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Un edificio danneggiato durante gli attacchi missilistici vicino a Tel Aviv Un edificio danneggiato durante gli attacchi missilistici vicino a Tel Aviv – Ansa

Dei riflessi nella regione mediorientale della guerra scatenata da Benyamin Netanyahu contro l’Iran e dei possibili sviluppi futuri nel mondo arabo abbiamo parlato con Yusef Mansour, analista, docente di economia ed ex ministro del governo giordano. Ci ha ricevuto ieri nel suo ufficio ad Amman.

Come descrive il quadro regionale a dieci giorni dall’attacco lanciato da Israele?

In questi casi si usano spesso espressioni o parole come destabilizzante, insidioso o pericoloso. Io dico che siamo di fronte a qualcosa di epocale, devastante per il Medio Oriente e il mondo intero. Israele ha messo in atto un’aggressione militare di cui abbiamo visto solo i primi passi. Dubito che vedremo una guerra di logoramento nel prossimo periodo. Sarà una guerra sempre più distruttiva. Considerando anche il possibile ruolo degli attori esterni, in particolare degli Stati Uniti che, peraltro, sono a dir poco instabili quando si tratta di definire la loro politica estera. La leggiamo su Twitter, quando Trump dice una cosa e poi cambia subito idea. L’ingresso in campo degli Stati Uniti avrebbe effetti catastrofici per il Medio Oriente.

Israele sostiene di aver attaccato per eliminare la minaccia rappresentata dal programma nucleare iraniano. Da più parti si sottolinea che ci sono motivazioni ben diverse dietro la guerra.

Penso che abbiano giocato un ruolo anche l’economia e gli interessi di alcuni alleati di Israele. L’Iran è uno dei principali fornitori di petrolio a basso costo per la Cina e contenere l’espansione economica di Pechino è un interesse ben noto dei paesi occidentali. In questi giorni Israele ha concentrato parte dei suoi attacchi sulle infrastrutture economiche di Teheran per metterla in ginocchio. Ciò potrebbe spingere altri paesi a intervenire in qualche modo nel conflitto. La Cina sta già sostenendo l’Iran e anche il Pakistan è dalla parte di Teheran. La Russia in apparenza è più neutrale, ma in realtà ha bisogno dell’alleanza con l’Iran.

Israele punta al cosiddetto cambio di regime a Teheran. Ci riuscirà?

L’Iran è un paese grande e ricco di risorse, un paese con una lunga storia e una tradizione di cui va molto fiero. Perfino l’opposizione, o almeno una parte di essa, si è unita al governo nella difesa del paese dall’attacco esterno. Dire che si realizzerà un cambio di regime è una stupidaggine. L’Iran non è l’Iraq del 2003, gode di sostegni esterni dettati da interessi economici e geopolitici di eccezionale importanza che Baghdad invece non aveva. Il potere, malgrado le affermazioni israeliane, è stabile.

Dalle capitali arabe intanto giunge solo silenzio.

Questo descrive bene l’atteggiamento dei leader arabi. Esiste da sempre una distanza enorme tra le loro affermazioni pubbliche e le azioni che compiono dietro le quinte. Certi paesi arabi non hanno mai smesso di considerare l’Iran come un nemico strategico. Eppure, Teheran non ha mai aggredito per primo gli Stati arabi da quando è avvenuta la rivoluzione khomeinista. La guerra tra Iraq e Iran fu avviata dal presidente iracheno Saddam Hussein. Convinto che l’Iran fosse indebolito dalla rivoluzione islamica, Saddam Hussein sottovalutò la capacità di resistenza iraniana, dando il via a un conflitto che avrebbe segnato l’intera regione. Dietro le dichiarazioni di facciata, le monarchie del Golfo continuano a giocare la carta dell’Iran come nemico numero uno. Se però ci si allontana dalle stanze del potere e si ascoltano le voci della gente comune, emerge una verità ben diversa. Qualunque arabo, direi il 90%, se non di più, ti dirà che il vero nemico non è l’Iran, ma Israele. I regimi arabi vedono al contrario in Israele un prezioso lasciapassare per ottenere il sostegno degli Stati Uniti. Appoggiare Israele per loro vuol dire avere una legittimazione internazionale.

