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Gli ayatollah Da Evin sono passati tutti, prima gli oppositori della monarchia, poi quelli della repubblica islamica, a volte in drammatici scambi di ruolo tra detenuti e carcerieri. Ecco come funzionano le […]

Iraniani camminano davanti a un dipinto murale del leader Khamenei a Teheran foto Abedin Taherkenareh/Ansa Iraniani camminano davanti a un dipinto murale del leader Khamenei a Teheran foto Abedin Taherkenareh/Ansa

Da Evin sono passati tutti, prima gli oppositori della monarchia, poi quelli della repubblica islamica, a volte in drammatici scambi di ruolo tra detenuti e carcerieri.

Ecco come funzionano le prigioni di Teheran nel racconto dell’oppositore e giornalista Ahmad Zeidabadi, che c’è stato più volte: «I prigionieri ritenuti più interessanti vengono legati e incappucciati e trasferiti al Sepah 59, un carcere dei pasdaran di cui si conosce soltanto il nome in codice. Lì puoi restare bendato per settimane mentre ascolti nelle altre stanze le voci e le grida di quelli che vengono interrogati e torturati. A Evin invece si sta in trenta in celle di 24 metri quadrati e si dorme per terra. Poi c’è la separazione: al braccio 269 vanno i comuni, al 240 ci sono le celle di isolamento e punizione, al 209 una sezione dei servizi segreti dove i carcerati devono tenere sempre gli occhi bendati, al 325 la sezione speciale per i religiosi, i mullah, e una per intellettuali e giornalisti».

L’arresto di Cecilia Sala è un segnale di un nervosismo crescente di un regime che manda segnali fuori ma anche dentro a un Paese colpito dalle batoste mediorientali e dove all’interno sono in vigore le regole di guerra e una censura sempre più stretta. Che colpisce anche gli stranieri.

Secondo un recente rapporto dell’Istituto francese per le relazioni internazionali (Ifri) firmato dallo studioso Clement Therme, che esamina in particolare «il caso degli europei detenuti a Teheran», l’arresto arbitrario di cittadini stranieri o con doppia nazionalità ha origini lontane in Iran – dal 4 novembre 1979 quando nell’ambasciata Usa furono presi dagli studenti dozzine di diplomatici – ed è riconducibile alla cosiddetta diplomazia degli ostaggi che in passato ha permesso alla repubblica islamica, in un contesto di sanzioni internazionali, di usare i prigionieri come leva per ottenere favori o la liberazione di iraniani detenuti all’estero (oggi si parla di un cittadino iraniano-svizzero arrestato il 16 dicembre a Malpensa su mandato di cattura americano). Questa pratica tuttavia, secondo l’Ifri, si sta ritorcendo contro lo stesso Iran, destinato a rimanere «diplomaticamente inaffidabile».


L’Iran oggi si tiene in piedi grazie alle sue risorse energetiche e ai rapporti privilegiati con Russia e Cina, due membri del consiglio di sicurezza Onu che ne caldeggiano l’ingresso ufficiale nei Brics dove Teheran ha partecipato per la prima volta in ottobre al vertice di Kazan. Ma è in Medio Oriente che l’Iran sta assistendo allo sgretolamento dell’asse della resistenza contro Usa e Israele e della Mezzaluna sciita: i suoi alleati Houthi yemeniti e Hezbollah libanesi sono nel mirino dello stato ebraico che, dopo avere sbriciolato Hamas, con 45mila morti civili a Gaza, ne sta frantumando le capacità offensive e difensive, in Siria Bashar Assad è crollato e ora a Damasco è al potere Al Jolani, capo di milizie sunnite jihadiste, sostenute dalla Turchia, da sempre ostili agli sciiti. Anche in Iraq, dove il governo e le milizie sciite predominano, l’influenza iraniana deve in qualche modo segnare il passo. Lo stesso Trump, pronto a entrare alla Casa Bianca, ha confermato che vuole mantenere su Teheran un politica di «massina pressione», la stessa che nel gennaio 2020 lo portò a far assassinare il generale Qassem Soleimani. Il più importante stratega degli ayatollah.

