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INTERVISTA. La segretaria dem: «Drammatici i dati su povertà e salari, siamo al fianco dei lavoratori». «Il salario minimo è sempre più urgente per alzare gli stipendi più fermi in Europa. E non è vero che fa diminuire l’occupazione. Per Meloni sarà difficile bocciare la legge popolare». «La mia vittoria nasce dalla spinta della base dopo gli errori del passato: la gente mi riconosce coerenza. Il confronto da Vespa? Avevo detto ovunque, ma la Rai resta megafono del governo»

Elly Schlein: «In un anno il Pd è cambiato su lavoro, migranti e diritti» Elly Schlein - Ansa

Elly Schlein risponde al telefono da Gradisca d’Isonzo, in una tappa del suo tour elettorale: «Dieci anni fa la mia campagna per le europee partì proprio da qui, con una camminata dall’allora Cie fino al sacrario militare di Redipuglia. Ci battevamo contro i centri di detenzione per i migranti, contro i nazionalismi e i muri, le stesse cose per cui lottiamo ancora: da allora l’Europa ha fatto passi avanti con gli investimenti comuni del Next Generation Eu che noi vorremmo far proseguire per sostenere un piano industriale green; sui migranti invece manca ancora la solidarietà europea, abbiamo votato contro il nuovo Patto Ue perché restringe i diritti, prevede le schedature per i bambini e non impone la redistribuzione di chi arriva». Poi la visita allo stabilimento Electrolux, salvato 10 anni fa grazie alla mobilitazione dei lavoratori dalla delocalizzazione in Polonia: «Ma ora i dipendenti sono preoccupati per il calo della produzione e per il taglio dei posti, noi saremo al loro fianco». Mentre parla arriva la notizia dei domiciliari per Ilaria Salis: «Una grande notizia, un primo passo avanti: ora speriamo possa rientrare al più presto in Italia e che il governo si adoperi per questo».

Alla fine Salis si è candidata alle europee con Sinistra e Verdi e non col Pd. Ha dei rimpianti?

Ringrazio il padre Roberto che ha sempre riconosciuto la nostra vicinanza a Ilaria, ben prima che diventasse un caso nazionale con le immagini choc delle catene: ci siamo battuti per denunciare le condizioni inumane della sua detenzione, per chiedere al governo italiano di fare di più. E continueremo a farlo.

Gli ultimi dati Istat segnalano un drastico aumento della povertà e, in particolare, dei lavoratori poveri, il crollo del potere d’acquisto dei salari. Il recupero del Pil produce nuove diseguaglianze.

Un quadro drammatico, che per me non è una novità: in Italia ci sono 5,7 milioni di poveri, cancellare il reddito di cittadinanza è stata una follia voluta da Meloni, considerando che la stessa Istat certifica che questo strumento ha tirato fuori dalla povertà 1,3 milioni di famiglie tra il 2020 e il 2022. Si poteva migliorare, rendere più accessibile e invece niente: per la destra la povertà resta una colpa, non un problema sociale.

Da tempo voi insistete per il salario minimo. Di fronte a questi numeri sarebbe sufficiente come misura?

In tre anni i prezzi sono aumentati del 17%, i salari del 4,7%, il lavoro dipendente si è impoverito come in nessun altro paese europeo: i nostri salari sono più bassi rispetto al 1990. Ci sono 5 milioni di lavoratori che aspettano con urgenza il rinnovo dei contratti, quelli pirata vanno bonificati, e poi c’è la proposta di tutte le opposizioni di un salario minimo a 9 euro l’ora per cui stiamo raccogliendo le firme per una proposta di legge popolare, che sarebbe a costo zero per le casse dello Stato. C’è in 22 paesi europei, non ha mai prodotto cali dell’occupazione e ha avuto un’incidenza positiva sulla dinamica salariale complessiva, come dimostra il caso tedesco.