Gli Accordi di Abramo per la normalizzazione dei rapporti tra leader arabi e israeliani saranno il percorso futuro più ovvio nonostante la distruzione di Gaza e gli attacchi al Libano e all’Iran?

Hanno già accettato quegli accordi. Se guardi all’Arabia Saudita, l’infiltrazione, la presenza e l’influenza degli israeliani è già enorme. E lo stesso vale per altri paesi.
Quanto è stata fondamentale la caduta di Bashar Assad per la realizzazione del piano di attacco israeliano all’Iran?
Sotto tanti aspetti. Tra questi anche la possibilità per gli aerei israeliani di poter sorvolare la Siria senza pericoli prima di attaccare l’Iran. (Il presidente autoproclamato siriano) Ahmad Sharaa resta in silenzio. Afferma che il suo intento al momento è stabilizzare e unificare la Siria, ma di fatto sta sostenendo Israele con cui ha anche avviato un negoziato.

Le monarchie del Golfo, a parte le condanne ufficiali, non respingono il dominio di Israele

E la Giordania? Amman ufficialmente sostiene i diritti dei palestinesi, condanna con forza la distruzione di Gaza, ma le sue forze aiutano Israele ad abbattere droni e missili iraniani. Di recente ha usato il pugno di ferro contro chi manifesta in strada per i palestinesi.

Non è affatto strano. La leadership giordana usa la protesta popolare a seconda delle situazioni, che sia Gaza o l’Iran, non fa differenza. Nel caso dell’abbattimento dei missili iraniani da parte dell’esercito giordano o dei militari americani presenti in Giordania, la posizione ufficiale è che “nessuno userà il nostro spazio aereo”. Di fatto è un appoggio indiretto a Israele. Questo è contro i sentimenti del popolo giordano. Israele è ancora uno Stato nemico dei giordani. È vero, il governo ha firmato la pace, ma per la gente comune quella pace non esiste. L’abbattimento di quei missili genera malcontento e frustrazione.

 

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Giallorossi Proposta unitaria per chiedere al governo lo stop al memorandum militare con Israele: «Il massacro di Gaza non continuerà in nostro nome». La benedizione del cardinale Parolin alla manifestazione "no riarmo" fa risaltare l'ingiustificata assenza dei dem (per paura delle frange pro pal più radicali). Che domani alla Camera diranno no al 5% del pil in spese militari voluto dalla Nato

Uniti sulla mozione contro Netanyahu, divisi in corteo Schlein con l'ex commissario Ue Frans Timmermans e l'ex premier neozelandese Jacinda Ardern – da Instagram

Una mozione provvidenziale e unitaria, per chiedere al governo di stracciare il memorandum con Israele. Pd, M5S e Avs riappaiono insieme contro Netanyahu nel giorno in cui sono divisi nella piazza sul riarmo. Conte, Fratoianni e Bonelli a Roma, Schlein in Olanda.

La leader Pd era ospite di Frans Timmermans al congresso dei rossoverdi, solo quattro sparuti parlamentari si sono uniti al corteo «no riarmo», partito senza una delegazione ufficiale dem. L’annuncio della mozione arriva a mezzogiorno, due ore prima dell’inizio della manifestazione. Chiede al governo di revocare il memorandum di cooperazione militare con Israele, che è in vigore dal 2005 (relatore della legge fu l’allora deputato Sergio Mattarella), e di sospendere tutti gli accordi attuativi del medesimo e qualsiasi altra forma di cooperazione militare.

L’avviso di revoca deve partire sei mesi prima della scadenza e del tacito rinnovo, che scatterà ad aprile 2026, e dunque i tempi ci sono se il governo (ma non è così) volesse procedere a stracciare l’accordo. Netti i toni del documento: «Non lasceremo che l’Italia venga macchiata dalla pavidità di Meloni, questo massacro non continuerà in nostro nome».

