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POLITICA. Non è chiaro, al momento, come finirà lo scontro interno al Pd sulle candidature alle elezioni europee; si sbaglierebbe però a considerare la vicenda solo come l’ennesimo episodio nella vita di un partito intrinsecamente instabile e litigioso

Elly Schlein, segretaria Pd Elly Schlein, segretaria Pd - Ansa

Non è chiaro, al momento, come finirà lo scontro interno al Pd sulle candidature alle elezioni europee; si sbaglierebbe però a considerare la vicenda solo come l’ennesimo episodio nella vita di un partito intrinsecamente instabile e litigioso: al contrario, è proprio la spia di un deficit strutturale di questo partito, che emerge in tutti i passaggi critici, com’è certamente quello relativo alla posizione sulla guerra in Ucraina e sull’invio delle armi a Kiev. La proposta di candidatura di Marco Tarquinio ha fatto scattare in alcuni una sorta di riflesso condizionato: guai a mettere solo in dubbio la logica dell’allineamento acritico ai dettami dell’ortodossia atlantica.

D’altra parte, sin dall’inizio, dietro la formula passe-partout del «sostegno a Kiev», su cui il partito sembra essersi assestato, si nascondono interpretazioni, o anche solo atteggiamenti o accenti, molto diversi. E non potrebbe essere altrimenti: un sondaggio dell’istituto diretto da Ilvo Diamanti, nel dicembre 2023, raccontava come, su 100 elettori del Pd fossero 56 quelli favorevoli, con varia intensità, all’invio di armi (e sono in calo: erano 60 a giugno): e gli altri 44? contrari o quanto meno dubbiosi, evidentemente. E allora, non sarebbe ovvio, per un partito che si vuole plurale, dare voce a tutte quelle che vengono definite «diverse sensibilità» e verificare il consenso che esse hanno effettivamente, non solo all’interno dei gruppi dirigenti, ma in una più ampia opinione pubblica di sinistra?

È incredibile la regressione a cui stiamo assistendo: il Pci non pretendeva certo che gli eletti della Sinistra Indipendente fossero ligi alla linea del partito!

Il guaio, però, che è alla radice di questi dilemmi vi è qualcosa di molto più rilevante, ossia una strutturale incapacità del Pd ad elaborare collettivamente una linea politica e culturale, di definirne univocamente il profilo, attraverso una vera discussione da cui emergano le diverse posizioni e solo poi le possibili mediazioni (che però non possono andare oltre un certo limite, pena l’incomprensibilità o la genericità del punto di approdo).

Come si fa stabilire che, ad esempio, le cose che dice l’ex-ministro della Difesa Lorenzo Guerini sulla guerra in Ucraina sono «la» linea a cui non si può derogare? La risposta che, in genere, viene data, è la seguente: si discuta negli organismi. Già, sembra facile, ma non è così, e per un semplice motivo: gli attuali organismi dirigenti non sono organi dotati di una propria autonoma e legittima capacità rappresentativa e non svolgono funzioni propriamente definibili come deliberative. Sono organismi letteralmente trainati e nominati dai candidati segretario delle primarie, frutto di liste bloccate che sono, già in sé, molto spesso, coalizioni instabili di filiere e cordate locali e regionali, non certo espressione di orientamenti politici e culturali.

E non si può non notare un paradosso: questa logica plebiscitaria è analoga a quella che sta ispirando la riforma costituzionale del governo Meloni. Il Pd, giustamente, la sta contestando con fermezza proprio perché l’elezione diretta del premier e, al suo seguito, come mera appendice, quella del Parlamento, annullano l’autonomia e la legittimità della rappresentanza politica. Tanto più allora urge un ritorno alla coerenza, anche nel regime interno del partito. C’è bisogno di qualcosa che somigli ad un vero congresso: documenti politici diversi o anche alternativi, dettagliati per tesi, emendabili, votati e discussi in tutte le unità di base, con l’elezione di una platea di delegati che alla fine adotti solennemente questi testi. Sarà questa la sfida dei prossimi mesi, per la segreteria Schlein.

