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Sarà la Corte all’esito del giudizio di merito a valutare se, ed in quale misura, le violenze commesse da Israele contro la popolazione di Gaza rientrino nel campo di applicazione della Convenzione, quello che a noi interessa è scongiurare che il genocidio si compia.

 

Prefigurare un percorso di pace oltre il cessate il fuoco: un mandato ONU per Gaza

La morte regna sovrana a Gaza. Quando a dicembre abbiamo prenotato la sala per questo convegno, immaginavamo che prima del 6 febbraio sarebbe intervenuto il cessate il fuoco, decretato dal Consiglio di Sicurezza o comunque imposto ad Israele dai suoi alleati storici, per cui la questione principale da affrontare sarebbe stata quella di progettare un dopoguerra che potesse aprirsi alla speranza della pace.

Ci siamo sbagliati, la tempesta di fuoco scatenata da Israele a seguito dello shock causato dagli atti di barbarie commessi da Hamas il 7 ottobre, non si è arrestata e la Comunità internazionale non si è attivata per fermare i massacri. Soltanto il Sud Africa ha avuto il coraggio di alzare la voce ed ha interpellato la Corte Internazionale di Giustizia dell’ONU, contestando ad Israele la violazione della Convenzione del 1948 per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio. Israele non ha potuto sottrarsi alla giurisdizione della Corte dell’Aja, così come ha fatto con la Corte penale internazionale, perché – sfortunatamente – il 9 marzo 1950 ha firmato la Convenzione a cui hanno aderito quasi tutti gli Stati del Mondo, restando così vincolato alla competenza della Corte. L’ordinanza pronunciata dalla Corte dell’ONU il 26 gennaio ha valore storico perchè nell’eterna lotta fra la forza ed il diritto segna un punto a favore del diritto. Però se le misure d’urgenza decretate dalla Corte per scongiurare il rischio di genocidio resteranno lettera morta, sarà ancora una volta la forza a prevalere sul diritto. E’ un esito che non vogliamo augurarci. Sarà la Corte all’esito del giudizio di merito a valutare se, ed in quale misura, le violenze commesse da Israele contro la popolazione di Gaza rientrino nel campo di applicazione della Convenzione, quello che a noi interessa è scongiurare che il genocidio si compia. Il punto di partenza è fare i conti con la vastità della tragedia in atto.   Non è semplice, non ci sono le parole per dirlo. Come fare a descrivere una condizione umana dove un’intera popolazione 1.9 milioni di persone (su 2.2 milioni) ha dovuto lasciare le proprie case, incalzata dai bombardamenti per ammassarsi in un’area ristretta, senza riparo, senza cibo, al freddo nel fango, senza servizi igienici. Come descrivere la condizione di una società che in tre mesi ha avuto 27.000 morti, fra cui 10.000 bambini e 7.000 donne. Dove ci sono 66.000 feriti da curare quando sono stati danneggiati e hanno cessato di funzionare 26 ospedali su 36, sono state colpite  94 strutture sanitarie e 79 ambulanze, causando la morte di centinaia di medici e paramedici (dati OMS). Come si fa a descrivere la situazione di 19.000 bambini, rimasti orfani o soli, senza nessun adulto che si prenda cura di loro, bambini che “sono intrappolati in un incubo che peggiora ogni giorno che passa” (Catherine Russell UNICEF)? Come descrivere la condizione delle oltre 50.000 donne in gravidanza che non hanno avuto accesso ai controlli medici e sono costrette a partorire in tende di plastica o in edifici pubblici (MSF) e dei 20.000 bambini che sono nati in queste condizioni e lottano per sopravvivere?   Come si fa a descrivere la sofferenza di 1.000 bambini che hanno avuto uno o due arti amputati, a volte con interventi effettuati senza anestesia (UNICEF)? Ha osservato il giurista Luigi Daniele (il Manifesto, 1/2/24): “L’intera popolazione di Gaza avanza verso un patibolo collettivo di fame, sete, epidemie, mancanza di medicinali e cure per feriti e ammalati. Ciascuno di questi fattori, per sé, è una grave crisi umanitaria, ma è il loro effetto cumulativo a essere letale.”

Alla luce delle sofferenze “indicibili” inflitte alla popolazione di Gaza, è divenuto imperativo il cessate il fuoco. Le misure di prevenzione del Genocidio decretate dalla Corte Internazionale di Giustizia non possono trovare attuazione se non si perviene immediatamente al cessate il fuoco. Il Genocidio, come scolpito nelle parole della Risoluzione 96 dell’Assemblea Generale dell’11 dicembre 1946, “sconvolge la coscienza dell’umanità”.  Solo il cessate il fuoco può impedire che il Genocidio si compia. “Cessate il fuoco” dobbiamo gridarlo sui tetti, esigere che l’Italia e l’Unione Europea impongano il cessate il fuoco, a pena di sanzioni adeguate. Il rischio, come avvertono in una drammatica lettera aperta 800 funzionari USA e UE, è quello di diventare complici di “una delle peggiori catastrofi umane di questo secolo”.

