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FACT CHECKING . Meloni nel suo intervento televisivo omette di dire come andò la vicenda

Il Presidente della Repubblica Francesco Cossiga, primo ...

Si è mossa sul confine della fake news la premier Giorgia Meloni, quando l’altra sera a Rete4, il canale di famiglia, ha parlato di Alfredo Cospito che già nel 1991 aveva ottenuto una grazia presidenziale in seguito a uno sciopero della fame. La storia è vera, ma non è tutta. Cospito era in una situazione che in migliaia hanno dovuto affrontare: la renitenza alla leva.

Condannato per diserzione, davanti al giudice Cospito aveva dichiarato di essere anarchico e di «non sentirsi vincolato in coscienza dal dovere di prestare il servizio militare». Alla fine fu il padre a presentare domanda di grazia, puntualmente accolta dall’allora presidente della Repubblica Cossiga, che durante il suo mandato firmò 155 provvedimenti simili per «reati militari». Il suo predecessore Pertini, nel suo settennato, aveva superato quota tremila.

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La commissaria per i diritti umani scrive a Piantedosi: assicurarsi che il testo rispetti gli obblighi previsti dal diritto internazionale

Il Consiglio d’Europa contro il decreto ong «Il governo lo ritiri» 

La bocciatura non potrebbe essere più netta e dà voce alla preoccupazione che il decreto ong, in discussione proprio in questi giorni alla Camera, possa rappresentare un ostacolo all’attività di soccorso dei migranti in difficoltà nel Mediterraneo. Al punto che Dunja Mijatovic, commissaria per i diritti umani del Consiglio d’Europa, nei giorni scorsi ha scritto al ministro dell’Interno Matteo Piantedosi chiedendogli di «considerare la possibilità di ritirare il decreto legge» oppure di approfittare del dibattito parlamentare per apportare le modifiche necessarie «per assicurare che il testo sia pienamente conforme agli obblighi del Paese in materia di diritti umani e di diritto internazionale». Altrettanto netta la replica del Viminale, che bolla i timori espressi dalla Commissaria come «infondati».

Dopo settimane di silenzio, per la prima volta a livello internazionale una voce autorevole esprime tutti i dubbi sul provvedimento varato dal governo Meloni per «regolamentare» il lavoro delle navi umanitarie. Il Consiglio d’Europa è un organismo che ha sede a Strasburgo ma non ha niente a che fare con le istituzioni Ue. Ne fanno parte 46 Paesi (a marzo del 2022 la Russia ne è uscita) e si batte per il rispetto dei diritti umani. Motivo che il 26 gennaio ha spinto Mijatovic a scrivere a Piantedosi non nascondendo «di essere preoccupata che alcune delle regole contenute nel decreto ostacolino la fornitura di assistenza salvavita da parte delle ong nel Mediterraneo centrale».

La commissaria punta il dito in particolare sulla norma secondo la quale un volta compiuto il primo salvataggio, la nave deve raggiungere subito il porto indicato per lo sbarco dei naufraghi. Una disposizione che «come già accaduto, impedisca alle ong di effettuare salvataggi multipli in mare, costringendole a ignorare altre richieste di soccorso nell’area se hanno già delle persone a bordo». Se i comandanti delle navi dovessero rispettarla, scrive Mijatovic, «verrebbero di fatto meno ai loro obblighi di salvataggio sanciti dal diritto internazionale».

Altra questione messa in evidenza riguarda l’estrema distanza dei porti che ogni volta vengono assegnati alle navi. «Luoghi lontani nel centro e nel nord Italia», scrive Mijatovic, per la quale la scelta «prolunga le sofferenze delle persone salvate in mare e ritarda indebitamente la fornitura di un’assistenza adeguata a soddisfare i loro bisogni primari».
E a nulla valgono le giustificazioni fornite finora dal governo, secondo le quali la scelta di porti distanti servirebbe a decongestionare i centri del Sud Italia permettendo una migliore distribuzione dei migranti: «Questo obiettivo – scrive infatti la commissaria potrebbe essere raggiunto sbarcando rapidamente le persone soccorse e assicurandosi che ci siano accordi pratici alternativi per redistribuirle in altre zone del Paese».