Le primarie dello scorso anno si sono svolte all’insegna della «costituente del nuovo Pd»: fino ad oggi, questo nuovo Pd vive solo, e forse non poteva essere altrimenti, grazie ad una serie di scelte politiche e programmatiche della segretaria, ma per il resto il partito, nella sua struttura e nel ceto politico che esprime (con alcune importanti eccezioni che, qui o là, cominciano ad emergere) rimane ancora quello di prima. Ed è sconfortante vedere come, di fronte al rischio di una coperta troppo corta per i seggi di Strasburgo, sia scattata una logica di mera autodifesa: il sintomo evidente di un ceto politico che non ha alcuna ambizione espansiva, e che pensa, innanzi tutto, a gestire l’esistente.

È un giudizio duro, forse ingeneroso, ma come altrimenti leggere quello che sta accadendo con le liste?

Fa specie poi che, con la massima noncuranza, ci si arroga il diritto di affermare l’intangibilità del Dna del partito (ad esempio in materia di primarie): ma, poi, di quale impianto genetico stiamo mai parlando? Quello che, in dieci anni, ha fatto perdere 6 milioni di voti?

Insomma, dopo le Europee, ci dovrà essere una stretta: o il Pd cambia il proprio modello di partito, o le fibrillazioni di questi giorni si riprodurranno su scala sempre più allargata, rendendolo ingovernabile. Il Pd non può a lungo continuare a cantare i versi di un’immortale aria mozartiana: «Non so più cosa son, cosa faccio»

 

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ISRAELE. Oggi il ritorno sulla scena dell’Isis con giganteschi attentati in Russia e in Iran costituisce per Israele una «opportunità» da sfruttare per colpire i nemici impegnati su più fronti

nuclear war danger - guerra foto e immagini stock Guerra, Getty Images

Con l’attacco israeliano a Damasco è iniziata una nuova fase di destabilizzazione del Medio Oriente, dalla Siria al Libano e oltre, fortemente voluta da Tel Aviv ben prima del massacro di Hamas del 7 ottobre. Già l’8 agosto il ministro della Difesa Gallant avvertiva che «il Libano in caso di guerra rischiava di tornare all’età della pietra». L’obiettivo di Israele e degli Stati Uniti negli ultimi 40 anni non è mai cambiato, come ben spiega il Patto di Abramo: lo Stato ebraico deve restare l’unica superpotenza regionale. È per questo che si fa la guerra e si rischia il suo allargamento non per altro.

Gli ultimi aiuti militari Usa a Tel Aviv, dicono le carte, sono stati concessi »per affrontare conflitti su più fronti». Basta leggere e guardare la mappa. Israele oltre a occupare una gran parte dei territori palestinesi, si è impadronita delle alture siriane del Golan nel 1967 e di pezzi di territorio libanese. Se l’idea a Gaza è di espellere i palestinesi, ai suoi confini Israele punta a stabilire un sorta di nuova “fascia di sicurezza” e a piegare i regimi della regione. E come sempre tutto quanto riguarda la “sicurezza” di Israele, implica necessariamente l’insicurezza degli altri e il loro annientamento come dimostrano le dichiarazioni di Gallant e quanto avviene ogni giorno a Gaza dove le bombe israeliane hanno ucciso 7 persone che lavoravano per la Ong Usa World Central Kitchen. L’orrore non ha mai fine e le giustificazioni israeliane appaiono prive di ogni credibilità quando si sta radendo al suolo un intero popolo.

