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PRESIDENZIALI USA. Il 64%, quasi due terzi, dei giovani americani non andrà a votare o voterà per un candidato di protesta, per esempio quel Robert Kennedy che era un ambientalista rispettato prima di diventare no vax

La guerra a Gaza e il suicidio politico di Joe Biden Joe Biden

L’apparato del partito democratico americano ha una poco invidiabile tradizione di inettitudine nella scelta dei candidati alla presidenza: per esempio, nel 1988 scelse un timido governatore di origine greca proveniente dal Masschusetts, Michael Dukakis; nel 2000 il legnoso vicepresidente in carica Al Gore; nel 2016 l’antipatica Hillary Clinton. Quindi non è sorprendente che quest’anno abbiano scelto Joe Biden, malgrado l’età e la relativa impopolarità.

Gli elettori preferiscono i repubblicani su questioni chiave come l’inflazione e l’immigrazione. Non bisogna sottovalutare i segni mandati dagli dei: occorreva un indovino per capire che porta male scegliere Chicago come sede della convenzione 2024? C’era bisogno di assumere Cassandra alla Casa bianca per capire che se le università sono occupate e sgomberate dalla polizia a sei mesi dalle elezioni le cose si mettono male? La volta precedente fu nel 1968, ci fu una settimana di scontri fra manifestanti contro la guerra e polizia, fu scelto l’innocuo Hubert Humphrey e il repubblicano Richard Nixon vinse in novembre.

Ma nel suicidio politico che sta andando in scena sotto i nostri occhi le questioni fondamentali stanno altrove: tra gli elettori di età compresa tra i 18 e i 34 anni il disinteresse per le prossime elezioni è stupefacente: solo il 36% di loro dichiara di essere “molto interessato”. Quindi il 64%, quasi due terzi, dei giovani americani non andrà a votare o voterà per un candidato di protesta, per esempio quel Robert Kennedy che era un ambientalista rispettato prima di diventare no vax.

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Il problema sta nel fatto che la coalizione democratica ha bisogno, per eleggere qualsiasi candidato, di tre gruppi fondamentali: le donne, gli afroamericani e i giovani. Le donne presumibilmente voteranno perché il tema dell’aborto sarà al centro della campagna elettorale. Gli afroamericani potrebbero votare democratico, come sempre, ma in quanti lo faranno non è chiaro: l’interesse per questa elezione è più basso rispetto a qualsiasi altra elezione presidenziale negli ultimi 20 anni. Solo il 64% degli americani ha dichiarato di essere fortemente interessato alle elezioni, rispetto al 77% del 2020. E sono le minoranze etniche e i poveri che si sentono più marginalizzati dal sistema politico, quindi non votano.

Restano i giovani: l’entusiasmo, la mobilitazione, il lavoro di convincimento porta a porta li fanno i giovani. Quest’anno perfino il New York Times si è accorto che «è difficile entusiasmarsi per candidati che hanno mezzo secolo più di noi». In questo momento, però, l’età di Biden non c’entra: sono le stragi israeliane a Gaza che indignano gli universitari americani. Le mezze dichiarazioni di dissenso verso Netanyahu poco valgono di fronte al continuo rifornimento di bombe a Israele. Le macerie si vedono, i corpi dei bambini morti si vedono, i volti delle donne che si aggirano disperate perché non possono nutrire i loro figli si vedono. Oggi i giovani americani piantano le tende all’università o assediano la casa del senatore Chuck Schumer, a novembre forse non voteranno per Trump ma sicuramente non voteranno per Biden.

L’arroganza dell’apparato del partito democratico ha qualche giustificazione: come si può perdere contro un candidato repubblicano che non solo ha quattro processi in corso ma, letteralmente, potrebbe ritrovarsi in galera nel momento in cui voi finite di leggere questo articolo? In queste ore ci sono riunioni ufficiali in cui si discute di cosa deve fare il Secret Service se Trump viene arrestato. Per legge ha diritto alla protezione in quanto ex presidente: gli agenti lo seguiranno, sistemandosi nelle celle vicine?

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Aborto, ritorno al far west

I consulenti politici che gestiscono la campagna elettorale dovrebbero però sapere che la maggior parte dei sostenitori di Donald Trump non sono parte del suo culto della personalità: voteranno per lui perché sono conservatori che condividono le politiche del partito repubblicano e pensano che Trump sia un leader più deciso di Biden. Questo è ciò che salta all’occhio nei sondaggi, che danno i due candidati alla pari, o Trump in vantaggio, nonostante i problemi giudiziari dell’ex presidente fellone, che cercò di rimanere al potere con la forza nel gennaio 2021.

