Dal sito de il manifesto
È scomparso oggi Gino Strada, medico e fondatore di Emergency. Al momento del decesso, avvenuto per un problema cardiaco, si trovava in Normandia. Aveva 73 anni.
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Afghanistan. Un altro bel colpo nella strategia del caos perseguita dagli Stati uniti negli ultimi vent’anni grazie alle amministrazioni repubblicane ma anche a quelle democratiche, dove spicca con Obama il ritiro dall’Iraq che lasciò il Paese nelle braccia dell’Isis
Il ritiro americano dall’Afghanistan è una vergogna ma anche una mossa calcolata. Il ritorno all’ordine talebano era prevedibile, forse persino auspicato. Fare gli stupiti è ipocrita.
Di mezzo come al solito ci vanno gli afghani che, come scriveva ieri sul manifesto Giuliano Battiston, sono stati scaricati dagli europei che premono per il rimpatrio dei profughi aggrappandosi ad accordi firmati dal governo di Kabul con un ricatto esplicito: dovete riprendervi i rifugiati altrimenti non vi diamo i soldi.
E poi ci facciamo chiamare Paesi «donatori». Insomma la stessa usuale solfa di Bruxelles che spera con i quattrini di fermare gli arrivi alle frontiere, una volta pagando Erdogan, un’altra i libici o i tunisini. I prossimi a libro paga magari saranno proprio i talebani e non ci sarebbe troppo da scandalizzarsi: da anni versiamo soldi ai criminali libici e ai loro complici.
L’Afghanistan è lontano e vogliamo dimenticare alla svelta Kabul, anche se sono passati vent’anni da quando gli Stati uniti hanno invaso l’Afghanistan con l’obiettivo di eliminare Al Qaeda dopo gli attentati dell’11 settembre 2001 e rovesciare il regime del Mullah Omar. Questa sembra essere l’unica preoccupazione dell’Unione europea: che l’Afghanistan stia sprofondando nel caos e in una nuova guerra civile, con il risorgere dei signori della guerra cooptati in questi anni nella «democrazia» afghana, appare secondario. Dopo avere proclamato, per anni, con gli americani che stare in Afghanistan era cosa giusta e doverosa per «proteggere» la democrazia e i diritti delle donne, adesso gli europei voltano la faccia dall’altra parte e rifiutano asilo a chi teme giustamente di essere ricacciato in un nuovo medioevo.
A stento sono stati salvati un po’ di afghani che lavoravano per le truppe occidentali, giusto per le pressioni sui media che hanno dato spazio alle suppliche di quelli che i talebani considerano «collaborazionisti». Tralasciando di scrivere che questo censimento dei collaborazionisti i talebani nelle provincie lo fanno da sempre e in maniera accurata, con in mano i dati anagrafici di una popolazione che hanno tenuto sotto torchio per anni. I talebani non hanno mai smesso di governare «a distanza» il Paese e tutti lo sapevano benissimo, altrimenti non sarebbero avanzati così velocemente.
L’ipocrisia è tale da nascondere un pensiero neppure troppo remoto, vista la situazione. Un ritorno all’«ordine talebano» potrebbe anche non dispiacere troppo ad americani ed europei.
Per questo ce ne siamo andati via alla chetichella ammainando velocemente la bandiera, come se qui non fossero morti dozzine di soldati italiani dando la caccia ai talebani nel Gulestan, la valle delle rose. Con il ritiro gli americani e la Nato hanno rifilato una pesante eredità all’Armata Rossa, ai cinesi e agli iraniani.
Un altro bel colpo nella strategia del caos perseguita dagli Stati uniti negli ultimi vent’anni grazie alle amministrazioni repubblicane ma anche a quelle democratiche, dove spicca con Obama il ritiro dall’Iraq che lasciò il Paese nelle braccia dell’Isis. Anche lì doveva un esercito nazionale come in Afghanistan a mantenere l’ordine: in tutti e due i casi le forze armate locali si sono sfaldate alla prima offensiva.