In questo quadro, dove il conflitto in Ucraina appare sempre meno lontano dal Medio Oriente, anche il ritorno dell’Isis appare un evento inquietante. Quando sono iniziate le primavere arabe nel 2011 e con la successiva avanzata dell’Isis, il peggiore nemico degli sciiti in Siria e in Iraq – oltre che in Libano – Tel Aviv ha pensato regolare i conti con i pasdaran iraniani e gli Hezbollah alleati di Assad e di Mosca. La sconfitta del Califfato fermato dell’esercito di Assad con l’aiuto decisivo dei russi, dei pasdaran iraniani, degli Hezbollah sciiti e delle milizie curde alleate dell’Occidente ha rallentato questi piani ma oggi il ritorno dell’Isis sulla scena con giganteschi attentati sia in Russia che in Iran costituisce per Israele un’altra un’opportunità da sfruttare per colpire i nemici impegnati su più fronti. Ed è da ricordare che in Siria e in Iraq le milizie jihadiste hanno continuato a colpire nella totale indifferenza occidentale.

Ed è da ricordare che in Siria e in Iraq le milizie jihadiste hanno continuato a colpire nella totale indifferenza occidentale.

Per fare la “sua” guerra Netanyahu è persino disposto a mettere a rischio il suo patto non scritto con Putin che in questi anni non aveva mai protestato per i raid israeliani in Siria e in Libano, ovvero contro gli alleati stessi di Mosca. Ma l’attacco israeliano contro un edificio dell’ambasciata dell’Iran a Damasco, in cui sono morte almeno 11 persone, tra cui il generale Mohammad Reza Zahedi, comandante della Forza Qods dei Guardiani della rivoluzione (i cosiddetti Pasdaran) in Siria e Libano, rischia seriamente di far saltare qualunque possibilità di accordo, anche sottobanco. Ed è esattamente quello che vogliono i vertici israeliani: mano libera contro i palestinesi e contro tutti gli altri. Netanyahu è sotto la pressione di una piazza a lui ostile che chiede un tregua ma ha dalla sua parte i coloni e le proteste di migliaia di israeliani evacuati dai confini con il Libano nell’alta Galilea.

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Israele sta alzando il tiro per innescare un altro conflitto. In Libano non colpisce più solo le aree intorno alla Linea Blu, dove è schierata l’Unifil con il contingente italiano, ma addirittura la valle di Baalbek che è nell’entroterra ed è più a nord. La stessa escalation si sta verificando in Siria dove i raid israeliani qualche giorno fa avevano colpito Aleppo e adesso sono tornati di nuovo a prendere di mira Damasco. Lo scopo di Tel Aviv è sempre quello della provocazione portata all’estremo limite: spingere Pasdaran iraniani e Hezbollah libanesi verso una reazione fuori luogo e non calcolata che possa legittimare Israele a lanciare un attacco contro il Libano e il regime di Teheran.

Dopo l’attacco israeliano al consolato iraniano a Damasco
Dopo l’attacco israeliano al consolato iraniano a Damasco, foto Ap

Con gli Stati Uniti che in questa tragedia coprono due ruoli contraddittori ma complementari nella loro assurdità. Uno è quello di mediatore: Washington sta trattando per Gaza e ha persino nominato un “inviato di pace” per il Libano che si chiama Amos Hochstein. Una strana figura di paciere che ha servito nell’esercito israeliano e poi per le lobby di Washington. Un pompiere-piromane che esemplifica l’inaccettabile politica americana di appoggiare costantemente Israele con aiuti militari a tutto spiano. Il tutto con la complicità degli europei che mandano armi a Tel Aviv ma non hanno mai il coraggio di mettere una sanzione allo Stato ebraico.

Per Washington, in pieno anno elettorale, si tratta tra l’altro di un strategia assai pericolosa. Questo governo israeliano sta facendo di tutto sul fronte siriano e libanese per trascinare gli americani in un conflitto allargato che si può estendere all’Iran. Ma per fare una guerra più grande di quella attuale ha bisogno probabilmente di un cambio alla Casa Bianca. Sono calcoli rischiosi e spregiudicati ma ormai lo stato ebraico ci ha abituati a ogni cinismo.

