandoli sotto il proprio «ombrello di sicurezza», di cui Israele è un pilastro nella regione e altrove.

Alla luce di tutto questo sembra chiaro quale sia l’intento dell’Israele genocidaria di Netanyahu: alzare il livello dello scontro con l’Iran per provocare una risposta militare iraniana che giustifichi gli Usa a non abbandonarne la difesa ad oltranza, nonostante la (relativa) disobbedienza nella condotta della sua guerra contro i palestinesi a Gaza e in tutti i Territori palestinesi occupati

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AUTONOMIA DIFFERENZIATA. Mentre va avanti lo scellerato progetto del governo sull’autonomia differenziata, interessa sapere che la sicurezza del lavoro è regionalizzabile

 Opera di Luciano Fabro

In Italia ogni giorno si muore sul lavoro. I tragici eventi di Suviana sono l’ultimo caso di tanti. Forse, mentre va avanti lo scellerato progetto del governo sull’autonomia differenziata, interessa sapere che la sicurezza del lavoro è regionalizzabile. Possiamo essere certi che non sia domani sacrificata sull’altare della competitività del territorio?

Anche l’energia è regionalizzabile, e sull’idroelettrico c’è stato già l’intervento di alcune regioni. Eppure l’energia è cruciale per la transizione ecologica ed è inserita in un contesto con ogni evidenza europeo e internazionale.

Infiniti i dubbi sulle riforme. Ma Lega e Fratelli d’Italia in parlamento forzano il passo, per avere la propria bandierina prima del voto europeo. Per l’autonomia approvazione in via definitiva, per il premierato prima deliberazione delle due richieste. Dopo le urne, però, i tempi si divaricano. Il premierato potrebbe vedere la luce nel 2025, giungendo al referendum (auspicabile) nel 2026. Invece, intese tra stato e regioni potrebbero essere stipulate e approvate con legge già ora, a partire dalla pubblicazione della legge Calderoli.

Il presidente Zaia ci dice che presenterà le richieste di autonomia del Veneto «il giorno dopo» il voto finale sul disegno di legge. Calderoli potrà gestire la formazione delle intese fino a portarle in Consiglio dei ministri. Se il suo progetto fosse approvato in tempi brevi, potrebbe riuscire a portare in Consiglio prima del voto europeo bozze di intesa con una o più regioni. Forse in poche settimane da oggi avremo occasione di vedere l’alba di un’Italia disarticolata in assemblaggio di staterelli, e magari avviata verso una riorganizzazione in macroregioni in base all’articolo 117.8 della Costituzione.

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Non si può rimanere inerti. Vanno evidenziati nel tempo parlamentare ancora disponibile, anche con il ricorso al question time, i punti potenzialmente rilevanti in specie per i ricorsi in Corte costituzionale da parte di una o più regioni entro i 60 giorni successivi alla pubblicazione. È la sola risposta che regga il passo di Zaia, perché un referendum abrogativo potrebbe essere inammissibile per il collegamento al bilancio, e sarebbe comunque assai più lento. Con ogni probabilità, infatti, giungerebbe al voto nel 2026.

Va anzitutto ribadito che il disegno di legge Calderoli è una legge sul procedimento per concedere la maggiore autonomia. Che viene invece attribuita con la legge approvata a maggioranza assoluta sulla base di intesa con la singola regione. La domanda è: può la legge Calderoli vincolare la successiva legge che approva l’intesa? No, in quanto legge ordinaria non sovraordinata alla legge successiva. La legge che approva l’intesa può modificare, derogare o comunque disattendere la legge Calderoli. A nulla vale il richiamo ai «principi generali» nell’art. 1.1, perché l’auto-qualificazione non cambia la natura della legge.

