Vertice per la difesa europea a Londra: come l’Unione a 27 anche la Brexit non conta più. Macron torna da Washington, Starmer ci andrà, tutti alzano le spese militari, il tedesco Merz anche prima di diventare cancelliere. Effetto Trump: l’Europa va nel panico
Sonnambulismi A raccontare la favoletta della «pace giusta» ormai insistono solo i giornali del mainstream, spiazzati dagli eventi. Ma quale pace giusta? Gaza e la Palestina sono la prova che in Europa non ci crede nessuno
Leader europei a Kiev, alla commemorazione dei soldati ucraini caduti in tre anni di guerra – Ap
Gli europei non si accorgono neppure più dove stanno andando, o forse fanno finta di non saperlo: sono un po’ sonnambuli e un po’ sottomessi al loro destino. Siamo all’agonia della politica estera comune europea, che per altro non è mai esistita, cullando nel settore difesa l’idea di una Banca per il Riarmo destinata a divorare altre risorse. Hanno sempre seguito l’agenda americano-israeliana, dall’Est Europa al Medio Oriente, e ora ne pagano le conseguenze.
La loro disonestà è tale da pensare che la guerra in Ucraina sia cominciata il 24 febbraio 2022 e non quando, nel gennaio 2014, il sottosegretario di Stato Usa Victoria Nuland, in una conversazione con il suo ambasciatore a Kiev, pronunciò la ormai famosa frase «Fuck the Eu», letteralmente «l’Unione europea si fotta».
Si discuteva ancora di un accordo tra il governo ucraino del filo-russo Viktor Janukovich e l’opposizione. Allora non c’era Trump alla Casa bianca ma Barack Obama e il suo vice era Joe Biden, che accorse a Piazza Maidan a celebrare il primo anniversario delle proteste mentre suo figlio Hunter guadagnava milioni di dollari in Ucraina nel settore energetico. E ora vorremmo stupirci se Trump trascina Zelensky a firmare l’accordo multi-miliardario sulle terre rare mentre Putin, diventato ormai a Washington un «volenteroso dittatore», si offre di portargli quelle in possesso dei russi? Chi più ne ha più ne metta mentre ognuno si fa i propri conti in tasca e Macron, nella sua visita da Trump, reclama che l’Europa ha versato all’Ucraina il 60 per cento degli aiuti, più degli Stati uniti.
Ma il presidente americano si tappa le orecchie: questa guerra, nonostante le copiose commesse all’industria bellica americana, è un «cattivo affare» e bisogna chiuderla. C’è da pensare
Leggi tutto: Un’Europa sottomessa e senza bussola - di Alberto Negri
Commenta (0 Commenti)Lezioni per l’Italia Il proporzionale tedesco favorisce l’alta affluenza e libera gli anticorpi democratici. Una soglia serve, ma il 5% è troppo
Il proporzionale favorisce l’affluenza e libera gli anticorpi democratici. La soglia è utile, ma il 5% è troppo.
Il minimo storico toccato dalla Spd alle elezioni di domenica è il frutto di uno smottamento profondo delle sue capacità di rappresentanza sociale. Che ha una precisa origine: la stagione del Neue Mitte teorizzata e praticata da Schroeder nei primi anni Duemila, la rinuncia alla difesa del welfare, sacrificato sull’altare della sua presunta insostenibilità finanziaria. L’adozione, in altre parole, dei paradigmi fondamentali del neoliberismo da parte della sinistra di governo, anche in Germania.
Da qui, un crescente senso di abbandono in tutti quei ceti sociali che del grande compromesso socialdemocratico erano stati i beneficiari. L’illusione che si potesse supplire accentuando la fisionomia di un partito pigliatutto, di fatto interclassista, ha solo peggiorato le cose, facendo perdere il tradizionale ancoraggio popolare senza riuscire ad acquisire nuovi consensi. I dati sono impressionanti: la Spd aveva, nel 2002, 18 milioni e mezzo di voti (il 38%), domenica ha ottenuto 8 milioni e 150mila voti (il 16,5). Una parabola a cui hanno solo in parte supplito dapprima, nel corso degli anni, il voto ai Verdi e ora il successo della Linke.