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L'INTERVISTA. Il presidente nazionale dell’Arci Walter Massa: straordinaria la vostra proposta, questo 25 aprile segna un punto di svolta: "Ci troviamo all’opposizione del peggior governo della storia della Repubblica e non per caso, la sinistra ha sbagliato"

Milano, alla festa per la Liberazione del 25 aprile Milano, alla festa per la Liberazione del 25 aprile - LaPresse

«L’appello del manifesto segna un punto di svolta». Walter Massa è il presidente di Arci, un milione di soci su tutto il territorio nazionale.

Lo scorso 9 marzo la storica associazione è stata la prima, dal 7 ottobre 2023, a convocare a Roma una grande piazza nazionale per il cessate il fuoco in Palestina.

«Non l’abbiamo fatto per il primato ma perché eravamo nauseati dai discorsi da bar sull’uso dei termini mentre a Gaza era in corso una strage. Non cambia nulla se lo si chiama genocidio o sterminio ma bisogna alzare la testa: in 5 mesi ci sono state 32mila vittime non solo per i bombardamenti, anche per fame e mancanza di cure. Prendere una posizione è urgente. Ben venga la manifestazione del 25 aprile a Milano per rilanciare un progetto pacifista».

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Si potrebbe tornare a Milano il 25 aprile

Il mese scorso avete organizzato la missione di alcuni parlamentari al valico di Rafah, testimoniando quel che sta succedendo ai gazawi

Mentre noi giravamo fra hangar pieni di cibo mandato a marcire da Israele, ci hanno comunicato che erano morti 10 bambini per denutrizione. Fa venire una grande rabbia pensare al dolore che stiamo provocando a quella popolazione nell’indifferenza. Si viene sopraffatti da una sensazione di degrado umano, qui si tratta di vero sadismo.

Walter Massa
Walter Massa

La guerra è anche nel cuore dell’Europa.

Ci indigna che, a due anni dall’inizio del conflitto sul terreno ucraino causato dall’occupazione russa, nessuno dica ancora quanti siano i morti mentre i giornali sono pieni di gossip militare. In Ucraina, come in Palestina e nel Sud Sudan sono in corso tragedie umanitarie causate anche dalle politiche europee.

Dobbiamo denunciare con forza che questi conflitti non arrivano per caso: l’Ue deve smetterla di esternalizzare le frontiere e di far fare si dittatori cose che noi europei non possiamo ammettere di fare. E con altrettanta forza dobbiamo dire che il nostro continente ormai galleggia in un cimitero a cielo aperto, il Mediterraneo.

Il voto di giugno potrebbe portare a un’ulteriore avanzata delle destre negli organismi europei.

Bisogna trovare un’alternativa a un’Unione Europea che vuole l’economia di guerra e che per la prima volta sospende l’austerity ma solo per produrre armi. I rigurgiti fascisti in Germania, come in altri paesi, sono inquietanti. La proposta del manifesto raccoglie un bisogno anche su questo argomento.

Walter Massa

Ci troviamo all’opposizione del peggior governo della storia della Repubblica e non per caso: la sinistra ha sbagliato

Oltre alla questione internazionali ci sono anche valide motivazioni interne per manifestare.

Facevo parte dell’organizzazione del Genova Social Forum a luglio del 2001. Tutta quella violenza istituzionale è stata autorizzata e coperta dall’alto. Non ho fatto fatica a ricordare questo avvenimento quando ho visto le immagini degli studenti manganellati a Pisa.

Questo governo non è nato dalle tv Fininvest, ha una storia centenaria alle spalle avvezza a costruire la sua narrazione attorno al capo che parla direttamente al popolo e chi dissente è un nemico. Siamo in presenza di un fenomeno di involuzione culturale fondato sulla paura, sulla repressione e sull’odio verso i giovani.

Un paese come un passato come il nostro deve stare attento. La società civile democratica scenda in piazza massicciamente e unitariamente il 25 aprile per dimostrare che non ha paura.

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Il sindaco Sala: apprezzo l’appello del manifesto, la città risponderà

Ha usato un avverbio particolare: «Unitariamente».