La scorsa estate avete raccolto 300mila firme sulla proposta delle opposizioni per il salario a 9 euro, e la destra in Parlamento l’ha bloccata attribuendo la delega al governo in tema di salari. Ora ci riprovate con le firme. Non crede che l’esito sarà lo stesso? Se non viene adottato evidentemente è perché a qualcuno non conviene.

Non conviene ai portatori di interesse che Meloni vuole proteggere, mentre volta le spalle a 3,5 milioni di lavoratori. Ma sono convinta che questa volta per loro sarà ancora più difficile dire no a una legge popolare con migliaia di firme: il salario minimo è apprezzato dal 70% degli italiani, compresi molti loro elettori.

I dati sulla povertà spiegano bene l’astensionismo crescente. I partiti litigano ma la situazione materiale peggiora. Lei come pensa di investire questo trend?

Con proposte concrete che producano soluzioni. Il mio progetto di legge per portare al 7,5% del pil la spesa sanitaria va al cuore di uno dei principali problemi degli italiani. La fondazione Gimbe dice che 4 milioni di persone rinunciano alle cure. A Pesaro una donna mi ha fermato per dirmi che dopo la diagnosi di tumore non riusciva a fissare visite successive e ha dovuto pagare 500 euro nel privato. Il suo pensiero è andato a chi non ha quei soldi. Io capisco le ragioni di chi pensa che il voto non serva a cambiare le cose, anch’io in passato ho avuto momenti di rassegnazione. Ma la politica comunque si occupa di noi, e l’unico strumento che abbiamo è il voto.

Tra le persone che incontra vede segnali di ritorno alle urne?

Percepisco un rinnovato entusiasmo attorno alla proposta del Pd, una apertura di credito che non era scontata: siamo stati a lungo identificati con il governo.

Se i salari sono così bassi e il lavoro precario non è solo colpa di Meloni. Dal 1990 fino a oggi avete governato a lungo. C’è stata una seria autocritica?

Siamo l’unico partito che fa i congressi e cambia la sua linea. Se il centrosinistra avesse fatto tutto bene io non sarei mai stata eletta segretaria. Il mio lavoro di ricucitura parte proprio dalla critica per gli errori commessi su lavoro, immigrazione, diritti. Vado nel dettaglio: le leggi sulla precarietà, i contratti a termine, anche alcune scelte su scuola e sanità. Al congresso del 2023 abbiamo intercettato una volontà di cambiamento che c’era nella nostra base. Cosa che non può accadere nei partiti personali dove ogni di cambio di linea dipende solo dalla volontà del capo non dalla partecipazione di massa alle primarie.

Riuscirà a portare fino in fondo questo cambiamento?

Tra gli elettori c’è un riconoscimento della sincerità di questo sforzo, ma dopo tanti anni di fratture la fiducia non la ricostruisci con uno schiocco di dita. E non basta una persona. Sono però convinta che tante persone che hanno votato Meloni sperando in un cambiamento positivo ora siano deluse: col tempo la verità viene a galla, così come l’incoerenza. Qualche giorno fa allo zen di Palermo ho toccato la disperazione di famiglie che hanno perso il rdc. La signora Rosalia mi ha detto che vorrebbe che il governo vedesse la loro sofferenza: hanno perso un sostegno ma il lavoro non c’è, e la colpa non è certo loro. Se davanti alla povertà non arriva prima lo Stato, si lascia spazio al ricatto delle mafie.

L’8 e 9 giugno si vota in oltre 3mila Comuni, di cui 27 capoluoghi. A Bari e Firenze il centrosinistra si presenta diviso. E’ preoccupata?

Abbiamo lavorato ovunque per l’unità e senza veti per nessuno, da quando sono stata eletta abbiamo costruito coalizioni con M5S e sinistra in 4 regioni su 5 e in 22 capoluoghi su 27. Sono soddisfatta del lavoro fatto. Su Bari e Firenze ho fiducia, pur senza dare nulla per scontato: abbiamo delle squadre molto forti. Sui numeri delle città dove vinceremo non fisso asticelle perché porta iella.

Perché ha accettato di fare il confronto tv con Meloni sulla Rai e da Vespa? Non le pare un set molto più favorevole alla premier?

