Preparati dallo scandalo generale per la contestazione a Roccella, tornano i manganelli. Due ragazze in ospedale con ferite pesanti, erano lontane dall’evento sulla natalità contro il quale protestavano. Le botte di Roma come quelle di Pisa, ma ora tutti le giustificano
MANGANELLI DI STATO. Schlein e Conte gridano al regime se uno scrittore viene censurato in Rai, ma tacciono dopo l'ennesima repressione contro gli studenti che manifestano per il diritto di scegliere sui proprio corpi. Un silenzio assordante, quello delle opposizioni. Come se l'allarme democratico dovesse scattare se a essere colpito è un volto noto. E invece le antenne devono restare ben dritte quando le vittime sono i più deboli.
La polizia contro gli studenti venerdì a Roma - Lapresse
Un silenzio assordante delle opposizioni accompagna l’ennesima ingiustificabile repressione contro un gruppo di studenti delle superiori che manifestavano contro gli “Stati generali della natalità”. Eppure anche ieri a Roma, come a Pisa a febbraio, le immagini della violenza delle forze dell’ordine ai danni di un centinaio di giovanissimi disarmati sono terribili. In una di queste si vede una ragazzina con il sangue che esce da una ferita sulla testa, la maglietta bianca completamente coperta di rosso e una barella dell’ambulanza che le si avvicina.
Perché è stata colpita in modo così violento? Il ministro degli Interni Piantedosi non aveva detto di condividere il monito lanciato a febbraio dal presidente Mattarella, dopo i fatti di Pisa? «L’autorevolezza delle Forze dell’ordine non si misura sui manganelli ma sulla capacità di assicurare sicurezza tutelando, al contempo, la libertà di manifestare pubblicamente opinioni. Con i ragazzi i manganelli esprimono un fallimento», disse il capo dello Stato. Era meno di tre mesi fa. Da allora ci sono stati altri episodi di manganelli ingiustificati. Quali sono state in questi mesi le direttive impartite dal Viminale alle questure? Si è recepito il messaggio del Colle? Pare proprio di no. E qui entrano in gioco le opposizioni, ormai concentrate nella campagna delle europee.
Schlein è molto concentrata sulla campagna elettorale e, soprattutto, sul duello tv con Meloni, Conte su come non finire nel cono d’ombra della polarizzazione tra le due leader. Colpisce però la distanza tra le reazioni indignate dopo la censura Rai ad Antonio Scurati, alla viglia del 25 aprile, e il silenzio di ieri. Come se le opposizioni (tranne alcune rare eccezioni, come il dem Paolo Ciani, Massimiliano Smeriglio di Avs e qualche esponente romano di Pd e 5S che ieri si sono fatti sentire) scoprissero il regime incipiente solo quando a essere colpito è un volto noto, che sia lo scrittore o la conduttrice che ha denunciato la censura.
Se invece l’ipotetico regime se la prende con dei ragazzi delle superiori allora è meno regime, quasi ordinaria amministrazione. E del resto, giovedì, il coro di
Leggi tutto: Quando l’opposizione non si indigna - di Andrea Carugati
Commenta (0 Commenti)GIOVANNA MARINI. I due artisti morti lo stesso giorno inondano le bacheca dei social. Pur nella distanza, entrambi devono molto all'etnomusicologo Alan Lomax e amavano le frequenze medio-alte
Quante canzoni, quante immagini di Giovanna Marini e Steve Albini postate in queste ore sui social. La meravigliosa narratrice dei Treni di Reggio Calabria, e una delle figure più intense dell’etica punk anni ’90, chitarrista e produttore (lui preferiva il meno ingombrante tecnico) a dividersi l’attenzione secondo il rituale consueto del lutto in Rete. Un flusso sincero, generoso, moderatamente generazionale (lei 87 anni, lui 61). Dice molto di chi resta, cioè noi che li piangiamo. Vagheggia un tempo lontano in cui le cose promettevano meglio, la musica non era soltanto industria, e neppure la levigata macchina di oggi in tempi di streaming. C’era posto per l’umanità, la politica, la rabbia. Non è vero, non del tutto, come sappiamo, ma fa bene pensare ogni tanto a una via d’uscita.
