SCAFFALE. «I non rappresentati. Esclusi, arrabbiati, disillusi» di Valentina Pazé, pubblicato da Ega
«Tra rappresentanza e democrazia è in corso un divorzio»: è netto il giudizio espresso da Valentina Pazé nel suo ultimo libro, I non rappresentati. Esclusi, arrabbiati, disillusi (Ega, Edizioni Gruppo Abele pp. 144, euro 14), un’incalzante riflessione sulla crisi della partecipazione collettiva: probabilmente, il male principale della politica contemporanea.
Democratico – argomenta l’autrice – è il sistema in cui tutti coloro che sono tenuti a obbedire alle leggi (in quanto sudditi) hanno il diritto di contribuire, direttamente o indirettamente, alla loro elaborazione (in quanto cittadini). È questa la ragione per cui i non rappresentati, a cui è intitolato il libro, mettono in crisi il paradigma democratico.
MA, CHI SONO i non rappresentati? L’autrice distingue tre categorie: coloro cui è negato il diritto di voto (gli esclusi di diritto); coloro che sono privati di rappresentanti dal sistema elettorale (gli esclusi di fatto); coloro che si astengono (gli autoesclusi).
Esclusi di diritto sono gli stranieri. Ma perché sono esclusi? «Ciò su cui mi sembra interessante riflettere – scrive Pazé – è l’assenza di qualsivoglia motivazione a sostegno di questo tipo di esclusione». Se in passato le esclusioni di diritto dei poveri e delle donne erano motivate da incapacità (stato di minorità), dipendenza (dai datori di lavoro o dai mariti), disinteresse (dal momento che si riteneva che cuore della decisione politica fosse la proprietà), già in Aristotele l’esclusione degli stranieri rimane immotivata: esattamente com’è oggi.
Gli esclusi di fatto sono tali per effetto della forma di governo e della legge elettorale. A produrre esclusione sono il presidenzialismo e il maggioritario; generano invece inclusione i sistemi parlamentari a rappresentanza proporzionale. Più in generale, a incidere sulla torsione escludente dei sistemi costituzionali è la polemica contro i partiti, che in Italia si è espressa, e si esprime, in due filoni: l’antipartitismo, che dall’Uomo qualunque arriva al Movimento 5 Stelle; e la democrazia d’investitura, che dalla «grande riforma» di Amato e Craxi arriva all’odierno premierato.
INFINE, GLI AUTOESCLUSI, vale a dire gli astenuti, in relazione ai quali la questione è se siano tali davvero per loro scelta. L’astensione è un fenomeno alimentato da sentimenti politici diversissimi: alcuni si astengono per apatia, altri, all’opposto, per protesta. È un fatto, tuttavia, che la gran parte dei non votanti siano persone socialmente svantaggiate. A colpire – afferma Pazé – è soprattutto «il fatto, per molti versi sorprendente e paradossale, che coloro che oggi sembrano non volere essere rappresentati corrispondono, ormai da qualche decennio, a coloro a cui un tempo la partecipazione era negata» di diritto. Per i titolari del potere, è tutt’altro che un problema.
LE TESI DI STUART MILL sul voto plurimo, la polemica di Schumpeter contro il «cittadino medio», il rapporto alla Trilateral Commission sull’«eccesso di democrazia» si sposano perfettamente con la visione degli odierni fautori della tecnocrazia neoliberista, per i quali è compito dei «migliori» proteggere il popolo dai suoi stessi errori.
Per combattere questa deriva sarebbe necessario ricostruire forme di aggregazione politica capaci di produrre inclusione sociale, così come un tempo la producevano i partiti, ma ad agire da ostacolo – spiega Pazé – è il «singolarismo radicale», versione estrema dell’individualismo che, reclamando immediatezza contro il compromesso e l’intermediazione, risulta naturalmente esposto alle sirene della democrazia diretta, del sorteggio, della democrazia partecipativa e simili. Il risultato è il proliferare di rivendicazioni microidentitarie, incentrate sul sé, mentre oggetto di rifiuto è la dimensione politica incentrata sul collettivo.