Biden è stato un presidente attivo in politica interna, ha cercato di migliorare le condizioni di vita di milioni di americani, come a suo tempo Lyndon Johnson. Come Johnson, però, è un uomo della guerra fredda, incapace di rompere con una visione del mondo militaristica. La sua amministrazione ha attizzato il conflitto con la Cina, sabotato ogni possibilità di accordo con la Russia, seguito supinamente Israele nella sua corsa alla guerra permanente e infine minacciato l’Iran. Anche se oggi, al contrario del 1968, non ci sono ragazzi americani che muoiono nella giungla, le conseguenze di queste politiche si vedono ogni sera sugli schermi televisivi. E non sono di buon auspicio per le sorti dei candidati democratici in novembre.

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25 APRILE, UNA DATA ESIGENTE. «Vogliamo che sfili una grande manifestazione, più grande del solito» scrivevamo un mese fa nell’appello che invitava a tornare a Milano questo 25 aprile. Siamo ottimisti, pensiamo che andrà così, […]

25 Aprile 1994. Dall'archivio del Manifesto

25 Aprile 1994 - Dall'archivio del Manifesto

«Vogliamo che sfili una grande manifestazione, più grande del solito» scrivevamo un mese fa nell’appello che invitava a tornare a Milano questo 25 aprile. Siamo ottimisti, pensiamo che andrà così, il corteo sarà pienissimo.

Ce lo dicono le tante adesioni, collettive e individuali, l’impegno degli organizzatori, la sensazione di aver intercettato e dato voce a un desiderio diffuso. Persino cresciuto nelle ultime settimane, al crescere delle motivazioni per fare di questa Liberazione una liberazione speciale.

Al centro del nostro 25 aprile c’è l’urgente mobilitazione contro le destre estreme in Italia e in Europa, che ormai mettono in discussione o cancellano principi e diritti che parevano acquisiti. E c’è l’opposizione popolare alla guerra, ormai trattata come un punto di programma dalle massime istituzioni Ue.

Cessate il fuoco e no al riarmo sono le parole d’ordine per l’unica opzione che ci resta: la pace.

In piena coerenza con l’eredità della Resistenza, combattuta anche per scacciare la guerra dal destino dell’Europa, quella di oggi sarà anche la grande manifestazione pacifista che aspettavamo da tempo. Per una soluzione negoziale del conflitto in Ucraina a più di due anni dall’aggressione russa. E per chiedere all’Unione e agli stati europei di agire per fermare la carneficina di Israele a Gaza. Smettendola con l’avallare – di fatto – l’azione di Netanyhau, capace di annientare l’istintiva solidarietà che il 7 ottobre aveva portato a Israele, seppellendola sotto una montagna di macerie e cadaveri palestinesi.

Poi c’è il governo Meloni che quotidianamente porta argomenti e attualità all’antifascismo. Disprezzo dei migranti, accanimento contro i poveri e gli ultimi, manganellate agli studenti, riduzione degli spazi di pluralismo, attacco ai diritti delle donne.

La lista è lunga e disegna un modello di governo e un sistema di potere che non è certo una riedizione del fascismo ma che ha nel cuore una troppo simile pulsione autoritaria.

Pensare che questa «matrice» possa essere cancellata con

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RIFORME. Tiene il patto con la Lega, corre anche l'autonomia differenziata. «Parlamento subordinato al premier, cade la separazione dei poteri»

Quirinale

Arriva il primo sì del Parlamento alla prima riforma costituzionale della storia della Repubblica in cui il contenuto pesa altrettanto rispetto a quanto è taciuto. La Commissione Affari costituzionali del Senato stamattina di buonora concluderà l’esame del ddl Casellati sul premierato elettivo, con il voto del mandato al relatore.
La Conferenza dei capigruppo di Palazzo Madama, nei prossimi giorni, calendarizzerà il provvedimento in Aula. Un passaggio su cui nessun partito della maggioranza solleverà questioni: lunedì, infatti, alla Camera è stato confermato l’impegno di tutto il centrodestra di portare il 29 aprile in Aula a Montecitorio il ddl Calderoli sull’Autonomia differenziata, per cui in Senato la Lega non farà obiezioni sul premierato. Il cuore del ddl Casellati è l’elezione diretta «per cinque anni» del Presidente del Consiglio. Come verrà eletto? Non si sa. Il provvedimento approvato dalla Commissione afferma che una legge ordinaria successiva disciplinerà «il sistema per l’elezione delle Camere e del Presidente del Consiglio, assegnando un premio su base nazionale che garantisca una maggioranza dei seggi in ciascuna delle Camere alle liste e ai candidati collegati al Presidente del Consiglio, nel rispetto del principio di rappresentatività».