La Liberazione è la festa di chi ha contribuito storicamente a liberare l’Italia dal nazifascismo e a scrivere la Costituzione ed è la festa di tutti coloro che si riconoscono nei principi della Carta e si impegnano ad attuarli.

Questa è l’unica discriminante. Chi intende fare distinguo deve ricordare che ci troviamo all’opposizione del peggior governo della storia della Repubblica e non per caso ma perché a sinistra qualcosa non abbiamo capito, qualcosa l’abbiamo sbagliata.

Non è un vezzo retorico ammetterlo, dobbiamo imparare dagli errori e trovare punti in comune per costruire un’alternativa al sistema economico e sociale attuale. L’appello del manifesto è straordinario perché non guarda indietro ma avanti: ai diritti, alla pace, al lavoro ed è necessario che tutte le forze democratiche diano un contributo, senza divisioni di bottega.

E il giorno dopo, il 26 aprile che succederà?

La manifestazione deve mettere in piedi un progetto alternativo di società e il manifesto ci sta dando una grande opportunità per costruire un percorso di alternativa al neoliberismo degli ultimi 30 anni che non dobbiamo sprecare

 

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Sono un cittadino italo palestinese, da 40 anni in questo bel paese. In questi lunghi anni, oltre gli studi universitari, ho svolto varie funzioni lavorative, a livello sindacale e nel volontariato. Posso dire di avere due culture di riferimento e ne sono orgoglioso: sono d’origine contadina e, prima di venire in Italia, ho lavorato la terra e fatto pascolare gli animali. Ho anche lavorato con l’Unrwa, l’agenzia Onu che assiste i nostri profughi in Palestina e nella diaspora.

Abitavo nella casa di famiglia in un villaggio vicino a Ramallah, eravamo tutti contadini e il lavoro della terra era l’unica fonte di reddito per tante famiglie. Per questo il legame con la terra è molto significativo per tutti noi palestinesi, contadini e non.

Nel vedere le terribili immagini in tv di bambini palestinesi a Gaza che piangono e chiedono al mondo (civile) un pezzo di pane, di genitori che gridano nel deserto di Gaza chiedendo solo di potere dare il pane ai loro figli, provo dolore, rabbia e disperazione. Queste urla rappresentano un pugno in faccia all’umanità, o meglio alla poca umanità rimasta. Tutto questo, come genitore, cittadino, palestinese, uomo libero, mi fa piangere il cuore e non mi fa dormire la notte.

In casa mia in Palestina, come in tutte le case dei nostri contadini, dominavano certi costumi, tradizioni e usanze che non hanno a che fare con la religione. I miei genitori in ogni stagione di raccolta (olive, cereali, ecc..) prima di portare il prodotto a casa, ne portavano un po’ alle famiglie meno fortunate, di solito profughi rifugiati nel paese dopo la Nakba.

Quando ci mettevamo a tavola, era obbligatorio riservare un posto vuoto, ma apparecchiato per l’ospite, il viandante, chi può passare e avere fame. Casa mia si trova fuori dal centro, nella prima periferia del paese, quindi tutti i concittadini che andavano in campagna ci passavano davanti. È un paese vicino al deserto: da aprile a ottobre non si vede una goccia di pioggia e l’acqua rappresenta una fonte di vita. Così i miei hanno piantato nella terra una giara di ceramica, coprendo l’imboccatura con un piatto di alluminio e mettendo una tazza. La giara veniva sempre riempita così chi passava aveva l’acqua da bere: nella nostra cultura non si nega l’acqua a nessuno, nemmeno al peggior nemico. A quell’epoca non avevamo l’acqua in casa: mia mamma faceva quasi 5 chilometri a piedi per recarsi al pozzo.

La strage della farina del 28 febbraio scorso, quando l’esercito israeliano ha ucciso non meno di 115 palestinesi, ha aperto un po’ gli occhi del mondo sul dramma che stanno vivendo due milioni e mezzo di palestinesi a Gaza.