Chissà cosa ne avrebbe pensato lei – la ricercatrice emula di Lomax e Carpitella – che aveva studiato la funzione del pianto rituale secondo le indicazioni di Ernesto De Martino, e lo aveva fatto entrare nel cuore del suo cantare: certe grida di testa dentro frasi acrobatiche, alla maniera dei madrigali antichi, mettevano assieme l’accettazione e la rabbia per ciò che si perde («e leva le gambe tue da questo regno/ persi le forze mie persi l’ingegno», Lamento per la morte di Pasolini) con un’intensità che mirava al cuore.
«TROVO l’heavy metal (…) comico – spiegava nel frattempo Steve Albini da un altro mondo – e l’hardcore punk infantile (…) Voglio fare qualcosa che sia intenso da sentire, piuttosto che avere solo gli indicatori codificati dell’intensità». Intensità. È il segno dell’umanità, qualcosa che abbia la forza di rompere la ripetizione e la morta noia del linguaggio quotidiano. Teniamocelo stretto.
Del tutto ovvio che soltanto il caso li mette accanto. A lei di rock piaceva Frank Zappa. E Giovanna Daffini, Phil Ochs, il folk revival che aveva conosciuto di persona nella borghese Boston dei primi anni ’60, la capacità delle parole in musica di illuminare la strada, soffiare nel vento, diffondere storie. Steve Albini al contrario era uno della nidiata dei Ramones, midwest, nerd sfigato, fanzinaro cattivissimo. Le parole avesse potuto le avrebbe fatte a pezzi: delle canzoni della sua band Big Black, piene di testi provocatori e scorretti ha ultimamente voluto chiedere scusa («facevo parte di quei privilegiati che non soffrivano davvero l’odio che era racchiuso in quelle parole»), un gesto non comune per tanti della sua generazione.
Ma se volessimo accettare il gioco si potrebbe aggiungere che entrambi amavano frequentare il medesimo spettro sonoro, le frequenze medio-alte della voce e delle chitarre, le vibrazioni non levigate dell’insubordinazione fonica, il qui e ora nelle esecuzioni dal vivo e durante il lavoro in studio. Nella lettera con la quale accetta di registrare lui a Chicago In Utero dei Nirvana (1993) Albini scrive: «Non ho un vangelo fisso di suoni standard o tecniche di registrazione (…) Mi piace lasciare spazio per gli incidenti o il caos». È uno dei documenti più importanti politico/estetici di quegli anni, spiega che non prenderà royalties sul disco perché «i compensi appartengono alla band» e aggiunge: «vorrei essere trattato come un idraulico».
Coi Big Black, Albini aveva frequentato il mondo dell’hardcore anni ’80 nell’America reganiana, girando in furgone, dormendo sui divani, vivendo la vita delle minuscole comunità di ragazzi venute su in ogni dove. Italia quanto sei lunga, ribadiva il magnifico diario di viaggio di Giovanna Marini, dieci o venti prima. Quando gli chiedevano se avesse un’ispirazione nel suo lavoro di produttore Albini diceva Alan Lomax, l’etnomusicologo. Anche Giovanna Marini doveva moltissimo a Lomax. Con Carpitella aveva percorso in furgone l’Italia salvando la nostra musica popolare prima della catastrofe e del festival di Sanremo (c’era già), spingendo giovani musicisti e ricercatori a fare altrettanto.