I tempi in questa vicenda contano. L’annuncio di una mozione parlamentare di sabato mattina è inusuale, ed è un segnale politico che venga fatto (con l’intesa dei tre partiti) due ore prima di una manifestazione che li vede divisi. Serve a coprire l’assenza dei dem e a confermare che l’asse giallorosso in politica estera è ancora vivo. Non a caso Conte non affonda il colpo sull’assenza Pd: «Non entro nel campo altrui, sottolineo anche i passi congiunti e positivamente compiuti insieme».

Dietro le quinte si apprende che, con questa mossa, Conte e Fratoianni hanno risposto alla cortesia di Schlein che il 7 giugno disse no alle richieste di Calenda e Renzi di annacquare la piattaforma della piazza per Gaza. Un no che spinse i due centristi a farsi una manifestazione da soli in un teatro di Milano.

Per Schlein è un bel favore, quello di ieri, anche se dal M5S spiegano che la tempistica dell’annuncio è casuale: la mozione è stata chiusa dagli sherpa venerdì sera. Le consente di mostrare un profilo di radicalità contro Netanyahu nel giorno in cui il Pd ha disertato la piazza che diceva no ai piani di riarmo, della Nato e dell’Ue, e allargava la piattaforma del 7 giugno: non solo per Gaza ma contro la logica della guerra che permea l’Occidente, tout court.

La benedizione alla piazza arrivata nel pomeriggio dal segretario di Stato Vaticano Pietro Parolin («È bene che ci sia una mobilitazione per evitare la corsa al riarmo») suona come una beffa per i dem, anche quelli, come Schlein, che non erano in disaccordo con le parole d’ordine ma temevano che alcune frange pro pal più radicali potessero portare la piazza troppo lontano dal loro sentire, magari bruciando bandiere di Israele.

Forse confondendo le due manifestazioni di ieri, quella di Potere al popolo e giovani palestinesi (più radicale) a Piazza Vittorio e quella indetta da 400 associazioni, tra cui le Acli e altre sigle del pacifismo cattolico. Timori infondati, quelli del Pd, ma ancora più stonate, dopo le frasi di Parolin, appaiono le frasi liquidatorie degli esponenti della destra dem (molti sono cattolici) che avevano definito il corteo di ieri «sbagliato, strumentale e mistificatorio (Filippo Sensi) o sospettabile di «minare la nostra credibilità» (Pina Picierno).

Ancora una volta tocca alla Chiesa dire qualcosa più di sinistra del Pd, dalla guerra alla povertà, ormai non è più una notizia. Ma tant’è. E del resto, oltre alle presenze delle frange pro pal più radicali, a preoccupare Schlein c’era e c’è anche il rapporto con l’Ue e con la Nato, due partner inevitabili per chi si sta preparando ad andare a palazzo Chigi. Nel Pd pensano che il piano di riarmo targato von der Leyen sia ormai carta straccia: nessuno dei paesi principali, tranne la Germania, ha deciso di fare debito per nuove armi e dunque degli 800 miliardi previsti sulla carta resta ben poco.

C’è poi il delicato capitolo del 5% di pil da destinare alle spese militari che sarà deciso la prossima settimana a L’Aia nel vertice Nato. Una previsione di spesa definita «impensabile» anche dal ministro della Difesa Crosetto. Il Pd, che finora, è stato prudente, ha deciso di dire no, sulle orme del premier spagnolo Pedro Sanchez. «È diritto legittimo di ogni governo decidere se è disposto o meno a fare questi sacrifici, noi abbiamo scelto di non farlo», ha scritto Sanchez al segretario generale della Nato Rutte.

Il Pd inserirà un paragrafo su questo punto nella risoluzione che presenterà in Parlamento domani, in occasione delle comunicazioni di Meloni in vista del Consiglio Ue del 27 giugno. Un’altra mossa che la sinistra del partito giudica fondamentale, come il no al memorandum Italia-Israele. «Un passo alla volta stiamo postando la linea del Pd», spiegano. Ma sul no al riarmo, prima o poi, Schlein dovrà dire parole ed esprimere voti chiari, non potrà più limitarsi alle astensioni e alle frasi di circostanza. Anche a costo di perdere pezzi della destra Pd.