Nella scorsa legislatura, quando Fdi era all’opposizione, Meloni presentò una pdl di riforma costituzionale per l’elezione diretta del Presidente della Repubblica (AC 716) i cui 13 articoli erano estremamente lunghi e dettagliati. Invece il ddl licenziato ieri dalla Commissione tace su quanti voti debba prendere il candidato premier per essere dichiarato eletto, come debba essere assegnato «un premio su base nazionale» alla coalizione che sostiene il candidato presidente del Consiglio. Si è capito, durante il dibattito in Commissione, che non c’è unità di vedute nel centrodestra. Il relatore e presidente della Commissione, Alberto Balboni, ha detto che occorre una soglia almeno del 40% per poter assegnare il premio di maggioranza; in un primo momento ha sostenuto che se non viene raggiunto tale quorum si dovrà andare al ballottaggio; successivamente – dopo che la Lega (con Massimiliano Romeo e Paolo Tosato) ha dichiarato di non volere il ballottaggio – ha affermato che se non viene raggiunto il 40% dalle liste collegate al candidato, il premio non viene assegnato e la divisione dei seggi avviene su base proporzionale. Il punto critico non risiede in questa tecnicalità – soglie, ballottaggi… – bensì nel fatto che la riforma «è incostituzionale», come ha detto ieri Rosi Bindi nel corso di un Convegno del Coordinamento per la democrazia costituzionale (Cdc) del professore Massimo Villone. Infatti se il Parlamento viene eletto a strascico del Presidente del Consiglio, ha sottolineato la professoressa Giovanna De Minico nello stesso convegno, esso viene subordinato al Presidente del Consiglio: viene dunque meno, ha sottolineato De Minico, la separazione dei poteri. In più anche il Presidente della Repubblica e la Corte costituzionale saranno subordinati al premier. Infatti la coalizione del Presidente del Consiglio avrà i numeri in Parlamento per eleggere il Capo dello Stato, il quale a sua volta nomina un terzo dei membri della Corte costituzionale.

Le opposizioni hanno cercato di inceppare il meccanismo del «baratto» (come lo ha definito Giovanni Maria Flick al convegno del Cdc) tra Lega e Fdi, cercando di rallentare il cammino dell’Autonomia differenziata alla Camera, dove viene esaminata dalla Commissione Affari costituzionali. Il Pd, con Simona Bonafé, ha chiesto la relazione del Mef sui costi che comporterà questa riforma. Il ddl Calderoli, comicamente, afferma che essa non avrà oneri per la finanza pubblica. Una previsione evidentemente falsa: lo Stato dovrà devolvere risorse e personale alle Regioni che chiederanno la competenza su nuove materie, ma dovrà mantenere le strutture amministrative per gestire tali funzioni per le altre che non ne chiederanno la competenza. «Se non arriviamo a capire la dimensione della copertura finanziaria, per valutare quale onere a carico dello Stato e delle altre Regioni, ci saranno problemi preoccupanti di finanza pubblica». Giorgetti, hai sentito?

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ISRAELE. Intervista all'antropologa israeliana Maya Wind: «Iai, Rafael, Elbit sono nate negli atenei. E sul piano politico le facoltà di legge producono interpretazioni innovative del diritto internazionale per sostenere che Israele non lo viola»

Studenti nel campus della Tel Aviv University - Ap/Tsafrir Abayov Nuovo! Chiara Cruciati, INVIATA A JAFFA Studenti nel campus della Tel Aviv University - Ap/Tsafrir Abayov

«È nostro dovere chiedere di interrompere i rapporti con l’accademia israeliana fino a quando non prenderà parte al processo di decolonizzazione». Così Maya Wind conclude la conversazione con il manifesto. Antropologa israeliana alla British Columbia, ha da poco pubblicato per Verso il libro Towers of Ivory and Steel: How Israeli Universities Deny Palestinian Freedom in cui indaga il ruolo dell’accademia nel mantenimento del sistema di oppressione del popolo palestinese.

