Si vota in Spagna, l’ultimo grande paese europeo in cui la sinistra governa da sola. I post-franchisti di Vox puntano a entrare nella maggioranza. I progressisti credono nella “remontada”. In gioco c’è anche l’Europa
Le destre trumpiane di Partido popular e Vox sembravano avanti, ma il blocco progressista di Sánchez e Díaz ora grida "Sí se puede
Un poster elettorale del partito PSOE a Madrid - Ansa
Oggi in Spagna si celebrano le elezioni politiche convocate da Pedro Sánchez lo scorso 29 maggio, il giorno dopo la batosta ai partiti del governo di coalizione progressista arrivata dalle elezioni regionali e municipali, in anticipo di pochi mesi sulla scadenza naturale della legislatura. In principio si parlò allora di azzardo del presidente del governo nel convocare anticipatamente l’appuntamento elettorale, ma subito apparve chiaro come fosse l’unico modo possibile per non rimanere preda del continuo dileggio delle destre, tanto più in pieno semestre europeo a guida spagnola, e provare a mobilitare l’elettorato democratico e progressista contro l’apparente irresistibile avanzata delle destre. Se Sanchez abbia centrato l’obiettivo lo si vedrà questa sera al momento dello scrutinio del voto, ma intanto dalla campagna elettorale durata poco meno di un mese, si possono trarre alcune considerazioni.
UNA CAMPAGNA torrida per le alte temperature estive, giocata prevalentemente utilizzando il medium più tradizionale, la televisione, con interviste ai singoli candidati e dibattiti tra gli stessi. È stato Sánchez a imprimere questo ritmo, accedendo a programmi televisivi da sempre ostili al suo esecutivo, nel tentativo di ribaltare la narrazione delle destre. Perché le destre europee hanno imparato da Trump e da Bolsonaro: usano la bugia come strumento della dialettica, parlando alla pancia delle persone che hanno la percezione di non essere
Commenta (0 Commenti)COMMENTI. Con Figliuolo tutto tace. Non piove più, ora incombe la siccità. E la somma destinata dal governo Meloni non copre neanche la metà delle spese previste nella lista di Bonaccini
Le macerie del Ponte della Motta - foto Ansa
Ma dov’è finita la Romagna e la tragica alluvione che ha messo in ginocchio la sua popolazione? Da quando è stato nominato il commissario, il generale Figliuolo, non se ne parla più, non si trova neppure un piccolo trafiletto nelle pagine interne dei giornali, né qualche commento in coda ai telegiornali. Il commissario Figliuolo sembra il classico comandante senza esercito.
L’ultima notizia è che il presidente della regione Bonaccini gli ha consegnato la lunghissima lista dei danni, elaborata dai sindaci delle città colpite, per lo più molte case da rimettere a posto o ricostruire, strade da riparare, argini da rinforzare, casse di espansione in cui laminare le prossime piene, frane da contenere e tanti rimborsi ad agricoltori, allevatori e industrie colpite dalle acque. Da un rapido calcolo i conti però non tornano perché la somma che il governo Meloni ha messo a disposizione di Figliuolo sembra non riesca a coprire neanche la metà delle spese previste in quella lista. A ben guardare non è questo però il problema principale. Ritardi e risorse scarse si sono viste in tutte le ricostruzioni, anzi in alcune fra le più antiche, come quella del terremoto del Belice c’è ancora gente che vive nei container.
É prevedibile quindi che il generale si farà sentire e il governo Meloni troverà altre risorse, così con un po’ di ritardo, la Romagna tornerà quella di prima, un poco inquinata ma fiorente. L’interrogativo che mette ansia è se sarà anche un territorio meno fragile. Ovviamente il governo dirà di si. Questa però è solo propaganda altra cosa è la realtà
Cosa si intende quando si parla di sicurezza, rispetto a cosa la si calcola? Il governo ad esempio esclude
Leggi tutto: La Romagna alluvionata dimenticata e senza fondi - di Massimo Serafini
Commenta (0 Commenti)AFFARI ESTERI. In piazza a Roma davanti al Pantheon e dietro lo striscione «Free Patrick Zaky»
La notizia della grazia a Patrick Zaky arriva poco prima dell’inizio del presidio davanti al Pantheon, lanciato l’altro ieri subito dopo la sentenza che aveva condannato il ragazzo a tre anni di carcere. Così i manifestanti che hanno sfidato il caldo della capitale per protestare contro l’ennesima ingiustizia nei confronti dello studente egiziano si ritrovano inaspettatamente a festeggiarne la prossima liberazione.