Ricostruire la dimensione sovraindividuale è la sfida: il punto è tornare a comprendere che la politica non può limitarsi a registrare le istanze provenienti dalle singole componenti della società (cosa che, pure, oggi sarebbe già molto), ma deve ricominciare a elaborare identità sovraindividuali in cui le persone possano trovare coscienza che i problemi che le riguardano hanno natura collettiva e sono, dunque, bisognosi di soluzioni collettive
UNO DOPO L'ALTRO. Se tutto questo è inaccettabile, e se la strage è quotidiana, e infinita, un altro modo per non restare a guardare dovrà pur esistere. Un tempo si chiamava contropotere
A una manifestazione contro le stragi sul lavoro - LaPresse
Ancora prima che un’improvvisa illuminazione apra le menti di questo governo, ci sarà un modo per arrestare dal basso, con i lavoratori, il sistema del lavoro fondato su appalti, subappalti a cascata e precarietà che ha ucciso 191 persone fino ad oggi e ha provocato le tre stragi di Casteldaccia a Palermo (5 morti), Esselunga a Firenze (5 morti), Suviana nel Bolognese (7 morti).
Non abbiamo molti elementi per credere che lo si possa fare con quello strumento aberrante, sul piano etico e anche su quello dell’economia comportamentale, che considera i morti sul lavoro come «crediti» su una patente.
Uno strumento che valuta la vita in termini di punteggio dopo che un incidente si è verificato. Stiamo parlando della misura simbolo della «patente a crediti» che il governo Meloni intende istituire tra cinque mesi, cioè dal prossimo primo ottobre. La misura è contenuta nel «pacchetto sicurezza» dei decreti Pnrr e Coesione. In queste ore si attende l’emanazione di un decreto attuativo. La ministra del lavoro Marina Calderone ha promesso che arriverà in tempi «strettissimi».
Che arrivi prima di subito, o dopo, uno strano senso della predestinazione continuerà a impadronirsi di noi. Il sistema mieterà altre vittime. Speriamo vivamente di no. Ma la speranza, in questo capitalismo, è vana.
Soffocati dal gas, cinque operai morti nel palermitano
Ieri, dopo l’ultima tragedia nel palermitano, i sindacati dei lavoratori delle costruzioni hanno posto un’alternativa radicale: «O cambiano le cose, oppure proseguiremo la mobilitazione ad oltranza». Per forza di cose, con tre morti in media al giorno, questa mobilitazione c’è già. Come anche gli scioperi.
Si potrebbe rilanciare.
Perché non strutturare la mobilitazione e pensare anche a gruppi di autodifesa operaia? A turno, e secondo le disponibilità, insieme ai sindacati, potrebbero iniziare a fare contro-informazione, tenere i contatti con una forza lavoro dispersa sul territorio, nell’impresa diffusa, e invisibile dei subappalti. Sensibilizzare l’opinione pubblica. Potrebbero intervenire sui fronti di questa «guerra»: nei cantieri, per strada, nei tombini, in cielo tra le gru, a mezz’aria sulle impalcature, sottoterra nelle fogne.
Se funzionasse, ciò permetterebbe di trovare uno strumento di pressione in più a sostegno dell’instancabile richiesta dei sindacati di incontrare un governo impreparato – ma quale non lo è – e ottenere qualcosa in più di un altro tavolo tecnico dove l’esecutivo espone decisioni già prese.
Lo sappiamo: i rapporti di forza sono sfavorevoli, la legislazione è precaria, la formazione non basta, le norme che esistono non sono applicate, l’ispettorato del lavoro fatica. Tutto sembra dovere andare come va, mandando al macello chi lavora per vivere.
Ma se tutto questo è inaccettabile, e se la strage è quotidiana, e infinita, un altro modo per non restare a guardare dovrà pur esistere. Un tempo si chiamava contropotere
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CAMPUS LARGO. In gioco non c’è solo la libertà accademica, ma la stessa idea che una società libera si distingue da un regime autoritario per la tolleranza che mostra per i dissidenti. Se la faccia del liberalismo occidentale è coperta dal casco di un poliziotto, diventa molto difficile distinguerla da quella degli «aspiranti fascisti»
La forza non è un surrogato della verità. In diverse università degli Stati uniti è in corso una repressione violenta delle proteste studentesche. E ciò avviene con la copertura di esponenti del partito democratico che, dalla Casa bianca in giù, usano il pretesto dell’antisemitismo per legittimare l’uso della forza, nonostante sia ben chiaro, a chiunque avesse voglia di accertare come stanno le cose, che tra i gli studenti che dimostrano contro la politica del governo Netanyahu ci sono anche molti ebrei, come testimoniano diversi organi di stampa, a partire dal quotidiano Haaretz.