Partiamo dal ruolo storico nella fondazione dell’industria militare israeliana.

Le università israeliane sono state una colonna portante del dominio razziale, dell’apartheid e dell’occupazione e sono state al servizio dello stato in diversi modi. Innanzitutto, il luogo stesso e il modo in cui i campus sono stati costruiti su terre confiscate, per togliere continuità al territorio palestinese, li rende una delle infrastrutture della spoliazione. Lo è anche la produzione di conoscenza funzionale al sistema militare e di intelligence: molte discipline sono state subordinate alla produzione di ricerche che forniscono da decenni modelli di governo militare dei palestinesi. Infine, c’è l’aspetto tecnologico: l’accademia israeliana ha dato vita all’industria militare israeliana. Le aziende ancora oggi leader sono nate dentro l’accademia israeliana, pensiamo a Science Corps, dipartimento di ricerca interno alle milizie Haganah, operativo nei primi tre campus israeliani, il Technion, la Hebrew University e il Weizmann Institute. Con la fondazione dello stato, accademici e scienziati israeliani hanno lavorato perché Israele non solo importasse armi e tecnologie militari ma perché le sviluppasse. È questa l’origine dell’industria militare israeliana, di Israel Aerospace Industries, Rafael, Elbit Systems, nate dentro le università, in particolare al Technion. Sono le aziende poi divenute esportatrici globali. E dalle loro origini le armi prodotte vengono testate sui palestinesi. Le università sono il laboratorio centrale dell’industria militare israeliana e i loro vertici ne parlano apertamente. Li cito nel libro quando dicono che senza l’accademia Israele non avrebbe mai raggiunto il livello attuale.

Tale collaborazione è ancora attiva e trova applicazione nell’offensiva su Gaza?

Intorno alle collaborazioni c’è grande oscurità. Quello che sappiamo è che tutte le tecnologie sviluppate in passato sono il fondamento di quelle nuove, è come un edificio che cresce. Rafael, Elbit, Iai sono interne al sistema accademico in diversi modi: borse di studio agli studenti, finanziamento di ricerche e interi laboratori, porte girevoli di ricercatori e dipendenti. Sono due sistemi inseparabili. E poi c’è un altro tipo di industria, in particolare all’Università di Tel Aviv, che si occupa di intelligenza artificiale.

Esiste anche un ruolo politico di legittimazione delle pratiche militari?

Da anni e in particolare negli ultimi sei mesi gli accademici reagiscono ai tentativi di giudicare Israele a livello internazionale. Ad esempio alla Corte internazionale di giustizia: accademici e giuristi israeliani producono interpretazioni del diritto umanitario e del diritto di guerra per proteggere Israele dall’accusa di genocidio. Da decenni fabbricano interpretazioni innovative del diritto internazionale per sostenere che Israele non lo viola e che le offensive militari contro i palestinesi non comportano crimini di guerra. Le università sono davvero soggetti centrali nel meccanismo di legittimazione e di sostegno dell’impunità israeliana. Quando il Sudafrica si è rivolto alla Cig, facoltà di legge e giuristi si sono subito mossi per produrre controargomentazioni. Tra i più attivi c’è l’ex responsabile del dipartimento di diritto internazionale dell’esercito che oggi lavora alla Tel Aviv University e che ha detto, la cito: «L’arena internazionale è un campo di battaglia. Devi conoscere il tuo nemico e sapere come affrontarlo, non vogliamo fornirlo di munizioni».

Sul piano politico, abbiamo assistito non solo a una mancata condanna dell’offensiva su Gaza ma anche alla repressione interna ai campus delle voci critiche.

Fin dalle sue origini l’accademia israeliana è stata un luogo ostile e repressivo per studenti e professori palestinesi. Di certo c’è stata un’escalation, con le amministrazioni delle università che hanno sospeso studenti, li hanno cacciati dai dormitori con sole 24 ore di preavviso, chiesto indagini nei loro confronti. La caccia alla streghe è facilitata da facoltà e gruppi di studenti ebrei israeliani, come la National Student Union che sorveglia i palestinesi e li denuncia. Il caso della professoressa Nadera Shalhoub-Kevorkian è esemplare: è stata arrestata e interrogata la scorsa settimana. La ragione per cui è da anni perseguitata è che ha il coraggio di fare ricerca sulla violenza coloniale e la violenza di stato. La Hebrew University è diretta responsabile di quello che le sta accadendo: per anni ha deciso di non sostenerla e infine l’ha sospesa, aiutando il clima di incitamento contro di lei.