Il cessate il fuoco è una condicio sine qua non per avviare un percorso di pace ma non è sufficiente se non vi è un progetto per il futuro. Il fatto che il conflitto si prolunghi, senza che se ne intraveda una via d’uscita, dipende dalla oscurità degli obiettivi perseguiti. Ancora pochi giorni fa Netanyahu ha dichiarato che la guerra proseguirà ancora per molti mesi fino a quando Israele non raggiungerà i propri obiettivi, precisando che alla fine del conflitto non ci sarà più uno Stato palestinese.

Quando si parla di guerra al terrorismo o comunque si definisce come “guerra”, la tempesta di fuoco che Israele ha scatenato contro Gaza, bisogna considerare che la morte di civili o combattenti non costituisce mai l’obiettivo delle guerre, ma soltanto un prezzo da pagare per conseguire l’obiettivo politico che si vuole perseguire con il ricorso alle armi. Invece, in questo caso la morte di civili e combattenti più che un costo sembra l’obiettivo della guerra. Dobbiamo domandarci qual è il reale obiettivo politico che Israele vuole perseguire con la guerra, cosa vuole ottenere? Il dichiarato intento di eradicare Hamas e di eliminare tutti i suoi miliziani è un obiettivo impossibile ed assurdo. Impossibile perché non vi è un forte di Hamas da espugnare, non vi sono le divisioni corazzate da affrontare e sconfiggere sul campo di battaglia. I miliziani di Hamas sono rifugiati in una selva che è la sfortunata popolazione della Striscia. Per eliminarli tutti bisognerebbe disboscare la selva. Non si possono eliminare i miliziani di Hamas senza compiere un vero e proprio genocidio, eliminando fisicamente una buona fetta della popolazione palestinese.  Dal punto di vista della sicurezza di Israele si tratta di un obiettivo assurdo perché, se anche Hamas scomparisse, dopo aver inflitto ai Gazawi delle sofferenze così atroci, nulla può escludere che i giovani sopravvissuti alle bombe israeliane, alla fame, alla sete, alle malattie, alla morte dei loro genitori o dei loro coetanei, non sentano il bisogno di prendere le armi e di rimpiazzare i miliziani eliminati. In realtà dietro l’uso di questa violenza così estrema e sproporzionata, cova il sogno delle classi dirigenti israeliane, di liberarsi della popolazione palestinese per espandere il territorio dello Stato ebraico “dal fiume al mare”, di realizzare una seconda e definitiva Nakba. Secondo l’ex ambasciatore di Israele Dror Eydar, “Per noi c’è un unico scopo: distruggere Gaza, distruggere questo male assoluto”. Però non è un obiettivo facilmente realizzabile, tant’è che un ministro del governo israeliano, Amichai Eliyahu, esponente del partito “potere ebraico” ha dichiarato che l’utilizzo della bomba atomica su Gaza è, a suo giudizio, “una delle possibilità” in campo”. Una possibilità chiaramente scartata perché il Movimento dei coloni, nella conferenza che si è svolta a Gerusalemme il 28 gennaio, alla quale hanno partecipato 12 Ministri del governo israeliano, ha rivendicato l’appartenenza di Gaza ad Israele per diritto biblico e ha programmato di ricostruire gli insediamenti rimossi da Gaza nel 2005 da Ariel Sharon e di estenderli. Per realizzare questo progetto, però, bisogna sbarazzarsi del terzo incomodo: gli abitanti di Gaza. Nel suo intervento il ministro per la sicurezza nazionale (e leader del partito di estrema destra ‘Potere ebraico’) Itamar Ben Gvir si e’ espresso in favore della ”emigrazione volontaria” dei palestinesi da Gaza. ”Dobbiamo incoraggiarla, – ha detto, fra gli applausi della platea – che se ne vadano da qua”. Prima di lui il suo collega il ministro delle Finanze, Bezalel Smotrich, in una dichiarazione riportata dal Times of Israel ha affermato che esiste un ampio sostegno pubblico per «l’emigrazione volontaria degli arabi di Gaza e il loro assorbimento in altri paesi». Che l’aspirazione, per risolvere la crisi di Gaza, sia quella di sbarazzarsi della popolazione ivi residente, emerge da documenti ufficiali, come quello del Ministero dell’Intelligence, datato 13 ottobre, intitolato “Opzioni per una politica riguardante la popolazione civile di Gaza”. Il documento prevede tre opzioni, le prime due contemplano che la popolazione rimanga a Gaza, la terza prevede che tutti gli abitanti della Striscia siano evacuati nel Sinai. Sembra incredibile ma lo sfollamento di tutta la popolazione (2.200.000 abitanti) dalla Striscia è stata considerata come un’opzione realistica, oltretutto conveniente per la sicurezza di Israele. Quest’aspirazione è tanto profondamente sentita da entrare nei sogni dei leader israeliani, come il sogno, illustrato dal Ministro degli esteri Israel Katz il 22 gennaio al Consiglio degli affari esteri dell’Unione europea, dell’isola che non c’è, dove scaricare la popolazione di Gaza. Poiché Israele persegue obiettivi politici impossibili da realizzare, sia per quanto riguarda l’annientamento di Hamas, sia per quanto riguarda il sogno di sbarazzarsi della popolazione di Gaza, il traguardo della “vittoria” non può essere raggiunto. Nella perseveranza a conseguire una vittoria impossibile si consuma il dramma di una guerra che rischia di sfociare in un genocidio. La vastità delle distruzioni operate da Israele fa intravedere in controluce l’obiettivo di distruggere la presenza dei palestinesi a Gaza come comunità politica. Non è un caso se sono stati distrutti quei luoghi nei quali un gruppo umano si riconosce come comunità: l’Università, il Tribunale, il Parlamento, le scuole, gli ospedali. Non è una caso se sono stati uccisi 111 giornalisti, centinaia di medici, accademici, come Fadel Abu Hein (psicologo esperto di traumi da guerra) e scrittori, come il poeta Rafaat el Areer. Non è un caso se sono il 78% degli istituti scolastici (386 scuole) sono state danneggiate e 138 edifici completamente distrutti (UNESCO). Le distruzioni operate da Israele hanno reso la Striscia inabitabile, mirano a sciogliere tutto ciò che fa comunità e a trasformare il popolo dei Gazawi in una massa di individui senza casa, affamati, slegati fra di loro, privi di ogni riferimento di identità collettiva. Il Ministro della difesa Gallant, in una conferenza stampa tenuta il 4 gennaio, ha delineato l’ipotesi dell’intervento di una forza multinazionale a guida USA, in collaborazione con gli alleati europei e arabi di Israele, che si assumerà la responsabilità della ricostruzione di Gaza dopo la guerra. Saranno i palestinesi, e non gli israeliani, a ”gestire gli affari civili a Gaza nel dopoguerra”, mentre Israele manterrà il controllo della sicurezza. Netanyahu ha in più occasioni dichiarato che non ritirerà l’esercito da Gaza e che Israele manterrà il controllo della sicurezza. Questo vuol dire che resterà in vigore l’assedio che ha soffocato Gaza negli ultimi 15 anni e che Israele si riserverà il diritto di arrestare o uccidere chi gli pare. E’ evidente che questo progetto non può funzionare. Fin quando Israele pretenderà di mantenere il controllo di sicurezza di Gaza, il conflitto non avrà fine e non potranno essere ripristinate le condizioni minime di vita per la popolazione di Gaza. Israele, Potenza occupante dal 1967 a seguito della guerra dei sei giorni, medita di mantenere l’occupazione su quello stesso territorio che ha messo a ferro e a fuoco, senza volersi assumere gli oneri che derivano alle Potenze occupanti dalla IV convenzione di Ginevra relativa alla protezione delle persone civili in tempo di guerra. In questo modo il conflitto non avrebbe mai termine e la guerra continuerebbe anche dopo la guerra. Non è tollerabile che dopo le stragi e le distruzioni immani provocate nella Striscia di Gaza, Israele continui a rimanere arbitro della vita e della morte di una popolazione che ha così duramente colpito. Il primo passo da compiere è la liberazione del popolo di Gaza dal giogo dell’occupazione israeliana. Israele deve togliere il suo scarpone chiodato dal collo dei gazawi. Contestualmente al cessate il fuoco occorre progettare un intervento immediato per gestire la situazione nella Striscia di Gaza. A questo punto deve intervenire la Comunità internazionale attraverso l’ONU per definire lo status giuridico di Gaza, con una soluzione transitoria. Ciò può avvenire con una risoluzione del Consiglio di Sicurezza, adottata a norma del Cap. VII della Carta, come in passato avvenne per il Kosovo, che fu distaccato dalla Serbia e sottoposto ad una amministrazione ad interim delle Nazioni Unite, in virtù della Risoluzione 1244 del 10 giugno 1999. La Palestina è stata già un Mandato britannico, oggi per la Striscia di Gaza si può resuscitare una sorta di Mandato affidato alle Nazioni Unite. Un’amministrazione civile e militare dell’ONU dovrebbe liberare gli ostaggi, se ancora sequestrati, e procedere al disarmo di Hamas e della Jihad islamica, che potrebbero restare attivi come partiti politici assieme ad altri, impedire che dal territorio della Striscia possano partire atti di ostilità contro Israele, affrontare tutte le emergenze causate dalla guerra, rimettere in funzione le strutture sanitarie, ripristinare le telecomunicazioni, i collegamenti aerei e marittimi della Striscia con il resto del mondo, avviare la ricostruzione e ogni altro programma indispensabile per consentire alla popolazione civile di superare i traumi prodotti dai massacri e dalle privazioni causate dai lunghi anni di assedio a cui sono stati sottoposti. L’Amministrazione dell’ONU dovrebbe promuovere la creazione, in attesa di una soluzione definitiva, di una sostanziale autonomia e autoamministrazione della Striscia di Gaza. Il processo di pace deve puntare alla riconciliazione fra i due popoli. La riconciliazione non è impossibile ma presuppone il rovesciamento di quelle categorie politiche che portano i nazionalisti israeliani ad escludere l’esistenza politica e persino fisica di ogni altro popolo nella terra che va dal “fiume al mare” e le frange più disperate dei palestinesi a nutrire lo stesso sogno uguale e contrario.