«Una bellissima notizia ma la battaglia per i diritti umani in Egitto non finisce qui e deve continuare anche quella sul caso di Giulio Regeni», afferma Riccardo Noury portavoce di Amnesty Internation Italia. «Le storie di questi due ragazzi, nonostante le differenze, dimostrano che le relazioni bilaterali basate su petrolio, armi e controllo dei fenomeni migratori sono un danno per i diritti umani», continua Noury.
Gli fa eco Ilaria Masinara, responsabile delle campagne della stessa organizzazione: «Speriamo di festeggiare presto l’arrivo di Zaky in Italia. Ma la mobilitazione deve continuare per i 60mila prigionieri di coscienza che si trovano ancora nelle prigioni del Cairo, per i giornalisti e le giornaliste incarcerate soltanto per aver espresso
Leggi tutto: La protesta diventa festa, «ma la battaglia continua» - di Giansandro Merli, ROMA
Commenta (0 Commenti)Arrestato ancora, condannato a tre anni, portato via davanti a madre e fidanzata: Patrick Zaki torna in carcere, l’Egitto di Al Sisi ora ha un ostaggio. Significa basta con Regeni, facciamo business con Eni, Leonardo e Fincantieri, se un ministro verrà al Cairo gli racconteremo altre balle
ITALIA-EGITTO. La condanna a tre anni dello studente egiziano, ostaggio di al Sisi, uno schiaffo al governo italiano che ha continuato a fare affari con il suo regime
Il ministro degli Esteri Tajani con il suo omologo egiziano Shoukri al Cairo lo scorso gennaio - Ap
I regimi fanno il loro mestiere, i dittatori anche, la democrazia italiana con i suoi improbabili governanti appare invece alquanto inefficace. Quasi un caso psicanalitico. Dalla tragica vicenda di Giulio Regeni, torturato e ucciso dai poliziotti egiziani, a quello di Patrick Zaki, in Egitto, l’Italia non riesce a trovare giustizia. «Il nostro impegno per una soluzione positiva del caso di Patrick Zaki non è mai cessato, continua, abbiamo ancora fiducia», ha dichiarato la premier Giorgia Meloni.
Fatto sta che questo governo – come quelli precedenti – ha fatto un buco nell’acqua, al punto che Zaki, dopo i 22 mesi che ha già scontato, dovrà ancora passare 14 mesi di carcere. Hai voglia ad avere fiducia. La sorte di Zaki è nelle mani dei legali e soprattutto di Al Sisi che può decidere uno sconto di pena o la grazia.