LA MUSICA popolare non è un genere. Neppure è un suono particolare, se non quello della presenza che Albini amava sentire con decine di vecchi microfoni sparsi nel suo studio. La musica popolare è soprattutto responsabilità nei confronti della propria comunità e delle sue storie. «Il treno che pareva un balcone/ ha ripreso la sua processione» cantava Giovanna Marini che su quei vagoni ci aveva passato davvero la notte. L’ultimo album degli Shellac di Steve Albini, già previsto in uscita il 17 maggio, si chiamerà To all trains, verso tutti i treni. Le coincidenze
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COMMENTI. Malgrado si rinfaccino le accuse, Pd e M5S soffrono lo stesso problema di non essere partiti capaci di promuovere l’integrazione sociale. Così consegnandosi fatalmente ai capibastone
Quando Giuseppe Conte parla di «cacicchi e capibastone», con riferimento al partito Democratico, denuncia problemi gravi e reali. Egli dimentica però che il suo partito offre storicamente ricette diverse ma con una caratteristica comune: sono parte del problema. E il problema è che non esistono più i partiti, o meglio, i partiti «di integrazione sociale», quelli che sono punto di riferimento di comunità locali, quelli che organizzano, articolano, rappresentano e mediano interessi, quelli che fanno crescere classe dirigente.
I capibastone pullulano in contesti segnati da due condizioni non alternative: territori ad alta disuguaglianza, e “partiti” che sono brand, e i cui esponenti rappresentano quindi cordate di cittadini anziché interessi più o meno organizzati. Ciò accade tanto nel Pd quanto nel Movimento 5 Stelle, con la differenza – evidentemente non secondaria – che nel Pd queste cordate di cittadini sono composte da elettori e guidate da notabili-quadri, mentre nel M5S sono composte da iscritti.
Il Pd ha dunque un problema di esposizione strutturale a fenomeni di voto di scambio (nel senso politologico; a volte anche in senso giuridico) e alla crescita e consolidamento di potentati locali che rendono il partito pressoché irriformabile. Il M5S ha invece un problema strutturale di irrilevanza territoriale. Questo in particolare accade perché, a differenza del Pd, è un partito personale (quindi con una militanza iper-conformista per cultura politica ed incentivi materiali), non plurale (quindi privo di strutture per elaborare i conflitti interni su basi politiche anziché personaliste) e che finisce per confondere ogni forma di costruzione territoriale del consenso con forme di «caciccato».
I “territori” poi sono da sempre visti dai vertici pentastellati come possibili centri concorrenti di potere o di critica, preferendo dunque ricorrere, ai fini del reclutamento di classe dirigente, a notabili di diversa estrazione, comunque alieni ad ogni idea di cura e rappresentanza di interessi, territoriale e non.
Il Pd è un partito strutturalmente più attento alle tornate elettorali locali, sia per motivi ideologici e identitari derivanti dalla tossica idea del partito perno del centrosinistra (speculare a quella berlusconiana), sia per i motivi organizzativi di cui sopra. Il M5S invece è un partito esclusivamente orientato a quelle tornate elettorali (nazionali ed europee) che inequivocabilmente misurano il consenso popolare del leader. Ogni altra elezione è pressoché sempre sacrificabile a meno che non abbia riverberi chiari a livello nazionale.
E però, nell’Italia degli ottomila comuni, il personale e le competenze politiche si sviluppano per la grandissima parte nelle istituzioni democratiche locali. A livello organizzativo, i partiti di destra non godono certamente di salute migliore rispetto a quelli di opposizione, ma certo godono di un atteggiamento decisamente più spregiudicato in termini di reclutamento notabilare, nonché di un contesto strutturale favorevole: si rammentino le fratture fra città/centri e campagne/periferie, ove la grandissima parte delle municipalità italiane sono situate. Stante le divergenze strategiche fra partito Democratico e Movimento 5 Stelle, viviamo in una situazione che rischia di regalare un’intera coorte di personale politico alle destre.
