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L’associazione Il manifesto in rete aderisce all’appello lanciato da Luciana Castellina, Luigi Ferrajoli e Gian Giacomo Migone in vista della manifestazione che si terrà a Roma il prossimo 5 aprile, per un’Europa della pace e non del riarmo. Pubblichiamo di seguito il testo dell’appello.

Troviamoci, tutte e tutti, a Roma, sabato 5 aprile, all’appuntamento già indetto dal M5S, a manifestare per un’Europa unita per la pace, fondata sulla giustizia sociale e la democrazia, come l’hanno intesa Spinelli, Colorni e Rossi, dal carcere di Ventotene. L’arresto delle stragi in atto a Gaza e Cisgiordania, in tutto il Medio Oriente, Sudan, Congo, Ucraina, Yemen e in altre parti del mondo sono la prima urgenza.

Siamo dalla parte delle vittime. Rifiutiamo di essere rappresentati dal governo italiano che non riesce nemmeno a seguire l’esempio di altri governi europei che finalmente chiedono il cessate il fuoco a tutela dei Palestinesi. Un’Europa diversa da quella attuale, unita, federale, dotata di politica estera, con una difesa coerente ed indipendente – radicalmente alternativa al riarmo sostenuto da von der Leyen – può contribuire alla pace da oggi.

Serve un mondo multipolare, che abbia come obiettivo il disarmo globale, sottratto agli interessi dei fabbricanti di armi e dei risorgenti nazionalismi, pronti – come quello propagato dal governo Meloni – a sottomettersi a chi, ancora una volta, vuole spartirsi il nostro continente, a Washington come a Mosca.

La strada è lunga e piena di ostacoli, ma a Roma, il 5 aprile, saremo in tanti con le sole bandiere della Pace e dell’Europa che intendiamo costruire.

Ci rivolgiamo innanzitutto a tutte le libere associazioni con vocazione di pace, comunità religiose che rifiutano ogni uso aggressivo e strumentale della loro fede, sindacati (il convegno della Cgil può essere una buona occasione per unire le piazze), persone come padre Alex Zanotelli e Moni Ovadia che da tempo c’ispirano.

Cara Schlein, caro Conte, Fratoianni, Bonelli e Acerbo, fate la vostra parte, mettetevi d’accordo e poi troviamoci insieme.

Luciana Castellina

Luigi Ferrajoli

Gian Giacomo Migone

Chi desidera aderire alla lettera può scrivere un’e-mail (chiedendo di inserire il proprio nome fra i firmatari) a: Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.

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Diritti Mentre Netanyahu è accolto in Ungheria, in vari paesi rischiano di essere ridotte al silenzio tutte le voci levate per denunciare le violazioni dei diritti umani a Gaza

16 novembre 2024, Berlino: la gente partecipa a una manifestazione pro-palestinese con bandiere e striscioni. Diverse centinaia di persone hanno manifestato per solidarietà con la Palestina. Tra le altre cose, hanno chiesto la fine della fornitura di armi a Israele e la fine della guerra nella Striscia di Gaza. Foto di: Christophe Gateau/picture-alliance/dpa/AP Images erlino: la gente partecipa a una manifestazione pro-palestinese con bandiere e striscioni

Se non lo avete letto sul manifesto del 2 aprile non lo sapete, ma tre cittadini di paesi Ue, e uno degli Stati uniti, potrebbero essere deportati dalla Germania. Di quali delitti si sono macchiati? Allo stato attuale nessuno di loro è stato condannato per un crimine.

Le accuse rivolte a queste persone nei provvedimenti di espulsione sono di vario tipo, e alcune potrebbero avere rilevo penale, salvo che deportandole non ci sarà mai la pronuncia di un giudice. In realtà buona parte dei comportamenti che vengono imputati a queste quattro persone non riguardano crimini, ma atti politici che dovrebbero essere legittimi in una democrazia, anche se possono comportare la violazione di una legge, come avviene tipicamente nelle azioni di disobbedienza civile.