Ma oltre a queste considerazioni politiche, sul voto hanno pesato variabili di tipo istituzionale: domenica in Germania ha votato l’82,5% degli elettori, una percentuale elevatissima. E non si può non legare questo dato (oltre che alla percezione della grande posta in gioco) anche ad un elemento cruciale: un sistema proporzionale che permette di distribuire l’offerta elettorale lungo l’intero arco destra-sinistra, consentendo una più ampia articolazione ed espressione delle preferenze e dell’identità degli elettori. Un sistema proporzionale incentiva la mobilitazione degli elettori, dalla Germania arriva una riprova empirica. A dispetto delle consuete e ipocrite lamentazioni che, in casa nostra, si innalzano periodicamente sul fenomeno astensionista, bisognerebbe seriamente rimettere in discussione le logiche presidenzialistiche che imperano da noi. Sarebbe ora di smetterla con il mantra della «governabilità» forzata da sistemi elettorali distorsivi: è oramai del tutto evidente (si pensi solo alla Francia) come tali sistemi facciano perdere a capacità rappresentativa senza nulla far guadagnare nella reale capacità di governare una società complessa. Un sistema che garantisca in primo luogo la rappresentanza politica è la premessa necessaria per una qualsivoglia «governabilità».
Il sistema elettorale proporzionale ha permesso anche che gli anticorpi democratici e l’opposizione alla deriva nazionalista potessero pienamente emergere. Provate a immaginare cosa sarebbe oggi la Germania se le sette forze politiche rilevanti sulla scena politica fossero state costrette a formare coalizioni preventive (su che basi programmatiche?), secondo i modelli «italici» dei sistemi elettorali «a premio» (a cui ora si vorrebbe tornare). In Germania si aprirà una dialettica parlamentare per formare una maggioranza, con tutte le difficoltà del caso: ma, vivaddio, siamo nella normalità di una democrazia.
Certamente ci sono alcuni punti critici nel modello tedesco, la soglia di accesso al 5% ha impedito per esempio alla Bsw di ottenere una rappresentanza parlamentare, pur avendo conquistato due milioni e mezzo e il 4,97% dei voti. Si può dire che si tratta di una soglia eccessiva ma, nonostante non pochi a sinistra propendano per un proporzionale puro, va pur detto che l’esistenza di una soglia è un fattore sistemico che produce effetti positivi: limita la frammentazione della rappresentanza rendendo lo scontro politico più chiaro e scoraggia avventure effimere, incentivando la costruzione di attori politici più coesi e consistenti.
Il risultato deludente della Bsw dimostra ancora una volta come l’elettorato democratico e di sinistra non apprezzi le logiche identitarie che portano a trasporre immediatamente le diversità di opinioni sul terreno elettorale. La scommessa di puntare a un messaggio conservatore, per quanto di sinistra, non ha pagato. Mentre ha funzionato quello della Linke, che è riuscita a far convivere generazioni e culture diverse, dal compagno Gregor Gysi, che emerge dalla storia lontana della Ddr fino alla giovane Heidi Reichinnek: era proprio necessario farsi un altro partito personale?
Commenta (0 Commenti)L’ipoteca sull’Europa I sondaggi della vigilia sono stati pienamente confermati dai risultati delle elezioni tedesche straordinariamente partecipate di domenica scorsa. Rispecchiavano, infatti, in pieno lo smottamento a destra in corso in tutto […]
I sondaggi della vigilia sono stati pienamente confermati dai risultati delle elezioni tedesche straordinariamente partecipate di domenica scorsa. Rispecchiavano, infatti, in pieno lo smottamento a destra in corso in tutto il Vecchio continente e l’incapacità delle forze moderate e conservatrici di farvi fronte. O, peggio ancora, la tentazione di trarre vantaggio da un ambiguo gioco di sponda con l’ultradestra.