A sinistra non resta oggi dunque che ripiegare sulla strada del «civismo». Un termine che pure significa tutto e niente. Vi sono compresi certo nuovi e vecchi potentati e/o avventure personalistiche, ma anche esperimenti di integrazione sociale in cui tacitamente si rinuncia ad ogni riferimento politico nazionale, sia perché elettoralmente controproducente sia perché foriero di divisioni identitarie. Si ha dunque la costruzione di progetti interessanti, competitivi e capaci di socializzare politicamente un numero crescente di cittadini, a prezzo a volte di contribuire a riprodurre attitudini antipolitiche/a-ideologiche e di rinunciare ad incidere su orizzonti più ampi. Si tratta tuttavia di esperienze che quantomeno, a differenza dei partiti politici nazionali d’area, non favoriscono le destre, contendendone il controllo concreto del paese reale
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STALLO SULLE MACERIE. Come finirà? A Rafah si consuma, giorno dopo giorno, uno dei drammi più laceranti del mondo contemporaneo dopo mesi di massacri e di stragi
Gaza - foto Mustafa Hassouna /Anadolu via World Press Photo 2024
Come finirà? A Rafah si consuma, giorno dopo giorno, uno dei drammi più laceranti del mondo contemporaneo dopo mesi di massacri e di stragi, i 1200 morti israeliani del 7 ottobre, i 35 mila palestinesi, di cui il 70 per cento donne e bambini, ostaggi ebrei compresi di cui nessuno sa davvero quanti siano ancora vivi. È una domanda che si fanno tutti, anche i più indifferenti perché si intuisce che da qui, come dal fronte dell’Ucraina, verrà fuori il nostro futuro e il modo in cui saremo percepiti come una civiltà occidentale credibile al Sud del mondo.
La situazione in queste ore appare in uno stallo angosciante e sempre più catastrofico per i palestinesi.
Dal punto di vista umanitario e della pura sopravvivenza. Si continua a morire, con e senza bombe: per eliminare i palestinesi e ridurli a fantasmi in mezzo alle macerie di Gaza bastano la fame e le malattie, oltre all’acciaio delle pallottole. È un degrado materiale e morale che punta direttamente alla loro capacità di resistenza, all’idea stessa che possano esistere come popolo e come nazione. Per questo lo chiamano genocidio.
Non è una definizione tecnica o giuridica – quella è sotto esame delle istituzioni internazionali – è la realtà dei fatti, è un giudizio politico che scuote, o dovrebbe scuotere, le coscienze. Si negozia e si combatte in attesa di un’offensiva militare israeliana o di un cessate il fuoco, come se questa nuova strage strisciante, condotta in sospensione, fosse lo stato naturale delle cose. Ma la sensazione è che a nessuno dei protagonisti sul campo, da Netanyahu a Hamas, importi più di tanto delle vittime. Loro si stanno giocando una partita diversa, quella della sopravvivenza politica. Per primo Bibi Netanyahu che, come ripetiamo da mesi, vede nella guerra l’unica via per restare al potere.
Ma è esattamente così? Lo è in gran parte, eppure forse la situazione è più complicata, la scelta meno secca di quel che sembra: o la guerra o l’uscita di scena. In realtà Netanyahu – preso tra due fuochi, la destra estremista e le pressioni di Biden, come scriveva ieri Michele Giorgio – punta a gestire la guerra ma anche un eventuale cessate il fuoco che visti i precedenti degli ultimi decenni non è mai definitivo.
Lo stato di guerra nei territori palestinesi del resto è perpetuo: ogni giorno, da mezzo secolo, i governi israeliani conducono azioni belliche, si impadroniscono della terra degli arabi, erigono muri, vietano strade, eliminano i diritti più elementari, soffocano la libertà di movimento e di pensiero: questo è uno stato colonialista che ha attuato una condizione insostenibile di apartheid. Il fine ultimo è cacciare i palestinesi, non fare la pace con loro e vivere in due stati. Per questo quello in corso è un negoziato macabro e precario rispetto ai fini di questo governo e di cosa è diventato il sionismo in mano ai partiti più radicali ed estremisti.