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RIFORME. Nonostante il successo iniziale, sull’onda delle iniziative referendarie, la scelta maggioritaria non si è consolidata e, nel corso degli anni, una serie di riforme ci hanno consegnato un sistema misto che presenta squilibri di vario tipo

Quel modello fuori tempo massimo 

Confesso di essere stato un convinto sostenitore del «modello Westminster». All’inizio degli anni Novanta del secolo scorso, quando la crisi del sistema dei partiti che si era formato nel dopoguerra stava per diventare irreversibile, siamo stati in molti a guardare alla più antica democrazia parlamentare dell’Occidente come un esempio da imitare.

Un governo forte, sostenuto da una maggioranza stabile, una competizione elettorale tra due partiti (o tra due alleanze) che si presentano agli elettori con piattaforme chiare e alternative, la possibilità di un’alternanza tra maggioranze di governo come meccanismo fisiologico di ricambio e di rinnovamento dell’offerta politica.

A dare un contributo decisivo alla mia convinzione fu la lettura di un saggio di Augusto Barbera pubblicato su Micromega (4/92). L’attuale presidente della Corte costituzionale era in quegli anni uno dei protagonisti del dibattito sulla riforma della Costituzione, e in quell’intervento, che si legge ancora oggi con profitto, delineava in modo chiarissimo le ragioni di fondo della scelta del modello Westminster, partendo proprio dalla crisi del sistema dei partiti. Barbera assumeva come un dato la tesi della «fine delle ideologie» novecentesche e la convergenza, da parte di tutte le forze politiche, su un «minimo comune denominatore» che rendeva obsoleta una competizione politica basata su fattori identitari.

Nella sua ricostruzione, la politica italiana si era finalmente laicizzata (uso un’espressione non sua, ma credo che essa catturi in modo efficace l’idea di fondo espressa in quel saggio), e questa novità imponeva un cambio di paradigma: l’abbandono del proporzionalismo per passare al maggioritario. L’obiettivo da realizzare era, secondo Barbera, quello di «un sistema politico che funzioni (per riprendere un’immagine di Duverger) come un trasformatore di energia, che raccoglie il consenso e lo trasforma in vincolo programmatico reale, e non come una macchina fotografica». Una prospettiva che, rafforzata dal richiamo all’esempio britannico, mi appariva allora straordinariamente efficace.

Come sappiamo, le cose non sono andate come auspicava Barbera. Nonostante il successo iniziale, sull’onda delle iniziative referendarie, la scelta maggioritaria non si è consolidata e, nel corso degli anni, una serie di riforme ci hanno consegnato un sistema misto che presenta squilibri di vario tipo, non solo sul piano del sistema elettorale, ma anche su quello della rappresentanza (la riduzione del numero dei parlamentari, un’ipotesi che nel 1992 Barbera giustamente criticava) e delle autonomie (la riforma del titolo quinto).

LA REDAZIONE CONSIGLIA:

Guerra e diritti, cambiare programma

Nel frattempo, buona parte delle certezze che facevano da sfondo al ragionamento di chi si ispirava al «modello Westminster» si sono sgretolate, tanto che oggi appare azzardato evocarlo ancora, come fa qualcuno, come ispirazione per nuovi interventi di riforma della Costituzione e del sistema elettorale.

La crisi non è locale, ma globale, e riguarda sia l’offerta politica, che è mutata in modo significativo in tutte le democrazie occidentali (con la crisi delle socialdemocrazie, anche nella loro versione aggiornata dalla Terza Via, la mutazione profonda dei partiti conservatori, che si sono spostati molto più a destra di quanto si potesse immaginare negli anni Novanta, e l’ascesa e la capacità di attrazione di nuove forze della destra radicale, che in molti casi dettano l’agenda anche a quelle che tradizionalmente avremmo descritto come riformiste o moderate), sia le politiche, che oggi riportano in primo piano la questione della giustizia sociale, che appariva superata nel clima di ottimismo del post ’89, e indicano la salienza senza precedenti di quella ambientale.