 

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Piazze Pensavate che la stretta riguardasse solo giovani infervorati, attivisti appassionati e militanti accaniti? Invece i primi a farne le spese sono gli operai, già denunciati dalla polizia

Quel filo rosso tra pacifismo e dissenso

 

Non avendo ancora imparato a volare, i metalmeccanici che nel giorno dello sciopero per il contratto manifestavano a Bologna, fatalmente hanno ostruito «con il proprio corpo» (altri non ne avevano) la «libera circolazione su strade ordinarie». Succede da diversi secoli, a questo in fondo servono i cortei di protesta; succede da prima che in Italia fosse reato il blocco stradale e ferroviario e cioè dal 1948. Punito allora in maniera più mite da come lo è oggi dal governo Meloni e dalla creatura che meglio lo rappresenta, il decreto «sicurezza». Prima si rischiava un multa (male anche quello) adesso due anni di carcere. Pensavate che la stretta riguardasse solo giovani infervorati, attivisti appassionati e militanti accaniti? Invece i primi a farne le spese sono gli operai, già denunciati dalla polizia.

Così tra chi vorrebbe lavorare con un contratto aggiornato e chi preferisce continuare a pagare gli stipendi di quattro anni fa, i fuorilegge sono i primi. E la destra naturalmente schiera se stessa e i tutori dell’ordine a difesa degli interessi padronali, anche qui siamo sul classico. Ma tanto basta per comprendere quanto alta sia diventata la posta in gioco di ogni manifestazione di dissenso, al tempo dell’autoritarismo. Non si tratta solo delle ragioni, pur così evidenti, dei lavoratori, si tratta ormai dei diritti di tutti.

Qualche ostacolo alla «libera circolazione» e qualche resistenza passiva è prevedibile anche oggi, che finalmente è il giorno della manifestazione nazionale contro il riarmo e per Gaza. C’è un filo nero molto spesso ed evidente che unisce la copertura che viene offerta a Israele nella sua quotidiana carneficina a Gaza e più recente aggressione all’Iran, la riduzione in brandelli del diritto internazionale, la strada senza uscita del riarmo imboccata con decisione e l’esigenza di reprimere il dissenso interno. C’è anche una conseguenza molto prevedibile dei tagli allo stato sociale per le enormi spese di riarmo, in Italia come in altri paesi europei.

Ed è un’ulteriore impoverimento, una spinta verso la marginalità di strati più larghi delle popolazioni. Destre sempre più estreme, razziste e guerrafondaie si preparano a incassarne i dividendi di consenso elettorale. Il precipizio è davanti ai nostri occhi.

L’ex presidente degli Stati uniti George W. Bush disse una volta che non sarebbero stati i pacifisti a fermare la guerra. Lo disse al tempo in cui il movimento per la pace era enormemente più forte di oggi, per il New York Times addirittura una «superpotenza». Le guerre in effetti continuarono. Per arrivare però dove quei pacifisti prevedevano, cioè a nient’altro che ad altre dittature, fame, fanatismo, migrazioni forzate, oppressioni. Il tutto al prezzo di devastazioni e centinaia di migliaia di morti.

Vent’anni e più dopo l’Afghanistan e l’Iraq, la vecchia idea di esportare con le armi la democrazia è tornata di moda. In Iran con lo schema già visto delle armi di distruzione di massa da disinnescare e di un regime da cambiare. Nel frattempo però la democrazia è diventata merce assai più scarsa proprio nel nostro Occidente che dovrebbe esportarla. L’Europa in armi si fa caserma e il nostro paese è tra le baracche più rigide e «sicure». Rimettere insieme i pezzi del pacifismo e del dissenso è tanto più urgente.