In realtà il premier israeliano è da vent’anni al potere, una sorta di raìs arabo, in questo caso ebraico, confermato da raffiche di elezioni, che manovra le leve del potere con la corruzione e manipola da decenni l’opinione pubblica interna e internazionale, antisemitismo compreso come bene ha sottolineato il senatore americano Bernie Sanders, democratico ed ebreo. Ha un obiettivo a breve termine e non così tanto lontano: superare le elezioni americane di novembre dove se vincesse Trump per lui le cose si metterebbero certamente meglio che con l’attuale amministrazione americana che ha trattato come una sorta di zerbino.
Trump è quello che ha riconosciuto Gerusalemme capitale dello Stato ebraico contro ogni risoluzione Onu, la sovranità israeliana sul Golan siriano occupato dal 1967, è il mediatore degli Accordi di Abramo con le monarchie arabe dove seppellire un eventuale Stato palestinese. Biden ha ereditato questo “pacchetto” accettando una visione del mondo così miope e fallimentare che pochi giorni prima del 7 ottobre il consigliere per la Sicurezza nazionale Jake Sullivan dichiarava che «la regione del Medio Oriente è più tranquilla oggi di quanto non lo sia mai stata negli ultimi due decenni».
Preoccupazione per Rafah, Biden ferma l’invio di armi
Ed è così che Biden e i suoi sono caduti nella trappola di Gaza, facendosi continuamente ricattare, con un’amministrazione in piena campagna elettorale e in calo di consensi al punto da elargire a Israele miliardi di dollari in aiuti militari, per arrivare poi all’attuale blocco sulle consegne di bombe a Tel Aviv che appare soltanto un tentativo goffo di salvare la faccia.
Dall’altra parte c’è Hamas che ovviamente non scomparirà con l’incenerimento di Gaza. Il movimento islamico è stato abile a rilanciare la palla del negoziato in campo israeliano anche se adesso gli Usa hanno chiesto al Qatar, dove tengono una base militare, di eliminare la sua presenza. Ma farlo vorrebbe dire inimicarsi i Fratelli Musulmani che il Qatar ha sempre protetto. Significa entrare in attrito con l’Iran e i suoi alleati che puntano ancora su Hamas che pure ai tempi della guerra civile siriana si era schierato contro Assad.
Il cosiddetto “asse della resistenza”, come lo chiamano Teheran e le milizie sciite Hezbollah, è temuto da Israele ma ancora di più dagli Stati arabi, inerti davanti al massacro di Gaza. Come l’Europa neppure loro hanno messo l’ombra di una sanzione a Israele. E anche loro devono garantirsi la sopravvivenza. Allora come finirà? Non finirà, neppure questa volta, con questo negoziato macabro e precario
Commenta (0 Commenti)IL PORTO DELLE NEBBIE. Dal 2015 la propaganda ha parlato di Toti come “l’uomo del fare”. Anni di fuochi d’artificio, profumi di basilico diffusi nei vicoli, focacce più lunghe del mondo. Anni di sanità svenduta ai privati, di una viabilità grottesca, di infrastrutture assenti e quartieri abbandonati
Appena un mese fa, l’11 aprile, l’emittente televisiva regionale più seguita in Liguria, Primocanale, dedicava ampio spazio a una diretta in stile vagamente nordcoreano da Villa Zerbino, dove si svolgeva la grande cena di finanziamento annuale per Giovanni Toti. Presenti seicento persone tra parlamentari, imprenditori, sindaci liguri; un biglietto d’ingresso da 450 euro, grandi lodi al menu, entusiasmo per i numeri che, secondo lo staff della presidenza della Regione, «stanno cambiando la faccia delle principali città e dei porti». Lo stesso presidente parlava di una nuova Liguria, opposta a quella vecchia «del pessimismo, dell’invidia e dell’odio sociale».
