«Solidarietà alle Forze dell’ordine per l’ennesimo e inaccettabile attacco da parte di centri sociali e collettivi». La presidente del Consiglio è tornata con un post sui social a ribadire la volontà di reprimere ogni manifestazione pro Palestina. L’occasione le è stata data dagli scontri di ieri mattina a Torino, quando, per usare le parole della stessa Meloni, «sette agenti sono rimasti contusi a seguito del tentativo da parte di un violento gruppo di attivisti di sfondare un cordone di polizia nei pressi del Castello del Valentino».
Il racconto dalla piazza diverge da quello ufficiale. «Era una protesta pacifica, eravamo a volto scoperto e a mani nude, per denunciare come la ricerca italiana faccia ormai parte dei meccanismi che spingono alla guerra come soluzione alla crisi di egemonia dell’occidente», spiega Francesco di Cambiare Rotta.
SECONDO QUANTO riportano i collettivi, due studentesse sarebbero state ferite nel corso delle diverse cariche che la polizia ha effettuato su Corso Vittorio. «Io c’ero dall’inizio alla fine – chiarisce lo studente – e non ho visto nessuno del corteo avere atteggiamenti violenti con le forze dell’ordine». I momenti di tensione si sarebbero verificati quando il corteo (promosso anche dal collettivo Cua, centro sociale Askatasuna, Cambiare Rotta, Progetto Palestina, coordinamento Torino per Gaza) ha tentato di arrivare alla Conferenza degli addetti scientifici e spaziali e degli esperti agricoli 2024 del Politecnico. Ospiti non solo le istituzioni locali ma anche quattro ministri: Antonio Tajani, Anna Maria Bernini, Gilberto Pichetto Fratin e Francesco Lollobrigida per il quale si è trattato di «squadracce violente».
Il ministro all’agricoltura, probabilmente per rimediare alla sua ultima gaffe sull’antifascismo, si è richiamato addirittura alla Carta, parlando di «atteggiamento che la Costituzione condanna e credo che i padri costituenti intendessero questo come opposizione ferma a quello che aveva rappresentato il fascismo prima e oggi con queste squadre organizzate».
E mentre la titolare dell’Università Bernini provava a invitare gli studenti al confronto («Sui contenuti sarebbe interessante approfondire e, anziché lanciare solo slogan e protestare, sedersi intorno a un tavolo e condividere dei ragionamenti») è Tajani a tentare di mettere una pietra tombale sulle proteste in corso in tutti gli atenei italiani. «Non cancellerò mai gli accordi con Israele», ha detto il ministro degli esteri, da cui dipende il bando Maeci per i progetti di ricerca con le università israeliane.
Per Tajani le proteste per la Palestina sarebbero un modo per «usare politicamente accordi scientifici per andare contro il governo» agite da «figli di papà che possono permettersi di non andare a lavorare». Secca la replica degli studenti: «I ministri tentano di screditarci ma sanno che il confronto non lo rifuggiamo, lo abbiamo chiesto per mesi pacificamente e facendo i giusti passaggi amministrativi per essere ascoltati, ora usano la retorica per la propaganda mentre in realtà ci manganellano».
Solidarietà al movimento è stata anche espressa dal coordinamento antifascista universitario che ha condannato «l’ennesima violenza fisica della polizia e la violenza verbale di chi siede nelle istituzioni». Gli studenti, intanto, non hanno intenzione di fermarsi, «saremo in ogni facoltà per opporci a ogni progetto che mette il nostro sapere a servizio del genocidio e della guerra».
LA CONTESTAZIONE di oggi a Torino è inserita in un percorso di lotta con le altre università. La Sapienza è da ieri in agitazione permanente, a Bologna, Pisa, Genova e Palermo si sono tenuti presidi e assemblee negli atenei, previsti oggi anche a Napoli e Milano. Tutte iniziative in vista del vertice, voluto da Bernini, tra Comitato per l’ordine e la sicurezza e Conferenza dei Rettori (Crui), alla presenza di Piantedosi. «Vogliono chiudere gli spazi di agibilità politica in università – dicono gli studenti dei collettivi – Ribadiremo dentro e fuori che non fermeranno il nostro sostegno alla resistenza palestinese».