Tratta per metà come temuta concorrente e per metà come spauracchio utile a rintuzzare le eccessive pretese di redistribuzione sociale da parte di scomodi partner di coalizione più o meno orientati a sinistra. È così in Francia, in Austria, in Olanda, in Scandinavia, per non parlare dei paesi dove l’estrema destra è già senza ostacoli al governo. In Germania, è vero, fa più impressione e non solo per ragioni storiche, ma anche per l’enorme peso della Repubblica federale in Europa. Tanta impressione da avere portato in piazza nelle ultime settimane due milioni di persone contro l’Afd e qualunque ipotesi di una partecipazione di questo partito alla gestione del potere. E da aver determinato l’inatteso ottimo risultato della Linke, in particolare tra i giovani.
L’ultradestra di Alice Weidel con il suo 20 per cento, conquistato peraltro senza alcuno sforzo di maquillage borghese, non dispone ancora del potere di ricatto che si è conquistato il Rassemblement national in Francia, ma è una presenza ingombrante e dalla quale sarà impossibile prescindere, avendo alle spalle le mire aggressive dell’America di Trump e le simpatie della Russia che, nel bene e nel male, fa parte di uno spazio di interscambio economico, e non solo, vitale per la Germania. È inoltre un risultato abbastanza grande, quello conseguito da Afd, da legittimare l’accusa di disconoscimento della democrazia generalmente rivolta contro ogni conventio ad excludendum, come quella decretata in questo caso contro il partito di Weidel. Washington si sta già chiaramente muovendo in questa direzione.
Quella della Cdu-Csu è stata una vittoria netta, ma non un trionfo. Siamo lontani dai record di consensi raggiunti da Angela Merkel nel suo lungo cancellierato. Friedrich Merz, che ne fu avversario, non è certo un leader che susciti paragonabili entusiasmi e la sua campagna elettorale all’inseguimento dell’estrema destra, sui suoi temi e sui suoi terreni, si è attirata l’accusa infamante di plagio del suo programma da parte dell’Afd, senza peraltro riuscire a sottrarre voti a quel partito. Il tormentone sul respingimento dei migranti e sulla restrizione del diritto di asilo è oramai talmente diffuso, insistito e stereotipo da contare ben poco nella costruzione di un profilo politico distinguibile, come hanno potuto sperimentare a loro spese Verdi ed Spd. Oltre ad essere sempre meno credibile come strumento per fronteggiare la crisi di modello e la recessione che attanagliano la Repubblica federale.
Il nuovo corso, annunciato enfaticamente da Merz per smarcarsi dalle posizioni dell’Afd, è rendere l’Europa indipendente dagli Usa. Ma è difficile nascondere che si tratta più di una circostanza imposta dal terremoto trumpiano che di una libera scelta. Nonché di una strada difficile da percorrere per chi ha vissuto gli ultimi ottant’anni nella più devota e protetta fede atlantista. Senza contare la guerra in Ucraina che ha chiuso ermeticamente la porta dell’Est, cui l’America accede ora passando senza bussare sulla testa del Vecchio Continente.
Ideologicamente europeista, la Germania ha però, con la sua rigida dottrina finanziaria, la «priorità dell’interesse nazionale», la discriminazione degli stati debitori e lo strenuo rifiuto di contrarre debiti comuni, non poche responsabilità nell’aver ostacolato la coesione dell’Unione europea e la sua capacità di dare risposte unitarie e solidali nelle situazioni di crisi. Questi atteggiamenti si sono poi tradotti nell’euroscetticismo di cui si è nutrita la destra radicale e nella rigogliosa ripresa dei nazionalismi. C’è però da dubitare che l’establishment tedesco sia disposto a liberarsi del tutto di questa zavorra dottrinaria, anche se la scomparsa dei liberali della Fdp dal Bundestag, rimasti sotto la soglia del 5 per cento, mette radicalmente in questione quei dogmi finanziari fuori dalla realtà, ispirati dall’arroganza della passata solidità economica tedesca, in nome dei quali Christian Lindner ha posto fine alla coalizione di governo con Spd e Verdi, aprendo la strada a questa sciagurata tornata elettorale e portando alla disfatta il suo partito.