Ma allora a che serve? A poco. Sostanzialmente, può solo vincolare l’attività del governo nel negoziato con la regione. Sempre però considerando che laddove venisse disattesa ne verrebbe eventualmente solo una responsabilità politica del governo. Questo è il caso per l’articolo 2.2, che attribuisce al presidente del Consiglio il potere di limitare il negoziato con la regione per la tutela dell’unità giuridica ed economica e delle politiche prioritarie. Domandare a Giorgia Meloni se intende porre limiti e quali, a tutela di quali politiche, sarebbe peraltro opportuno. Soprattutto per capire se include tra le politiche da tutelare quelle nazionali e strategiche utili alla riduzione dei divari territoriali e delle diseguaglianze.

Segue dalla premessa che la classificazione delle materie-Lep e non Lep, il procedimento per la determinazione dei Lep, la condizione apposta della previa determinazione dei Lep ai fini del trasferimento sono scritti sulla sabbia. Del resto, anche a voler seguire il dettato legislativo, nelle materie non Lep immediatamente trasferibili troviamo ben 184 funzioni statali in materie di peso, cui si aggiungono le funzioni non-Lep nell’ambito di materie-Lep. Abbastanza per calare subito l’Italia nel vestito di Arlecchino.

Con la norma transitoria (articolo 11.1) che prefigura un percorso in qualche misura privilegiato per le regioni già in pista si conferma come pubblicità ingannevole la prospettazione di un’Italia più giusta e più uguale per l’autonomia. Anche su questo bisogna chiamare il governo a manifestare il suo indirizzo. Spesso a domanda il governo non risponde. Nel caso, bisogna insistere. In politica un assordante silenzio può dirci di più di molte parole

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LAVORO SOMMERSO. È necessario intervenire sulle ragioni strutturali che pregiudicano sicurezza e salute sul mercato del lavoro. E queste hanno due nomi principali: appalti e contratti precari.

La precarietà uccide, lo dicono i numeri 

La sicurezza sul lavoro si impone prepotentemente all’attenzione del paese, non solo per le tragedie, come da ultima quella della diga di Suviana, in cui sono coinvolti molti lavoratori, ma anche per lo stillicidio quotidiano con cui veniamo regolarmente informati di incidenti gravi e gravissimi.

È quindi importante che siano avanzate proposte, anche normative, finalizzate alla prevenzione – che richiede prioritariamente attività di formazione mirata e rafforzamento delle modalità di partecipazione dei lavoratori alla organizzazione del lavoro -, al potenziamento delle ispezioni, al disegno di sanzioni con capacità deterrente.

Ma è almeno altrettanto importante che si capisca che è necessario intervenire sulle ragioni strutturali che pregiudicano sicurezza e salute sul mercato del lavoro. E queste hanno due nomi principali: appalti e contratti precari.

Per quanto riguarda gli appalti, come ricordato da Massimo Franchi sul manifesto, sappiamo, da indagini sindacali, che il 70% degli incidenti mortali in edilizia interessa lavoratori in subappalto. E non è un caso: la catena degli appalti e subappalti viene largamente utilizzata per cercare una compressione dei costi che si ottiene pagando bassi salari e riducendo le tutele normative, fra cui, non certo secondarie, quelle che hanno a che fare con la salute dei lavoratori e la loro formazione per la sicurezza. L’applicazione di un contratto diverso da quello del committente o, giù per la catena, dello stesso appaltatore da parte di chi lavora in subappalto, va spezzata, se si vuole impostare seriamente il contrasto alle morti e agli incidenti sul lavoro.

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Per questo è importante la lotta che abbiamo condotto in parlamento – lotta che i sindacati hanno proposto con forza – per ottenere che anche nella catena degli appalti privati sia obbligatorio applicare il contratto siglato dalle associazioni nazionali più rappresentative.