E ora l’Armata Rossa organizza manovre militari con Uzbekistan e Tagikistan: i russi dovrebbero tenere quelle frontiere che abbandonarono nell’89 quando si ritirarono dopo l’invasione del dicembre ’79 e una guerra persa contro i mujaheddin, sostenuti dagli Usa e dai loro alleati. Anche la Cina si sta muovendo per proteggere i confini dello Xinjiang musulmano e le concessioni minerarie afghane. L’obiettivo a quanto pare sembra sia stato raggiunto: i talebani hanno assicurato che non interferiranno nelle questioni interne cinesi tra gli uighuri e Pechino, allo stesso tempo la Cina ha definito gli insorti afghani “una forza militare e politica cruciale”. Così come stanno negoziando gli iraniani, che si trovano i talebani a stretto contatto nella provincia di Herat, storicamente legata alla Persia.
Tutti sono seduti al tavolo con i talebani, dagli americani agli altri, si tratta di preparare il terreno a loro riconoscimento internazionale. E vedrete che ci piacerà pure Muhammad Yaqoob, il figlio del Mullah Omar che lancia appelli _ non si sa quanto affidabili e realistici _ alla moderazione dei combattenti. Di democrazia, protezione dei diritti delle donne, sviluppo sociale ed economico di un Paese che l’Occidente diceva di volere cambiare già non parla più nessuno. Siamo tornati a casa, i profughi afghani li cacciamo indietro e abbiamo salvato una manciata di collaborazionisti: che volete di più? Il «ritorno all’ordine» tra un pò di tempo, anche nel caos, sarà completo.
Commenta (0 Commenti)Non avremmo mai immaginato, fino a poco tempo fa, che anche un/il vaccino ci avrebbe interpellato in merito alla nostra Costituzione. O, meglio, in merito alla conoscenza, o meno, della nostra Costituzione.
Per fortuna, in questi giorni, molte voci si sono fatte sentire, per smentire l’allarme che una destra irresponsabile e ignorante di Costituzione ha tentato di lanciare. Il green pass e , in alcuni casi, l’obbligo vaccinale, sarebbero anticostituzionale liberticidi. Un vero e proprio assurdo, fra le numerose assurdità a cui da tempo non riusciamo ad abituarci.
Fra le tante voci, suggeriamo la lettura del recente articolo di Azzariti, radicalmente chiaro. Gaetano Azzariti, fra l’altro, è il presidente della Associazione nazionale Salviamo la Costituzione, della quale anche i Comitati in difesa della Costituzione di Bagnacavallo, Faenza e Ravenna fanno orgogliosamente parte.
Paola Patuelli
L'articolo di Gaetano Azzariti
Il dibattito. Al dunque la questione di fondo è: sin dove possono spingersi gli obblighi e le limitazioni alle libertà individuali per la tutela dell’interesse pubblico alla sanità e alla sicurezza?
Circola una leggenda metropolitana tra i No Vax che chiama in causa la Costituzione. L’obbligo vaccinale – si narra – violerebbe il divieto di imposizione dei trattamenti sanitari garantito dall’articolo 32 della costituzione; il green pass limiterebbe invece la sacra libertà di circolazione inscritta all’articolo 16 del nostro testo supremo. Si chiama alla lotta per riaffermare i più vitali principi del costituzionalismo moderno, contro i poteri asserviti ad interessi economici che, in parte, rimangono oscuri, in parte, sono individuati in quelli reali e per nulla rassicuranti delle cosiddette Big Pharma. Al grido di “libertà, libertà” i nuovi paladini si propongono come i garanti dei diritti del popolo, contro la nuova plutocrazia autoritaria che approfitta della presunta emergenza sanitaria per erodere la democrazia sin dalle sue fondamenta.
La confusione è tale che persino il fatto che a dirigere il movimento di protesta siano le componenti più reazionarie e fascistoidi non è considerato un ostacolo, neppure da chi, entro questo magmatico movimento, rivendica la sua ispirazione antifascista, se non di sinistra. Ben venga che la libertà sia difesa da chi (ovvero insieme a chi) non crede nella democrazia: si tratta pur sempre di far valere ciò che viene prima della stessa convivenza civile, ovvero la libertà intesa come un valore assoluto, prerequisito di ogni altro diritto degli individui. Basterebbe leggere qualche classico, in realtà, per sapere che la libertà assoluta si pone contro ogni forma di convivenza ed è l’anticamera del bellum omnium contra omnes.