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Riarmo Intervista a Emiliano Manfredonia, presidente delle Acli

Emiliano Manfredonia Emiliano Manfredonia, presidente delle Acli

«Pensare che l’Europa debba misurarsi in base alle armi che ha e che riesce a produrre è un passo indietro nella storia». Emiliano Manfredonia, presidente delle Acli, è convinto che la febbre del riarmo rischi di portare il vecchio continente a un punto di non ritorno.

Avete parlato della necessità di una politica estera comune e di difesa comune, e che la sicurezza si fonda su welfare e lotta alle diseguaglianze. Welfare e riarmo sono alternativi?

Il riarmo peggiora totalmente la vita delle persone: il contrario di guerra non è solo pace, ma welfare, giustizia sociale, costruzione della democrazia, partecipazione. Non ci può essere pace senza giustizia: non è la guerra che deve essere preventiva, è la giustizia a essere preventiva. L’idea dell’Europa di riarmarsi è contro la sua storia, fatta di memoria, incontro, dialogo, riconciliazione tra Paesi che litigavano per le risorse della terra. La condivisione ha fatto sì che l’Europa diventasse quello che è oggi, l’affermazione dello stato sociale.

Anche le Acli saranno in piazza sabato contro il riarmo: hanno aderito 440 sigle. Sulla pace è diventata urgente una convergenza trasversale?

La pace spero che sia un’urgenza, tutti quelli che hanno a cuore l’umanità sanno che la pace è la prima cosa da mettere al centro. Ci si sta avvitando sempre di più in questo mondo che è dentro la terza guerra, è inutile nasconderselo. È necessaria la convergenza di tutte le persone di buona volontà: la prima enciclica scritta non solo per chi credeva ma per tutti è la Pacem in terris di Giovanni XXIII. Dobbiamo tornare alla pace delle parole di papa Leone XIV: «Disarmata, disarmante, umile e perseverante». Noi saremo perseveranti e staremo sempre sul fronte della pace.

Nell’ultima legge di bilancio le spese militari hanno toccato la quota record di 32 miliardi, poche settimane fa è arrivata la stretta autoritaria del dl sicurezza: il riarmo è già qui?

Il riarmo è già nella società: bisogna promuovere percorsi di educazione alla nonviolenza, iniziative di mediazione, progetti di accoglienza, trasformare la paura verso l’altro nell’opportunità di starsi vicino, di incontrarsi. È nelle comunità che bisogna cercare la pace, combattere il disimpegno morale delle persone, che vedono la guerra lontana e considerano i morti palestinesi diversi dagli altri morti. Ci si autogiustifica e invece bisogna continuare a indignarsi. Bisogna fare qualcosa: ognuno di noi può essere il colibrì che porta una goccia d’acqua sulla foresta in fiamme. Siamo allibiti dalla mancata presa di posizione del governo nei confronti di Netanyahu, e siamo allibiti anche di come ci si sta scordando di quello che fa la Russia con l’Ucraina. In un mondo così la diplomazia italiana, che è sempre stata al centro con la sua capacità di dialogo, ora è rimasta al palo. Armi e decreto sicurezza non possono essere la risposta, così come non può essere una risposta andare in giro portandosi dietro le grandi aziende belliche come Leonardo.

In favore del riarmo viene portato l’argomento della ripresa industriale: i lavoratori hanno veramente da guadagnare dalla riconversione bellica?

Abbiamo tutto da perdere: i soldi vengono distratti da altre spese più produttive, non c’è cosa più inutile delle armi. Serve spendere su sanità e istruzione e continuare a investire sulla transizione ecologica, lì c’è una traccia di futuro. Bisogna fare a attenzione a parlare di riconversione industriale perché poi tornare indietro è difficile.

Dal palco del 7 giugno ha criticato l’uso bellico delle religioni: c’è bisogno oggi di disarmare le coscienze?

Abbiamo bisogno di smettere di usare le religioni come luogo di differenze, perché sono quelle che uniscono, che tirano fuori l’umanità più profonda, la spiritualità di ognuno di noi. Non siamo al tempo delle crociate. Inviterei a leggere il messaggio alla fratellanza umana di papa Francesco sulla scritto ad Abu Dabi. Quando siamo scesi in piazza il 5 novembre 2022 ci davano dei putiniani, non si capiva l’urgenza dello scenario della terza guerra mondiale a pezzi di papa Francesco. Stiamo scegliendo la guerra al posto della diplomazia, stiamo distruggendo le istituzioni multilaterali, stiamo distruggendo la convivenza civile nel pianeta.