Non ho mai creduto che la guerra risolva i conflitti e non avrei mai pensato che, nel 2024, venissero usate la fame e la sete per costringere un popolo ad arrendersi. Già a fine novembre, un’amica di Gaza mi diceva: “Qui non si muore solo di bombe, i bambini iniziano a morire di fame”. Fonti ufficiali dicono che il ritardo già cumulato per gli aiuti umanitari potrebbe portare a circa 85mila persone morte per fame e sete. La gente ha già iniziato a mangiare il cibo degli animali, compresi i mangimi, quando si trova. Non si vedono animali domestici, molti uccisi dall’esercito, ma tanti altri potrebbero essere stati usati per sopravvivere. La stragrande maggioranza della popolazione di Gaza è di fede islamica e certi alimenti sono vietati, ma di fronte alla morte o alla vita dei figli tutto diventa lecito.

Un cittadino racconta il testamento di un padre di quattro bambine che ha perso la vita nella strage della farina. Abbracciava il sacco di farina e stava sanguinando, chiedeva al suo amico di portare il sacco alle sue figlie perché hanno molta fame e lo stavano aspettando: un testamento estremo, che rappresenta la fine dell’umanità: chi di noi non rischia la vita per garantire la sopravvivenza dei propri figli e figlie?

Tutto il mondo governativo e non, le società civili, le organizzazioni internazionali, a partire dall’Onu e tutte le organizzazioni ad essa affiliate, come Oms e Unicef, stanno denunciando questo tipo di genocidio. Bisogna smetterla con l’ipocrisia: da un lato si forniscono ad Israele armi sofisticate per uccidere i nostri bambini, e dall’altro si lanciano aiuti umanitari dal cielo per tranquillizzare le proprie coscienze.

I politici europei devono liberarsi dalla paura di essere etichettati di antisemitismo e assumere una posizione netta di fronte al genocidio in atto. Il silenzio è complicità. Credo che debbano anche liberarsi dalla paura dell’Islam, dall’islamofobia. Senza l’Islam, che ha illuminato il mondo in diversi campi scientifici e culturali, l’Occidente non sarebbe quello che conosciamo oggi.

Tutti, Ue compresa, hanno scommesso che gli “Accordi di Abramo” avrebbero liquidato una volta per sempre la causa palestinese. Ma il popolo palestinese crede nel diritto e nella giustizia, crede profondamente che la forza della ragione sia più forte della ragione della forza. Tutti noi palestinesi non chiediamo nulla di più che i nostri diritti inalienabili sanciti dal diritto internazionale

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I malati e i feriti di Gaza accolti negli ospedali italiani sono finiti in un limbo. Affidati alle associazioni o ai centri per migranti, senza finanziamenti né protezione speciale. Così l’operazione di soccorso del governo italiano è uno spot, mentre Roma taglia i fondi all’Unrwa e alle ong in Palestina

ACCOGLIENZA A METÀ. La vicenda dei bambini gazawi curati e "abbandonati" da noi e la tragedia di quelli che restano senza cure nella Striscia

Italia-Gaza, com’è umanitaria lei Gaza City, 24 novembre 2023, corsa disperata verso l'ospedale al-Shifa - Ap

Sedotti e abbandonati. Prima trasferiti in Italia per essere curati, poi relegati in una zona grigia umiliante che con la protezione internazionale ha poco a che fare. Scaricati come pacchi ingombranti a quello stesso terzo settore che sul terreno, nei teatri di crisi dove è spesso l’ultimo baluardo di umanità, viene scientemente esautorato, screditato, de-finanziato. Sulla falsariga di quanto successo sempre in tema di Palestina con l’Unrwa.

Sono i bambini gazawi feriti o malati giunti in Italia con le loro famiglie per ricevere cure adeguate. Gli ultimi palestinesi costretti ad andarsene, in fondo. Come ai primi, non sembra essergli concessa la prospettiva di un ritorno, né quella di una permanenza serena. Visti sbagliati, fondi non previsti e e altri piccoli dettagli non compresi nel pacchetto di accoglienza.