Si fatica a comprendere quale sia il calcolo politico che ha spinto Joe Biden a dare di fatto «luce verde» a una repressione così massiccia e indiscriminata, a pochi mesi da un’elezione in cui i sondaggi lo vedono in calo dei consensi proprio tra gli elettori più giovani e tra quelli che appartengono alle minoranze che sono più sensibili alla questione palestinese (non solo i cittadini di origine araba, ma anche coloro che appartengono a altre minoranze, per le quali espressioni come «apartheid» o «colonialismo» non sono soltanto temi di interesse accademico).
Scontri e repressione. La polizia sgombera gli studenti dell’Ucla
BIDEN sembra disposto a perdere le elezioni pur di non far mancare il proprio sostegno al governo più screditato della storia di Israele e nonostante una vittoria di Trump sarebbe probabilmente un disastro per tutti, sia negli Stati uniti sia nel resto del mondo.
Non può essere solo l’età, che pure ha un peso, a giustificare una politica così ottusa (Bernie Sanders, per fare un esempio, non è certo un ragazzino, eppure sulla questione di Gaza ha una linea molto più equilibrata: inflessibile contro i rigurgiti di antisemitismo, che ci sono, in qualche caso anche tra gli studenti, ma ferma nella difesa dei diritti dei palestinesi e prima di tutto nella richiesta di iniziative più efficaci per arrivare rapidamente al cessate il fuoco e alla liberazione degli ostaggi israeliani ancora nelle mani di Hamas).
Nei prossimi mesi ci saranno domande spiacevoli a cui dovremo sforzarci di trovare una risposta. Domande che hanno a che fare anche, lo dico con dolore, con l’insensibilità dei liberali nei confronti delle ragioni di chi ha subito, e in qualche caso ancora subisce, il dominio coloniale europeo nel Medio Oriente, in Africa, in Asia e anche nelle Americhe.
La forza non è un surrogato della ragione. Eppure, nell’attacco alle università che vede alleati i repubblicani e una parte dell’establishment democratico si trasmette proprio questo messaggio, con conseguenze che potrebbero essere devastanti per gli orientamenti politici di una generazione.
Nei luoghi che dovrebbero essere il polmone che consente all’opinione pubblica democratica di avere l’ossigeno che le serve per rimanere in buona salute si tenta di soffocare il dissenso invece di riportarlo all’interno di una sana dialettica e di un possibile compromesso (che qualche università si sia per ora sottratta al riflesso condizionato della repressione, lascia aperto uno spiraglio alla speranza, ma temo che sia troppo poco e troppo tardi per evitare il danno).
In gioco non c’è solo la libertà accademica, che i cultori dell’università corporate ritengono meno importante della tutela del diritto di proprietà, ma la stessa idea che una società libera si distingua da un regime autoritario per la tolleranza che mostra per i dissidenti, anche quando esercitano forme di disobbedienza civile che comportano la violazione della legge.
LE PAGINE di John Rawls e Hannah Arendt stanno ritornando di stringente attualità e denunciano il vuoto di legittimazione morale che c’è al cuore del neoliberalismo contemporaneo, che ha sostituito l’imperativo del profitto all’eguale rispetto per ciascuno.
Gli eventi di questi giorni negli Usa ci riguardano. Le destre, sempre più forti e arroganti in Europa, guardano con compiacimento a quel che accade oltre oceano. Se la faccia del liberalismo occidentale è coperta dal casco di un poliziotto in tenuta antisommossa, diventa molto difficile distinguerla da quella degli «aspiranti fascisti» (come li chiama Federico Finchelstein) che tra qualche mese potrebbero avere un peso ancora maggiore anche qui da noi.
Commenta (0 Commenti)25 APRILE - 1 MAGGIO. Non si sono ancora spenti gli echi delle grandi manifestazioni del 25 aprile che arriva oggi la data simbolo della riscossa operaia, dell’autonomia di classe, del senso di dignità del […]
Una manifestazione dei Fridays for future
Non si sono ancora spenti gli echi delle grandi manifestazioni del 25 aprile che arriva oggi la data simbolo della riscossa operaia, dell’autonomia di classe, del senso di dignità del lavoro. Ed è una felice vicinanza quella del 1 maggio con la Liberazione, perché finalmente le riflessioni che vengono spontanee sono quelle sulle grandi questioni. Non solo dell’Italia ma dell’epoca digitale.