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Stati Uniti Mentre nella Situation Room decideva il sostegno a Israele, altri 2mila soldati della Guardia nazionale venivano inviati a Los Angeles per la sua guerra ai lavoratori migranti

Donald Trump nella nella Situation Room della Casa Bianca a Washington - The White House via AP Donald Trump nella nella Situation Room della Casa Bianca a Washington – The White House via AP

Donald Trump nel gorgo di una guerra, a neppure cinque mesi dal suo insediamento come 47mo presidente degli Usa. Uno scenario impensabile, riavvolgendo il nastro della sequenza delle sue dichiarazioni.

Fin dall’esordio in politica, contro ogni forma di impegno militare di rilievo in aree di crisi, tanto meno con l’intento di affermare i “valori democratici” occidentali, calpestati peraltro negli stessi Stati uniti. Se c’è una linea di coerenza nella sgangherata condotta di Trump è proprio sul terreno dell’impiego delle forze armate, che ha sempre considerato più utili all’interno dell’America e lungo i suoi confini che fuori confine. Il disegno più di un dittatore che di un gendarme globale.

Mentre era nella Situation Room con i massimi responsabili della National Security, decidendo il da farsi a sostegno d’Israele, altri duemila soldati della Guardia nazionale erano inviati e subito dispiegati a Los Angeles nell’escalation della “guerra” contro i lavoratori senza permesso di soggiorno. La guerra a cui veramente tiene.

Trump fa lo spavaldo pur capendo che sta per finire nella trappola di Netanyahu. Dice e non dice quel che ha in mente per le prossime ore: «Nessuno sa quello che farò».

NON È LA STESSA risoluta spavalderia ostentata nel dibattito tra aspiranti repubblicani alla presidenza, nel febbraio 2016, quando mise ko il povero Jeb Bush, colpevole di essere il fratello di George W. e figlio di George H., i responsabili di due disastrose campagne di guerra che hanno reso Medio Oriente e Golfo una regione fuori controllo, devastata e in conflitto permanente, senza dire dell’Afghanistan. Fino ad arrivare alla guerra in corso in Iran. «Non avremmo mai dovuto essere in Iraq», urla l’allora candidato repubblicano rivolto a Jeb. «Mentirono. Dissero che c’erano armi di distruzione di massa. Non ce n’erano e lo sapevano che non c’erano».

Non è lo stesso quadro in cui incorniciare l’offensiva israeliana contro l’Iran?

Da allora la polemica con i neoconservatori bellicisti e interventisti è stata un tratto saliente della retorica di Trump. Qualcuno di loro è arrivato alla sua corte, come John Bolton, per essere scaraventato brutalmente fuori dalla porta. E la sua idiosincrasia per i neocon è arrivata al punto di collocarla nella lista dei nemici più cari, Liz Cheney, in quanto figlia del principe delle tenebre dell’epoca neocon, Dick Cheney.

MA DI QUELLA schiera era ed è parte anche Bibi Netanyahu, il primo capo dell’esecutivo israeliano nato in Israele (1949) dopo la costituzione dello stato ebraico, ma anche il primo premier culturalmente “all American”. Parte rilevante della sua biografia s’intreccia con gli Stati Uniti. Mai un leader israeliano aveva avuto una altrettanto notevole capacità di interagire direttamente e personalmente con gli ambienti politici, culturali ed economici americani. E i suoi interlocutori privilegiati sono e sono stati esponenti della destra, in particolare quella neconservatrice.

Infatti la relazione con Trump non è così amichevole come vorrebbe far credere Bibi. Lesto nel riconoscere la vittoria di Biden nel 2019, fu la prova regina, per Trump, della sua scarsa affidabilità e lealtà. E non è un caso che nella prima importante visita di Trump nella Regione mediorientale non abbia toccato Gerusalemme, ma solo Riyadh e il Golfo.