Non è stata una battaglia facile: la risposta iniziale del governo non faceva riferimento ai contratti rappresentativi, ma a quelli più diffusi. Una scelta, che maggioranza e governo hanno già operato, negando il concetto stesso di rappresentanza e rappresentatività e lasciando i lavoratori in balia di contratti firmati da sindacati pirata, compiacenti, scelti dal datore di lavoro. Un concetto a cui si sono opposti, nelle audizioni in commissione alla Camera, anche i rappresentanti delle associazioni datoriali che ne sarebbero a loro volta sconfessate, e i giuristi e i consulenti del lavoro, che ne hanno evidenziato la non applicabilità in sede giurisprudenziale.

Una grande vittoria quella ottenuta con questa modifica, anche se la ministra Calderone non ha accettato di portarla fino in fondo, prevedendo in ogni caso l’obbligo per il subappaltatore di applicare il contratto nazionale del lavoro adottato dall’appaltatore, come è già previsto per gli appalti pubblici. Lasciando così aperta la possibilità di ricorso al subappalto alla ricerca di un contratto meno oneroso.

Ma l’altro aspetto, quello dei contratti precari, non è di minore importanza. E non lo è perché di precarietà si muore. Sono i dati forniti nei giorni scorsi dall’Inail alla commissione bilancio della camera a confermare in modo inequivocabile il legame che esiste fra precarietà e sicurezza sul mercato del lavoro. I dati riguardano il periodo 2018-2022, e non considerano ovviamente i casi imputabili al Covid. Ne emerge un dato impressionate: nel caso dei contratti a tempo indeterminato, gli incidenti mortali sul lavoro hanno una incidenza che è pari al doppio di quella che si registra nel caso di contratti a tempo indeterminato. 8,98 ogni 100mila lavoratori nel primo caso contro 4,49 nel secondo.

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Analoga sproporzione si registra guardando alla incidenza complessiva degli infortuni, che è stata del 3,28% per i contratti a tempo determinato contro il 2,08% per quelli a tempo indeterminato.

Dati drammatici che non stupiscono: i contratti a termine sono assai spesso di durata molto breve e il turn over è molto elevato. Coinvolgono quindi più facilmente lavoratori meno formati, meno addestrati alla prevenzione, meno esperti e quindi meno consapevoli dei rischi. Perché la prevenzione e la formazione sono cose molto serie, non generiche e valide per ogni circostanza, ma con una elevata componente specifica, mirata alle caratteristiche peculiari del lavoro che si deve svolgere e del dove lo si svolge.

La compresenza di lavoratori in appalto o subappalto di ditte diverse, e per giunta con contratti precari, che abbiamo visto in alcuni dei più gravi incidenti, testimonia quanto questa miscela possa diventare esplosiva.

Se parliamo della necessità di ridurre gli incidenti, dunque, non possiamo non parlare della necessità di bonificare il mercato del lavoro, riportando i contratti a termine, così come quelli in somministrazione, alle loro funzioni fisiologiche – la temporaneità di un bisogno o la specialità della manodopera richiesta – evitando che diventino invece strumenti di massima ricattabilità dei lavoratori.

*L’autrice, deputata, è responsabile lavoro del Pd

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SI POTREBBE.... Continuiamo a ignorare o ad alimentare le guerre. Ma saranno i nostri gesti e le nostre pratiche a rendere credibile e contagiosa la nostra proposta. A partire dal 25 aprile

pace

Non stiamo facendo abbastanza. Viviamo giorni straordinariamente violenti e pericolosi, l’orizzonte è sempre più spaventoso, ma noi non stiamo facendo abbastanza. La guerra vera si fa sempre più atroce e vicina e noi non stiamo facendo abbastanza. I crimini di guerra si moltiplicano di ora in ora nell’impunità generale e noi non stiamo facendo abbastanza. I “signori” della guerra si fanno sempre più prepotenti e noi non stiamo facendo abbastanza. Dobbiamo avere il coraggio di riconoscerlo: non stiamo facendo abbastanza per cambiare questa drammatica realtà. Non bastano i fotogrammi dell’orrore che filtrano dal muro della disinformazione innalzato dai grandi circuiti mediatici del potere. Non basta il crescendo delle follie belliciste dell’Unione europea, della Nato e dei suoi portavoce.