Persino nel paese dove è nato, il «modello Westminster» è stato messo in discussione, con esiti che appaiono ancora incerti, ma che portano a escludere un ritorno al passato. Uno dei più autorevoli costituzionalisti britannici, Vernon Bogdanor, ha osservato che, a partire dal 1997, ci sono stati almeno quindici cambiamenti costituzionali di primaria importanza nel Regno Unito, e che l’impatto che essi sono destinati ad avere rende del tutto ragionevole parlare di una nuova costituzione, che sta prendendo forma sotto i nostri occhi, ma il cui esito finale è difficile da prevedere. Per fare solo un esempio, particolarmente rilevante per il nostro tema, a partire dal 2009 sono impiegati nel Regno Unito almeno quattro sistemi elettorali, oltre a quello tradizionale del first-pass-the-post, e questo mette in discussione persino l’assunto che il sistema maggioritario ancora in uso per l’elezione del parlamento sia il complemento naturale della costituzione.

Pensare per modelli è un metodo essenziale per le scienze sociali, ma l’esperienza di questi anni dovrebbe invitarci alla cautela nell’uso dei modelli. Soprattutto quando essi vengono isolati dal contesto storico e sociale (come purtroppo tendono a fare i giuristi)

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PREDRAG MATVEJEVIC. Dall'archivio. Riproponiamo brani dell’intervista uscita il 9/2/2014 all'intellettuale morto nel 2017

«Serve il giorno dei “ricordi”, per la dignità di un dolore corale» Predrag Matvejevic

È sempre critico il giudizio di Predrag Matvejevic – l’autore di Breviario mediterraneo che ama definirsi «jugoslavo» – sull’istituzione del Giorno del Ricordo (10 febbraio 2004).

Che bilancio va fatto di questo “giorno”?
Che non bisogna smettere di raccontare la verità. André Gide diceva: «Bisogna ripetere nessuno ascolta». Ognuno in questa epoca sembra chiuso nella propria sordità. Il bilancio non è positivo, se a celebrare il precedente Giorno della memoria alla Risiera di San Sabba, il lager nazista al confine tra due popoli, accorrono anche i post-fascisti. E ogni anno abbondano fiction e rappresentazioni che invece di raccontare il pathos collettivo che riguarda almeno due popoli, riducono tutto alla sola tragedia delle vittime italiane. Ho scritto sulle vittime delle foibe anni fa in ex Jugoslavia, quando se ne parlava poco in Italia. Ero criticato. Ho sostenuto gli esuli italiani dell’Istria e della Dalmazia condividendo il loro cordoglio nazionale per le vittime innocenti. L’ho fatto prima e dopo aver lasciato il mio paese natio e scelto, a Roma, una via fra asilo ed esilio. Continuo anche ora che sono ritornato a Zagabria. Credevo comunque che le polemiche e le strumentalizzazioni fossero finite. Invece no.

C’è un caso che ricorda?
Il caso del 2008 dello scrittore di confine Boris Pahor che ha fatto della coralità del dolore la sua materia, raccontando la tragedia dei crimini commessi dai fascisti in terra slava e il lascito di odio rimasto. Di fronte all’onorificenza offertagli dal presidente della repubblica Giorgio Napolitano, insorse dichiarando che l’avrebbe rifiutata se dalla presidenza italiana non arrivava una chiara presa di posizione contro i silenzi sugli eccidi di Mussolini.

Che cosa fu in realtà il crimine delle Foibe?
Sì, le foibe sono un crimine grave e la stragrande maggioranza di queste vittime furono proprio gli italiani. Ma per la dignità di un dolore corale bisogna dire che questo delitto è stato preparato e anticipato anche da altri, che non sono sempre meno colpevoli degli esecutori dell infoibamento. La tragica vicenda è infatti cominciata prima, non lontano dai luoghi dove sono stati poi compiuti quei crimini atroci. Il 20 settembre 1920 Mussolini tiene un discorso a Pola (una scelta non casuale). E dichiara: «Per realizzare il sogno mediterraneo bisogna che l’Adriatico, che è un nostro golfo, sia in mani nostre; di fronte ad una razza come la slava, inferiore e barbara». Ecco come entra in scena il razzismo, accompagnato dalla pulizia etnica.

Gli slavi perdono il diritto che prima, al tempo dell’Austria, avevano, di servirsi della loro lingua nella scuola e sulla stampa, il diritto della predica in chiesa e persino quello della scritta sulla lapide nei cimiteri. Si cambiano massicciamente i loro nomi, si cancellano le origini, si emigra Ed è appunto in un contesto del genere che si sente pronunciare, forse per la prima volta, la minaccia della foiba. È il ministro fascista dei Lavori pubblici Giuseppe Caboldi Gigli, che si era affibbiato da solo il nome vittorioso di Giulio Italico, a scrivere già nel 1927: «La musa istriana ha chiamato Foiba degno posto di sepoltura per chi nella provincia d’Istria minaccia le caratteristiche nazionali dellIstria» (da Gerarchia, IX, 1927) aggiungendo anche i versi di una canzonetta dialettale già in giro: «A Pola xe l’Arena, La Foiba xe a Pisin».

