Sarebbero morte almeno cento persone in quello che secondo l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) è finora il più tragico naufragio del 2019. È avvenuto al largo di Al Khoms, una città 120 chilometri a est di Tripoli. Un centinaio di persone sono state soccorse e riportate indietro in Libia. Da: Internazionale.it
https://www.internazionale.it/bloc-notes/annalisa-camilli/2019/07/26/il-naufragio-piu-tragico-del-2019?fbclid=IwAR1rj-CFdkybf0WudXCgf3T52NXVthQZ7GLkK-O9fguEu_BC7H5jKgnpxWk
Questo naufragio e i molti altri (pur sconosciuti) di questi giorni dovrebbero far capire a tutte le persone in buona fede che senza l'intervento delle organizzazioni umanitarie (le ONG che sono nel mirino del governo) non si ferma il flusso dei migranti, ma semplicemente si moltiplica il numero dei morti. Perché rimanere nei campi in Libia è come morire.
Contro ogni logica, visti i tempi, continuo a voler parlare alla razionalità delle persone: perché non è direttamente lo Stato italiano o, ancor meglio l'Unione Europea, (come è avvenuto per alcuni anni) a gestire insieme il pattugliamento del Mediterraneo e i salvataggi in mare? E se per disaccordi fra Stati (?!?!) o per mancanza di fondi (!?!?) non lo si riesce a fare, perché non si cerca di collaborare con le Organizzazioni umanitarie rispettandone il ruolo e cercando di coordinarne l'azione? Come ripetono spesso i comandanti dei pescherecci, salvare i naufraghi è, secondo la legge del mare, un dovere.
Invece anche in queste ore, come già nel caso della Diciotti, assistiamo all'assurdità di una nave militare italiana che non viene fatta attraccare in un porto italiano. Non posso credere che si tratti di un atto legale: e ricordo a tutti che il Ministro degli interni non è stato assolto per il suo comportamento nel caso Diciotti, ma soltanto che la sua maggioranza parlamentare (con eguale responsabilità per tutti i componenti) con l'aiuto della destra che aspira ad allearsi, per ragioni di opportunismo politico ha impedito alla magistratura di pronunciare una sentenza. L'atto rimane abnorme e ci saranno altre strade per dichiararlo. Si trova sempre un fanciullo che vede il re nudo.
Alessandro Messina
Commenta (0 Commenti)La secessione dei ricchi. Autonomia differenziata, intervista all'economista Gianfranco Viesti: "Questa strada si sa dove comincia, ma nessuno sa dove finisce. Se l’intesa passa si apre uno scenario incognito. E non ci sarà la possibilità di un referendum abrogativo".
Professore Gianfranco Viesti, economista all’università di Bari e autore del pamphlet online La secessione dei ricchi (Laterza), i governatori di Lombardia Fontana e del Veneto Zaia non sono disponibili a firmare l’intesa sull’autonomia differenziata. È una buona notizia?
È una mossa politica. È interessante il fatto che la loro sia una reazione allo stralcio della regionalizzazione della scuola dall’intesa, a dimostrazione della rilevanza del tema. Provano a riaprire la discussione con il governo, minacciandolo.
Ma se non votano significa che Salvini fa cadere il governo?
Non ne ho la più pallida idea. Ritengo che da sempre sia questo l’elemento più qualificante del programma della Lega, molto più di «quota 100». Non a caso era l’unico punto del programma di governo con i Cinque Stelle indicato come prioritario.
Salvini vuole fare della Lega un partito nazionale. Perché sostiene un progetto che penalizza molte regioni del Sud?
Vorrei chiederglielo anch’io. Non condivido le idee politiche della Lega, non ho nemmeno particolare stima delle loro proposte che trovo molto improvvisate. Non mi pare che offrano una proposta coerente di futuro all’Italia. È un’accozzaglia di vecchie rivendicazioni e nuove pulsioni da cui emergono anche contraddizioni come questa.
Cosa pensa dell’Emilia Romagna, l’unica regione amministrata dal Pd, che chiede l’autonomia differenziata?
Sono estremamente critico
Leggi tutto: Gianfranco Viesti: «Lo Spacca Italia è l’inizio di un processo irreversibile»
Commenta (0 Commenti)On the moon. «Il miracolo di un affratellamento universale si è compiuto nel nome del nuovo dio Apollo». Così scrisse ironicamente e con spirito critico Marcello Cini. L'impresa dell'atterraggio sulla luna suscitò un dibattito tra entusiasti e scettici che fu fondativo anche per «il manifesto»
«La conquista della Luna è stata anzitutto un colossale colpo propagandistico, il più fantastico spettacolo di circenses che sia mai stato regalato alla plebe dai tempi di Nerone». Firmato: Marcello Cini. Era il 26 luglio 1969. La missione Apollo 11 si era chiusa da nemmeno due giorni, Armstrong, Aldrin e Collins avevano appena iniziato la quarantena contro eventuali batteri lunari e sull’Unità iniziava così il dibattito sull’allunaggio. Cini non era un complottista da quattro soldi, ma riteneva fuori luogo quel clima di trionfo.
Ci voleva coraggio: l’impresa della Nasa era stata festeggiata anche dal Pci. «Con entusiasmo di socialisti, di comunisti, di lavoratori salutiamo oggi gli uomini avviati per i primi sentieri della Luna», aveva scritto il 20 luglio Emilio Sereni. Quell’unanimità solleticava il sarcasmo di Cini: «il miracolo dell’affratellamento universale si è compiuto nel nome del nuovo dio Apollo».