Ma lasciamo da parte i classici. Facile è smontare questa narrazione farlocca dal punto di vista costituzionale. Basta saper leggere gli articoli richiamati. Il divieto di imporre trattamenti sanitari – e il connesso principio di poter disporre del proprio corpo – è, infatti,
Commenta (0 Commenti)Nuovo appuntamento lunedì 9 agosto con il tavolo ministeriale che vede a confronto le parti interessate. Scacchetti, Cgil: “Puntiamo a un sistema che includa tutti i lavoratori, indipendentemente dalla tipologia di azienda”
Riprende il confronto sulla riforma degli ammortizzatori sociali con il tavolo convocato dal ministero del Lavoro per lunedì 9 agosto alle 15.30, a cui partecipano tutti i sindacati, i rappresentanti delle imprese, e le parti interessate. L’obiettivo, fare un ulteriore passo in avanti nella discussione che vedrà come punto di partenza le linee guida stilate dal Ministero, per contribuire “a costruire un modello di welfare state inclusivo che sia compiutamente idoneo a fungere da strumento di realizzazione dell’uguaglianza sostanziale quale presidio fondamentale di tutela e garanzia della dignità umana”. Lo scopo prioritario della riforma è che non ci siano lavoratori esclusi dal sistema di protezione sociale, sia in costanza di rapporto di lavoro sia in mancanza di occupazione. Ma su come garantire questa inclusione e quindi sulle modalità per raggiungerlo che si gioca la partita principale.
“Per noi è importante che si costruisca un sistema di ammortizzatori sociali che sia universale - spiega Tania Scacchetti, segretaria confederale della Cgil -. Quello a cui vogliamo arrivare è che
Giappone. La ricorrenza è l'occasione per esercitare la più forte pressione sul governo perché firmi e ratifichi il Trattato di Proibizione delle armi nucleari in vigore dal 22 gennaio 2021
Il 6 agosto di 76 anni fa alle 8,15 del mattino la prima bomba atomica sul Giappone inceneriva all’istante la città di Hiroshima e 140 mila dei suoi abitanti, 3 giorni dopo la stessa sorte toccò a Nagasaki (un totale di più di 300 mila vittime, per le conseguenze successive). Poi ebbe inizio la guerra fredda con la folle corsa agli armamenti, che portò gli arsenali nucleari di Usa e Urss verso il 1985 al numero demenziale di 70.000 testate.
Anche se non vi è stata una guerra nucleare (a dispetto di numerosi falsi allarmi sventati solo dal sangue freddo di alcuni ufficiali), ben 2056 test nucleari (dei quali 516 in atmosfera) hanno provocato una scia di malattie tumorali (la compianta scienziata Rosale Bertell valutò più di un miliardo di vittime dirette o indirette dell’Era nucleare) e danni incalcolabili all’ambiente: recentemente si moltiplicano richieste di risarcimenti dalle popolazioni vittime dei test nel Pacifico e nel Sahara. Senza contare i minatori delle miniere di uranio, tutti appartenenti a popolazioni emarginate o povere, i quali hanno contratto un numero enorme tumori ai polmoni (il popolo Navajo ha proclamato il giorno del ricordo e dell’azione il 16 luglio, data del Trinity Test).
Oggi di fronte all’insostenibile aggravamento della crisi climatica, e con l’occasione della pioggia di miliardi per risollevarsi dalle conseguenze della pandemia, si invoca ovunque una
Leggi tutto: Dopo Hiroshima la minaccia resta ancora atomica, altro che green - di Angelo Baracca
Commenta (0 Commenti)Il caso. Dopo lo sblocco dei licenziamenti. Draghi: un tavolo con i sindacati «tra fine agosto e settembre». Ma è emergenza. Dagli ammortizzatori sociali fino alle politiche della prevenzione sul lavoro: lo stallo dell’esecutivo
Mentre continua lo stillicidio dei licenziamenti sbloccati dal primo luglio attraverso le mail, un Whatsapp o con le modalità tradizionali il presidente del Consiglio Mario Draghi ha fatto sapere per le vie brevi, cioè a voce, ai sindacati confederali Cgil Cisl e Uil che lo hanno incontrato l’altro ieri a Palazzo Chigi che convocherà un incontro tra fine agosto e inizio settembre . Con calma, dopo le ferie agostane, un altro tavolo. E poi si vedrà. Resta senza risposta la richiesta di bloccare, subito, i licenziamenti con una norma apposita come richiesto tra gli altri dagli operai licenziati e insorti della Gkn, dai sindacati di base, dagli scioperi di due ore al giorno fatti dai metalmeccanici in luglio e anche dal segretario del Pd Enrico Letta che però mantiene da molti giorni un rigoroso silenzio. Il problema è che l’avviso comune sottoscritto il 29 giugno scorso dal governo con Cgil, Cisl e Uil e Confcooperative, Cna, Confapi, Confindustria non sembra avere un valore vincolante, almeno nelle prime aziende che non hanno deciso di usare gli ammortizzatori sociali prima di procedere ai licenziamenti.