Ho l’impressione che molti non abbiano ancora capito cosa stia realmente succedendo, quanto grande sia il pericolo, quanto estese siano le minacce che ormai incombono direttamente anche su di noi. È come se, nonostante l’allarmante evidenza dei fatti e dei presagi, avessimo scelto di minimizzare e di tirare avanti con qualche ipocrita e sempre più irritante esercizio retorico. Ci comportiamo come sonnambuli, ha tuonato il Censis nel presentare il suo 57° Rapporto sulla situazione sociale dell’Italia. Ciechi davanti al dramma. Le guerre che continuiamo a ignorare o alimentare ci hanno già tolto quel po’ di serenità che lunghi anni di crisi economica non avevano ancora distrutto ed è fin troppo facile prevedere che, da qui in avanti, tutto si farà ancora più difficile.

È triste e doloroso doverlo dire ma ignorare la realtà non ci aiuterà a sfuggire alle sue conseguenze. I responsabili di questo disastro non si fermano. Chi ci governa in Italia e in Europa ci ha già impoverito e pretende di togliere altre decine di miliardi di euro dalla cura della nostra salute e dei nostri giovani per riempire le casse dei costruttori di armi e dei mercanti di morte. Gli ideologi e i propagandisti della guerra necessaria e inevitabile, che se ne stanno comodamente seduti sul divano di casa loro, continuano, imperterriti e indisturbati, a manipolare fatti, parole e cervelli. Cos’altro potremmo fare se non ritrovarci, in tanti, il 25 aprile a Milano? L’appello della redazione del manifesto è provvidenziale. Indica una data inequivocabile e una piazza inclusiva. Questo è il tempo in cui tutte le donne e gli uomini che resistono al disumanesimo incalzante si devono ritrovare assieme in un luogo aperto e dunque inclusivo.

Non possiamo più sopportare da soli il peso di tutte le crudeltà e le ingiustizie che sentiamo e vediamo. Come Aldo Capitini il 24 settembre 1961 pensò di riunire i costruttori di pace in un giorno di festa, così la festa del prossimo 25 aprile è l’occasione per riunire tutte le donne e gli uomini che sentono l’urgenza umana e politica di alzare il volume delle sirene d’allarme e suscitare un’opposizione lucida e determinata. Non si tratta solo di dire un altro forte «no alla guerra» ma di ricostruire la capacità nostra e delle nostre istituzioni di «fare la pace». In un mondo fuori controllo, mentre tutto ci appare difficile, dobbiamo ridare valore alla pace che possiamo fare, in ogni momento, in ogni luogo, in ogni situazione. «Fare la pace». Saranno i nostri “gesti” e le nostre pratiche quotidiane di pace a rendere credibile e dunque contagiosa la nostra proposta e la nostra volontà di ricostruire una vera, autentica, politica di pace fondata sul ripudio attivo della guerra.

La Festa della Liberazione segnerà anche il culmine della IV «Settimana Civica» che il prossimo 19 aprile inaugureremo, nell’Aula Paolo VI della Città del Vaticano, insieme con Papa Francesco e seimila studenti, insegnanti, docenti universitari, sindaci, assessori all’insegna del motto «Trasformiamo il futuro. Per la pace. Con la cura». Investiamo sui giovani, diamogli l’opportunità di essere protagonisti. Il 25 aprile continuiamo a camminare per la pace. Camminando s’apre cammino.