Israele, esibendo un apparato militare e di intelligence nettamente superiore a chiunque nella regione, quest’anno ha fatto fuori tutta la dirigenza di Hezbollah (compreso il capo Nasrallah), ha ucciso il capo di Hamas Haniyeh a Teheran, ha fatto fuori all’ambasciata iraniana di Damasco i generali dei pasdaran e dopo la caduta di Assad, occupando tutto il Golan, sta tagliando ogni linea di rifornimento a Hezbollah, che si è visto anche distruggere i terminali marittimi sulla costa siriana.
È evidente che la repubblica islamica non solo è sotto tiro ma sta lottando per la sopravvivenza. Lo si capisce bene da un discorso tenuto qualche giorno fa dall’ammiraglio britannico Tony Radkin al Royal United Service Institute di Londra. Secondo l’ammiraglio «Israele nei bombardamenti del 26 ottobre ha distrutto la quasi totalità delle difese aeree iraniane e la sua capacità di costruire missili balistici per almeno un anno». Gli F-35 israeliani hanno lanciato i loro missili volando a una distanza di almeno 120 chilometri dai bersagli, quindi fuori da ogni possibilità di intercettazione.

«Il vantaggio militare e di intelligence israeliano – ha concluso Radkin – è fuori dalla portata di ogni avversario locale». E se ne sono accorti anche russi e cinesi perché questa guerra in Medio Oriente diretta all’Iran e ai suoi alleati va molto oltre i confini della regione.

Ecco perché oggi i timori assalgono i vertici iraniani ma domani si possono proiettare su una scala ben più ampia e terrificante. Che il nuovo anno porti consiglio e alla liberazione di Cecilia Sala dal portone d’acciaio di Evin.

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Buco nell'acqua I rischi della delega al giudiziario: riflessioni dopo l’assoluzione di Salvini a Palermo. Quanto avvenuto per responsabilità dell’allora ministro dell’interno ha una valutazione definitiva negativa sul piano etico sociale e sul piano politico. Sarà interessante leggere nelle motivazioni come il Tribunale ha valutato gli aspetti da me segnalati come Garante nazionale all’allora presidente del Consiglio

La nave ong Open Arms foto Ansa La nave ong Open Arms foto Ansa

Anche troppo semplice esaminare l’esito della vicenda giudiziaria che ha coinvolto l’ex ministro degli interni Matteo Salvini e che si è conclusa con il «fatto non sussiste», pronunciato dal Tribunale di Palermo.

Semplice, perché è un chiaro esempio della difficile interconnessione di tre aspetti: la rilevanza penale di fatti, accadimenti e comportamenti; la loro dimensione etico-sociale con la relativa responsabilità, diversa da quella penale ma anche più sostanziale per chi ha una funzione pubblica; lo spazio proprio dell’agire politico, mai delegabile ad altri ambiti d’intervento.

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Tutti e tre questi aspetti sono interrogati da quel pronunciamento. Si può procedere per gradi: innanzitutto partendo dal significato della dichiarata insussistenza del fatto. Pur tenendo, ovviamente, saldo il principio della doverosa accettazione delle sentenze, va, infatti, chiarito che non esiste identità o sovrapposizione tra il fatto così come configurato nell’attribuzione di una fattispecie penale e il fatto in sé. Al tribunale spetta affermare la sussistenza o meno del fatto come penalmente configurato e non certo il giudizio sull’effettività storicamente determinata di ciò che è avvenuto. Il fatto in sé nel caso della vicenda della nave Open Arms è che la nave è stata trattenuta per diciotto giorni senza indicazione del place of safety (in acronimo Pos) cioè porto sicuro; che questo deve essere, anche in base alla sua previsione sul piano logico, un luogo dove potesse ritenersi conclusa l’operazione di salvataggio; che l’indicazione di rivolgersi ad autorità di altri Paesi è una rinuncia all’esercizio della propria responsabilità rispetto a navi che hanno a bordo persone raccolte in mare, che hanno sofferto la vicenda di una difficile navigazione. Molto spesso persone con già proprie fragilità e tutte con la fragilità intrinseca alla vicenda stessa del cercare un «altrove» diverso per l’impossibilità di continuare a vivere nel proprio alveo.

QUESTO È IL FATTO. Confermato da rapporti, prese di posizione, testimonianze di persone salite a bordo e perfino dalla consapevolezza stessa delle autorità italiane che peraltro hanno provveduto a far scendere, dopo un buon lasso di tempo, le persone più vulnerabili per malattia o per età, proprio a seguito dello stallo che si era venuto a determinare. Che la situazione fosse insostenibile è del resto testimoniato anche dall’esito di quei giorni, dopo la visita a bordo del procuratore di Agrigento che ha ordinato lo sbarco immediato.