Il giovane professore di fisica della Sapienza era abituato a fare arrabbiare soprattutto chi gli era più vicino. Dal 1968 aveva dato vita a una lettura critica della scienza «non-neutrale», che aveva irritato soprattutto gli intellettuali di sinistra. Anche tra i comunisti, infatti, era diffusa l’idea che lo sviluppo scientifico e tecnologico fosse sempre positivo perché, come aveva ricordato lo stesso Sereni, «l’enorme sviluppo delle forze produttive che le imprese spaziali comportano e promuovono tende a spezzare I’involucro dei vecchi rapporti di produzione».
Cini criticava questa visione deterministica, per cui ogni progresso scientifico è un passo verso la rivoluzione. «È inutile chiedere che l’uomo porti a compimento la redenzione dalla sua servitù e dallo sfruttamento – ironizzava – basta lasciar fare ai ragazzi di Nixon».
INTUIZIONI FULMINANTI
La conquista della Luna non era affatto una buona notizia per il proletariato mondiale: «questo progresso serve solo, prestigio a parte, a rafforzare e sviluppare sul piano militare ed economico il sistema capitalistico nel suo complesso ed in particolare il suo Stato guida». Al suo intervento seguirono repliche e contro-repliche finché a ferragosto Napolitano chiuse il dibattito prendendo le parti
Leggi tutto: Propaganda fra le rocce lunari - allunaggi & miraggi
Commenta (0 Commenti)Le carte. Perché il progetto di regionalismo differenziato consegna la Repubblica una e indivisibile all’archivio della storia
Meritoriamente, il sito roars.it pubblica le bozze di intesa datate 16 maggio, che il Dipartimento affari giuridici e legislativi aveva colpito e affondato nell’appunto consegnato al presidente del Consiglio Conte. Tre corposi faldoni, di 68 pagine per Veneto e Lombardia, e 62 per l’Emilia-Romagna. La sintesi è quanto mai semplice: a meno di una radicale riscrittura, con l’approvazione delle intese lo Stato in queste tre regioni – l’Emilia-Romagna segue le altre a ruota – sostanzialmente chiude i battenti, sostituito da una sorta di aggregazione di staterelli indipendenti. La Repubblica una e indivisibile è consegnata all’archivio della storia.
L’unità ha fondamenti immateriali e materiali. Quelli immateriali sono essenzialmente culturali, e sono primariamente affidati alla scuola, nazionale e pubblica. Nelle intese con Veneto e Lombardia viene smantellata. Di questo si parla altrove in questa stessa pagina. Ma altrettanto importanti sono i fondamenti materiali: le infrastrutture, la distribuzione delle risorse pubbliche.
Quanto alle infrastrutture, lo shopping è completo. A una prima lettura della bozza per il Veneto tra le parti già concordate e quelle ulteriormente chieste dalla regione, ad esempio, troviamo: trasferimento al demanio regionale della rete stradale nazionale; subentro nelle concessioni delle tratte comprese nel territorio veneto della rete autostradale nazionale, con trasferimento al demanio e al patrimonio indisponibile e disponibile della Regione alla scadenza delle concessioni; trasferimento al demanio della Regione degli aeroporti nazionali; subentro nelle concessioni statali di rete ferroviaria complementare; approvazione delle infrastrutture strategiche di interesse regionale nonché, di intesa con il governo, di quelle strategiche di competenza statale, ivi inclusa la relativa procedura di Via.
Sulle risorse, rimane il meccanismo di privilegio fiscale che parte da una spesa storica distorsiva a danno del Sud, passa per un transitorio di Lep (livelli essenziali delle prestazioni) e fabbisogni standard mai fin qui stabiliti perché avrebbero comportato – e comporterebbero anche oggi – un inatteso e politicamente insostenibile riequilibrio a favore del Mezzogiorno, e approda a un valore nazionale medio che la ministra Stefani ha taroccato riferendolo alla sola spesa delle amministrazioni centrali. Andava invece legato alle complessive risorse pubbliche destinate al territorio, per cui il Nord è in cima alle classifiche. Si prevedono anche numerose riserve a favore della regione. Un indiscutibile privilegio fiscale.
Si aggiungono poi infinite altre cose: assunzione di vigili del fuoco, rischio sismico, regionalizzazione delle soprintendenze, programmazione di quote di ingresso di cittadini extracomunitari, previdenza integrativa, sostegno alle imprese, ricerca aerospaziale e quant’altro. La domanda è: cosa ha a che fare tutto questo con le «forme e condizioni particolari di autonomia» di cui all’articolo 116, comma 3 della Costituzione? Ovviamente, nulla.
Alla Padania secessionista di Bossi si è sostituito un «grande Nord» separatista. Un continuum di regioni composto da tre speciali (Friuli, Trentino, Val d’Aosta) e da cinque ordinarie che vogliono raggiungere un regime di simil-specialità attraverso l’articolo 116 (Veneto, Lombardia, Piemonte, Liguria, Emilia-Romagna). Una via incostituzionale per il miraggio di agganciarsi all’Europa forte, a spese del resto del paese. Una via sulla quale un effetto domino inevitabile sulle altre regioni frantumerebbe l’unità.
Il presidente della regione Emilia-Romagna Bonaccini dice di temere che l’autonomia diventi una barzelletta. Ma è lui, con gli altri due governatori, a voler rendere l’Italia unita una barzelletta.
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