Intanto la repressione continua anche per via legali. Dopo la notizia arrivata nei giorni scorsi di 32 denunce per l’occupazione lampo del rettorato della Sapienza, sarebbero state anche denunciate almeno cinque persone per la contestazione pacifica al giornalista David Parenzo, l’8 marzo scorso, sempre all’università di Roma
Dopo la Columbia retate alla Nyu, ma ormai le proteste per la Palestina sono decine: cortei a Yale, Mit e Tufts, tende a Berkeley, occupazioni in California. E cariche a Torino. A Gaza ora l’Onu vuole indagini sulle fosse comuni
CAMPUS LARGO. Dopo le retate alla Columbia si agitano Nyu, Yale, Mit... Proteste da Berkeley al Cal Polytechnic, richiesta la Guardia Nazionale
La protesta per la Palestina alla Columbia University - foto di Andrea Renault/Star Max
Gli arresti a centinaia non fermano le manifestazioni per la Palestina nelle università Usa, anzi sembrano provocarne l’allargamento a sempre nuovi campus. Una tendenza che non dà cenno di rientrare.
Non è più solo la Columbia University ad avere manifestazioni e sit in permanenti. A New York anche la progressista New School e la prestigiosa Nyu sono mobilitate, e così sta accadendo a Yale, al Mit di Boston, alla Tufts, alla University of North Carolina. Sulla costa ovest ci sono accampamenti di protesta all’Università della California, a Berkeley. Studenti si sono barricati all’interno della California Polytechnic State University. Per il Seattle Times, centinaia di studenti stanno organizzando una manifestazione nella regione di Puget Sound (Washington) a cui parteciperanno due dozzine di scuole superiori e college.
LA RISPOSTA DEGLI ATENEI non si discosta da quella della rettrice della Columbia, Minouche Shafik: chiamare la polizia e cercare di tenere a casa gli studenti con la didattica da remoto. La New York University ha chiamato la polizia per disperdere la folla che continuava ad aumentare, e quando da parte degli studenti sono state lanciare alcune bottiglie si sono verificati momenti di tensione ma niente arresti. A Yale invece decine di studenti sono stati arrestati con l’accusa di trespassing (sconfinamento), e Harvard ha deciso di sospendere il Comitato per la solidarietà con la Palestina. Se la risposta dei rettori non cambia, altrettanto accade con le reazioni degli studenti: «Come ebrea, come studentessa di Yale, come americana, sono convinta di non volere che gli omicidi continuino a verificarsi in mio nome e con i miei soldi – dice la 22enne Miriam Levine – E quindi continuerò a protestare».
PARTE DEL PROBLEMA è che i rettori di queste prestigiose e costose università private non possono permettersi di perdere i grandi donatori e quindi cercano di soffocare le proteste in nome della sicurezza. «Parlano della minaccia antisemita – dice Rachel Schwartzes, studentessa del Cuny, l’università della città di New York – ma più della metà degli studenti che protesta è ebrea. Il problema è che
Leggi tutto: Arrestarli non basta, la Palestina accende le università degli Usa - di Marina Catucci
Commenta (0 Commenti)Non è bastata la multa dello scorso anno. L’Antitrust annuncia di aver avviato una nuova istruttoria su Enel per accertare una possibile pratica commerciale scorretta legata alle modalità di comunicazione sui rinnovi contrattuali. “Alcuni utenti riferiscono di ricevere regolarmente le fatture tramite email (o sull’app), ma di non aver ricevuto alcuna comunicazione di rinnovo delle condizioni economiche tramite i predetti canali e di aver trovato casualmente nello spam una email, proveniente da Enel Energia, alla quale era allegata la comunicazione di rinnovo, a seguito della scadenza, delle condizioni economiche di fornitura”, spiega il bollettino dell’authority.