Le foibe sono dunque un’invenzione fascista. E dalla teoria si è passati alla pratica. L’ebreo Raffaello Camerini, che si trovava ai lavori coatti in questa zona durante la seconda guerra mondiale, ha testimoniato nel giornale triestino Il Piccolo (5. XI. 2001): «Sono stati i fascisti, i primi che hanno scoperto le foibe ove far sparire i loro avversari». La vicenda «con esito letale per tutti» che racconta questo testimone italiano, fa venire brividi.

Cosa risveglia il “Giorno del Ricordo” nell’ex Jugoslavia?
La storia (con la S maiuscola) aggiunge altri dati poco conosciuti in Italia. Uno dei peggiori criminali dei Balcani è il duce (poglavnik) degli ustascia croati Ante Pavelic. Il loro campo di Jasenovac è stato una Auschwitz in formato ridotto: lì il lavoro micidiale veniva fatto a mano, mentre i nazisti lo facevano in modo industriale. Il criminale Pavelic con i suoi seguaci, poté godere negli anni Trenta dell’ospitalità mussoliniana a Lipari, dove ricevevano aiuto e corsi di addestramento dai più rodati squadristi.

Le camicie nere hanno eseguito numerose fucilazioni di massa e singole. Tutta una gioventù ne rimase falciata in Dalmazia, in Slovenia, in Montenegro. Senza dimenticare la catena di campi di concentramento, dall’isola di Mamula all’estremo sud dell’Adriatico, fino ad Arbe, di fronte a Fiume. a dove spesso si transitava per raggiungere la Risiera di San Sabba a Trieste e, in certi casi, si finiva ad Auschwitz e soprattutto a Dachau. I partigiani non erano protetti in nessun paese dalla Convenzione di Ginevra e pertanto i prigionieri venivano subito sterminati come cani. E così molti giunsero alla fine della guerra accaniti: infoibarono anche gli innocenti, non solo di origine italiana. Singole persone esacerbate, di quelle che avevano perduto la famiglia e la casa, i fratelli e i compagni, eseguirono i crimini in prima persona e per proprio conto.

La Jugoslavia di Tito non voleva che se ne parlasse. Noi abbiamo cercato di parlarne. Oggi ne parlano purtroppo a loro modo soprattutto i nostri ultra-nazionalisti, una specie di neo-missini slavi. Ho sempre pensato che non bisognerebbe costruire i futuri rapporti in questa zona sui cadaveri seminati dagli uni e dagli altri, bensì su nuove esperienze culturali. Per questo auspico la proclamazione congiunta del «Giorno dei Ricordi»

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FOIBE. Lo sguardo sugli anniversari che ricorrono a 80 anni dalla Liberazione di Roma, città medaglia d’oro al valor militare, aiuta a raccontare molto dell’uso pubblico del passato, al tempo del governo degli eredi del Msi, e della traiettoria della memoria storica in Italia

31 luglio 1942, soldati italiani fucilano cinque abitanti del villaggio di Dane in Slovenia, foto Museo storico di Lubiana31 luglio 1942, soldati italiani fucilano cinque abitanti del villaggio di Dane in Slovenia, foto Museo storico di Lubiana

Lo sguardo sugli anniversari che ricorrono a 80 anni dalla Liberazione di Roma, città medaglia d’oro al valor militare, aiuta a raccontare molto dell’uso pubblico del passato, al tempo del governo degli eredi del Msi, e della traiettoria della memoria storica in Italia.

Il 24 gennaio 1944, in piena occupazione nazista, due antifascisti condannati a morte evasero dal carcere di Regina Coeli grazie ad una straordinaria operazione della Resistenza socialista. Erano Alessandro Pertini e Giuseppe Saragat e sarebbero divenuti entrambi presidenti della Repubblica, incarnando la catarsi antifascista dell’Italia dopo gli anni del regime.

Dal Quirinale, nel nome della comune esperienza partigiana, i due costruirono un rapporto di amicizia e rispetto con Josip Broz Tito, a sua volta comandante della Resistenza jugoslava, l’unica in Europa a liberare da sola il proprio Paese dall’occupazione nazifascista.

In ragione della necessità di instaurare buoni rapporti tra i due Stati (dopo l’aggressione fascista ed i crimini di guerra perpetrati dal regio esercito italiano nei Balcani) e della strategica collocazione geopolitica tra i «non allineati» di Belgrado nel quadro della Guerra Fredda, Tito venne insignito da Saragat della Gran Croce al Merito della Repubblica italiana il 2 ottobre 1969.

L’avversione dell’estrema destra fu assai vivace e culminò con i due attentati dinamitardi contro la scuola slovena di Trieste e al cippo confinario a Gorizia in occasione del viaggio di Stato di Saragat a Belgrado del 2-6 ottobre 1969. A compierli fu la cellula veneta del gruppo Ordine Nuovo, la stessa che il 12 dicembre successivo realizzò la strage di Piazza Fontana. Nei luoghi dove vennero rinvenute le bombe i neofascisti lasciarono dei volantini firmati da un sedicente Fronte anti-slavo che recitavano «no al viaggio di Saragat in Jugoslavia» e «no alle foibe».