Sia pure per poche migliaia di voti, il nuovo partito di Sahra Wagenknecht, nato da una scissione dalla Linke, nonostante la brillante partenza alle recenti elezioni regionali nei Länder orientali non ha superato la soglia del 5 per cento. L’Afd ha fatto man bassa in tutte le circoscrizioni a dimostrazione del fatto che i temi dei respingimenti e dell’espulsione degli stranieri indesiderati le appartengono di diritto. Chi è ossessionato da questi spettri inclina naturalmente a destra verso soluzioni autoritarie. L’idea di conciliare posizioni nazionaliste, conservatrici e identitarie con le istanze di giustizia sociale e le aspirazioni egualitarie della sinistra, si è rivelata un’operazione astratta e fallimentare, senza sbocchi politici istituzionali e senza nessuna capacità di attivare movimenti sociali
Commenta (0 Commenti)Germania al voto Dialogo tra Jan van Haken, capolista della Linke e il portavoce della politica di disarmo della Spd, Ralf Stegner. Divisi ma non confusi: «Se lasciamo il movimento per la pace a populisti e ultra-destra, buonanotte»
Una manifestazione pacifista a Berlino – foto Fabian Sommer/Ap
Il confronto fra lo Spitzenkandidat della Linke, Jan van Aken, e il portavoce della politica di disarmo della Spd, Ralf Stegner, restituisce le prove di dialogo fra le anime pacifiste della Germania, sparpagliate ma tutt’altro che confuse. Così lontane, così vicine: a poche ore dal voto due voci autorevoli della sinistra tedesca discutono insieme di guerra e pace e soprattutto del nuovo rapporto fra Europa e Usa che cambia, non solo il futuro della Germania.
Signor Stegner, Trump ha aperto la porta alla pace in Ucraina telefonando a Putin e annunciando i negoziati. Un passo avanti, anche se governa in modo autoritario e ha consegnato il potere politico ai boss delle imprese?
In linea di principio tutto ciò che va nella direzione di chiudere la guerra può essere inizialmente positivo, ma non sono particolarmente fiducioso che finisca così. Una decisione presa senza Ucraina ed Europa probabilmente non andrà bene. Potrebbe finire come in Afghanistan dove gli Usa hanno solo raggiunto un accordo con i Talebani e il risultato è stato la disfatta. L’idea che Trump si accorda con Putin, prende le risorse naturali dell’Ucraina e poi gli europei inviano le truppe in sua difesa è avventata. Ma la guerra deve finire prima possibile.
Van Aken, da tempo la Linke chiede cessate il fuoco e trattative e pensa che l’adesione dell’Ucraina alla Nato è un problema. Il governo Usa si muove quindi nella giusta direzione?
Non è la nostra posizione. Non spetta a noi decidere se debba entrare, solo gli ucraini possono farlo. Sono convinto che per la Russia sia molto importante che l’Ucraina non entri nella Nato – dato che l’ha posta come condizione per il cessate il fuoco – ma sarebbe fatale se dal negoziato Trump-Putin uscisse una “pace dettata” a Kiev. Vedremo, Al momento sembra che gli Usa stiano gettando l’Ucraina sotto l’autobus perché si aspettano di trarre vantaggi dall’accordo con la Russia.
L’anno scorso Rolf Mützenich della Spd fece scalpore con il suo appello a congelare il conflitto. Non è ciò che dicono ora gli Usa?
Stegner – No. Mützenich è stato criticato ingiustamente. Non parlava di permafrost, ma della necessità di tregue regionali temporanee per avviare i negoziati. All’epoca chi parlava di diplomazia era bollato come amico di Putin e pro-appeasement. Oggi possiamo constatare che chi ha puntato solo sulla logica militare si sbagliava: la convinzione che Putin potesse essere tirato con la forza al tavolo dei negoziati non si è concretizzata. Però non mi sta bene neppure la prospettiva di assoggettare l’Ucraina di Afd e Bsw. Sosteniamo Kiev nella sua difesa e allo stesso tempo sollecitiamo gli sforzi diplomatici.