Fin dall’inizio ho detto che avrei fatto il confronto ovunque e sono stata coerente, nonostante la nostra battaglia l’occupazione militare della Rai che è diventata un megafono del governo. Ho accettato di farlo anche lì

 

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La senatrice a vita interviene in aula e boccia il ddl Casellati contro il rischio autocrazia

 Liliana Segre durante il discorso in aula - foto Ansa

Che Liliana Segre avrebbe fatto nell’Aula del Senato un intervento sul premierato all’insegna della franchezza era trapelato. Ma lo spessore morale della senatrice a vita, chiamata a Palazzo Madama dal presidente Mattarella, ha reso gli argomenti espressi ieri contro il ddl Casellati come macigni in grado di seppellire il testo, anche di fronte all’opinione pubblica se il centrodestra volesse correre verso il referendum.

Liliana Segre

Illimitata compressione della rappresentatività dell’assemblea parlamentare e drastico declassamento a danno del presidente della Repubblica
LA CRONACA DELLA GIORNATA è iniziata ieri mattina sulle pagine del Corriere della Sera, dove il prof Angelo Panebianco ha invitato la maggioranza a modificare il ddl sul premierato elettivo accettando le migliorie ( ballottaggio, voto degli italiani all’estero, ecc) indicate da una serie di costituzionalisti e studiosi. Per rafforzare il suo ragionamento Panebianco ha attaccato «l’opposizione intransigente dei soliti noti, quelli che ’non si tocca la Costituzione nata dalla Resistenza’». Un colpo al cerchio e uno alla botte nella speranza di farsi sentire dal centrodestra.

Nel pomeriggio in Senato è ripresa la discussione generale sul ddl Casellati, fase che dovrebbe chiudersi domani mattina. E qui l’intervento della senatrice Segre, prima ancora degli argomenti, ha mostrato una lucidità politica sullo stato del dibattito: la maggioranza è chiusa nel patto Lega-Fdi su autonomia e premierato, e quindi è sorda a qualsiasi istanza estranea a tale accordo. Un punto che Panebianco non ha ancora capito. Di qui la scelta di Segre della franchezza, resa ancora più forte dal sul tono pacato.

«IL TENTATIVO DI FORZARE un sistema di democrazia parlamentare introducendo l’elezione diretta del capo del governo», ha detto Segre, comporta «il rischio di produrre un’abnorme lesione della rappresentatività del parlamento, ove si pretenda di creare a qualunque costo una maggioranza al servizio del Presidente eletto, attraverso artifici maggioritari tali da stravolgere al di là di ogni ragionevolezza le libere scelte del corpo elettorale». «Infatti, l’inedito inserimento in Costituzione della prescrizione di una legge elettorale che deve tassativamente garantire, sempre, mediante un premio, una maggioranza dei seggi a sostegno del capo del governo, fa sì che nessuna legge ordinaria potrà mai prevedere una soglia minima al di sotto della quale il premio non venga assegnato».

Insomma una «illimitata compressione della rappresentatività dell’assemblea parlamentare». «Ulteriore motivo di allarme – ha insistito Segre – è provocato dal drastico declassamento che la riforma produce a danno del Presidente della Repubblica». «E la preoccupazione aumenta per il fatto che anche la carica di Presidente della Repubblica può rientrare nel bottino che il partito o la coalizione che vince le elezioni politiche ottiene, in un colpo solo, grazie al premio di maggioranza». «Ciò significa che il partito o la coalizione vincente – che come si è visto potrebbe essere espressione di una porzione anche assai ridotta dell’elettorato – sarebbe in grado di conquistare in un unico appuntamento elettorale il Presidente del Consiglio e il governo, la maggioranza assoluta dei senatori e dei deputati, il Presidente della Repubblica e, di conseguenza, anche il controllo della Corte Costituzionale e degli altri organismi di garanzia. Il tutto sotto il dominio assoluto di un capo del governo dotato di fatto di un potere di vita e di morte sul Parlamento». E poi la chiusa impietosa: «Non tutto può essere sacrificato in nome dello slogan ’scegliete voi il capo del governo!’ Anche le tribù della preistoria avevano un capo, ma solo le democrazie costituzionali hanno separazione dei poteri, controlli e bilanciamenti, cioè gli argini per evitare di ricadere in quelle autocrazie contro le quali tutte le Costituzioni sono nate».