Alle osservazioni della commissaria il governo replica respingendo ogni addebito: Per quanto riguarda l’obbligo di raggiungere subito il porto indicato per lo sbarco «ciò che la nuova norma intende evitare – è scritto il governo nella risposta a Mijatovic – è piuttosto la sistematica attività di recupero dei migranti nelle acque antistanti le coste libiche e tunisine al fine di condurli esclusivamente in Italia, senza alcuna forma di coordinamento». Quanto all’assegnazione dei porti «lo scopo di questa scelta è piuttosto quello di redistribuire tra le regioni gli oneri organizzativi e logistici legati alla gestione degli sbarchi, alleggerendo così il peso su Lampedusa, la Sicilia e la Calabria». Insomma, chiusura totale

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Il consiglio dei ministri dà il via libera al Ddl Calderoli sull’Autonomia differenziata. La Lega esulta e pensa alle regionali in Lombardia. Il no dei governatori del sud. Pd e Cgil promettono barricate: «Spacca l’Italia». Il Gimbe: «Colpo di grazia al Sistema sanitario nazionale»

LO SPACCONE. Il governo Meloni vara il progetto di«autonomia differenziata», la Lega pensa alle regionali in Lombardia. Tempi lunghi per la misura-bandiera di Roberto Calderoli e di Matteo Salvini. A giugno in arrivo un decreto sul presidenzialismo. Contro lo spezzatino delle destre opposizioni e Cgil sulle barricate e annunciano mobilitazioni. Cuperlo: (Pd): "Ora siamo tutti contro questo progetto, Bene. Ma ricordiamoci che nel 2001 la riforma del Titolo V della Costituzione l'ha votata il centro-sinistra. Cerchiamo di non fare più pasticci"

Via alla secessione dei ricchi, per ora è un lancio elettorale Il ministro per gli affari regionali Roberto Calderoli (Lega) - Ansa

Il primo passo per la creazione di un paese arlecchino è stato fatto ieri dal governo Meloni che ha approvato, tra gli applausi degli astanti in consiglio dei ministri, il ddl Calderoli sull’autonomia differenziata. Il cammino del provvedimento sarà lungo, accidentato e non scontato. Produrrà urti e frizioni in una maggioranza a vocazione nazionalista che, con Fratelli d’Italia, aspira a dare il colpo finale alla forma di governo parlamentare e a istituire il presidenzialismo, anche se non ha ancora capito quale. La ministra per le riforme Casellati ha promesso ieri un testo entro giugno. Il presidenzialismo è il pegno da pagare a Fratelli d’Italia all’autonomia differenziata concessa alla Lega.

UN ANNUNCIO delle difficoltà è stato visto ieri alla conferenza stampa organizzata al termine del Consiglio dei ministri. La presidente del Consiglio Giorgia Meloni non

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BUFERA SOCIALE. Cinquecentomila i lavoratori in agitazione, tra ferrovie, autobus, insegnanti e impiegati: chiedono salari al passo con l’inflazione. Chiuse del tutto il 40% delle scuole di Inghilterra e Galles

 Londra, la protesta dei dipendenti pubblici - Ansa

Scuole chiuse, treni fermi, aule universitarie semideserte, uffici pubblici silenziosi. Ieri è stata l’ennesima giornata di uno sciopero che ormai è generale, e continuerà a febbraio e a marzo a meno che il governo non ceda alle richieste di aumenti salariali in linea con l’inflazione dietro la stragrande maggioranza delle lotte.

Cinquecentomila i lavoratori in agitazione, tra ferrovie, autobus, insegnanti e impiegati pubblici, di cui centomila insegnanti erano il gruppo più ragguardevole. Molti sono affluiti a Londra già dal mattino per una manifestazione conclusasi nel pomeriggio, a pochi passi da Downing Street. Con tutte le scuole di Inghilterra e Galles coinvolte e almeno ventimila – il 40% – rimaste chiuse del tutto, è il massimo sciopero dal 2016. Il 14 febbraio sciopereranno gli insegnanti gallesi e altre giornate di lotta sono state indette alternatamente in altre regioni del paese per il 28 febbraio e per l’1, il 2, il 15 e il 16 marzo prossimi.

In circa trentamila sono sfilati lungo il centro di Londra fino ai palazzi del potere a Whitehall, dove hanno ascoltato i vari leader sindacali, compresa Jo Grady (Ucu), Mark Serwotka (Pcs) e Paul Novak (Tuc). Ultimo a parlare, il segretario della Rmt Mick Lynch, distintosi ultimamente come figura di riferimento grazie anche alle sue ferme e puntuali uscite mediatiche. Lynch, i cui lavoratori non erano – e vistosamente – tra gli scioperanti perché riuniti in discussione sull’ultima controproposta del governo, ha invitato a continuare lo sciopero fin quando le richieste non saranno accolte.