All’indomani del grande corteo di Milano, lo scrittore Giacomo Papi osservava che tra le mille voci che si erano levate dai 200 mila, pochissime, se non assenti, erano le voci sullo sfruttamento del lavoro e sulla miserabile condizione dell’occupazione giovanile. E aggiungeva che le bandiere palestinesi erano l’«unico vero collante simbolico e identitario della protesta giovanile». A noi operaisti incalliti viene subito da pensare: ma come, questi ragazzi pretendono di battersi per i diritti altrui e dimenticano o non ne vogliono sapere di battersi per i diritti propri? Poi qualcuno ci suggerisce che la cosa è più complessa. I ragazzi provano un senso d’identificazione col popolo palestinese, lo sentono simile al loro destino. Che è quello di non poter sperare in un futuro.
È vero, la catastrofe climatica ha contribuito a risvegliare la vecchia ossessione del no future ma sarebbe sbagliato sottovalutare il peso che può avere avuto la questione «lavoro» nel produrre questa disperazione.
Perché siamo anche oltre la precarietà, la gig economy, il lavoro povero, siamo entrati in un sistema dove il concetto di «lavoro» non è più legato a un progetto di vita, a un’identità professionale, mentre allo stesso tempo l’esistenza sociale dell’umanità viene sempre più ridotta al mero consumo.
Ma poi qualcuno ci tira per la giacca: «Inutile ripeterle queste cose, guardiamoci attorno. Il lavoro c’era in piazza, eccome, magari era dietro allo striscione Filcams Cgil, pieno di donne e uomini del commercio, della ristorazione, del turismo. Stavano al posto di quelle che negli anni Settanta erano le tute bianche della Pirelli o le tute blu della Breda».
Verissimo, è la forza lavoro della Milano di oggi, quella delle cucine dei ristoranti, delle consegne a domicilio, degli eventi (appena chiuso un Fuorisalone sempre più squallido), la Milano di quelle e quelli che in un anno non riescono nemmeno ad avere cinque giornate coi contributi pagati.
È la Milano degli studi professionali, anche architetti di nome, dove ti tengono in stage e ti fanno firmare disegni coi dati falsificati per ottenere la licenza edilizia. Degli impiegati comunali, delle municipalizzate, che con 1.800 mensili lordi non campano. È la Milano dei marchi della Grande Distribuzione, Auchan, Carrefour, Coin, Decathlon, Despar, Esselunga, Ikea, Leroy Merlin, Metro, Ovs, Pam, Panorama, Rinascente, Zara… che hanno aspettato il 22 aprile per firmare un contratto scaduto a dicembre 2019! E per tutta la durata della pandemia hanno fatto lavorare la gente con contratto scaduto, se accettavano di riconvocare le parti promettevano una miseria, tipo 70 euro, per tirare avanti ancora un anno senza firmare.
Viste da vicino queste storie ti danno un’immagine talmente miserabile dell’imprenditoria e del management che governano
Leggi tutto: Antifascismo e anticapitalismo, il filo tra le due feste - di Sergio Fontegher Bologna
Commenta (0 Commenti)L’analisi di Stefano Palmieri (Cgil) sul nuovo documento europeo: la genesi e le conseguenze degli errori compiuti dal governo italiano e dalle istituzioni Ue
Il nuovo Patto di stabilità e crescita europeo, votato dal Parlamento Ue con l’astensione dei partiti di maggioranza italiani e non solamente, avrà delle ripercussioni non trascurabili sull’economia e la finanza nel nostro Paese, anche in termini di ritorno a politiche europee di austerità. Stefano Palmieri, dell’area Politiche europee e internazionali della Cgil, ci aiuta a comprendere i contenuti e la portata del nuovo Patto, così come le posizioni del nostro governo e gli errori compiuti.
“In realtà ci troviamo in una vera e propria Controriforma – esordisce Palmieri –. La proposta originaria della commissione dello scorso anno aveva degli elementi di continuità con quello che era l’approccio del Next generation Eu, centrato sulla solidarietà, dove i singoli stati membri concordavano insieme alla Commissione quelli che erano i percorsi di rientro dei propri debiti pubblici”.