In altri casi, infine, l’accusa è semplicemente di aver cantato, nel corso di manifestazioni, slogan che, secondo le autorità tedesche, sarebbero antisemiti. Si tratta degli stessi slogan che molti ebrei, e anche tante persone ragionevoli, considerano invece manifestazioni di simpatia legittime per la liberazione della Palestina. Espellere qualcuno per aver cantato questi slogan sembra un vero e proprio tentativo di limitare la libera espressione di opinioni politiche, e di intimidire chi protesta. Secondo il giornalista tedesco Hanno Hauenstein (che ne ha scritto per il Guardian il 3 aprile) il fondamento legale di tali espulsioni, che richiama il cosiddetto principio di Staatsräson, appare poco solido a diversi giuristi, ed è stato anche messo in discussione da una commissione del parlamento.

Lo stesso Hauenstein, nel suo reportage per il quotidiano britannico, osserva che questi provvedimenti di espulsione sono ulteriori – preoccupanti – segnali di una vera e propria «svolta autoritaria» in corso in Germania da quando, in seguito all’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023, è cominciata la campagna militare di Israele a Gaza. L’elenco delle persone che in questi mesi sono state calunniate, e in molti casi private della possibilità di esprimere le proprie opinioni, è già molto lungo, e include studiosi di grande valore, intellettuali pubblici e, da ultimo, due registi appena premiati con l’oscar. «In quasi tutti questi casi – scrive Hauenstein – le accuse di antisemitismo sono sullo sfondo, anche se gli ebrei sono spesso tra i bersagli. Più spesso che no, sono i liberal a guidare o ad accettare tacitamente queste cancellazioni, mentre i conservatori e l’estrema destra stanno da parte e le applaudono».

Questa osservazione ci conduce al cuore di quella che è diventata una questione cruciale, e che non riguarda soltanto la Germania. Stiamo assistendo infatti a un processo di repressione in atto in diversi paesi, che corre il rischio di soffocare e di ridurre al silenzio tutte le voci che si sono levate in più di un anno per denunciare le violazioni dei diritti umani a Gaza, e il pericolo che esse si traducano in un genocidio ai danni del popolo palestinese. Ciò è avvenuto attraverso un uso crescente della forza: si comincia con la distorsione e la soppressione delle notizie provenienti dalla Palestina, e si arriva alle persecuzioni di chi protesta e alla repressione violenta delle manifestazioni. Ormai ci siamo abituati alle immagini di poliziotti che picchiano studenti che in alcuni casi sono chiaramente minorenni.

Scene che in passato avremmo associato a regimi autoritari, ma che invece, e questo è l’elemento che desta maggiore preoccupazione, in molti casi avvengono per volontà di governi centristi, spesso, come in Germania, con il sostegno della sinistra socialdemocratica.

Non è facile capire quale sia il disegno politico che c’è dietro scelte che appaiono fatte, come sottolinea Hauenstein, per raccogliere il consenso della destra più estrema. Oltretutto in una situazione in cui, con ogni probabilità, sarà proprio tale destra a invocare presto le repressioni poste in essere da governi centristi e moderati come precedenti per legittimare altre, maggiori e più brutali, misure autoritarie. Come se, incapaci di recuperare il consenso perso per via del proprio fallimento politico, i partiti liberal-conservatori e quelli social-democratici avessero scelto di facilitare la strada alla destra più estrema invece di provare a fermarla.

La visita trionfale di Netanyahu in Ungheria è un’illustrazione di questa tendenza. Orbán ha ospitato una persona accusata di gravissimi crimini da una corte internazionale, e lo ha fatto approfittando delle diverse azioni che vari paesi Ue hanno messo in atto per erodere la legittimità del diritto internazionale. Quello che ieri era il reietto d’Europa oggi pare l’avanguardia di un nuovo consenso europeo. Costruito, come avrebbe detto Franz Neumann, intorno all’imposizione di un credo politico e accompagnato dall’ostracismo nei confronti di chi non lo accetta. Per quanto tempo potremo ancora chiamare regimi come quelli che stanno emergendo in Europa democrazie?