Van Aken – Sembra un déjà vu. Ho passato 8 anni al Bundestag a discutere contro l’impiego della Bundeswehr in Afghanistan. Mi hanno sempre risposto così: Volete davvero abbandonare le ragazze afgane? Dopo 20 anni, la Bundeswehr è stata evacuata ed era chiaro che la missione era fallita. La Linke ha ribadito la necessità di negoziare ma anche che per farlo abbiamo bisogno di Cina e Brics. Non ci hanno mai ascoltato. Ora arriva Trump e sembra voler svendere l’Ucraina, e l’Europa è scioccata. Gli Usa stanno sbagliando ma si è trascurato di promuovere un’iniziativa con la Cina.
Si può raggiungere un accordo che includa la rinuncia ai territori occupati o così si prolunga solo il conflitto?
Stegner – Difficile giudicare. L’esperienza dimostra che a volte ci vuole un po’ di tempo prima che gli eventi si sviluppino in direzioni accettabili. La diplomazia è noiosa e nascosta; al contrario qualsiasi idiota può parlare pubblicamente di armi anche se non distingue un ombrello da una pistola.
Van Aken – Guardo alla soluzione che fu adottata per la Saar (che oggi è un Land della Germania, ndr) dopo la Seconda guerra mondiale. Per molti anni non fu chiaro quale fosse il suo posto in Europa prima dei referendum tra la popolazione. Qualcosa di simile è stato preso in considerazione anche per l’Ucraina a Istanbul 2022.
L’accordo deve essere accettato dalla maggioranza degli ucraini. Ma nessuno sa cosa vogliano davvero né di quanto sostegno goda ancora Zelensky.
Van Aken – Sono stato in Ucraina prima delle elezioni Usa e ho parlato con le organizzazioni umanitarie chiedendo cosa si aspettassero dal voto. Ho riscontrato la totale mancanza di interesse. Molti mi hanno risposto di essere allo stremo delle forze, che continuano a fare il necessario ma senza prospettive. I nostri compagni di sinistra ci hanno spiegato che più ci si avvicina al fronte, più la gente è disposta a dare qualcosa per la pace. L’umore è difficile da valutare, anche se credo che alla fine ci sia la possibilità di accettare un accordo. Certo mi sono reso pure conto che Zelenskyi ha problemi di politica interna, ma onestamente temo che gli ucraini non abbiano più valide scelte: la guerra deve finire.
Con gli accordi di Minsk del 2014 questa cornice non sembra aver funzionato.
Stegner – Se qualcosa non ha funzionato una volta, non significa che non lo farà mai.
L’Ue è stata tagliata fuori dall’iniziativa Usa, e la prima cosa che i leader europei dicono è: mandiamo le nostre truppe. Qual è la logica politica?
Stegner – È una pseudo-verità che riguarda le condizioni critiche che prevalgono in Europa dove governi e partiti nazionalisti sono le versioni in miniatura dell’America first. Prima l’Austria! Prima l’Ungheria! E così via. Non voglio che lo stile-Trump diventi il modello in Europa, dobbiamo trovare altre strade e serve più cooperazione fra democratici.
È possibile immaginare i soldati tedeschi in Ucraina come parte di una forza di pace?
Van Aken – No. Devi pensarci tre volte quando parli di un soldato tedesco poco prima di Stalingrado. Il vero nodo è: di che tipo di peacekeepers si tratta? Non è chiaro. Si ipotizza che alcuni Stati Ue possano inviare truppe in Ucraina, ma prima o dopo il cessate il fuoco? Posso solo immaginarlo nel formato dei caschi blu Onu dopo che tutte le parti hanno accettato. Sono osservatori neutrali e disarmati e fanno ciò da tempo in Corea e a Cipro. Qualsiasi alternativa è folle. Tutte gli altri tipi di missioni sono falliti.
La politica di sicurezza Ue è declinata quasi solo in termini militari. Il ministro della difesa Pistorius della Spd vuole moltiplicare il bilancio della Bundeswehr. Come può il suo partito, che lei considera parte del movimento pacifista, risultare credibile?