Il fatto penalmente configurato è invece che tale situazione si inserisca nelle previsioni penali del sequestro di persona e del rifiuto d’atti di ufficio. Questo «fatto« per il Tribunale di Palermo non sussiste – e leggeremo le motivazioni che hanno portato a tale decisione – mentre certamente sussiste il fatto in sé così come si è determinato in quei giorni di agosto. Del resto, la non sussistenza del fatto penalmente configurato si è giocata attorno alla connotazione dell’agire dell’allora ministro dell’interno quale atto amministrativo, da cui far discendere la responsabilità della non concessione del porto a una nave carica di naufraghi, o quale atto politico che rinvia alla responsabilità collettiva dell’esecutivo sulla base di decisioni non direttamente sindacabili sul piano penale.

RESTANO DI SFONDO alcune considerazioni circa la distorsione interpretativa di obblighi internazionali allora operate dai responsabili del fermo rifiuto. Obblighi che vanno dalla valutazione di «non inoffensività» (da notare la doppia negazione) rispetto a una nave che aveva prestato soccorso in adempimento di norme del diritto del mare, alla sottovalutazione della possibile violazione dell’inderogabile divieto di trattamenti inumani o degradanti (e tali si andavano configurando) nonché alla pretesa di considerare «sicuro» il luogo di permanenza sulla nave ove peraltro era impossibile esercitare il diritto alla ricerca di protezione internazionale, non essendo state ancora identificate le persone soccorse.

Sarà interessante leggere come questi aspetti – segnalati allora anche direttamente al Presidente del Consiglio da me, quale Garante nazionale – siano stati considerati dal Tribunale nella delineazione della conclusiva verità processuale. Perché quest’ultima è l’esito naturale di un processo e non va mai confusa con una verità sostanziale e le due verità non vanno confuse. La verità di una sentenza, infatti, è un enunciato che però vuole esprimere un elemento fattuale: quindi, si fonda sul rapporto tra un atto sostanzialmente linguistico e un atto extra-linguistico, oggetto del giudizio. L’unica modalità per esprimerlo è di tipo inferenziale, deduttivo, ricavandolo cioè da prove e testimonianze connesse in una rete, appunto, di successive deduzioni. Questa linea di inferenza logica connette, tuttavia, qualcosa che è avvenuto nel passato – e come tale densa della situazione contingente, della sua emotività, del suo vissuto – ad affermazioni nel presente che, pur volendo astrarsi da suggestioni contingenti restano svincolate da ciò che il fatto esprimeva. Questo non limita certamente l’importanza fondamentale della verità giuridica che l’enunciato della sentenza afferma, ma lo rende distante dalla verità sostanziale di ciò che fu e apre lo spazio per altre valutazioni più collegate alla materialità dell’evento. Si apre lo spazio della valutazione etica di chi ha agito in quel contesto.

LA DIMENSIONE dell’etica sociale che dovrebbe guidare le azioni e i comportamenti di chi ha responsabilità pubblica interroga allora la funzione della politica, nella sua dimensione evolutiva del sentire comune e non, come avviene attualmente, nell’inseguimento preventivo del consenso, così consolidandolo. La politica non è riassumibile nella dualità, troppo spesso ricordata, che Rino Formica formulò a suo tempo, né nella gestione entro i margini di un presunto «possibile» inteso come limite dell’azione. Risiede invece nella capacità di praticare terreni non di immediato consenso né sottoponibili preventivamente al consenso stesso bensì basati su valori e diritti fondanti una data comunità – e riassunti nel nostro Paese nella Carta costituzionale – estendendoli alla massima applicazione possibile.

SOLO COSÌ la politica è maieutica e assolve alla sua funzione costruttiva di futuro. Molte delle riforme che hanno caratterizzato un passato non troppo lontano anche del nostro Paese hanno avuto questa connotazione: penso alla riforma sanitaria, alla riforma dell’attenzione psichiatrica, all’abolizione delle classi differenziali, alla stessa riforma penitenziaria. Nessuna sarebbe stata adottata soltanto sulla spinta di un presumibile consenso; sono state invece tappe per la costruzione di un consenso più avanzato. Così hanno avuto la dimensione di affermazione di etica sociale.

Per questo non soltanto quanto avvenuto per responsabilità dell’allora ministro dell’interno ha una valutazione definitiva negativa sul piano etico-sociale, ma anche sul piano politico – proprio quel terreno che la sua difesa in processo ha considerato come elemento risolvente sul piano giudiziario – perché fortemente regressiva e divisiva.

La giustizia assolve, ma la coscienza collettiva non subalterna esprime la sua condanna. Non penale: al contrario, indicativa di quanto questi atteggiamenti e queste azioni siano da contrastare e sconfiggere sul piano della capacità di contrasto politico, senza alcuna delega a quello giudiziario, che ha altre priorità, altre dinamiche e giunge ad altre conclusioni.