Qual è il rapporto tra accademia israeliana e palestinese?

È quello che l’intellettuale palestinese Kamal Nabulsi definisce il lato scolastico dell’occupazione. Israele ha sempre visto nell’educazione palestinese una minaccia, come ogni altra amministrazione coloniale. Per questo l’ha sempre repressa sia dentro Israele che nei Territori occupati. Le università israeliane hanno avuto un ruolo perché hanno condizionato per decenni l’iscrizione dei cittadini palestinesi alla fedeltà allo stato e hanno continuamente represso la ricerca critica palestinese e la mobilitazione interna ai campus. Senza contare il silenzio del mondo accademico israeliano di fronte alla distruzione di tutte le università di Gaza, ai continui raid e agli arresti nei campus in Cisgiordania e a Gerusalemme est e alla detenzione nelle prigioni militari israeliane di studenti e professori palestinesi.

In Italia sono in corso da mesi proteste per porre fine alle collaborazioni con gli atenei israeliani. Negli Stati uniti lo stesso. Si chiede di boicottare le istituzioni, non i singoli docenti. Cosa ne pensa?

Il mio libro intende fornire chiaramente le prove della complicità del mondo accademico israeliano nell’oppressione dei palestinesi. È un fatto che sia complice del sistema di apartheid, occupazione e colonialismo. Per questo ne sostegno il boicottaggio. Penso che per i docenti, gli studenti e le amministrazioni delle università nel mondo (in particolare in Occidente: sono gli atenei occidentali a finanziare e legittimare l’accademia israeliana) sia indispensabile assumersi la responsabilità della propria complicità della mancata libertà dei palestinesi

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Difende il proprio cane dall'attacco di un Rottweiler: donna ...

E’ di ieri 22 aprile l’ennesimo caso di aggressione di 2 cani feroci ad un bambino con l’uccisione dello stesso ed il ferimento della madre e dello zio nel vano tentativo di salvare la vita del bambino. COME E’ POTUTO ACCADERE?

I canidi sono predatori e sono istintivamente portati ad aggredire qualsiasi essere vivente, soprattutto se lo vedono correre; anche i cani domestici mantengono questo istinto ed in Italia sono centinaia i casi di aggressione alcuni con esiti mortali anche verso i proprietari stessi dei cani che, nel caso poi siano in coppia o in numero ancor maggiore, aumentano la loro pericolosità perché scatta “l’effetto branco”.

Si vede in giro un numero sempre maggiore di persone con al seguito cani di grossa taglia, vocati alla guardia ed alla difesa se non creati per il combattimento, i quali una volta scattata la molla di feroce aggressività sono complicatissimi da gestire. Infatti nulla hanno potuto la madre e lo zio nel loro disperato tentativo di salvare il bambino aggredito.

NON CAPISCO PROPRIO PERCHE’ NON SI RISPETTI E NON SI FACCIA RISPETTARE L’OBBLIGO DI MUSERUOLA PER CERTI CANI!!??

Anche a Faenza corriamo gli stessi rischi:

Praticamente nessuno rispetta o fa rispettare l’obbligo di museruola per certi cani che incontriamo nei corsi cittadini.

Ho notizia dell’episodio di oltre un mese fa dove 30 studenti sono stati costretti a rinchiudersi per mezz’ora nel bar dei Salesiani perché un esaltato lasciava i propri 2 cani di grossa taglia liberi di scorrazzare e ringhiare a tutti senza museruola nel cortile fra i tavoli, senza che lo stesso prendesse atto della pericolosità della situazione.