L’Agcm intende verificare se davvero, come sembra, “la email in esame sarebbe stata ‘artatamente confezionata per essere intercettata dal filtro antispam‘ anche in ragione della rilevanza della parte grafica; la medesima, invero, si prestava ad essere interpretata come un mero messaggio promozionale e non come un documento avente un significativo impatto sul contratto di fornitura, tenuto, altresì, conto né nell’intestazione, né nella parte testuale di detta email non veniva data evidenza al suo oggetto (ossia, la modifica delle condizioni economiche)”.
Le denunce (oltre 600) di consumatori e microimprese “sono pervenute dal mese di gennaio 2024”: in molti “lamentano di aver ricevuto, in occasione dei cicli di fatturazione relativi al quadrimestre ottobre 2023 – gennaio 2024, bollette recanti un significativo incremento del prezzo delle forniture di gas e di energia elettrica rispetto alle bollette riferite allo stesso arco temporale nell’anno precedente”. Ad allarmare gli utenti, “oltre alla difficoltà di sostenere esborsi quadruplicati o quintuplicati rispetto al passato”, è soprattutto il fatto “di non aver ricevuto alcuna informazione preventiva in forma scritta (via posta elettronica o cartacea), da parte di Enel Energia, in ordine al rinnovo contrattuale e di non aver potuto, pertanto, esercitare il diritto di recesso, né scegliere un diverso fornitore di energia”. Il sospetto, appunto, è che il gruppo abbia volutamente fatto finire quelle comunicazioni nello spam perché i clienti non le leggessero.
Già lo scorso novembre Enel Energia era stata sanzionata dall’Antitrust (insieme ad altre sei società) per 10 milioni. L’azienda, secondo l’Agcm, aveva adottato pratiche commerciali aggressive condizionando i consumatori ad accettare modifiche in aumento dei prezzi dell’energia elettrice e del gas, in contrasto con la protezione normativa derivante dall’articolo 3 del Decreto Aiuti bis. Il presidente Roberto Rustichelli ha quantificato in oltre 1 miliardo di euro il danno causato a 4,5 milioni di famiglie e piccole imprese dalle pratiche commerciali aggressive delle aziende energetiche per convincere i consumatori ad accettare modifiche unilaterali peggiorative dei prezzi dell’energia elettrica e del gas.
Enel Energia “ritiene di aver sempre agito nel pieno rispetto della normativa primaria e di settore, nonché della disciplina contrattuale” e “confida di poter dimostrare la piena correttezza del proprio operato nel prosieguo del procedimento”
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Con l’affluenza alle urne sotto il 50% la Basilicata ha confermato le previsioni, assegnando di nuovo a Vito Bardi il compito di amministrare la Regione nel corso dei prossimi cinque anni.
LA PARTITA per il campo largo, che ha deciso dopo parecchie traversie di puntare su Piero Marrese, sindaco di Montalbano Jonico e presidente della Provincia di Matera, non era affatto facile. Anche per ragioni di radicamento territoriale: Marrese è risultato competitivo attorno alla Città dei sassi ma non ha sfondato nel capoluogo di Regione, dove ieri ha assistito al voto Elisabetta Casellati, ministra delle riforme eletta al Senato in Lucania e segretaria regionale di Forza Italia. Ma per compiere il miracolo, al quale alcuni esponenti del centrosinistra hanno creduto spinti dagli imbarazzi della destra sul tema dell’autonomia differenziata e dalla campagna elettorale di basso profilo di Bardi, sarebbe servita un’affluenza alle urne da record, segno di una mobilitazione straordinaria che evidentemente da parte degli elettori non c’è stata. Va detto, tuttavia, che il dato del 49,7% di affluenza non rappresenta il record negativo. I votanti furono ancora meno nel 2013, quando in seguito allo scandalo della «rimborsopoli lucana» si tornò al voto e la punto Marcello Pittella, allora espressione del Partito democratico. Con questi votanti, la vittoria della destra è abbastanza facile: è mancato il voto d’opinione e Marrese non è riuscito a mobilitare gli scontenti della politica. Ci aveva sperato, tanto che al suo ultimo appello al voto aveva tirato fuori un claim quasi grillino, invocando il sostegno dei cittadini «né di destra né di sinistra». Ma quando a votare sono in pochi, prevalgono le cordate più strutturate e le filiere meglio oliate.