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I fatti e le parole Oggi Israele non è «sionista», è molto peggio: è uno Stato le cui élite politiche condividono con rare eccezioni l’idea di un nazionalismo aggressivo ed esclusivista che, come dimostra plasticamente la figura di Netanyahu, ha bisogno di guerra per sopravvivere

La fila e le lotte della popolazione palestinese per il cibo a Khan Younis foto Abdel Kareem Hana/Ap Ragazze palestinesi cercano di ottenere un po' di cibo a un centro di distribuzione di Khan Younis – Ap/Abdel Kareem Hana

Ho cambiato idea, credo di essermi “radicalizzato”. Circa un anno fa ho scritto su queste pagine dei miei dubbi sull’opportunità di definire come «genocidio» la guerra condotta da Israele a Gaza. Dubbi, soprattutto, sul rischio che usare estensivamente un concetto così drammaticamente estremo, applicandolo a comportamenti che certo configurano crimini di guerra ma che sul piano giuridico sfuggono almeno in parte alla categoria canonica del genocidio, finisca per annacquare il senso, la percezione, la «sacralità» di una parola coniata per dare un nome al male più «indicibile»: alla Shoah.

Capisco le ragioni di chi rimane affezionato a questa disputa terminologica – crimini di guerra sì, genocidio no – ma oggi la trovo «distraente». I nomi, le parole sono importanti, però i fatti, le cose contano di più. I fatti sono che da più di un anno Israele – chi la governa, il suo esercito, le sue forze di sicurezza, senza una significativa opposizione politica e sociale nel mondo ebraico-israeliano – procede nella distruzione sistematica e indiscriminata dei palestinesi che vivono nella Striscia di Gaza, tollera e spesso spalleggia le persecuzioni continue contro civili palestinesi in Cisgiordania a opera di bande di coloni ebrei israeliani, rifiuta sistematicamente ogni richiamo di organismi sovranazionali alla palese illegittimità dei suoi metodi guerra.

ECCO, io penso che oggi dividersi tra quanti giudicano inaccettabili questi fatti, su come vadano nominati – genocidio? crimini di guerra? crimini contro l’umanità? – ne metta in ombra la gravità con pochi eguali nella storia recente e oscuri un fatto ulteriore che da essi consegue: Israele è ormai a tutti gli effetti un Paese «illegale», «criminale», altrettanto sprezzante del diritto internazionale e di quello umanitario dei Paesi e gruppi suoi nemici.

Lo è non più soltanto come governo, ma come entità giuridica che rivendica, con le sue istituzioni, il diritto di massacrare decine di migliaia di civili palestinesi per neutralizzare Hamas, di occupare per un tempo indefinito territori non suoi dominandone gli abitanti come sudditi di un potere assoluto, di trattare da cittadini di serie b milioni di arabi israeliani (è apartheid? Anche in questo caso preferisco concentrarmi sulla cosa più che sul nome).

Distraente da questa evidenza, particolarmente dolorosa per chi come me sente un legame profondo con le radici ebraiche dello Stato d’Israele, considero anche il dibattito su sionismo e antisionismo. Il movimento sionista nacque alla fine dell’Ottocento per dare speranza a milioni di ebrei d’Europa perseguitati e discriminati.

Indicando l’obiettivo concreto di costruire uno Stato ebraico in Palestina, fondava la sua visione su un valore – il diritto dei popoli ad autodeterminarsi – che ha conosciuto nella storia due declinazioni tra loro opposte: patriottismo democratico e nazionalismo esclusivista. Declinazioni, per guardare all’Italia, che si combatteranno ferocemente nella guerra civile tra Resistenza e fascismo.

IL SIONISMO è sempre stato abitato da entrambe queste «anime», e in più ha recato fino dai suoi inizi i segni di un «peccato» originale: disinteresse per i diritti nazionali di quanti, non europei, vivevano da secoli nella «terra promessa». Il movimento sionista vedeva il mondo con occhi «colonialisti»: ma almeno fino a tutta la prima metà del Novecento così lo vedevano anche pensieri e movimenti squisitamente progressisti.

Basti pensare a tanti socialisti rivoluzionari italiani che nel 1911 si entusiasmarono per la guerra coloniale in Libia, o alla sinistra socialista e comunista francese che alla fine degli anni ’50 sostenne con forza la repressione contro l’indipendentismo algerino.