LA PREMIER Giorgia Meloni, a fronte delle argomentazioni di Segre non ha saputo far altro che ribadire che si va avanti a testa bassa verso il referendum: «Non è un referendum sul presente, vedo sempre tirare per la giacchetta il presidente della Repubblica ma nel 2028 saremo anche verso la fine del mandato di Sergio Mattarella, è una riforma che guarda al futuro».

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La presidente della Commissione europea in campagna elettorale per un secondo mandato arriva a Roma, ma la lasciano sola. Perno di un’alleanza a Bruxelles tra i popolari e la destra, viene tenuta lontana persino dalla «sua» Forza Italia. E Meloni preferisce nascondersi

IN CERCA DEL BIS. Restare in silenzio una volta lasciato il potere è una scelta legittima e perfino ammirevole. Nondimeno l’ermetico silenzio di Angela Merkel, più ancora della sua assenza, la settimana scorsa, dal […]

Restare in silenzio una volta lasciato il potere è una scelta legittima e perfino ammirevole. Nondimeno l’ermetico silenzio di Angela Merkel, più ancora della sua assenza, la settimana scorsa, dal congresso berlinese di quello che fu il partito che guidava, ci dice molte cose. Ma soprattutto una: l’attuale Germania ha ben poco a che vedere con quella che abbiamo conosciuto durante il suo lungo cancellierato. E la Cdu, partito di maggioranza relativa, si sta prendendo la rivincita sulla politica di Angela Merkel e la sua popolarità, ampiamente sfruttata ma mai davvero digerita. Un ampio spazio a destra è oggi al centro della contesa: tentare di conquistarlo accentuando i propri tratti reazionari (e compromettendo così definitivamente il rapporto con i socialisti in Europa) o rassegnarsi a un’alleanza con almeno una parte dell’estrema destra? Un dilemma che insidia la campagna elettorale di Ursula von der Leyen per restare alla presidenza della Commissione.

Tre punti sono sufficienti a chiarire la differenza tra la Germania della Cancelliera e quella attuale. Fu Merkel ad abolire quel servizio di leva obbligatorio che ora la Cdu e in particolare la sua patriottica federazione giovanile decidono di reintrodurre, sia pure con l’ausilio di formule graduali e rassicuranti. Certo, di mezzo c’è una guerra in corso in piena Europa, ma le risposte potevano essere molto diverse dalla coscrizione e da smisurate politiche di riarmo che non rafforzerebbero l’indipendenza e il peso del Vecchio continente comunque impossibile da conseguire, sia verso est che verso ovest, sul piano della potenza militare.

Di fronte a una delle più imponenti ondate di profughi che avessero investito la Germania, Merkel aveva pronunciato il famoso

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Partono gli ordini di evacuazione, decine di migliaia di palestinesi in fuga dal sud della Striscia, ma Israele colpisce ormai ovunque, anche se il leader di Hamas non è più lì. Il dipartimento di Stato: le armi Usa “potrebbero” aver violato il diritto umanitario

STATO DI PALESTINA. Usa e Occidente vogliono i palestinesi non come soggetti aventi diritti, ma come ombre elemosinanti ridotte ad una subalternità che cancelli le aspirazioni umane e politiche

Una protesta pro Palestina in California Una protesta pro Palestina in California - Ap

Il voto a schiacciante maggioranza dell’Assemblea dell’Onu che riconosce il pieno titolo dello Stato di Palestina ad essere ammesso alle Nazioni unite è atto formale e simbolico, decide il Consiglio di sicurezza. Ma esistono momenti nella storia non solo dei popoli, anche individuali e di classe, in cui eventi “simbolici” acquistano una valenza ben superiore al loro effettivo contenuto.