Con la modifica introdotte dal Consiglio europeo “questo approccio è completamente neutralizzato. Si ritorna infatti a un approccio intergovernativo nel quale la Commissione non assume più il ruolo di partner degli Stati membri e insieme a loro decide un percorso di rientro dal debito, ma diventa un cane da guardia. Questo perché il Consiglio ha reintrodotto dei parametri numerici e quindi la commissione deve farli rispettare ai singoli Stati”.
Per quanto riguarda le procedure per l’individuazione di un percorso di rientro del debito, il nuovo Patto le complica “perché inserisce alcuni elementi di valutazione che sono particolarmente tecnici – afferma Palmieri – e li racchiude all’interno di un percorso, nel quale la sostenibilità del debito diventa una specie di scatola nera i cui meccanismi permangono sempre nell’ambito di una gestione tecnocratica. Questo non farà che altro che ampliare il divario tra i decisori tecnici che stanno a Bruxelles e i cittadini, la società civile, i lavoratori che subiranno le conseguenze economiche e sociali di queste decisioni”.
Ci sarebbe inoltre il rischio che sia cancellato il passo in avanti fatto con il debito comune europeo, inaugurato proprio con le misture per fare fronte all’effetto della pandemia, benché se ne sia tornato a parlare proprio in questi giorni come l’ultima spiaggia per potere rilanciare l’Unione europea. A questo proposito Palmieri afferma “che, in parte con il rapporto Letta e il rapporto Draghi, le sfide che l'Ue è chiamata ad affrontare sono centrate, ad esempio, sull’importanza di attuare beni pubblici europei. Questo comporta chiaramente la creazione delle risorse finanziarie per conseguire questi obiettivi, che sono poi gli stessi del Green Deal e del Ray Power Eu che chiedevano un investimento e addizionali di 620 miliardi di euro per assicurare la transizione energetica e di 125 miliardi per assicurare la transizione digitale”.
Si crea quindi un problema che si acuisce poi con “la necessità di avere fondi per la ricostruzione dell’Ucraina, per la realizzazione effettiva del pilastro europeo dei diritti sociali e per gli investimenti nella difesa che l’Unione europea sta mettendo in cantiere – prosegue –. Quindi molto probabilmente la questione del debito comune ritornerà per cercare di finanziare queste due grandi transizioni a cui sicuramente si dovrebbe aggiungere un’altra, quella della transizione sociale, perché queste due transizioni saranno possibili solamente se sostenute dai cittadini, dalle forze sociali e dalle organizzazioni della società civile”.
Quanto preme spiegare a Palmieri è che già sulla base della relazione della Commissione sul meccanismo di allerta nel 2024 “c’erano undici stati membri che presentavano squilibri eccessivi, tra questi Germania, Francia, Italia e Spagna che rappresentano il grande blocco economico dell’Unione europea e che alla luce di questa di questa nuova governance economica dovranno avere dei percorsi di rientro particolarmente sostenuti, che faranno ripiombare l’economia europea nell’ambito di una possibile recessione a seguito delle politiche di austerità che saranno attuate. Quindi si tratta di un meccanismo che non semplifica, ma casomai complica”.
Non ha quindi senso sostenere che queste regole sono meglio delle regole precedenti “perché le regole precedenti, per quanto erano assurde, non erano applicate, quindi francamente non si capisce il senso di questa di questa interpretazione.
Sulla base di rielaborazioni fatte dalla confederazione Europea dei sindacati, su stime fatte dal think tank a Bruxelles, “l’aggiustamento fiscale annuale per gli Stati membri fa sì che dovranno tagliare bilanci di oltre 100 miliardi di euro nei prossimi 4 anni – spiega l’economista della Cgil – e, tenendo conto quindi dei vincoli fiscali previsti da questa nuova governance, il numero degli Stati membri che saranno costretti a effettuare tagli passerebbe da quegli 11 detti prima a 24: come si possa pensare che questa è una riforma, francamente non lo so, è un po’ inspiegabile”.