La vicenda esemplifica il modo in cui il governo di Giorgia Meloni intende l’azione umanitaria. Uno spot come un altro, stile Piano Mattei, il beau geste a favore di telecamera e poi il contrario di quanto quell’immagine, il sorriso della premier nella foto di rito, per quanto tirato, vorrebbe annunciare. Tuttalpiù è un “30” che non diventa mai “31” perché qui l’azione, il blitz della Difesa c’è stato ed è stato sì, vivaddio, umanitario. Non è stato neanche semplice, dovendo negoziare con gli israeliani, ma alla fine ci si è riusciti. Strano che non si riesca a chiedere con altrettanta convinzione, da alleati di Israele, non dico di fermarsi, ma che almeno gli aiuti accatastati alle porte di Rafah imbocchino la strada inversa seguita da quei bambini, per salvare altre migliaia di persone ridotte alla fame.

Ovviamente ogni ferito o malato che si riesca a tirare fuori da Gaza in questo momento di cieca violenza è oro colato. Ma non cura l’ipocrisia di fondo, la scarsa volontà di esercitare tutte le pressioni possibili nelle sedi più opportune perché questo diritto di protezione – tralasciando per un momento quello fondamentale di vivere in pace nella propria terra – si estenda subito a ogni minore, ogni donna, ogni innocente che stia soffrendo le pene, dirette o indirette, della guerra scatenata contro la Striscia

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L'ATTENTATO A MOSCA. Il terrorismo fabbrica attentati ed eventi che si muovono al confine tra la realtà più sanguinosa e la manipolazione più destabilizzante. Per questo non è decifrabile come un conflitto aperto: […]

Un militare russo protegge un'area mentre un enorme incendio divampa al Crocus City Hall, a Mosca, a seguito di un attacco armato foto Ap

Il terrorismo fabbrica attentati ed eventi che si muovono al confine tra la realtà più sanguinosa e la manipolazione più destabilizzante. Per questo non è decifrabile come un conflitto aperto: il messaggio può apparire chiaro, gli autori noti, le motivazioni apparenti pure, ma le conseguenze e le vere ragioni si valutano con il tempo.

Chi poteva immaginare che dopo l’invasione sovietica dell’Afghanistan nel 1979 gli Stati uniti e i loro alleati avrebbero utilizzato i jihadisti contro Mosca? Questi erano degli islamisti radicali, nemici della cultura occidentale. Eppure Osama bin Laden con Al Qaeda per anni è stato un alleato degli Usa, del Pakistan e dell’Arabia saudita prima diventare l’ispiratore dell’11 settembre, epoca in cui – con una giravolta della storia – gli interessi americani e quelli russi si erano saldati di fronte al comune nemico rappresentato dai jihadisti.

Le ambiguità nelle vicende terroristiche sono molteplici. Il fondatore dell’Isis Al Baghdadi è stato nelle carceri americane in Iraq da dove venne liberato dalle stesse autorità Usa passando dalla porta principale. Lo stesso Califfato, che poi colpì anche in Turchia, è stato un interlocutore dei servizi segreti di Ankara per contrastare i curdi siriani – nostri alleati contro il Califfato – ed Erdogan l’unico leader della Nato a trattare direttamente con i jihadisti. Forse ce lo siamo dimenticati.

Il terrorismo deve sorprendere, anche quando lascia spazio agli apprendisti stregoni che pensano di usarlo. L’allora generale Lloyd Austin, oggi capo del Pentagono, nel settembre 2015 ci informò del fallimento Usa nel reclutare in Siria e Giordania con 500 milioni di dollari dei «combattenti» arabi e di altre nazionalità da usare contro l’Isis anche contro l’autocrate Assad: di 5mila ne rimasero soltanto 5, gli altri erano scappati vendendo le armi a chissà chi. Di queste contraddizioni la guerra in Ucraina ne è già stata un esempio con l’attentato al ponte di Kersch e ancora di più con quello al gasdotto offshore North Stream: prima che le inchieste giornalistiche americane ci rivelassero come probabile autori del gesto la pista ucraina e occidentale, si sosteneva che a farlo erano stati i russi stessi.