Con buona pace per la preziosa laurea conseguita da Zaki a Bologna, gli articoli di giornale, le interviste e un’esposizione mediatica importante per difenderlo. Perché come ci ricorda spesso Amnesty International, Zaki è imputato in un paese nel quale essere sul banco degli accusati vuol dire essere condannato. In Egitto la giustizia è uno strumento del sistema repressivo dominante, che azzera il dissenso politico, le voci indipendenti degli attivisti dei diritti umani, e dove le sparizioni sono all’ordine del giorno come la tortura. Occorrerebbe una vera diplomazia, ma la diplomazia del nostro governo attuale, così subalterna agli
Leggi tutto: Zaki nelle mani del «nostro» Al Sisi - di Alberto Negri
Commenta (0 Commenti)Unione europea e Italia festeggiano la firma dell’intesa con la Tunisia che dovrebbe fermare le partenze dei migranti ma nel paese continuano le violenze contro i subsahariani, centinaia dei quali sono ancora abbandonati nel deserto. Il Consiglio d’Europa chiede «maggiori garanzie sui diritti umani»
COMMENTI. La firma del Memorandum d’intesa tra la Tunisia e l’Unione europea per un «nuovo partenariato per affrontare la crisi migratoria», è un «modello» nelle relazioni con i paesi nordafricani, secondo […]
Giorgia Meloni in Tunisia saluta il presidente Kais Saied - foto LaPresse
La firma del Memorandum d’intesa tra la Tunisia e l’Unione europea per un «nuovo partenariato per affrontare la crisi migratoria», è un «modello» nelle relazioni con i paesi nordafricani, secondo quanto sostenuto dalla presidente del Consiglio Giorgia Meloni, rimane all’interno di vecchie logiche, improntate alla cosiddetta «condizionalità migratoria», già lanciate in Europa ai tempi di Sarkozy, ma che oggi hanno dimostrato un fallimento completo. Come del resto si era già dimostrata una prospettiva perdente lo scambio tra una manciata di ingressi legali ed una maggiore disponibilità nelle politiche di rimpatrio forzato, già al centro degli accordi conclusi nel 1998 da Napolitano con la Tunisia di Ben Alì.
La Tunisia beneficiava già, dopo l’Accordo di Associazione (firmato dalla Tunisia – primo dei Paesi dell’area – già nel 1995 ed entrato in vigore nel 1998 di aiuti da parte dell’Unione Europea con il cd. Strumento Europeo di Vicinato e Partenariato (ENPI), che fornisce assistenza ai Paesi destinatari della Politica Europea di Vicinato. Il Piano Indicativo Nazionale 2011-2013, ad esempio, stanziava a favore della Tunisia 240 milioni di euro destinati a riforme politiche per democrazia, diritti umani, stato di diritto e buon governo; gestione dei flussi migratori e dell’asilo, lotta al crimine organizzato, al terrorismo e al riciclaggio; sviluppo di condizioni propizie all’investimento privato; sviluppo sostenibile ambientale, sociale ed economico; sostegno all’istruzione, alla formazione superiore e alla ricerca; rafforzamento dei programmi sociali; agevolazioni per lo scambio di beni e servizi; sviluppo dei trasporti, del settore energetico e della società dell’informazione. Oggi siamo rimasti a questa stessa generica enunciazione di
Leggi tutto: Meloni-Ue: con Saied un memorandum di carta - di Fulvio Vassallo Paleologo
Commenta (0 Commenti)PARTITO DEMOCRATICO. Perché, invece di prendere sul serio il ruolo di opposizione al governo più a destra della storia della repubblica, non prendersi a mazzate tra amici e compagni?
Il partito democratico è un partito davvero democratico. La segretaria Schlein chiama tutti a raccolta a Napoli nonostante l’avanzata di Caronte per cantarle in coro al governo che vuole spaccare l’Italia con la legge Calderoli? E chi l’ha detto che per evitare lo sconquasso non si debba prima spaccare il Pd. La premier Giorgia Meloni annaspa non sapendo come affrontare l’annosa questione della giustizia, mentre la sua coalizione, la sua squadra di ministri e il suo stesso partito somigliano a tanti flipper dove schizzano pericolosamente palline impazzite spesso una nella direzione opposta all’altra? E perché, invece di prendere sul serio il ruolo di opposizione al governo più a destra della storia della repubblica, non prendersi a mazzate tra amici e compagni? Si dirà: è il solito Vincenzo De Luca, il presidente campano col suo ego più grande della stessa Campania e di tutto il Pd. E se la segretaria chiama a raccolta il partito sotto le sue finestre e addirittura ha in animo di ridimensionarne le ambizioni, l’unica risposta possibile da parte del satrapo è «e qui comando io e questa è casa mia».
Ma siccome il partito democratico è un partito davvero democratico e in democrazia si tengono le elezioni e i voti contano, ecco che il coro contro il governo – sebbene la segretaria si sforzi di tenere la scena «con una voce sola» – passa in secondo piano.
E sono tutti lì, incendiari
Leggi tutto: Il coro stonato dell’opposizione - di Micaela Bongi
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