 

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Femminicidi Un’altra. E un’altra ancora. Due studentesse universitarie, Sara Campanella, 22 anni, e Ilaria Sula, anche lei 22. E due giovani uomini che si dichiarano colpevoli: il «malato», come Sara chiamava […]

Tossine letali e lacrime di coccodrillo

 

Un’altra. E un’altra ancora. Due studentesse universitarie, Sara Campanella, 22 anni, e Ilaria Sula, anche lei 22. E due giovani uomini che si dichiarano colpevoli: il «malato», come Sara chiamava con le amiche quel collega ventisettenne ombroso che da due anni la tampinava, e il «bravissimo ragazzo» ventitreenne studente di architettura che ha confessato «dispiaciuto» di aver ucciso la ex per poi chiuderla in una valigia e scaraventarla giù per una scarpata. Lo sappiamo, lo abbiamo già visto, avviene indipendentemente dall’età, dal livello di istruzione, dalla collocazione geografica o sociale. La cultura che affila le lame e lucida le pallottole si insinua, si mimetizza e si adatta per sfuggire alle difese di un organismo che non riesce a espellere la tossina letale, una tossina che più resistenze incontra e più si fa feroce per riuscire a sopravvivere e proprio lì dove non ci si aspetterebbe di trovarla.

Tra i più giovani, appunto. E invece accade. Accade che giovani maschi non siano capaci di digerire un rifiuto, di misurarsi con la libertà di una coetanea o di accettare una compagna che negli studi o nel lavoro corre più veloce e allora che fai, dove pensi di andare, stai qui con me: viva o morta. Hanno imparato, spesso senza nemmeno sapere come e perché, che è così che vanno sistemati i pezzi al loro posto e per questo sono portati a dichiararlo davanti agli altri uomini e davanti alla legge.

Può fermarli la minaccia di carcere a vita come quella contenuta nel ddl che istituisce il reato di femminicidio? Si direbbe di no. Invocare prevenzione-versus-repressione ha senso? Dovrebbe. Ma purtroppo le buone intenzioni affogano nelle lacrime di coccodrillo e nelle barriere ideologiche di una destra reazionaria che oppone a proposte minime e di buon senso come l’educazione sessuoaffettiva a scuola il fantasma dell’«ideologia gender» o il «ci pensi la famiglia». Mentre l’opposizione alza giustamente la voce ma sembra che faccia fatica a dare un nome alle cose.

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Dollaro I paesi esportatori mettono da parte dollari, ma gli Usa con le barriere commerciali e finanziarie ne frenano il libero utilizzo. La fiducia nel biglietto verde così è destinata a calare

Illustrazione Freepik Illustrazione Freepik – Illustrazione Freepik

È il gran «giorno della liberazione», come Trump ama chiamarlo: vale a dire, una nuova ondata di barriere doganali con cui l’America indebitata verso l’estero punta a limitare gli afflussi di merci provenienti dal resto del mondo. Definirla «liberazione», in effetti, suona ironico.

Per decenni gli Stati uniti hanno potuto importare senza freni dall’estero anche in virtù dell’esorbitante privilegio di emettere dollari, la valuta più richiesta per i pagamenti internazionali. È quello che gli economisti chiamano il «grado di libertà in più» della politica economica americana: una forza monetaria che è anche espressione di una più vasta egemonia imperiale, nel senso che la moneta dominante si è fatta largo anche grazie al controllo politico-militare delle aree in cui si diffondeva. Risultato: il mondo portava i beni all’America, e questa in cambio lo ingozzava di banconote.

Proprio quel «grado di libertà» della politica americana, tuttavia, è oggi messo in discussione. Come riconosciuto da Larry Fink e da altri insider del capitalismo statunitense, è possibile che l’egemonia monetaria dell’America stia volgendo al termine. Del resto, se i paesi esportatori accumulano dollari e gli Stati uniti alzano barriere commerciali e finanziarie che impediranno il libero utilizzo di quegli stessi dollari, per quanto tempo ancora ci si potrà fidare del valore universale del biglietto verde? A ben vedere, proprio la politica protezionista americana accelera la crisi egemonica americana.

Se dunque così stanno le cose, in effetti proprio di «liberazione» si tratta. Ma a liberarsi non è tanto l’America, quanto piuttosto quella enorme parte di mondo che per decenni si è assoggettata all’imperio «militar-monetario» statunitense. Le parole di Donald Trump, come spesso capita, significano il contrario di quel che sembrano.