Sarebbe bene, allora, lasciare il sionismo alle analisi e ai giudizi degli storici. Oggi Israele non è «sionista», è molto peggio: è uno Stato le cui élite politiche – fortunatamente non quelle intellettuali – condividono con rare eccezioni l’idea di un nazionalismo aggressivo ed esclusivista che, come dimostra plasticamente la figura di Netanyahu, ha bisogno di guerra per sopravvivere. È qui la prima e più micidiale minaccia esistenziale per Israele: è in quello che Anna Foa in un libro recente molto bello e molto sofferto ha chiamato il suo «suicidio».

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Economia Il Prodotto interno lordo cresce di uno zero virgola, il calo dell’attività manifatturiera conferma il rischio che l’economia del Paese si risolva in un terziario scadente

Bilancio economico di fine anno: è andata male, andrà peggio Bilancio economico di fine anno: è andata male, andrà peggio

Il dibattito sull’economia italiana vede il governo vantare successi, l’opposizione denunciare insuccessi, i media dare eco a contrasti tanto urlati quanto sterili. Per una valutazione obiettiva non resta che affidarsi alla statistica e documentare come rispetto al 2023 l’economia potrà aver chiuso il 2024.

Il prodotto reale risulterà in solo lieve aumento. Se verrà fissato dall’Istat sullo 0,5% il dato si unirebbe a quello del 2023 e alla previsione per il 2025 nel certificare che la crescita di trend resta condannata allo «zero virgola per cento», come prima del 2020. Il calo dell’attività manifatturiera (-3,5%) conferma il rischio che l’economia del Paese si risolva in un terziario scadente sia nel pubblico (la sanità è il caso più grave per carenza di mezzi) sia nel privato (turismo povero, bed and breakfast, bar all’angolo, fast food). Il Sud non riduce il divario perché accelera, è il Centro-Nord a frenare.

Alla dinamica mediocre del Pil hanno corrisposto consumi in termini reali anch’essi in solo lieve incremento. Vi hanno corrisposto altresì un reddito reale pro capite invariato rispetto all’anno precedente (per l’apporto degli immigrati alla popolazione), inchiodato sui livelli del 2000, sceso da allora al disotto del 20% rispetto alla media europea; salari reali infimi nonostante il modesto recupero dovuto alla raffreddata ascesa dei prezzi; ineguale distribuzione degli averi; un tasso di povertà non lontano dal 10% della popolazione (quasi sei milioni di persone, di cui 1,3 milioni in età minore).

GLI INVESTIMENTI in macchinari e impianti, sempre in termini reali, sono scemati del 2,5% e così le importazioni, mentre le esportazioni sono rimaste ferme. Il calo del 2024 fa sì che rispetto al Pil gli impieghi in beni strumentali (10%) non abbiano ritrovato neppure il livello del 2000 (11%), da cui erano crollati fino al minimo (8%) seguito nel 2013 alla restrizione di bilancio del governo Monti dopo l’irresponsabile gestione finanziaria Berlusconi-Tremonti.

Il calo è avvenuto anche per la lentezza d’attuazione dei progetti finanziati dall’Europa attraverso il Pnrr. Dei 200 miliardi disponibili ne sono stati spesi in un quadriennio appena una sessantina, nel 2024 non più che nei singoli anni precedenti. Mancano un resoconto della loro composizione e una stima dei loro effetti sull’economia. Rispetto al Pil il totale degli investimenti pubblici non supera il livello del 2009.

La competitività di prezzo del made in Italy non è migliorata, ma la debolezza della domanda interna e le minori importazioni hanno perpetuato l’avanzo della bilancia dei pagamenti di parte corrente con ulteriore deflusso di capitali, altri trenta miliardi investiti all’estero e non nel Paese.

L’OCCUPAZIONE è notevolmente aumentata, del 2% (420mila unità). Ma il prodotto ha progredito molto meno, con le imprese indotte dai bassi salari ad assumere anziché investire e innovare. Quindi la produttività, statica da vent’anni, è scesa almeno dell’1% e il costo del lavoro per unità di prodotto è salito (del 6% nel settore privato), con rischio di inflazione futura. La difficoltà dell’industria, non solo dell’automobile, prelude a disoccupati e cassaintegrati in diversi settori e luoghi.