Cosa vogliono gli insegnanti? La stessa cosa di tutte le altre categorie in sciopero: un salario al passo con l’inflazione, e che non sia ricavato da altri tagli al già consunto budget per l’istruzione. La categoria, orribilmente sottopagata come molti lavoratori del settore pubblico, gravata in automatico da straordinari non retribuiti (presidi e maestri hanno sul groppone anche il lavoro burocratico un tempo riservato alle segreterie, la stessa cosa è accaduta ai medici di famiglia) si è sentita ripetere dalla ministra dell’istruzione Gillian Keegan – il cui polso è leggiadramente appesantito da un Rolex da diecimila sterline – di essere «realistici» quanto alle proprie richieste e che il governo ha già stanziato fondi extra per la scuola, 2 miliardi «che porteranno la spesa reale sulla scuola ai suoi massimi storici».

La canzone resta zeppelinianamente la stessa. Nessun margine negoziabile, bisogna abbassare l’inflazione, con la ben nota spirale prezzi-salari come “pretesto scientifico” per il rifiuto di cacciare fuori i soldi. Il solito rimedio della nonna che gabella una scelta politica e ideologica bella e buona per necessità economica. Lo scontro non può che intensificarsi, soprattutto dovesse il governo continuare nella sua proposta di legge che precetterebbe un numero di lavoratori a recarsi comunque al lavoro nelle giornate di sciopero, onde garantire un livello minimo di servizi. Per giustificare ulteriormente il proprio niet agli aumenti salariali, il governo afferma inoltre di seguire le direttive in materia contrattuale di quello che ammonta essenzialmente a uno dei tanti think-tank dietro i quali si nasconde, il Pay review independent body, un organismo indipendente nella misura in cui è una sua (del governo) stessa emanazione.

Non che gli scioperi solletichino nemmeno vagamente le meningi politiche dei laburisti. Durante il Prime Minister questions Keir Starmer ha cercato disperatamente di evitare di parlarne. Troppo rischioso

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ECONOMIA DI GUERRA. L’azienda tedesca Rheinmetall, spinta dai nuovi mega-contratti e dalle imminenti acquisizioni, sbanca la borsa. Lo "scandalo" politico-militare dei Leopard-2 si è rivelato alla fine un potente spot pubblicitario. All'Ucraina ne sono stati promessi 139 esemplari, anche se a maggio ne saranno pronti appena 29

Per il costruttore dei tank più amati sul mercato è l’anno dei record Il ministro della Difesa tedesca Pistorius ieri ai carristi (e ai Leopard-2) del 203mo Battaglione - Ap

L’anno del Leopard, nell’oroscopo bellico, porta davvero una fortuna. Undici mesi dopo l’invasione russa dell’Ucraina il costruttore dei tank più richiesti dal mercato di guerra celebra il record degli affari alla Borsa di Francoforte, profilando il suo luminoso futuro industriale assicurato dai nuovi mega-contratti.

SPICCA LA PARTNERSHIP con gli Usa per costruire su licenza i missili Himars che verrà annunciata alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco il 17 febbraio, ma anche il recente ordine del governo di Sanna Marin per i missili anticarro tedesco-israeliani, così come l’imminente acquisizione di Expal Systems, il colosso spagnolo delle munizioni.

È il business sconfinato di Rheinmetall, leader europeo nella fabbricazione di sistemi d’arma e progettista con Krauss-Maffei del celebre Leopard-2: il carro armato più diffuso negli eserciti della Nato. La sola licenza di esportazione del panzer appena sbloccata dal cancelliere Scholz farà incassare all’impresa fino a 350 milioni di euro all’anno come certificano i dati di Stifel Equity Research. Senza contare la partita commerciale dei mezzi Puma e dei cingolati Marder forniti dalla Germania in quantità industriali prima che i Leopard-2 li sostituissero come nuove Wundewaffen in grado di ribaltare le sorti del conflitto.

Per squadernare i numeri da capogiro della società con sede a Düsseldorf non serve aspettare la pubblicazione dell’ultimo bilancio prevista per il 16 marzo; è tutto già di pubblico dominio.

«IN BASE AI DATI PRELIMINARI dell’anno fiscale 2022 Rheinmetall Ag ha generato un fatturato 6,4 miliardi di euro. In confronto alle vendite del 2021 – pari a 5,6 miliardi di euro – rappresenta un aumento di circa il 13%. Per quanto riguarda il risultato operativo si prevede un anno record per l’azienda con tassi di crescita superiori al 20%», è l’anticipazione nella nota Rheinmetall, più che sintomatica malgrado l’avvertenza delle cifre non ancora verificate alla virgola.