Certo, la storia insegna che nessuna «liberazione» è indolore. Tanto meno questa, il cui travaglio si annuncia lungo e carico di minacce. Il problema di una crisi egemonica è che bisogna costruire un’egemonia alternativa, possibilmente attraverso un accordo multilaterale globale. Facile a dirsi. Come una bestia abituata a dominare che avverte i segni del proprio declino, l’America farà ogni tipo di resistenza a un accordo che delinei la fine del suo esorbitante privilegio.

Ma anche i cinesi si guardano bene dal prendere un’iniziativa di coordinamento. Per adesso, a Pechino preferiscono agitare la vecchia bandiera del libero commercio globale contro quella insorgente del protezionismo statunitense. Ma è pura retorica. Il liberismo indiscriminato degli anni passati, infatti, è esso stesso una causa degli squilibri finanziari che hanno poi dato la stura alle barriere americane. Con buona pace di Xi Jinping, un ritorno al globalismo deregolato non può esser soluzione poiché è parte del problema.

Quanto all’Unione europea, per aiutare a governare la crisi americana in modo pacifico potrebbe in primo luogo ammettere le sue responsabilità. Come il fatto che il veleno dell’austerity europea ha represso anche le nostre importazioni dal resto del mondo, e così ha contribuito a far montare il debito americano e gli altri squilibri internazionali. Ma a Bruxelles non sembrano di questo avviso. Anzi, ieri von der Leyen ha dichiarato che in caso di nuovi dazi americani l’Ue è pronta a «vendicarsi». Altro che promozione del multilateralismo. Ancora una volta un linguaggio guerresco, che rivela mefitiche ambizioni da nuova Europa imperiale.

In questa angosciosa tormenta delle relazioni internazionali, resta da capire la linea dell’Italia. Il nostro paese si trova in una posizione difficile, poiché è tra quelli che più vendono agli Stati uniti e quindi più contribuiscono all’indebitamento Usa verso l’estero. Gli americani registrano infatti un eccesso di importazioni dall’Italia di ben 44 miliardi di dollari e lamentano di comprare quasi due volte e mezzo più beni e servizi di quelli che noi acquistiamo da loro.

Con un tale squilibrio, può anche darsi che nel «giorno della liberazione» l’Italia risulti un po’ meno colpita di altri paesi. Ma i dati indicano che resteremo a lungo tra i bersagli più grossi della politica protezionista di Washington. Rimembrando Marco Polo, faremmo bene a guardarci intorno in cerca di sbocchi commerciali alternativi.

Uscire senza troppe ferite dalla crisi strutturale del capitalismo atlantico richiederà lungimiranza strategica. L’esatto opposto della grottesca disputa tra Meloni, Tajani e Salvini a chi sa impersonare meglio «un americano a Roma».

 

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Turchia Le contraddizioni dell’erdoganismo si sono spinte ormai troppo in profondità. Una vicenda politica inesorabilmente intrecciata alla nostra di cittadini europei

Al cuore del progetto autoritario Polizia in assetto anti sommossa durante una protesta in supporto al sindaco di Istanbul arrestato – Ap

L’immensa mobilitazione turca sembra dire che Erdogan ha fatto un passo di troppo, quando ha deciso la prigione per il suo principale rivale, dopo avergli fatto togliere il titolo di studio, così da dichiararne l’ineleggibilità. Si può pensare che abbia calcolato la reazione di massa che ne sarebbe seguita, scommettendo sul suo contenimento, per uscire dalla crisi con una decisa accelerata allo smantellamento dei residui ancoraggi democratici del Paese.

Con le pulsioni autoritarie che mietono consensi alla Casa bianca e la Nato tutt’altro che unita, ecco la tentazione dell’ulteriore giro di vite: convocare elezioni anticipate, ora che ha eliminato ogni possibilità che siano contendibili, e incardinarsi al potere per traghettare la Turchia verso un approdo compiutamente dispotico, accanto alla Bielorussia.