Stegner – Capisco che il ministro faccia il suo lavoro e parli dello stato della Bundeswehr. Non nego che la Germania debba essere capace di difendersi, ma sono contrario a leggere negli occhi dell’industria bellica i loro desideri diventando il campione mondiale delle esportazioni di armi. Obiettivi irreali come 5% del Pil per le armi sono l’ultima cosa che possiamo permetterci. Non c’è alcuna carenza di armi nel mondo, mentre mancano risorse per risolvere fame, distruzione dell’ambiente e le cause dei movimenti migratori. Se lasciamo il movimento per la pace a populisti e ultra-destra, allora buonanotte!. Nella Spd mi batto per avere la maggioranza attorno a questa posizione.
E la sua approvazione del fondo speciale da 100 miliardi di euro per la Bundeswehr?
Stegner – Sono a favore perché la Bundeswehr si trova in uno stato deplorevole. Si può dirlo senza essere a favore del riarmo illimitato e ritenere che ciò sarà il futuro della nostra industria. Dobbiamo tornare agli accordi sul disarmo che, tra l’altro, si sono sempre conclusi in tempi di tensione. Mi contattano molti cittadini preoccupati della pace; non mi pare che la gente desideri il ritorno della Germania come grande potenza militare.
Van Aken – Herr Stegner, ma il suo partito non condivide le sue posizioni. O sbaglio?
Stegner – Si sbaglia. La maggioranza dell’Spd crede che dovremmo muoverci verso il disarmo e la diplomazia rimanendo parte del movimento per la pace.
Van Aken – Il pacchetto da 100 miliardi è riarmo concreto, così come lo è il dispiegamento di missili Usa a medio raggio. E il riarmo è sbagliato.
La Linke si è spaccata sulla guerra in Ucraina e il conflitto in Medio Oriente resta una fonte di discordia. Come potete essere credibili su questi temi?
Van Aken – Non vedo la disputa. Ovvio, in un partito ci sono posizioni diverse, ma lo abbiamo chiarito in modo intelligente all’ultimo congresso. La Linke si è riunita e ora parla con una sola voce: non c’è posto per chi celebra le atrocità commesse dall’esercito israeliano a Gaza o da Hamas. Sono pochissimi i contrari a questa linea. Sull’Ucraina, chi aveva una prospettiva puramente cremlinista se n’è già andato ed è un bene.
* giornalisti del quotidiano n.d., partnership editoriale dell’intervista
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Elezioni tedesche Un pur modesto ridimensionamento del grande successo che si attribuisce all’ultra destra di Afd, carico per giunta delle aspettative e delle mire conquistatrici d’oltreatlantico, potrebbe modificare la percezione del clima politico e i comportamenti degli altri partiti
I risultati elettorali di questa sera nella Repubblica federale tedesca ci diranno come è andata, ma non come andrà, l’aria che tira, ma non la sua precisa direzione e intensità. Troppe incognite gravano sul quadro politico che probabilmente ne verrà fuori. Quanto alle percentuali, le grandi sorprese sono altamente improbabili.
I sondaggi restano stabili da tempo (ad eccezione dell’exploit attribuito alla Linke) e corrispondono tutto sommato alla penalizzazione dei fattori che hanno eroso e poi affossato la coalizione guidata da Olaf Scholz: scarso contrasto al declino economico, conseguenza del perduto rapporto con la Russia e dell’ottuso catechismo di bilancio imposto dai falchi liberali; l’abbandono da parte dei Verdi dei loro temi storici e della loro ragione sociale a favore di un opportunismo governativo industrialista sempre più disinibito.
Tuttavia, in una situazione così delicata come quella in cui si svolge questa consultazione, nel mezzo di un’Europa che frana disastrosamente verso destra, anche un lieve spostamento delle percentuali da quelle indicate, abbastanza omogeneamente, dai sondaggi merita attenzione.
Un pur modesto ridimensionamento del grande successo che si attribuisce all’ultra destra di Afd, carico per giunta delle aspettative e delle mire conquistatrici d’oltreatlantico, potrebbe modificare la percezione del clima politico e i comportamenti degli altri partiti.