L’indebitamento netto della Pubblica amministrazione ha solo in parte annullato la dilatazione degli anni precedenti. Resta pur sempre sul 4% del Pil, con l’avanzo al netto degli interessi forse raggiunto, certo non consolidato. Le entrate correnti di bilancio hanno superato di 25 miliardi (1% del Pil) le uscite correnti. Ciò è altamente positivo sebbene, diversamente da quanto il governo favoleggia, la pressione fiscale sia stata inasprita dal 41,5 al 42,5% del Pil. Ma il prezioso risparmio è stato assorbito nel conto capitale delle pubbliche amministrazioni dalle uscite meno produttive (circa 50 miliardi, fra cui quelli legati alla coda del famigerato bonus edilizio).

IL DEBITO PUBBLICO è quindi asceso a tre trilioni, arrivando a sfiorare il 140% del Pil. La legge di bilancio varata ieri stenterà a contenerlo. Le misure progettate non incidono né sulle spese non-sociali né sull’evasione dei tributi. I tassi dell’interesse, lungi dal diminuire ancora, potrebbero risalire gravando sul debito. Risaliranno se l’inflazione verrà innescata dagli Stati uniti, dove Trump vuole una spesa pubblica ingente e il blocco dell’immigrazione in una economia già in pieno impiego e con un lancinante, crescente, debito estero. Inoltre maggiori costi deriveranno dal grumo di negatività che i conflitti e le tensioni geopolitiche generano nel mondo: spese militari, protezionismo, autarchia, distorsioni produttive, frattura nei rapporti commerciali e nella cooperazione fra paesi.

Con le sue ombre e alcune luci il 2024 non risulterà l’anno economico peggiore vissuto dagli italiani negli ultimi decenni. Ma la condizione complessiva attuale e tendenziale, seppure migliorata rispetto al pesante lascito del precedente ventennio, non giustifica compiacimento. Al di là dei dati nazionali non esaltanti e di un contesto mondiale fitto di eventi sfavorevoli sul futuro dell’economia italiana pesano due elementi risalenti nel tempo.

La politica economica permane impari al rilancio dell’economia. Non è imperniata, in modo coordinato, sul risanamento del bilancio; sugli investimenti pubblici nella sanità, nella tutela del territorio e dell’ambiente, nell’istruzione; su un’azione specifica per il Sud; sulla correzione delle iniquità e della povertà assoluta; sulla modernizzazione del diritto dell’economia e della giustizia civile; sull’imporre alle imprese la concorrenza; sul rifiuto spinto sino a opporre il veto dell’Italia all’assurda equiparazione fra spesa corrente e spesa in conto capitale imposta alle pubbliche amministrazioni europee dal mercantilismo tedesco.

L’ALTRO ELEMENTO riguarda il sistema delle imprese. L’improduttività di oltre quattro milioni di unità con meno di due addetti (45% degli occupati nelle imprese) stenta a essere compensata dai pochi grandi gruppi rimasti e dal nucleo delle aziende che sono, sì, efficienti ma restano familiari, non si aprono a dirigenti esterni, non si quotano in Borsa, ripiegano addirittura sul delisting. Lo stesso distretto industriale non brilla. Ancor più grave sarebbe se le imprese italiane piuttosto che sull’accumulazione di capitale e sul progresso tecnico continuassero a puntare su danaro pubblico, evasione delle imposte, acquiescenza sindacale e salariale, cambio sottovalutato, bassa concorrenza.

Sia nello Stato sia nell’impresa occorre un radicale cambio di paradigma. Gli economisti lo hanno sollecitato. La Banca d’Italia, l’Accademia dei Lincei, altre istituzioni lo auspicano da anni. Non se ne vedono le premesse.

 

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Decine deputati che abbandonano L’ex premier è andato via in Spagna, a insegnare. Molti altri lasciano preferendo incarichi gli enti locali

Fuga dal parlamento inutile. Non solo Letta: la vita è fuori Un momento della discussione generale sulla legge di Bilancio nell'aula del Senato – Roberto Monaldo / LaPresse

Si potrebbe fare del 20 dicembre scorso, un venerdì, la data simbolo dell’irrilevanza del parlamento. In quello stesso giorno, infatti, ci sono state due votazioni emblematiche. L’aula della camera dei deputati ha votato prima la fiducia – l’ennesima – posta dal governo sulla manovra, nonché a sera il disegno di legge di bilancio nel suo complesso. Un provvedimento che ha visto prima marginalizzata la Commissione bilancio (le trattative sono avvenute tutte in sede ministeriale e politica, cioè extraparlamentare) e poi ammutolita l’aula, chiamata solo a sancire a scatola chiusa il provvedimento, senza nemmeno poterla discuterla. Non si dica modificarla, no, neanche esaminarne i contenuti.