Come che sia, è un fatto che lo scontro in atto porta il Paese fuori dal solco dell’autoritarismo a fuoco lento in cui la Turchia di Erdogan è stata collocata fino a oggi dal mainstream occidentale, notoriamente poco sensibile all’incarcerazione di massa di giornalisti, minoranze e attivisti di sinistra.

Gli arrestati di questa settimana sono in effetti centinaia. Ma non siamo più alla repressione dei cosiddetti margini, i docenti che firmano petizioni per la pace, gli studenti di Gezi Park che si mobilitano contro la devastazione dei «palazzinari amici», oppure gli attivisti, gli amministratori e i parlamentari curdi, il cui peso elettorale impediva di riscrivere la costituzione. Non siamo nemmeno alle dure purghe contro gli ex consociati gulenisti, scatenate all’indomani del tentato colpo di stato. Per il blocco di potere islamo-nazionalista siamo arrivati al cuore del problema dello stato: lo scontro frontale con le forme odierne del kemalismo repubblicano.

Ovvero quel Chp che, ridisegnando le proprie alleanze, ha conquistato il governo delle grandi città, arrivando, due anni orsono, a contendere la presidenza, ed apprestandosi alle designazioni per la prossima battaglia elettorale. È significativo che, aprendo la prima grande protesta seguita all’arresto di Imamoglu, il leader Chp Ozgur Orel abbia voluto salutare il leader dell’Hdp filo-curdo Selahattin Demirtas, che sta scontando una pesante condanna, chiedendone l’immediata scarcerazione.

In questi giorni la piattaforma social del campione del free speech, Elon Musk, ha sospeso gli account di politici dell’opposizione. Gli attivisti curdi in queste ore denunciano restrizioni a migliaia di account di X su scala globale. Dalla piazza, i leader dell’opposizione hanno invitato al boicottaggio dei media nazionali, che, seguendo un copione noto, ignorano le immense manifestazioni di protesta, mandando in onda servizi sui dolcetti per la fine del Ramadan, o su «Israele che teme la Turchia».

Il paradosso è che l’apertura di questa profonda faglia interna, alla quale concorrono anche dinamiche economiche disastrose per la popolazione, avviene proprio nel momento in cui sembrava che all’erdoganismo le cose stessero andando piuttosto bene: la rimozione di Assad dalla Siria, con avanzata delle milizie foraggiate da Ankara, il disarmo del Pkk dopo l’appello di Ocalan dal carcere, l’alto profilo tenuto nella comunità musulmana grazie alle tirate, puramente retoriche, contro Israele, e infine il credito ottenuto per i buoni uffici nella mediazione fra

Ucraina e Russia. Evidentemente le contraddizioni si sono spinte ormai più in profondità, al cuore del progetto autoritario. Continuiamo a guardare alla Turchia attraverso una sguardo orientalista, interponendo una distanza che in realtà non esiste. Certo, Erdogan si muove lungo i binari di un sultanismo neo-ottomanista reinventato, ed è presumibile che si aggiri rabbioso per le 1.100 stanze del palazzo presidenziale che si è fatto costruire, perché non riesce a conquistare e controllare Istanbul. Ma la vicenda politica turca è inestricabilmente intrecciata con la nostra, dalle dinamiche dei gasdotti mediterranei e della Libia, a quelle del pluralismo e degli spazi democratici in Europa. Per non parlare delle molte lezioni che abbiamo appreso dalla mobilitazione del confederalismo democratico, aggredito da jihadisti, islamisti e nazionalisti.

Forse le mobilitazioni che vediamo allargarsi e persistere, da Belgrado a Tbilisi, da Budapest a Istanbul, meriterebbero da parte nostra una considerazione e un’analisi più profonda di quella offerta da strumentali tentativi di ignorarne le diversità, sommando le piazze fra loro, in una ipotetica «primavera delle libertà». Mentre nel mondo si assiste al ritorno della conquista militare e dei piani di riarmo, mentre si perseguono pacificazioni neo-imperiali in un teatro post-egemonico nel quale gli «egemoni» si mostrano incapaci di alcuna guida, esiste e persiste, attraverso i confini, il protagonismo di chi rivendica democrazia, diritti e giustizia sociale.

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