È allora naturale chiedersi perché sia stata fatta una scelta come quella di questo nuovo Patto di stabilità e Palmieri si dice convinto che sia stata purtroppo attuata una strategia completamente errata da alcuni governi in sede di negoziati: “Credo che la proposta avanzata dalla Commissione europea, in primis dal commissario Gentiloni, era un'ottima proposta e che avevamo una presidenza del Consiglio, quella spagnola, che aveva sicuramente la possibilità di formare un consenso tra i governi attraverso un’alleanza tra governo italiano, spagnolo e francese per sostenere quella che sì era una riforma e farla approvare durante la stessa presidenza spagnola.
Purtroppo per errori di valutazione di alcuni governi, per primo il nostro che non è riuscito a trovare un'alleanza con francesi e spagnoli, non si è riusciti ad arrivare a un accordo sulla proposta originaria. Sono prevalsi i personalismi, che poco hanno a che fare con le politiche utili ai cittadini europei”.
Tutto ciò alla vigilia di una scadenza elettorale per l'Europa fondamentale, perché, come dice Palmieri, “tutto dipenderà da come sarà conformato il Parlamento europeo e da quale tipo di commissione arriveranno le scelte che dovranno essere fatte su sfide cruciali per l'Unione europea. Io non so quanto di tutto ciò impegnerà il dibattito in Italia. Si sta guardando più alla composizione delle liste che non ai contenuti che i candidati dee liste dovrebbero avanzare.
Governi nazionali e istituzioni europee nel corso di questi ultimi anni sono stati deficitari”, afferma citando un recente rapporto elaborato dalla Commissione europea che mostra come le regioni dove prevale l’euroscetticismo sono quelle che si trovano “nella trappola dello sviluppo, che è composta da mancata crescita dell’occupazione e della competitività”. Per questo motivo assistiamo all’avanzata dei partiti euroscettici.
A contribuire sono state anche le scelte sbagliate di governi internazionali, alcuni governi nazionali e di istituzioni europee. “Questo è il quadro un po’ sconfortante”, dice Palmieri, giungendo poi ad analizzare il voto contrario al Patto da parte dei partiti della maggioranza di governo in Italia. “L’esecutivo Meloni ha avuto un atteggiamento schizofrenico, perché in sede di Consiglio ha accettato il compromesso che era stato avanzato, circa quattro mesi fa, e ha votato senza fare obiezioni, salvo poi, all'interno del Parlamento europeo, vedere le forze di governo si sono astenute e questo è un comportamento incomprensibile”.
Un comportamento che è difficile spiegare in Europa per la sua incoerenza e “che poi si pagano in termini di alleanze”. “Il governo italiano – conclude l’economista della Cgil – non ha cercato alleanze con Paesi come Spagna, Francia e forse anche Germania per prendere il meglio della riforma e così ha perso una buona occasione”.
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MEMORIA VIVA. Per una corretta analisi storica, oltre a dar valore alla Resistenza, bisogna prevedere una martellante politica del ricordo di cosa è stata veramente la guerra di Mussolini
Quest’anno il 25 aprile ha acquistato un significato particolare perché ha voluto gridare in faccia al governo che l’Italia non è fascista. Ma questo non esaurisce il discorso, e non parlo del legame che la scadenza inevitabilmente rimanda alla tragedia palestinese.
Mi riferisco all’elaborazione della memoria della Resistenza, anzi più in generale all’elaborazione del passato fascista. Un problema dal quale né l’Italia né la Germania riescono a liberarsi e che ritorna periodicamente ogniqualvolta esso ricompare come passaggio ineludibile della coscienza collettiva, se non dell’identità stessa di una nazione.
Ci pensavo mentre rileggevo certi studi comparatistici di storici italiani e tedeschi, dove si solleva un problema non da poco: l’esaltazione della Resistenza come caratterizzazione dell’identità nazionale ci ha portato ad addossare tutte le responsabilità delle atrocità commesse ai militari tedeschi e ai corpi speciali del nazismo, come se gli Italiani (“brava gente”) non avessero collaborato ai rastrellamenti, alle deportazioni e alle torture.