A mezzogiorno, tuttavia, la camera ha votato e approvato anche un altro atto apparentemente distante: le dimissioni da deputato di Enrico Letta. L’ex segretario del Pd ed ex presidente del Consiglio ha preferito lasciare il parlamento per dedicarsi all’insegnamento. Questa volta in Spagna. Un addio che fa seguito a quello di molti altri deputati e senatori. Una fuga che per altro era iniziata già nella precedente legislatura.

IL PRIMO A LASCIARE, in questa legislatura è stato Carlo Cottarelli, dimessosi dopo soli nove mesi di legislatura il 9 maggio 2023. Il senatore del Pd, anticipando in questo Letta, disse esplicitamente di avere la sensazione di essere ininfluente nelle decisioni politiche e anche nel dibattito pubblico dal suo scranno al senato, e di preferire la cattedra alla Cattolica. Ed in effetti da lì è più ascoltato.

Tra i democratici molti big hanno fatto una scelta analoga, seppur per lidi diversi. L’ex segretario Nicola Zingaretti e Alessandro Zan hanno preferito il parlamento europeo. Nei giorni scorsi anche Andrea Orlando ha annunciato le proprie dimissioni per dedicarsi a guidare l’opposizione in regione Liguria. Una decisione certo meritoria, ma inusitata. Altri in passato hanno preferito l’impegno in una regione (si pensi ad Alessandra Todde in Sardegna, che ha lasciato la camera il 9 aprile scorso). Ad inizio legislatura Gianfranco Miccihé, ha rinunciato al seggio parlamentare con Forza Italia preferendo per quello dell’assemblea regionale siciliana dove già sedeva.

Guardando gli altri partiti hanno optato per Strasburgo anche Flavio Tosi, di Forza Italia. E lo stesso avrebbero fatto Matteo Renzi, Carlo Calenda ed Elena Bonetti, che sono rimasti in senato e alla camera semplicemente perché le rispettive liste non hanno superato la soglia di sbarramento del 4%. Il 2 dicembre ha lasciato Raffaele Fitto, per diventare commissario Ue, come Paolo Gentiloni nella precedente legislatura.

Questa fuga dal parlamento era iniziata nella scorsa legislatura, quando 25 deputati e 7 senatori si sono dimessi per assumere altri incarichi, oltre a Gentiloni. Un discreto numero di parlamentari di centrodestra ha lasciato per diventare governatore di regione (Francesco Armaroli, Massimiliano Fedriga, Iole Santelli, Roberto Occhiuto, Maurizio Fugatti; Marco Marsilio, Cristian Solinas, Donatella Tesei); Lucia Bergonzoni ha precorso le scelte di Orlando, rimanendo in regione Emilia Romagna pur avendo perso le elezioni del 2020 contro Bonaccini. Ma anche il ruolo di semplice assessore regionale ha attirato più del seggio parlamentare, visto che lo hanno preferito in diversi, come Guido Guidesi, Lara Magoni, Giorgia Latini, per citarne qualcuno. Roberto Gualtieri ha preferito fare il sindaco (di Roma) che il deputato, era stato eletto in una suppletiva al posto di Paolo Gentiloni.

Anche nella precedente legislatura lo scranno a Strasburgo è stata giudicato più rilevante di quello di parlamentare a Roma da diversi onorevoli e senatori (per esempio Carlo Fidanza, Cinzia Bonfrisco, Raffaele Stancanelli).

L’ASPETTO PIÙ INDICATIVO è la fuga dalle camere per ruoli esterni alla politica, come le Authority (Antonello Giacomelli e Massimiliano Capitanio sono andati all’Agcom), o l’insegnamento (Enrico Letta a Parigi) o ruoli professionali. Lapo Pistelli è andato all’Eni, Piercarlo Padoan è tornato a fare il banchiere, Maurizio Martina, già segretario del Pd, è andato alla Fao come vice-direttore, Guido Crosetto in passato aveva optato per la guida della Confindustria degli armamenti. Il caso più emblematico è quello del Pd Giovanni Sanga, che alle spalle aveva tre legislature. Subentrato a Maurizio Martina, ha immediatamente rinunciato preferendo mantenere il proprio ruolo all’aeroporto di Orio al Serio. È stato proclamato eletto il 20 gennaio 2021, la sua elezione è stata convalidata dalla Giunta l’11 marzo, e il 13 aprile ha rinunciato. Si può dargli torto?