Oggi è il partito Fratelli d’Italia a rivendicare l’intenzione di revocare il riconoscimento a Tito disconoscendo l’operato del primo Presidente partigiano.

La politica di amicizia italo-jugoslava proseguì e, ancora dal Quirinale, fu Alessandro Pertini ad incontrare Tito nell’ottobre 1979 e poi a recarsi in visita ufficiale per i suoi funerali l’anno seguente. Una presenza che scatenò, di nuovo, la reazione scomposta dell’estrema destra la cui eco è risuonata qualche tempo fa attraverso un falso propalato da stampa e social-media che rappresentarono la foto del Pertini affranto ai funerali di Enrico Berlinguer, piegato sulla bara del segretario del Pci, spacciandola per un omaggio al capo di Stato jugoslavo nel giorno delle sue esequie.

Già rivelato dalla scelta del 10 febbraio come data celebrativa (anniversario del Trattato di Pace di Parigi del 1947), in Italia l’uso strumentale della storia praticato dalla destra nel giorno del ricordo (che dovrebbe rievocare le violenze delle foibe insieme alla «più complessa vicenda del confine orientale») finisce per richiamare non solo il passato remoto del fascismo storico, con il suo corollario di crimini di guerra in Jugoslavia rimasti impuniti in ragione della realpolitik della Guerra Fredda anticomunista, ma anche il passato prossimo dell’Italia repubblicana che mantenne nel suo seno un’estrema destra sempre ostile alla Costituzione ed alla sua radice fondativa: la Resistenza.

Dopo aver attraversato la catarsi antifascista negli anni di Saragat e Pertini oggi assistiamo, per mano degli eredi del Msi, ad una rivalsa che disconosce ciò che dal vertice della Repubblica i due presidenti partigiani avevano costruito.

Così l’annunciato museo delle foibe assume le sembianze dell’ennesimo tentativo di riscrittura del passato finalizzata al governo del presente, che trasforma il tempo in cui l’Italia è stata aggressore in un ricordo vittimistico che cancella responsabilità ed eredità del regime fascista. Un passo che allinea sempre più la nostra contemporaneità al disarmo culturale volto a spogliare la Repubblica del suo vestito antifascista e a relegare la discussione pubblica sulla riemersione odierna delle peggiori istanze regressive (largamente presenti nel corpo della società) a un vacuo dibattito sull’applicazione della misura giudiziario/penale della sanzione al neofascismo.

Un approccio che, in tempi di crisi della democrazia, disperde e cancella dalla sfera pubblica quel patrimonio di analisi politico-culturale che permise di individuare le ragioni storiche alla base (in Italia prima di ogni altro luogo) della nascita, dello sviluppo e dell’ascesa di un regime reazionario di massa.

Una lettura dei caratteri di fondo di quel fenomeno che fu il lascito di figure come Piero Gobetti («il fascismo come autobiografia della nazione»), Antonio Gramsci («il sovversivismo delle classi dirigenti») e Aldo Moro («la radice del totalitarismo fascista affonda nel corpo sociale della nazione, là dove sono privilegi che non vogliono cedere il passo alla giustizia»). Eredità storiche, queste sì, da ricordare

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COMMENTI. Il ritiro del regolamento sui pesticidi di Ursula von der Leyen vuol dire «Incentivi e libertà di inquinare»: così i gattopardi del potere riaffermano la sostanza e la natura del sistema
La protesta dei trattori

L’annuncio di Ursula von der Leyen sul ritiro del regolamento sui pesticidi ha il sapore di un prodotto scaduto, e al pari tempo di una mela avvelenata. Che sia una merce senza valore è testimoniato bene dal voto contrario al regolamento di gran parte del Parlamento europeo. Anche quanti avevano sostenuto le buone intenzioni del documento “From farm to fork” sono stati costretti a votare contro un regolamento arrivato morto in Parlamento dopo il lavorio delle multinazionali e delle associazioni agricole corporative.

Ma sarebbe errato pensare che la presidente si sia limitata a vendere una patacca ai manifestanti. Il suo messaggio è un imbroglio, ma ha anche il sapore della complicità con i settori più retrivi del sistema. Breve, molto breve è stata la vita coraggiosa di Ursula von der Leyen. “Incentivi e libertà di inquinare” con questa formula della Presidente i gattopardi del potere riaffermano la sostanza e la natura del sistema .

In questo contesto la protesta non solo è un’occasione persa per cambiare realmente le cose, e paradossalmente nel tempo produrrà danni ancor più seri e profondi all’intero sistema agricolo e non solo.

Che sia un’occasione persa è del tutto evidente. La grande difficoltà, la crisi del mondo agricolo e dei produttori è reale e profonda. Una crisi che trova la sua prima ragione nella contraddizione irriducibile fra la produzione di un bene comune essenziale, quale è il cibo e il cosiddetto libero commercio. Una contraddizione che ha prodotto e produce enormi difficoltà economiche dei produttori, abbandono delle campagne, crisi demografica delle zone rurali, frammentazione sociale e collasso ambientale.