QUESTA VOLTA, Pittella sosteneva Azione di Carlo Calenda e insieme ai renziani di Italia Viva ha scelto di appoggiare la corsa di Bardi nonostante anni di polemiche tra l’ex presidente e l’vice comandante generale della Guardia di finanza passato alla politica attiva su spinta di Silvio Berlusconi. E proprio Renzi, guardando anche all’ottimo risultato di Forza Italia, esulta per la vittoria del la destra: «Il centro è determinante», dice il leader di Italia viva. Che già da presidente del consiglio aveva contribuito a cambiare la Basilicata: grazie al decreto «Sblocca Italia», infatti, vennero facilitate di molto le trivellazioni e le estrazioni di gas dai giacimenti locali. Bardi, dal canto suo, si produce in una dichiarazione canonica e poco sorprendente, incolore come la sua passata amministrazione e come la campagna elettorale che pure lo ha condotto a vincere facile: «Si delinea a ogni modo una vittoria chiara della nostra coalizione – ha detto in serata, quando ancora i risultati non erano definitivi ma veniva dato al 57% contro il 42 di Marrese – Voglio ringraziare i lucani per la fiducia che mi hanno accordato, per la seconda volta. È una grande responsabilità che sento verso tutti loro, anche verso i lucani che non mi hanno votato o che non si sono recati alle urne. Continuerò ad essere il presidente di tutti».
IL M5S alle precedenti regionali e alle ultime politiche era sempre andato oltre il 20%, ora non va oltre l’8. Il Pd a scrutinio in corso regge attorno al 15% e la lista Basilicata Casa Comune di Angelo Chiorazzo (il re delle coop bianche che in un primo momento avrebbe dovuto essere lo sfidante di Bardi) lotta per arrivare al 10%. Avs, che qui si candida coi socialisti, è data sopra il 5%. Azione, che in Basilicata è associata all’ex presidente Pittella e che sta col centrodestra, supera il 10%. La Lega, che esprime il sindaco di Potenza, alle scorse regionali aveva sfiorato il 20%, ora si ferma attorno al 7. Fratelli d’Italia, attorno al 18%, confermerebbe il risultato delle politiche (alle regionali era al 5,6%). Marrese ammette la sconfitta e assicura: «Presenterò subito una mozione per contrastare l’autonomia differenziata».
NEL PD riparte il dibattito. «Dobbiamo riconoscere di essere arrivati al voto dopo errori che hanno condizionato il risultato – dice le la parlamentare europea Pina Picierno – Nel cosiddetto campo largo e nel rapporto con il M5S è necessario stabilire alcune regole»
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GAZA. Si dimette Aharon Haliva capo dell’intelligence militare israeliana per il fallimento del 7 ottobre. Bibi ora è sotto sotto pressione. Israele non ha fornito prove dell’accusa secondo cui dipendenti dell’Unrwa sarebbero membri di Hamas
Si scava nelle fosse comuni di Khan Yunis - Ap
«Vorrei dargli una sepoltura degna e pregare sulla sua tomba, solo questo», diceva ieri in un video una donna affacciandosi sulla fossa comune individuata accanto all’ospedale Nasser di Khan Yunis. Si riferiva al figlio 21enne scomparso da due mesi nella zona del complesso medico più importante nel sud di Gaza, occupato dalle truppe israeliane nelle scorse settimane. Difficilmente riuscirebbe a identificarlo. I corpi sono in avanzato stato di decomposizione. Appena recuperati, per ragioni sanitarie, vengono subito avvolti in sudari bianchi. Solo alcuni sono stati identificati grazie al ritrovamento dei documenti.