 

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Iran/Italia Intervista al giornalista iraniano Parviz P. sulla detenzione della reporter italiana a Teheran: «Il fatto che disponesse di un visto regolare e interviste già autorizzate porta a pensare che potrebbero esserci altri motivi che non riguardano le sue attività giornalistiche»

Un poliziotto iraniano armato di guardia davanti ai ritratti dell'ayatollah Khomeini e del leader supremo Khamenei foto Morteza Nikoubazl/Getty Images Un poliziotto di guardia davanti ai ritratti dell'ayatollah Khomeini e del leader supremo Khamenei – Morteza Nikoubazl/Getty Images

Con l’arresto di Cecilia Sala a Teheran, l’anno si chiude con un pesantissimo bilancio per il giornalismo nel mondo. Secondo la Federazione Internazionale dei Giornalisti, 104 giornalisti e operatori dei media sono stati uccisi durante l’anno, con oltre la metà delle morti avvenute in Palestina. Sono stati arrestati 550 giornalisti in tutto il mondo, evidenziando un aumento delle repressioni contro gli operatori dell’informazione.

Abbiamo raggiunto Parviz P., cognome coperto per motivi di sicurezza. Giornalista e ricercatore iraniano, ha seguito molti casi di giornalisti arrestati in Iran.

Sembra proprio che ora che in Iran è stata eliminata la censura della rete, la nostra collega Cecilia Sala è stata censurata e fermata a Teheran, che notizie hai?

Non abbiamo ricevuto alcuna comunicazione ufficiale dalle autorità finora, stiamo lavorando sulla notizia fornita dall’Italia. Oggi (ieri) è venerdì, giorno di riposo settimanale, e il fatto che da noi vige il divieto di esprimere o divulgare una notizia prima di un comunicato ufficiale rende difficile per noi giornalisti elaborare le notizie “sensibili” in tempi rapidi. Tuttavia, il fatto che lei disponesse di un visto regolare, il che implica che tutti i suoi contatti e le interviste fossero preventivamente autorizzate, mi porta a pensare che potrebbero esserci altre motivazioni che non riguardano le sue attività giornalistiche. Non che ci voglia una spiegazione per le nostre autorità per fermare i giornalisti, ma normalmente per i giornalisti stranieri che sono regolarmente registrati non ci sono problemi.

Hai seguito molti casi di colleghi arrestati, come Nilufar Hamidi ed Elaha Mohammadi, che per prime avevano riportato l’arresto di Mahsa Amini, evento che ha scatenato la rivolta di due anni fa. Puoi ipotizzare il motivo del fermo della collega italiana?

Ovviamente tutte le ipotesi sono azzardate in assenza di almeno un comunicato ufficiale, ma potrebbe essere stata involontariamente avvicinata da persone che la sicurezza dello Stato considera «sospette», facendo così scattare l’allarme di «sicurezza», che supera qualsiasi altra regola e legge. Potrebbero essere semplicemente il parente di una vittima della polizia che vuole raccontare la sua storia. In questo caso, i servizi hanno la facoltà di fermare chiunque. Oppure, ancora, potrebbe trattarsi di un’azione congegnata dai servizi guidati da ultraconservatori per mettere in imbarazzo il ministero degli affari esteri. In questi giorni il presidente Pezeshkian e i suoi ministri, che stanno conducendo la politica estera, non hanno tanta simpatia tra i conservatori. Il nostro sistema di sicurezza soffre di un complesso di inferiorità. Sanno che le varie organizzazioni di opposizione, dai monarchici ai Mojahedin-e-Khalq, con l’aiuto degli israeliani e degli americani, hanno infiltrato spie e agenti dappertutto. Questo ha creato una psicosi che si ripercuote non solo sui poveri connazionali che vivono all’estero, ma anche sugli stranieri in generale e, in particolare, sui giornalisti che visitano il nostro paese.

In Italia qualcuno ipotizza che l’arresto di Cecilia Sala possa essere correlato a quello di Mohammad Abedini, un iraniano arrestato a Milano su richiesta degli Stati uniti, accusato di aver fornito supporto materiale al Corpo delle Guardie Rivoluzionarie.

Per il momento è tutto possibile. Certo, la coincidenza degli arresti e la decisione delle autorità italiane di divulgare la notizia fanno sospettare che il fermo della giornalista possa essere un mezzo di pressione politica, di cui non si è riusciti a venire a capo in pochi giorni. L’Agenzia Tasnim, vicina ai Guardiani della rivoluzione, ha recentemente riportato la notizia dell’arresto di Abedini e ha affermato che l’ambasciata in Italia ha avviato iniziative per il suo rilascio. Comunque anche se fosse così, la collega non corre pericolo; non è nell’interesse di nessuno creare incidenti negativi con l’Italia.

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