Una crisi che la speculazione dell’intermediazione e l’invadenza dei soggetti forti dell’agro-industria rendono ancora più grave. I prezzi sono fissati dai giganti della grande distribuzione e alla fine chi viene penalizzato è l’agricoltore che è alla base della filiera costretto a vendere a prezzi bassi e sotto ricatto. Una crisi figlia di una burocrazia asfissiante che non tiene in alcuna considerazione il fatto che in Italia più del 70% delle aziende sono piccole e medie.

Infine una crisi aggravata dell’uso improprio della Pac, infatti l’80% dei fondi europei vengono destinati al 20% dei grandi proprietari. Ridurre questo ordine di problemi al pannicello caldo degli incentivi è come buttare il bambino e tenere l’acqua torbida.

La mela diventa poi avvelenata, quando la Von der Leyen abbandona il green deal e apre le porte alla libertà di intossicare produttori, cittadini e suolo.

Il green deal non è una delle opzioni, dovrebbe essere la via maestra per dare un futuro all’agricoltura liberandola giorno dopo giorno dalla chimica di sintesi. Agricoltura che dovrebbe avere un ruolo fondamentale nella produzione di cibo, come nel contrasto al cambiamento climatico. Il suolo è una spugna dove viene assorbita il doppio dell’anidride carbonica che è in atmosfera. Trasformare il suolo in una discarica chimica, spingerlo verso la desertificazione, privarlo della materia organica è un autentico colpo al cuore all’equilibrio ecologico del pianeta.
Per affrontare i grandi interrogativi di questa nostra epoca dalla sicurezza alimentare al cambiamento climatico, dalla coesione sociale ad un nuovo e virtuoso equilibrio città-campagna è fondamentale il protagonismo e la partecipazione di gran parte del mondo agricolo, ma perché questo sia possibile è decisivo il riconoscimento sociale ed economico di chi vive e lavora la terra.

Le manifestazioni dei “trattori” hanno fatto esplodere il problema, ma le risposte non solo sono insufficienti, ma riportano indietro la ruota della storia, sono tre passi indietro.

Siamo ad un bivio, e mettere la testa sotto la sabbia sarebbe un grave errore. Questo è il momento della chiarezza e non dei tatticismi. E’ il momento per affermare il legame agricoltura\ambiente e operare per passare dalle reti alle alleanze – anche fra molto diversi – al fine di offrire una nuova prospettiva strategica a chi opera e vive di agricoltura che non è solo produzione, ma relazione con la natura ed il pianeta tutto.
O si afferma un nuovo percorso veramente sostenibile del sistema di produzione agricola e si pone l’agricoltore al centro di questo progetto o diversamente si continuerà sulla strada distruttiva dello sfruttamento intensivo dei campi e si condanneranno “ i produttori agricoli” alla marginalità economica e sociale. Come accade ora .

* Presidente del Biodistretto della via Amerina e delle Forre (Viterbese)

** Presidente del Biodistretto dell’Appennino Bolognese

 
 
 
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Continuiamo così. Il parlamento approva la proroga per inviare armi all’Ucraina ancora un altro anno. Il Pd vota a favore: continua lo sforzo bellico e non parte quello diplomatico. Ma il conflitto è impantanato e Zelensky silura il capo di stato maggiore che lo ha criticato

L’aula della Camera durante la discussione del disegno di legge sull’invio di armi all’Ucraina foto di Angelo Carconi/Ansa L’aula del Senato - foto di Antonio Masiello/Getty Images

Facciamo l’ipotesi che il Pd, alla testa di un’opposizione unita (qui già l’ipotesi traballa) segni un punto in quella che evidentemente considera la partita politica più importante del momento, la conquista di uno spazio maggiore nella televisione pubblica. Bene, da queste casematte guadagnate – o più realisticamente difese – quali contenuti intende diffondere il Pd, tanto diversi da quelli che quotidianamente ci propone tele-Meloni?

Prendiamo tre questioni che a noi sembrano le più urgenti, tutte e tre hanno a che fare con le guerre.

Ieri la camera dei deputati ha approvato la proroga per tutto il 2024 delle procedure eccezionali necessarie per continuare ad armare l’Ucraina.

Per un altro anno si mettono tra parentesi le leggi ordinarie che vietano di cedere armi agli stati in guerra e obbligano in ogni caso a informare sempre dettagliatamente e pubblicamente il parlamento sul materiale trasferito all’estero. Otto spedizioni segrete si sono già succedute e tra pochi giorni saranno due anni dall’invasione russa. I gruppi 5 Stelle e Sinistra/Verdi hanno votato contro ma il Pd ha votato a favore (con quattro eccezioni) dunque giudica che si possa continuare così. Quando ormai la possibilità che l’Ucraina armata dall’occidente sconfigga la Russia e la ricacci indietro è esclusa da

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