Ieri ne sono stati recuperati altri 73, da tre fosse comuni. In quella più grande, scoperta sabato, sono stati trovati 210 cadaveri di giovani e anziani e di donne. «Alcuni erano ammanettati e spogliati dei vestiti, altri sono stati giustiziati a sangue freddo» ha detto un medico del Nasser accusando l’esercito israeliano di aver cercato di «nascondere i suoi crimini» seppellendo frettolosamente i morti. La stessa accusa rivolta a Israele dalle squadre della Protezione civile che nei giorni scorsi hanno recuperato i corpi di circa 300 persone uccise da bombardamenti e combattimenti dentro e intorno all’ospedale Shifa di Gaza city. «Ci aspettiamo di trovare altri 200 corpi nelle fosse comuni», ha previsto Ismail Thawabta, direttore dell’ufficio stampa governativo.
Il calvario di Khan Yunis non è terminato. Nella parte orientale della città ridotta in gran parte in macerie, ieri sono
Commenta (0 Commenti)INVADO AVANTI. L’aviazione israeliana colpisce una casa piena di sfollati, mentre la Camera Usa vota un pacchetto di aiuti a Tel Aviv da 26 miliardi. In Cisgiordania, undici palestinesi uccisi a Tulkarem da giovedì. E ieri l’esercito ha invaso l’ospedale
I feriti nel raid di venerdì notte al Kuwaiti Hospital di Rafah - Ap/Ismael Abu Dayyah
«Nemmeno il cimitero è stato risparmiato dai bombardamenti. Questa è Rafah. Quella che chiamano il posto sicuro per gli sfollati». Adnan al-Arja dice di non avere parole, ma le trova. Le consegna alla squadra di al Jazeera dopo un raid notturno che ha fatto una strage. Di bambini per lo più: sei sulle dieci vittime totali, le altre erano donne.
«LA SCENA dei corpi portati all’ospedale al-Najjar per la sepoltura spezza il cuore – racconta il corrispondente palestinese della tv qatariota, Hani Mahmoud – La maggior parte sono bambini, avvolti in lenzuola bianche impregnate di sangue. I dottori dicono che le ustioni erano così brutte che, anche fossero arrivati vivi, in questa situazione non ci sarebbe stato modo di salvarli».
Ahmed Barhoum, nel raid, ha perso la moglie e la figlioletta di cinque anni. Il raid ha centrato la casa dove si speravano al sicuro: «Questo è un mondo senza morale, senza valori». Lo dice all’Ap, mentre abbraccia il corpo senza vita della figlia Alaa: «Hanno bombardato una casa piena di sfollati, di donne e bambini. Non ci sono combattenti qui, solo donne e bambini».
Di fatto, l’offensiva israeliana contro Rafah è già iniziata. Non ieri, ma da settimane ormai. La città-rifugio – che ha visto in pochi mesi quadruplicare la propria popolazione, dopo la fuga disperata di 1,5 milioni di rifugiati nel risiko dell’occupazione israeliana – è colpita dall’aviazione israeliana con cadenza regolare.
Nessuno stivale sul terreno ma il fischio sinistro delle bombe. «Rafah sta assistendo a un’impennata di bombardamenti israeliani nelle ultime due settimane – spiega il giornalista Tareq Abu Azzoum – Può essere letto come il segno di una successiva incursione militare, soprattutto alla luce della mobilitazione delle truppe israeliane lungo il confine con la città».