Anche nelle nostre campagne ci sono situazioni di elevato rischio potenziale di aggressione da parte di cani di grossa taglia lasciati liberi di scorrazzare da parte di persone in passeggiata, ma soprattutto esistono situazioni di pericolo rappresentate da parte di cani da guardia e da difesa, liberi di uscire dalle case ex agricole, modificate a residenza, abitate da persone in molti casi assenti durante la giornata, che non hanno provveduto a dotare l’abitazione di adeguata recinzione, quando addirittura la recinzione sia del tutto mancante; mi riferisco a cani di razze come Maremmani, Leonberger, Pitbull, Rottweieler e chissà quanti altri probabilmente adottati in casa per sentirsi maggiormente sicuri, ma che se te li ritrovi a fianco se fai un giro a piedi o in bicicletta, possono causare gravi infortuni anche solo facendoti cadere se ti mettono le zampe sul petto.

VORREI CHE SI INTERVENISSE DA PARTE DELLE AUTORITA’ PRESTANDO ASCOLTO E MONITORANDO LA SITUAZIONE, PER PREVENIRE POSSIBILI DRAMMI.

LE MISURE SONO SEMPLICI: OBBLIGO DI MUSERUOLA; DI RECINZIONE AD ALTEZZA ADEGUATA; DI CONTROLLO ALL’APERTURA DEL CANCELLO, MA SOPRATTUTTO DI PRESA D’ATTO DELLA RESPONSABILITA’ CUI SI E’ SOGGETTI ADOTTANDO CANI CHE PER LA LORO FORZA, STAZZA, E POTENZIALE AGGRESSIVITA’ POTREBBERO TRASFORMARSI IN VERE E PROPRIE BELVE INCONTROLLABILI.

Faenza 23 Aprile 2024

Medardo Alpi

 

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CARCERE. «Conducevano il detenuto all’interno della stanza, ove un gruppo di sette assistenti (…) lo aggredivano; in particolare lo ammanettavano con le mani dietro alla schiena, così provocandogli la lussazione della […]

Il sistema Beccaria e le parole che Nordio non dice 

«Conducevano il detenuto all’interno della stanza, ove un gruppo di sette assistenti (…) lo aggredivano; in particolare lo ammanettavano con le mani dietro alla schiena, così provocandogli la lussazione della spalla, lo colpivano ripetutamente con uno schiaffo, un pugno, più calci di cui uno nelle parti intime che gli procurava l’annebbiamento della vista e gli sputavano addosso»; «…lo prendeva per il collo e lo sbatteva a terra facendolo cadere a faccia in giù; subito dopo i quattro assistenti lo colpivano, con calci e pugni, mentre il detenuto si trovava a terra e piangeva, fino a farlo sanguinare dalla bocca, procurandogli un ematoma viola all’occhio e uno alla testa».

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Al Beccaria, secondo la ricostruzione dei giudici nell’ordinanza di custodia cautelare, era normale che un ragazzo fosse picchiato, offeso, torturato. Il sistema, che pare andasse avanti da tempo, è un mix tragico di soprusi, intimidazioni, pestaggi, depistaggi, falsi. Il tutto sempre nella certezza di farla franca. Non funziona, dunque, la retorica delle mele marce. Marcio era il sistema nelle fondamenta che pensava di governare con il terrore un luogo complesso che avrebbe dovuto viceversa essere vocato all’educazione.

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Va detto, però, che esiste un’altra faccia della medaglia. Esiste anche un altro Stato: che si indigna, che denuncia, che rischia e si espone per assicurare giustizia. Una filiera di qualità fatta di operatori, psicologi, ma anche del garante di Milano e di un consigliere comunale che hanno portato il caso all’attenzione dei giudici. L’altro Stato è anche quello di altri poliziotti penitenziari (quelli del Nucleo investigativo centrale) che hanno portato avanti l’inchiesta contro i loro colleghi, rompendo la coltre dello spirito di corpo, nonché dei giudici. Ovviamente ci auguriamo che, se si dovesse arrivare a processo, insieme a noi di Antigone, che chiederemo di essere ammessi come parte civile, ci sia anche il governo. E che quest’ultimo riponga nel cassetto ogni intenzione di modificare o abrogare la legge contro la tortura.

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Cesare Beccaria si sta rivoltando nella tomba. Produce rabbia vedere il suo nome accostato a una storia di tortura contro un gruppo di ragazzi molto giovani. Il filosofo milanese nel 1764 aveva teorizzato l’abolizione della tortura definendola «una crudeltà consacrata dall’uso nella maggior parte delle nazioni». Nel suo nome ci attendiamo una parola da parte del ministro Nordio contro la tortura e contro i presunti torturatori, nonché le scuse a quei poveri ragazzi a nome dello Stato

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