Oggi, l’ospite d’onore di quella cena si trova agli arresti domiciliari, e alcuni degli invitati nonché l’editore stesso di Primocanale sono finiti nella stessa maxi inchiesta.
È difficilissimo commentare queste gravi accuse senza pensare ai lunghi anni di una propaganda che dal 2015 ha parlato di Toti come «l’uomo del fare». Anni di fuochi d’artificio, tappeti rossi, luci di Natale, profumi di basilico diffusi nei vicoli, focacce più lunghe del mondo, scivoli gonfiabili. Anni in cui solo poche voci inascoltate hanno parlato di una sanità distrutta e svenduta ai privati, di una viabilità grottesca, di infrastrutture assenti e quartieri abbandonati.
Anni in cui il cosiddetto «Modello Genova», nelle veline diligentemente ripetute, diventava un appello al rilancio delle grandi opere in tutta Italia, mentre passavano sottobanco sponsorizzazioni inopportune, concessioni, autorizzazioni pubbliche, rapporti opachi con la stampa.
Un modello che spendeva con disinvoltura seicentoventicinquemila euro per il Capodanno genovese con Al Bano, Orietta Berti e Fausto Leali, spacciato come un motivo di lustro per la città, o che per esaltare l’elettorato campanilista bruciava mezzo milione di euro per portare un mortaio di pesto gonfiabile lungo il Tamigi.
Le gravi accuse che hanno portato il giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Genova a misure coercitive e interdittive dovranno ovviamente passare per i tre gradi di giudizio, ma sono fin d’ora caratterizzate da una modalità piuttosto inconsueta nel Nord Italia. Non sono precedute da avvisi di garanzia e arrivano di colpo, come una bomba, facendo pensare a una situazione molto più grave di quanto non possa apparire a prima vista. Un’inchiesta che coinvolge i vertici non solo politici, perché di fatto offre un ipotetico quadro molto più ampio, nel quale si intrecciano rapporti affaristici e illeciti con imprenditori, stampa e mafie molto potenti nel territorio.
Possiamo già prevedere che, anche se le accuse verranno confermate, la reazione politica confonderà e rimescolerà le acque come suo solito, spingendo metà elettorato a sminuire fatti e dettagli, ribaltando le questioni e buttando la palla in tribuna. Del resto in Italia l’elettorato sembra già da tempo educato alla risposta preconfezionata: lo mostrano i social in queste ore, dove tra i cittadini che hanno eletto l’ultimo governo regionale ligure fioccano solo due tipi di commenti, le solite due difese d’ufficio: «siamo garantisti e vedremo cosa c’è di vero» da una parte, e «la magistratura agisce politicamente», dall’altra.
Resta però il fatto che, davvero, sarà una strana impresa ritrovarci nei prossimi mesi, dopo questa tempesta, a contare i resti di una regione che abbiamo visto riempirsi di supermercati, cemento e spiagge private, giorno dopo giorno, proclama dopo proclama, diventando sempre più a misura di turista invece che di cittadino.
E sarà interessante riprendere in mano con il senno di poi alcune dichiarazioni di Giovanni Toti, come per esempio quella del 7 aprile 2020, in piena pandemia, quando il presidente dichiarava: «Via codice degli appalti, via gare europee, via controlli paesaggistici, via certificati Antimafia, via tutto. Almeno per due anni».
E dovremo dircelo e ricordarcelo, di quell’appello caduto nel vuoto da parte del Siap, il Sindacato italiano appartenenti alle forze di polizia, per istituire con urgenza una Commissione Antimafia in Liguria. Era ancora il 2020, l’anno in cui si tenevano anche le regionali che avrebbero dato il secondo mandato a Giovanni Toti, e il dirigente nazionale del sindacato Roberto Traverso usava parole durissime contro il silenzio su questo argomento in una regione «dove le mafie non sono più solo infiltrate ma bensì fanno parte integralmente del tessuto sociale». La sua conclusione era lapidaria, precisa: «Chi non vede la mafia in Liguria non può meritare di governarla».