Non è stata la sola presa di mira ieri, raid sono piovuti anche nel centro della Striscia e a nord del campo di Nuseirat, ormai raso al suolo. È stata distrutta anche la sede di un’industria farmaceutica a Deir al-Balah, la più grande di tutta Gaza: attacco «deliberato» dice il Comune, per rendere questo posto invivibile.
È IN QUESTO contesto definito di «genocidio plausibile» dalla Corte internazionale di Giustizia a causa della distruzione sistematica e deliberata di ogni forma di sussistenza, che ieri – a quasi duecento giorni dall’inizio dell’offensiva iniziata dopo l’attacco del 7 ottobre di Hamas – la Camera statunitense si è riunita per votare, tra gli altri, il pacchetto aggiuntivo di aiuti a Israele, «la misura più significativa dal 7 ottobre», scriveva ieri Haaretz.
Di miliardi di dollari ne riceverà 26, di cui 14 di «incondizionato aiuto militare»: dentro ci sono soldi per la difesa aerea ma anche per munizioni e sviluppo di tecnologie offensive. La contrarietà di un pezzo di Partito democratico si è ridotta significativamente: in mezzo c’è stato l’attacco iraniano del 13 aprile.
È solo l’ulteriore conferma che gli Stati uniti non hanno mai messo in dubbio il sostegno incondizionato a Israele. Rafah o non Rafah. Lo avevano già ricordato a tutti due giorni fa alle Nazioni unite mettendo il veto alla mozione del Consiglio di Sicurezza che chiedeva di riconoscere a pieno lo Stato di Palestina. Ieri l’Autorità nazionale palestinese ha detto che sta riconsiderando i rapporti con Washington perché «ha violato tutte le leggi internazionali e ha abbandonato le promesse di una soluzione a due stati…e fornisce armi e denaro a Israele che uccidono i nostri bambini e distruggono le nostre case», ha dichiarato in un’intervista il presidente palestinese Abu Mazen.
Alla «minaccia» credono in pochi visto la dipendenza dell’Anp dai fondi Usa. Nelle stesse ore in Turchia il presidente Erdogan incontrava il leader politico di Hamas, Ismail Haniyeh . Due ore e mezzo di incontro a Istanbul tra i due esponenti della Fratellanza musulmana durante le quali Erdogan ha promesso sforzo diplomatico per «un cessate il fuoco immediato». Lì, a Istanbul, le contraddizioni si intrecciano: da una parte la vicinanza politica ad Hamas e la sedicente guida turca di un fantomatico fronte regionale pro-palestinese, dall’altro i rapporti commerciali e militari mai interrotti con Israele e l’appartenenza alla Nato.
INTANTO in Cisgiordania – spesso a margine delle cronache nonostante nelle comunità palestinesi sia in corso la più feroce ondata di attacchi e sfollamento dal 1967 – le violenze proseguono. Il campo profughi di Nur al-Sham, a Tulkarem, ha visto salire a 11 il numero dei palestinesi uccisi (sette da proiettili, quattro da pestaggi) nell’operazione israeliana iniziata giovedì sera, con truppe e bulldozer. Per Israele tutti combattenti, ma il ministero della salute di Ramallah dà conto delle vittime civili: tra loro un 15enne, Fathi Qais Nasrallah.
Tre le case fatte saltare in aria e numerosi i feriti, aggiunge, irraggiungibili perché l’esercito impedisce alle ambulanze di passare. E ieri sera l’esercito ha invaso l’ospedale di Tulkarem, aggredito i medici e arrestato un paramedico.
Anche qui la sanità è sotto attacco: un medico di 50 anni, è stato ammazzato dai coloni a sud di Nablus. Secondo la Mezzaluna rossa, un gruppo di coloni ha lanciato pietre contro le auto palestinesi in transito e, all’arrivo dell’ambulanza, ha aperto il fuoco uccidendo il dottor Muhammad Awadallah
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