Storia di un giorno irrinunciabile lungo ottant’anni
Ha prodotto una forma di autoassoluzione. Mi chiedo allora se una corretta elaborazione del passato fascista, oltre a dar valore alla Resistenza, non debba prevedere una martellante politica del ricordo di cosa è stata veramente la guerra di Mussolini. Per ricordare altre date, accanto al 25 aprile: il 10 giugno 1940, entrata in guerra e aggressione alla Francia (oltre all’apertura delle ostilità in Tunisia), il 28 ottobre 1940, inizio della campagna d’aggressione italiana in Jugoslavia, Albania e Grecia, il 13 luglio 1941, inizio della campagna d’aggressione all’Unione Sovietica. Per sottolineare anche “il modo” con cui Mussolini è entrato in guerra, con impreparazione totale sul piano organizzativo e militare, mandando allo sbaraglio centinaia di migliaia di soldati italiani, caduti per aver aggredito popoli che mai avevano minacciato l’integrità del nostro Paese.
Io sono convinto che le nuove generazioni di queste vicende ne sanno assai poco. Eppure è la storia delle loro famiglie. Forse sanno di più delle foibe e dell’esodo dall’Istria, cioè di un episodio marginale, se paragonato all’immensa tragedia della Seconda guerra mondiale.. È proprio il confronto tra un saper fare “politica del ricordo” della Destra d’indubbia efficacia, disponendo di un episodio marginale, e un’incapacità della Sinistra di controbattere disponendo di atti d’accusa contro Mussolini e il suo regime senza possibilità di appello che mi dà la sensazione di una sproporzione. Bisogna rimettere le cose a posto.
Per non dire del modo in cui Badoglio e il re gettarono nel disorientamento più totale centinaia di migliaia di soldati, consegnandoli alla vendetta tedesca dopo l’armistizio. I seicentomila Internati Militari in Germania e le decine di episodi dove l’orrore si mescola al grottesco. Come la storia dell’affondamento della corazzata “Roma”, qualche mese fa commemorata da Mattarella e Crosetto.
Le donne resistenti e la dittatura fascista che ci guarda
Corazzata “Roma”, costruita a Trieste, cantieri San Marco. Mio padre ci ha lavorato come progettista d’impianti elettrici. Varata nel 1940 ma ultimata solo nel 1942, ormeggiata alla base navale di La Spezia, in attesa di entrare in servizio subisce un bombardamento che provoca pochi danni. Luglio 1943 sbarco angloamericano in Sicilia. 8 settembre Badoglio firma l’armistizio, nella notte ai comandi della flotta arriva l’ordine di consegnarsi agli Alleati. Salpano in convoglio le navi, solo gli alti comandi sanno la destinazione. E le migliaia di uomini a bordo, sono ignari di tutto?
La destinazione è La Maddalena ma poche miglia prima dell’arrivo contrordine, la base è ancora in mano ai tedeschi. Sono circa le 15,0 del 9 settembre 1943, compaiono nei cieli dei bombardieri tedeschi. Uno sgancia sulla “Roma” due bombe teleguidate, la seconda provoca un incendio che si propaga al deposito munizioni. L’esplosione è spaventosa e provoca delle temperature altissime, dei 1.393 uomini che perdono la vita, molti saranno orribilmente ustionati. La nave si spezza in due, il relitto scompare negli abissi e non viene più ritrovato fino al 28 giugno 2012, quando dei robot sottomarini riescono a localizzarlo.
Nell’ottantesimo anniversario, il 9 settembre 2023, il Presidente Mattarella è presente alla cerimonia in ricordo di quel tragico evento, pronunciando parole chiare sull’”inganno” di cui sono rimaste vittime quei disgraziati. C’era anche Crosetto e dice: «Siamo qui, oggi, per portare il dovuto omaggio e perpetrare il ricordo dei 1.393 marinai italiani che trovarono sepoltura in queste acque, 80 anni fa, e – insieme – la perenne memoria di quello che significò per il nostro Paese il viaggio del Gruppo Navale della Regia Marina, ormeggiato a La Spezia, verso La Maddalena». La stampa, nelle cronache della cerimonia, non ha fatto parola del contesto in cui l’affondamento è avvenuto.
Perché sono morti quei ragazzi? In quale tipologia di narrazione iscriviamo questo evento bellico? Possiamo parlare di eroismo, di patriottismo, di epopea? Sono caduti in una trappola, ignari, come gattini ciechi, ingannati. Da chi? Da Mussolini o da Badoglio? Per strane associazioni d’idee mi viene da collegare Crosetto a Mussolini e Badoglio (e il re) alla famiglia Elkann, a Stellantis. Due forme di continuità. Perché non c’è antifascismo senza anticapitalismo. Così mi ha insegnato l’operaismo
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