Oggi la scena internazionale è ancora più complicata di prima perché il terrorismo – se questo è uno dei suoi obiettivi – si vuole inserire come un attore tra i conflitti locali e il più ampio e pericoloso scontro di potenze scatenato dall’invasione russa dell’Ucraina. Come ha dimostrato l’invasione sovietica dell’Afghanistan del ’79 si aprono nuovi e imprevedibili scenari.

Anzi con il conflitto ucraino, al quale si è aggiunto quello di Gaza – nel cuore di quel Medio Oriente dove l’Isis è nato – le organizzazioni jihadiste hanno largamente approfittato della situazione per tessere le loro trame dal Sahel all’Afghanistan fino all’Asia, come scriveva l’ultimo numero di Le Monde Diplomatique. Ci possiamo chiedere, soprattutto, quando i jihadisti interverranno in questa guerra di Gaza dove sono già stati uccisi 1200 israeliani e 32mila palestinesi. Quasi ci stupisce che dopo sei mesi non l’abbiano già fatto visto che gli spetterebbe «per competenza.

Eppure anche qui ci hanno in parte sorpresi. Quando si sono fatti vivi in Medio Oriente i terroristi dell’Isis Korassan (Isis-k) hanno colpito in Iran, ovvero uno dei maggiori sponsor proprio di Hamas e dei palestinesi della Striscia. L’Iran tra l’altro è uno dei più importanti alleati anche militari della Russia, oltre che il nemico più temuto da Israele. Il 3 gennaio scorso i terroristi dell’Isis-K hanno rivendicato un attentato con oltre 100 morti a Kerman nel sud-est dell’Iran durante un cerimonia in omaggio del generale Qassem Soleimani, ucciso a Baghdad nel 2020 da un drone americano. Soleimani aveva combattuto a fianco di Assad e delle milizie sciite per fermare l’avanzata dell’Isis in Iraq.

Sui canali Telegram, l’Isis-K aveva specificato che questa azione – la quarta in Iran dal 2017 – era stata portata termine in occasione «di un grande raduno di apostati – gli sciiti – a sostegno dei musulmani, in particolare in Palestina». L’Isis come Al Qaeda ha fatto sempre più vittime tra i musulmani, nel caso gli sciiti, che tra gli occidentali. Che l’Isis-K faccia fuori i seguaci del loro nemico Soleimani è logico, un po’ meno che colpisca l’Iran uno dei maggiori finanziatori di Hamas che loro vorrebbero vendicare dalla furia israeliana. Seguire le logiche del terrorismo come si vede non sempre porta a spiegazioni razionali, se non quella che all’Isis interessa di più colpire i suoi nemici «storici» come l’Iran e la Russia che fare un gesto clamoroso filo-palestinese che forse (speriamo di no) riserveranno all’ Europa o da qualche altra parte.

Ma la memoria è corta e le spiegazioni non sempre convincenti. Può sembrare infatti poco credibile che Putin accusi l’Ucraina per l’attentato al teatro di Mosca. In realtà il Cremlino non ha nessuna intenzione di acuire le tensioni con le popolazioni musulmane della Federazione dopo gli anni della guerra in Cecenia, delle stragi in Tagiskistan e della guerra in Siria. Ha bisogno di reclutare soldati e di un fronte interno compatto mentre l’azione dell’Isis mette fortemente in dubbio che abbia vinto la guerra contro gli islamisti radicali dell’Asia centrale del Caucaso mentre i suoi servizi di intelligence hanno mostrato un crepa clamorosa.

Il terrorismo non contempla, per lungo tempo, sentenze definitive e oggi quella bandiera nera dell’Isis, che ho visto sventolare tante volte tra Siria e Iraq, appare ancora più di prima come un oscuro e tenebroso sipario sul destino dei popoli e delle nazioni

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