Soprattutto se l’emorragia dei voti della Spd dovesse rivelarsi meno copiosa del previsto. E se il partito liberale, che vive fuori dal mondo reale nelle nuvole della dottrina, dovesse restare fuori anche dal Bundestag. Infine, se le urne dovessero confermare il deludente risultato del nuovo partito di Sahra Wagenknecht indicato dai sondaggi, sarà finalmente chiarito lo scarso appeal di un ritorno a stili sovietici e all’incrocio tra temi classici del movimento operaio e posizioni nazionaliste.
La Cdu-Csu si appresta ad appuntarsi sul petto la medaglia della vittoria, ma su un campo quasi irriconoscibile per un partito ultra atlantistico abituato ad essere senza sforzo il principale interlocutore di Washington nell’Europa continentale. Merz dovrà vedersela ora con forti e insistenti pressioni americane per spingerlo a una collaborazione con l’estrema destra, divenuta nella fase finale della campagna elettorale la sponda privilegiata di Trump.
Ma questo cozzerebbe con l’umore di gran parte del paese e con la leggenda del centrismo antifascista e della moderazione. Oltre che con le posizioni assunte nel conflitto tra Russia e Ucraina dalla Germania che si trova ad aver perso in un colpo solo il rapporto vitale con il grande vicino dell’Est e la coesione protettiva della Nato. È tra queste affilate tagliole che dopo le elezioni dovrà formarsi un governo di coalizione in balia di ardui equilibri, rapporti tesi e innumerevoli incertezze.
Con a fianco, incombente, un venti per cento dell’elettorato, in buona parte estraneo a passioni estremiste ma confluito comunque senza problemi sotto le bandiere della destra radicale. Questo esodo non è affatto inspiegabile: ha radici nel rigorismo economico che dal severo ministro delle finanze (ai tempi della crisi del debito greco) Wolfgang Schäuble transita ai professori e agli imprenditori che fondarono l’Afd nel 2013, con l’idea che la ricchezza e la stabilità finanziaria della Repubblica federale fossero insidiate da un eccesso di assistenzialismo a favore di poveri, disoccupati e richiedenti asilo, nonché dal costo dei paesi Ue più indebitati.
Una volta messa a fuoco la figura del parassita (non a caso uno stigma caro all’antisemitismo) la strada verso la radicalizzazione nazionalista e xenofoba era completamente aperta. Forse la crescita della Linke, soprattutto tra i giovani, (confermata da tutti i sondaggi), dipende proprio dall’aver messo in luce questo nesso, sottraendosi alla narrazione dominante di un liberismo del tutto innocente ed estraneo, addirittura antitetico, alle derive neofasciste dell’egoismo sociale.
Commenta (0 Commenti)SFRATTO ATLANTICO L’ipotetico raddoppiamento della spesa militare richiesto dall’amministrazione Trump non prevede una maggiore autonomia, ma l’esatto contrario
A partire dal Dopoguerra, Europa occidentale e Giappone hanno goduto per decenni di un grado invidiabile di sicurezza e di pace, pur devolvendo una cifra irrisoria alle spese militari. A proteggerli era il potere di deterrenza della macchina militare americana.
Che all’epoca imponeva agli alleati un notevole costo politico ma un prezzo economico molto contenuto. Il costo politico era misurato dal cosiddetto fattore K: l’impossibilità tassativa che un partito o movimento d’ispirazione comunista si avvicinasse ai centri del potere, fosse anche attraverso libere elezioni. In compenso, alle imprese e ai capitali era permesso muoversi con ampia autonomia nei mercati globali, al punto che i maggiori rivali degli Stati uniti si ritrovarono ad essere Germania e Giappone, smilitarizzati dopo la guerra e perciò liberi dall’onere di spese militari inutilmente gravose.
La liberalità della superpotenza nasceva dall’intento di estendere la propria egemonia a livello planetario, legandola all’apertura dei mercati e all’esportazione della democrazia liberale: un progetto di «nuovo ordine globale» oggi archiviato, cui si va sostituendo l’idea di un mondo diviso in grandi spazi continentali, ciascuno consegnato a una singola potenza dominante.