È questo il caso della risoluzione approvata venerdì sera. Che 143 paesi, con una rilevanza del Sud del mondo e con una Europa a dir poco divisa – Francia, Spagna e Germania hanno approvato – abbiano votato a favore mentre 25 si sono astenuti e 9 hanno votato contro, non è cosa da poco mentre è in discussione l’intera esistenza del popolo palestinese.

Non si capirebbe altrimenti la rabbiosa reazione del rappresentante israeliano che accusando l’Assemblea «di avere aperto la porta ai nuovi nazisti» e «di avere fatto a pezzi la Carta dell’Onu», ha platealmente strappato nella macchina trinciacarta la Carta medesima – come se i governi israeliani non l’avessero fatta a pezzi da tempo, misconoscendo tutte le Risoluzioni dell’Onu che dal 1967 impongono ad Israele di ritirarsi dall’occupazione militare dei Territori palestinesi.

Così come non è inutile scoprire che tra gli astenuti c’è l’Ucraina che combatte contro l’aggressione russa e vuole armi per i territori occupati (del Donbass) ma si volta dall’altra parte rispetto a territori occupati palestinesi; e c’è l’Italia, ai margini della storia, a chiacchiere meloniane impegnata sul Sud del mondo con il suo neocoloniale Piano Mattei, per poi scoprire che vota all’opposto del Sud del Mondo e sui diritti della Palestina tace e acconsente; ecco poi tra i contrari le “perle democratiche” di Argentina, Ungheria e della neoatlantica Repubblica ceca.

E gli Stati uniti, che solo ad aprile hanno posto il veto su questo tema al Consiglio di sicurezza, con motivazioni balbettanti che rasentano il comico se non fossero tragiche: «L’adozione di questa risoluzione non porterà cambiamenti tangibili ai palestinesi, non metterà fine ai combattimenti a Gaza né fornirà cibo, medicinali e riparo ai civili. È qui che si concentrano

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AUTONOMIA DIFFERENZIATA . Pur essendo l’autonomia differenziata un pericolo per l’intero Paese – che rischia di perdere la capacità di realizzare politiche economiche, sociali, ambientali, culturali di livello nazionale -, è fuor di […]

Attacco al Sud, complice la destra «meridionalista»

 Pur essendo l’autonomia differenziata un pericolo per l’intero Paese – che rischia di perdere la capacità di realizzare politiche economiche, sociali, ambientali, culturali di livello nazionale -, è fuor di dubbio che a pagare le maggiori conseguenze della sua realizzazione saranno le regioni meridionali. Tutti gli studi certificano l’enorme divario nelle prestazioni pubbliche rese al Sud rispetto a quelle rese al Nord; lo stesso dicasi per le dotazioni infrastrutturali. Che si tratti di curare una malattia o prendere un treno, trovare un’opportunità di lavoro o iscrivere un figlio all’asilo, decisivo è il luogo in cui si abita. Addirittura, quanto a lungo e in quali condizioni di salute si vivrà dipende dal luogo di residenza, con differenze misurabili oramai in lustri per la vita in salute e senza limitazioni. Ripianare la situazione è l’urgenza che dovrebbe essere assunta a principale obiettivo da tutta la politica italiana. I calcoli misurano in circa cento miliardi l’impegno economico necessario: una somma enorme, da spendere interamente al Sud affinché a tutti gli italiani sia garantito lo stesso livello di attuazione dei diritti di cui attualmente godono i cittadini del Nord.

L’autonomia differenziata va nella direzione esattamente opposta. I presidenti delle regioni settentrionali (Fontana, Zaia, Cirio) rivendicano apertamente le tasse raccolte sul territorio delle loro regioni; Calderoli accusa i territori meridionali di egoismo perché si oppongono a tale disegno. Come se le tasse fossero di pertinenza delle regioni in cui i cittadini le pagano, e non dell’erario statale a cui effettivamente sono versate. Un modo nemmeno tanto nascosto per demolire l’idea stessa di cittadinanza nazionale, a favore di una pletora di cittadinanze regionali, in patente violazione dell’unità della Repubblica sancita, come principio fondamentale, dall’articolo 5 della Costituzione.