Merito dei profitti «inaspettati» rispetto alle previsioni di prima della guerra, ovvero le vendite extra dovute al vertiginoso aumento della spesa pubblica per gli armamenti da parte degli Stati non solo dell’Alleanza atlantica. Direttamente legate al conflitto in Ucraina, conferma l’ad di Rheinmetall, Armin Papperger, sottolineando l’improvviso cambio di direzione della pubblica opinione tedesca fino a ieri in maggioranza pacifista.
«Prima venivamo insultati e talvolta minacciati. Oggi invece la gente mi dice “grazie a dio ci sei”», è il miracolo della guerra d’Ucraina rivelato dal manager noto in Germania anche per la sua viscerale passione per la caccia e perché tiene in ufficio la sua intera collezione di modellini di carri armati.

«IL GIORNO DOPO l’attesa decisione della Germania di inviare i Leopard a Kiev le azioni Rheinmetall sono salite al massimo storico in Borsa. Il produttore di tank, munizioni e altre attrezzature belliche ha raggiunto il valore di circa 10 miliardi di euro: un aumento di due volte e mezzo nell’ultimo anno con potenziale rialzo dell’indice tedesco Dax» è la speculare coincidenza finanziaria sottolineata dalla Reuters.

In pratica lo “scandalo” politico-militare dei Leopard-2 mediaticamente alimentato a tambur battente si è rivelato come la migliore pubblicità per il mezzo corazzato che Rheinmetall è pronta a fornire agli ucraini in 139 esemplari, anche se a maggio ne saranno pronti appena 29.

Rimbalza in Spagna invece la clamorosa acquisizione di Expal Systems da parte di Rheinmetall. Il gigante tedesco metterà le mani su sei fabbriche di bombe in Spagna (Oviedo, Burgos, Navalmoral, El Gordo, Albacete e Murcia) più lo stabilimento di Texarkana negli Stati Uniti. Expal vale circa 1,2 miliardi di euro e quest’anno prevede un fatturato di 400 milioni con capacità produttive stimate tra 700 e 800 milioni all’anno.

PER FINANZIARE GRAN PARTE dell’acquisto Rheinmetall emetterà un debito convertibile per un importo di 1 miliardo di euro; il resto lo pagherà cash o con prestiti bancari ad hoc. L’acquisizione di Expal dovrebbe essere conclusa entro l’estate 2023, anche se deve ancora essere approvata dall’antitrust di Madrid. Si tratta pur sempre di una produzione strategica e marca la differenza tra avere o non avere le armi. Esattamente l’argomento al centro del dilemma “morale” dell’ad di Rheinmetall. «Penso a cosa possono fare le armi. Ma penso anche a cosa succede quando non si hanno armi. Si può vedere proprio ora in Ucraina» fa sapere Papperger

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La premier blinda i fedelissimi Donzelli e Delmastro e imbriglia il guardasigilli Nordio che in parlamento si arrampica sugli specchi. Ma il caso non è chiuso. 5S e Pd annunciano mozioni di censura. Nuova bagarre al Senato. Meloni: «I toni non li ha alzati il governo»

Meloni blinda i due fedelissimi. Il ministro resta imbrigliato Giovanni Donzelli e Andrea Delmastro

Lo scontro non si placa. L’opposizione insiste, per una volta unita. Reclama le dimissioni del sottosegretario Delmastro, che ha messo l’amico e convivente Donzelli al corrente delle conversazioni in carcere tra Cospito e altri detenuti al 41 bis – «dati sensibili» conferma il ministro Nordio – e dello stesso Donzelli, che le ha diffuse in aula al solo scopo di attaccare il Pd. I 5S hanno presentato una mozione di censura con richiesta di revoca delle deleghe di Delmastro. Il Pd annuncia che farà lo stesso.

A palazzo Madama il dibattito s’infiamma. Il senatore di FdI Balboni dà man forte a Donzelli, accusa il Pd di «andare in tv per mettere in discussione il 41 bis» e rincara: «Ma non vi rendete conto che andando in carcere a trovare Cospito avete aperto una voragine alla mafia?», l’opposizione abbandona l’aula. Un nuovo caso si aggiunge alla già fitta lista.
IL CHIASSO DEL L’AULA mette ancor più in risalto il silenzio di Meloni. Che a tarda sera decide di intervenire sul putiferio ormai fuori controllo telefonando in diretta a Rete4. Difende il governo: «Il caso è montato non per volontà nostra, il governo non ha fatto altro che il suo lavoro facendo molta attenzione a non alzare i toni. Ho visto molti toni che, secondo me, buttavano in politica una questione che ci riguarda tutti». Invoca «prudenza».

È stata lei a blindare i suoi due fedelissimi, escludendo le dimissioni, e a imbrigliare il guardasigilli Nordio che, irritatissimo con il suo ciarliero sottosegretario Delmastro, avrebbe

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