Nei piani americani, il rapporto con l’Europa dovrebbe evolversi in consonanza con questo cambio di paradigma. L’egemonia benevola dovrebbe lasciare il posto a un vassallaggio esplicito, che preveda un costo salato per la protezione militare e una subordinazione sistematica ai colossi finanziari e tecnologici statunitensi. Non è un ordine, almeno per ora, ma una proposta a cui l’Europa può dire di sì o di no. Data però l’enormità della posta in palio, è bene avere le idee chiare sulle condizioni e sui rischi impliciti nell’una o l’altra scelta.
Va osservato, in primo luogo, che l’aumento delle spese militari è compatibile di fatto con entrambe le opzioni. Cambiano però le dimensioni e il senso dell’eventuale aggravio di spesa. L’ipotetico raddoppiamento della spesa militare richiesto dall’amministrazione Trump non prevede una maggiore autonomia dei paesi europei, ma l’esatto contrario. Si pagherebbe per ratificare la propria dipendenza, impegnandosi ad assecondare ogni futura decisione della potenza dominante non solo in campo militare ma anche energetico e tariffario. Costrette a ridimensionare l’export o persino a spostare gli impianti negli Stati uniti per tamponare la deindustrializzazione americana (esasperando così quella di casa nostra), le imprese europee non avrebbero altra via per salvare i profitti che comprimere i salari e accentuare la corsa alla privatizzazione delle risorse. Una ricetta autoritaria per la quale l’amministrazione Trump ha già riconosciuto nelle nuove destre radicali il candidato ideale.
L’opzione alternativa è riorganizzare e potenziare la difesa per acquisire un’effettiva autonomia strategica. Si tratterebbe, per citare Mario Draghi, di imparare ad agire «come un unico Stato», coordinando le spese militari e affidandole a un titolo di debito comune, per acquisire un peso adeguato nell’alleanza atlantica e ottenere così una libertà di scelta paragonabile almeno a quella di potenze intermedie come l’India o la Turchia.
Va ricordato che, già quest’anno, la spesa militare complessiva dei paesi europei ha largamente superato i trecento miliardi: quanto la Cina, quindi, e circa il doppio della Russia. Se non fosse diluito fra trenta eserciti distinti e separati, un simile impegno di spesa potrebbe già bastare a garantire una deterrenza difensiva. Non è insomma l’eventuale aumento il vero scoglio, ma l’assenza di coordinazione, il che porta a galla le debolezze strutturali dell’Unione. In questioni di guerra e di pace, è difficile agire «come un unico Stato» senza disporre di un’autorità politica legittima, procedure di decisione efficaci e trasparenti, una visione condivisa dell’interesse comune. Ed è improbabile che decolli un debito comune senza una regolamentazione ragionevole dei rapporti fra creditori e debitori e un’armonizzazione dei diversi sistemi fiscali.
Per aspirare a un’autonomia strategica, insomma, l’Europa dovrebbe mettere mano alle riforme strutturali in senso federalista che da decenni le maggiori forze politiche dicono di volere ma che, di fatto, non hanno mai avviato. E dovrebbe farlo in tempi stretti, in condizioni di emergenza e con l’aperta ostilità dell’alleato atlantico.
Ciò che più sconcerta è l’ostinata convinzione che un passo tanto arrischiato possa marciare a colpi di austerità, lacrime e sangue, rinunciando a priori a ogni coinvolgimento della società civile e regalando la protesta popolare a quei sovranismi nazionalisti che di un tale programma sono i diretti avversari. Tutto suonerebbe più credibile se l’appello all’orgoglio europeo si legasse a una lotta alle disuguaglianze, all’immunità fiscale dei grandi patrimoni e allo strapotere degli oligopoli finanziari. Se una risposta unitaria all’emergenza abitativa restituisse vitalità ai centri storici delle città europee, anziché farne dei parchi di divertimento per turisti. Se l’esercito di giovani ricercatori iperqualificati, di cui l’Europa dispone, fosse mobilitato per una rivoluzione creativa, anziché languire nel precariato perenne. Per tutto questo occorrerebbe però qualcosa di cui l’Europa al momento è sprovvista: una classe dirigente, e non un semplice apparato di comando. In sua assenza, non resterà altra opzione che la sottomissione supina all’amministrazione americana di turno, quali che ne siano le condizioni.
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