*L’autore è il presidente della Fondazione PerugiAssisi per la Cultura della Pace

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Centri di detenzione ai confini, più rimpatri e meno diritti umani. Con qualche divisione a destra e a sinistra l’europarlamento vara il Patto migrazione. Ursula von der Leyen tira un sospiro di sollievo in vista delle urne. In rivolta le Ong: «Ci sarà solo più sofferenza»

UE-MIGRANTI. La destra si spacca, il Pd ci ripensa. Il voto sul patto migranti, a ridosso delle elezioni europee, mette a nudo la confusione e l’opportunismo di quasi tutte le forze […]

La destra si spacca, il Pd ci ripensa. Il voto sul patto migranti, a ridosso delle elezioni europee, mette a nudo la confusione e l’opportunismo di quasi tutte le forze politiche, non solo per il voto in sé ma anche per le dichiarazioni che lo hanno accompagnato ieri. È una vittoria politica e culturale della destra, in Italia e in Europa, non solo per il testo in sé ma perché lo scontro è tutto sbilanciato sull’efficacia delle norme adottate nel fermare, espellere, controllare, respingere.

Le voci favorevoli all’accoglienza sono ridotte a un sussurro quasi irrilevante. FdI sino alla vigilia del voto era a favore del Patto, lo aveva rivendicato e sbandierato. Poi si è trovata messa all’angolo, incalzata dall’offensiva dei duri non solo del gruppo Identità e Democrazia ma anche di una parte rilevante dei Conservatori da un lato, nell’impossibilità di rimangiarsi del tutto i precedenti entusiasmi e di entrare in conflitto con la sua sponda privilegiata nel Ppe, quella di von der Leyen, Weber e Metsola dall’altro.

Se l’è cavata votando a favore 7 punti su 10 e apertamente contraria solo al passaggio sul ricollocamento obbligatorio, pena una multa di 20mila euro per migrante rifiutato da uno Stato membro.

Quel no la mette al riparo dalla rottura aperta con polacchi e ungheresi, che proprio su quel capitolo hanno già dichiarato guerra ma la lascia esposta agli attacchi corsari della Lega. Salvini non intende certo perdere l’occasione per mettere in difficoltà l’amica sul fronte più identitario che ci sia per la destra. «E’ un patto deludente che non risolve il problema dei flussi irregolari e clandestini, lasciando ancora una volta sola l’Italia», azzanna sui social.

Se la Lega tuona e disprezza, il ministro degli Interni in quota Carroccio Piantedosi brinda e applaude: «Il patto tiene conto delle esigenze dell’Italia. Dopo anni di stallo Dublino è finalmente superata». Vicino a via Bellerio, più vicino al governo.

Opposta e allineata alla posizione tripudiante del Ppe è Forza Italia: «E’ un passo importante che supera Dublino», assicura Tajani anche se non è affatto vero. In soccorso dell’amica Giorgia corrono sia la presidente della Commissione von der Leyen che quella dell’Europarlamento Metsola. Si sbracciano per assicurare che l’Italia non sarà mai più sola e i controlli impediranno ai trafficanti di decidere loro chi entra e chi no. La durezza, fanno capire nemmeno troppo tra le righe, ci sta tutta. Hanno tutti torto e tutti ragione, a destra. Il Patto naviga vigorosamente nella direzione che auspicano. Rende tutto più duro e difficile per i migranti. Mette concettualmente al bando l’accoglienza. Poi, complici l’interesse elettorale e il posizionamento propagandistico qualcuno esalta il passo avanti, altri fanno l’opposto. Ma nessuno intende accontentarsi e fermarsi qui.

Sull’altra sponda il Pd ha votato a favore solo della norma bocciata da FdI. Decisione encomiabile e lo sarebbe ancora di più se in Commissione la posizione non fosse stata opposta.

Con la sola eccezione di Pietro Bartolo, il medico di Lampedusa contrario dall’inizio al Patto: caso più unico che raro tra i socialisti europei. Ora, per fortuna, il Pd si è accorto che quel testo presenta «gravi e inaccettabili manchevolezze sui diritti umani» e non va oltre Dublino.

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Il Pd almeno ci prova a tenere in equilibrio le due motivazioni del pollice verso, quella umanitaria e quella rigorista. I 5S no: «Meloni ha condannato l’Italia a diventare l’hotspot d’Europa». Si commenta da sé.

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