*autori della serie di romanzi ambientati a Genova con protagonista il vicequestore Paolo Nigra
Commenta (0 Commenti)«Vorrei che non si considerasse l’attacco a Rafah come un dato di fatto: si può e si deve fermare. Serve un cessate il fuoco immediato per il rilascio degli ostaggi israeliani e di tutti i palestinesi arrestati da Israele negli ultimi mesi. E servono sanzioni: senza sanzioni Israele non cambierà».
Francesca Albanese, relatrice speciale dell’Onu per i Territori palestinesi occupati, commenta l’inizio dell’offensiva via terra contro la città-rifugio palestinese. Il 25 marzo Albanese ha pubblicato un nuovo rapporto, Anatomia di un genocidio, in cui spiega con fonti, dati e testimonianze perché ci troviamo di fronte a un plausibile genocidio.
Come legge l’offensiva su Rafah, ormai partita?
Va fermata. L’Egitto sta già preparando piani di emergenza per accogliere i rifugiati, invece di impegnare tutto il suo capitale politico per bloccare l’attacco. Ogni operatore umanitario in questo momento dovrebbe viaggiare tra le capitali del mondo per fermare l’offensiva.
Ci sono spiragli per un sì israeliano all’accordo di tregua?
Israele non intende accettarlo perché ha paura di fermarsi e vedere che cosa ha fatto: nel momento in cui si poserà la polvere si vedrà quello che Israele ha fatto a Gaza e si vedrà che i 25 relatori speciali dell’Onu che da mesi denunciano il genocidio avevano ragione. È importante che a Gaza entrino operatori umanitari ed esperti forensi, che vadano allo Shifa e al Nasser Hospital dove ci sono le fosse comuni, che vadano nelle prigioni dove aumentano i casi di morte dei detenuti per torture.
Nel rapporto scrive: «Nessun palestinese a Gaza è al sicuro per definizione». È già qua il concetto di genocidio?
Sì e no. Sono tante le situazioni in cui gruppi di individui si trovano senza la protezione che il diritto internazionale garantisce loro. Non è quella mancata protezione in sé che rende un popolo esposto al rischio di genocidio. Scatta quando quella mancanza di diritti è protratta, legata a un contesto e a un disegno politico. È da ben prima del 7 ottobre che i palestinesi sono esposti a istanze di sfollamento forzato e a un uso eccessivo della forza, a detenzioni arbitrarie e a guerre preventive. È questo il contesto che per molti è difficile capire ma che ha in sé il gene dormiente del genocidio.
Il rapporto lega le pratiche genocidarie alla natura stessa del colonialismo d’insediamento, richiamando all’esperienza dei nativi americani negli Usa, degli indigeni in Australia e degli Herero in Namibia: «l’esistenza stessa di un popolo indigeno pone una minaccia esistenziale alla società colonizzatrice». Può spiegare?
In Occidente si fa fatica a capire che cos’è il colonialismo di insediamento e a legarlo alla realtà politica israeliana perché gli occidentali sono affetti da amnesia coloniale e perché vedono Israele come prodotto politico della tragedia dell’Olocausto. Lo è ma non del tutto: il progetto di colonizzazione della Palestina da parte degli ebrei europei perseguitati per secoli in Europa, per i quali chiaramente la Palestina ha un significato storico religioso, inizia alla fine del XIX secolo. È su quel progetto coloniale che si è innestata la soluzione politica che l’Occidente ha sostenuto dopo quella pagina immonda della nostra storia che è l’Olocausto. La pulizia etnica del popolo palestinese rientra nella definizione di genocidio coniata da Lemkin: il colonialismo è di per sé genocidiario perché mira all’eliminazione dell’altro.
La pulizia etnica è un crimine diverso dal genocidio. Secondo il diritto internazionale, però, anche sfollamento forzato e deportazione possono rappresentare genocidio se l’obiettivo è distruggere un gruppo protetto.