Sul punto, il disegno di legge Calderoli che sta per essere approvato dal Parlamento fa il gioco delle tre carte. Mentre si propone di aumentare le risorse per le regioni differenziate, tenendo conto del gettito tributario raccolto su loro territorio, nel contempo promette di non diminuire i finanziamenti alle altre regioni e persino di operare la perequazione inter-regionale: il tutto – e qui sta il trucco del prestigiatore – senza che ne derivino nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica. C’è davvero qualcuno disposto a crederlo? Per quanto sorprendente possa essere, qualcuno c’è: gli esponenti delle forze politiche di maggioranza eletti al Sud, in procinto di farsi volenterosi carnefici dei territori che rappresentano. A giustificazione della sua posizione, la destra meridionale si fa scudo di un’altra promessa contenuta nel progetto Calderoli: la definizione e il finanziamento dei livelli essenziali delle prestazioni (Lep) inerenti ai diritti civili e sociali da garantirsi uniformemente su tutto il territorio nazionale. Secondo la legge in via di approvazione, senza i Lep l’autonomia differenziata non potrà partire. E quindi: prima i cento miliardi al Sud, poi i nuovi poteri al Nord. È quel che, tra gli altri, va ripetendo da mesi Occhiuto, il presidente della Regione Calabria. Ingenuità o malizia?

La verità è che la legge Calderoli non ha alcun potere di impedire che le leggi sulle nuove competenze al Veneto, alla Lombardia e all’Emilia-Romagna siano approvate senza che prima siano definiti e finanziati i Lep. Fonti del diritto pari ordinate non possono vincolarsi l’una con l’altra: solo una fonte di rango superiore potrebbe farlo verso quelle inferiori. Se il vincolo fosse contenuto in una legge costituzionale, allora sì che l’autonomia differenziata sarebbe subordinata alla previa definizione dei Lep. Essendo invece contenuto in una legge ordinaria, il vincolo potrà essere semplicemente ignorato dalle leggi che, recependo le intese con le regioni del Nord, assegneranno loro, assieme ai nuovi poteri, i relativi finanziamenti, ulteriormente impoverendo il Mezzogiorno.
Se i parlamentari di maggioranza eletti al Sud vorranno farsi complici di questo disegno, che almeno ne assumano apertamente la responsabilità politica, senza (far finta di?) farsi abbindolare da promesse prive di ogni credibilità

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RIFORME. L’Ufficio studi di palazzo Madama evidenzia le incongruenze e le ambiguità del ddl Casellati, osservate anche dai costituzionaliasti. La discussione generale sul testo riprende martedì. La maggioranza leggerà i rilievi?

 La ministra Casellati - foto di Maurizio Brambatti/Ansa

L’ufficio studi del Senato non ha fatto sconti al ddl Casellati sul premierato elettivo. Con un linguaggio più paludato del consueto – la pressione sui dipendenti di Palazzo Madama è forte – il dossier preparato per l’approdo in Aula del testo, ne evidenzia tutti i “bachi” e i “buchi” a partire dal fatto che vengono taciuti una serie di elementi necessari, rimandandoli alla legge elettorale. La discussione generale sul testo riprenderà martedì alle 16 e l’auspicio è che anche nella maggioranza vengano letti questi rilievi.

I dossier del Servizio studi ordinariamente segnalavano gli elementi su cui intervenire con una esortazione («si valuti l’opportunità di…») che nel caso del premierato viene evitata; tuttavia altre espressioni («rimane da approfondire» o «appare da approfondire») pur attenuate, sono altrettanto indicative, mentre il ripetuto «pare» segnala che il testo è ambiguo, che può essere interpretato in vari modi.