SUL TAVOLO c’è anche un’altra norma, invocata da più parti, che dovrebbe impedire di licenziare alle aziende che hanno ricevuto dal governo sussidi e l’estensione della cassa integrazione nei mesi della pandemia. A cominciare dalle multinazionali. Nessuno sembra per ora avere ritenuto necessario, in questi casi, chiedere un impegno preciso alle aziende perché mantengano l’occupazione.
TUTTO QUESTO sta accadendo in mancanza di una politica industriale e di una riforma «universale» degli ammortizzatori sociali, anch’essa più volte annunciata dal governo. Il ministro del lavoro Andrea Orlando, che ieri sera ha incontrato gli operai della Gkn a Campi Bisenzio, aveva fatto trapelare che sarebbe arrivata «entro l’estate». Il che vuole dire: tra oggi e il 21 settembre. L’estate è lunga. Senza contare che, difficilmente, sarà totalmente operativa e avrà bisogno di un approfondito iter legislativo. Sbloccare i licenziamenti senza avere realizzato una riforma di questa portata costituisce oggi un’altra défaillance sia nel programma del «governo dei migliori» che in quello precedente del «Conte 2». Il problema era più che noto sin dalle prime settimane della pandemia: marzo 2020. Dopo un anno e mezzo non è stato fatto nulla, come del resto su tutte le politiche sociali, a cominciare dalla più volte evocata revisione del «reddito di cittadinanza». Qui si intende una stretta dell’impianto originario verso le politiche attive del lavoro anche punitive, tutte da costruire. Non si parla di una sua estensione, senza vincoli e condizioni, verso un reddito di base. Si sa come funzionano le cose nella politica del «vincolo esterno»: se una riforma non è esplicitamente richiesta dai custodi europei della cosiddetta «economia sociale di mercato», allora manca la condizione per ritenere assolutamente imprescindibile adottarla. E va tenuto conto del fatto che, se e quando arriveranno, questa o quella riforma risponderanno comunque alle regole del suddetto ordine.
I FRONTI della polemica politica, a partire dai licenziamenti, si stanno moltiplicando giorno dopo giorno. Versante Gkn: sta girando una petizione diretta a Mario Draghi con 6500 firme su appellogkn.it. è stato lanciato dagli ex presidenti della Regione Toscana Mario Chiti, Claudio Martini e Enrico Rossi, è stato sottoscritto anche da Don Giovanni Momigli per la Curia fiorentina e evoca un ruolo centrale dello Stato e il ritiro dei 422 licenziamenti da parte dell’azienda. Quest’ultima li ha confermati.
VERSANTE Logista a Bologna. Per Logistic Time, l’azienda appaltante da cui dipendono circa 65 lavoratori, più quelli dell’indotto, «a fronte delle modificate esigenze operative» si è trattato di un messaggio inviato a quelli in turno «dispensandoli, sebbene retribuiti», dalla giornata di lavoro« al fine «di organizzare le attività del sito». Un messaggio che »non si configura come lettera di licenziamento». Tali modalità hanno provocato ieri le critiche del presidente della Regione Emilia-Romagna Stefano Bonaccini che ha chiesto, anche qui, l’intervento del governo: »Non esiste che in pochi secondi, il tempo di un messaggio su Whatsapp, si possano licenziare lavoratori». Sulla questione il movimento Cinque Stelle ha presentato una doppia interrogazione a Orlando sia alla Camera che al Senato.
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