La finalità di Israele non è ammazzare tutti i palestinesi, è cacciarli. Il 7 ottobre rappresenta l’opportunità di sdoganare ed espandere il piano avanzato a mezza bocca da esponenti di varie aree politiche: non più solo la segregazione dei palestinesi, ma la loro cacciata. La pulizia etnica può essere dunque il contesto in cui si compiono i genocidi.
Secondo la Convenzione sul Genocidio il primo elemento che fa parlare di un simile crimine è l’uccisione di membri del gruppo protetto. A Gaza il 70% delle vittime sono donne e bambini, il 30% uomini adulti che Israele assimila di default alla categoria «combattente attivo».
È la criminalizzazione ab origine dell’uomo. Israele non contesta i dati Onu su quanti uomini siano stati uccisi ma dice che erano tutti combattenti. È un’aberrazione. Quello che Israele fa è prenderli di mira tutti dicendo di voler così eliminare Hamas: è questo il germe della logica genocidaria.
Il secondo elemento sono i danni fisici e mentali al gruppo. In particolare, spiega come i traumi subiti avranno un effetto duraturo sui bambini. Qual è il futuro di Gaza?
Dal valico di Rafah ho visto uscire esseri umani che erano ormai solo corpi che camminavano. Era come se fossero vuoti. In Egitto riconosci subito chi arriva da Gaza: sono piccoli, piegati su se stessi, neri di un’energia nera. I palestinesi sono così forti che si risveglieranno ma ci devono essere le condizioni perché succeda e la condizione è la fine dell’apartheid israeliana. Prenderà tanto tempo e moriranno tante altre persone a Gaza e in Cisgiordania perché questo non è un mondo pronto a prevenire i crimini.
Nel rapporto dedica un capitolo all’uso che Israele fa del lessico del diritto internazionale per giustificare l’uso della violenza letale: scudi umani, danni collaterali, zone sicure…concetti diretti a cancellare la distinzione tra civili e combattenti. A Gaza, scrive, ogni persona e ogni luogo sono considerati possibili target perché prossimi a soggetti considerati combattenti o perché vicini a luoghi considerati possibili centri militari: il «contagio virale», lo definisce, giustifica la distruzione senza accorgimenti?
Sin dai primi giorni i palestinesi hanno capito che questa non era una guerra come le altre, è questo che mi hanno detto: Israele stavolta ha subito preso di mira target chiaramente non militari. Ha colpito da subito i luoghi dell’identità palestinese: chiese, moschee, centri culturali, università. Israele ha allargato lo spettro per determinare chi dovesse eliminare. Tra loro poliziotti, medici, dipendenti dei ministeri perché considerati da Israele tutti affiliati ad Hamas. Hanno colpito gli intellettuali, come Refaat Alareer, vere e proprie punizioni collettive. Gli stessi figli di Haniyeh non sono stati uccisi perché combattenti ma in quanto figli del leader di Hamas. Non si può legittimare questa logica. E poi c’è il crimine più evidente: creare condizioni di vita che conducono alla distruzione di un popolo, ovvero il bombardamento degli ospedali, la privazione di cibo e medicinali.
In Occidente si è parlato poco dell’assedio dello Shifa: centinaia di uccisi, esecuzioni, morti per fame. A ciò si aggiunge la consapevolezza di provocare vittime: un ospedale che non può curare è una tomba.
In Egitto ho visitato tre ospedali: la maggior parte dei palestinesi ricoverati non erano feriti di guerra ma malati cronici. Tumori, leucemie, malattie respiratorie, diabete. E poi amputati a causa delle cancrene e bambini malnutriti. Ho incontrato un bambino che si è ammalato di pancreatite per aver mangiato cibo per animali e aver bevuto acqua sporca: a Gaza non avevano più medicine. Il sistema sanitario a Gaza è distrutto. Questa è la verità