LA PRIMA INCONGRUENZA riguarda l’elemento centrale del ddl, racchiuso nel comma: «Il Presidente del Consiglio è eletto a suffragio universale e diretto per la durata di cinque anni». «Pare – osserva il dossier – così esser fatto proprio un modello di ‘governo di legislatura’». E però il ddl Casellati prevede la possibilità di un secondo premier che subentra a quello eletto, e anche «apposite fattispecie di scioglimento ‘necessitato’ delle Camere», Camere che quindi durerebbero meno dei cinque anni del mandato del premier eletto. Insomma è quello che hanno detto tutti i costituzionalisti ascoltati in audizione: la durata della legislatura, nei regimi parlamentari, è quella del parlamento. Per un mandato elettivo diretto può essere indicata la durata, come avviene negli Usa o in Francia per il presidente, ma non quando questo dipende dalla fiducia del parlamento la cui legislatura può durare meno. Errore da matita blu.

L’ALTRO ELEMENTO che i funzionari di Palazzo Madama chiedono esplicitamente di «approfondire» è apparentemente più tecnico, ma nasconde un “baco” che può creare un cortocircuito istituzionale: «Il Presidente del Consiglio è eletto nella Camera nella quale abbia presentato la sua candidatura», afferma il ddl per fugare il fantasma di presidenti del consiglio tecnici. Ma allora «la legge elettorale dovrà prevedere forme di collegamento fra la candidatura a Presidente del Consiglio e la candidatura a parlamentare, tali da garantire che l’elezione a Presidente del Consiglio comporti comunque anche l’elezione alla Camera per la quale il Presidente eletto abbia presentato la sua candidatura a parlamentare». Detta altrimenti: una legge elettorale che garantisca l’elezione di un candidato, seppur aspirante anche alla carica di premier è un tantino incostituzionale. Non solo: rimane «da approfondire, si direbbe, la questione della cosiddetta verifica dei poteri da parte della Camera di appartenenza ai sensi dell’articolo 66 della Costituzione, non inciso dal progetto di riforma». Infatti la Camera di appartenenza – nella apposita Giunta per le elezioni – deve controllare che tutti gli eletti abbiano i requisiti per la loro eleggibilità, o viceversa che non risultino ex post ineleggibili. Se il candidato premier viene eletto c’è anche la garanzia che non incappi nelle verifiche previste dall’articolo 66 della Costituzione?

IL DOSSIER OSSERVA POI anodinamente, senza espresso invito ad «approfondire» una serie di “buchi” del ddl rimasti nella penna della ministra Casellati e dei suoi sherpa e «demandati alla futura legge elettorale», come ripetutamente viene osservato. «La legge – viene annotato – dovrà dunque definire se la votazione per l’elezione del Presidente del Consiglio avvenga su una scheda a sé o avvalendosi delle schede per l’elezione di Camera e Senato, e quale strumentazione sia volta a regolare o contenere le possibilità di un voto ‘disgiunto’, ad esempio nell’ipotesi in cui l’elettore voti in modo del tutto diverso tra Camera dei deputati e Senato della Repubblica». Ma impedire all’elettore la libertà di scelta dei propri rappresentanti, imponendogli di scegliere all’interno della stessa coalizione senatore e deputato, è illegittimo. Lo ha detto la Corte costituzionale nella sentenza 1 del 2014.

ALTRI PUNTI CHE L’UFFICIO studi osserva siano stati impropriamente rinviati alla legge elettorale riguardano il ballottaggio (mentre al contrario viene costituzionalizzato il premio di maggioranza), le soglie minime (sia per il candidato premier che per le due Camere). Inoltre c’è la grave omissione nel chiarire il peso del voto degli italiani all’estero («parrebbe da approfondire il tema del concorso del voto all’estero al premio di maggioranza, tale da incidere sull’attribuzione di seggi di ‘altri’ rispetto a quelli costituzionalmente assegnati alla circoscrizione Estero»), elemento sottolineato lunedì scorso anche dai costituzionalisti di Magna Carta, LibertàEguale, Io cambio e Riformismo e Libertà

 

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