NETANYAHU, con l’intervento in Iran, ha creato una situazione di fatto, sapendo che non avrebbe avuto altrimenti luce verde da Trump, attento più alla costruzione di una rete d’affari con bin Salman e sceicchi vari che al sostegno d’Israele (Biden andò a Gerusalemme pochi giorni dopo il 7 ottobre).

E adesso che il conflitto è a un punto di svolta, l’intervento americano diventa decisivo. Non solo per colpire al cuore il potenziale atomico iraniano, un’impresa possibile solo con l’aviazione americana, ma anche solo per fornire a Israele i mezzi di difesa aerea che, secondo il Washington Post, sarebbero in via di esaurimento, rendendolo vulnerabile ai missili e ai droni iraniani.

TROVARSI NELLE condizioni di doversi adeguare all’iniziativa di Bibi, in un campo di gioco scelto dal leader israeliano, è qualcosa che prima o poi gliela farà pagare, all’amico israeliano. Ma intanto non può che giocare da gregario. Così, prende tempo, aspetta che la situazione militare sia tale da richiedere solo il colpo finale e renderla plausibile alla platea dei suoi sostenitori evangelizzati con la dottrina dell’isolazionismo America First. Sta pensando come e quando mettersi a capo tavola, e come apparecchiare la tavola, perché si festeggi la vittoria finale sul «cosiddetto leader supremo», come ha definito Khamenei, nel segno delle stelle e strisce.

POSSONO anche esserci, nel calcolo di Trump, le riserve di gas e petrolio? Sono tra le maggiori del mondo e della migliore qualità – non il bitume che producono gli Stati uniti, che ha altissimi costi di estrazione e raffinazione – e diretto soprattutto alla Cina.

Un obiettivo che può apparire remoto ma che potrebbe perfino finire come uno dei punti di trattativa sul tavolo di un negoziato, se fosse riaperto. Al momento appare ipotesi irrealistica ma non da scartare, essendo quello l’obiettivo dichiarato di Trump prima dell’attacco israeliano.

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Intervista L’eurodeputato dem: «Schlein vada avanti, l’Ue è risucchiata dalla logica di guerra». «La segretaria ha una linea chiara, che disturba i fan delle armi, anche dentro il Pd. Se torniamo al governo, l’Italia deve essere capofila del no all’economia di guerra. La nostra credibilità viene minata da quei dirigenti che ci allontanano dal sentire dei nostri elettori»

Marco Tarquinio Marco Tarquinio – LaPresse

Marco Tarquinio, europarlamentare eletto col Pd, ex direttore di Avvenire. Lei è uno dei pochi dem che ha già confermato la partecipazione alla piazza «no riarmo» del 21 a Roma.

Quella è casa mia, ci sono le persone e le associazioni con cui condivido da anni un cammino di pace. A promuoverla è una rete associativa imponente, che fa azioni di pace, non solo parole. Il 21 sarà il culmine di una serie di manifestazioni che hanno consentito a molti di noi di trovarsi spalla a spalla, controcorrente, rendendo visibile il popolo della pace oltre l’ostracismo che domina il circuito mediatico, con poche eccezioni. Dopo il successo della manifestazione per Gaza è ancora più necessario che ci si faccia sentire e vedere. Perché stiamo vivendo un terribile processo di rilegittimazione della guerra come strumento di risoluzione dei conflitti e ridisegno dei confini.

Schlein non ci sarà, ancora non è chiaro chi rappresenterà il partito. Un’adesione molto meno convinta di quella alla piazza per Gaza.

Il 7 giugno i partiti erano i promotori, questa volta sono ospiti. Schlein sarà in Olanda al congresso dei rossoverdi, ma credo che sarebbe stata perfettamente a suo agio in piazza perché le sue parole contro il piano Rearm Eu sono e restano molto chiare. Non la considero un’adesione meno convinta.

Dopo la Palestina ora c’è l’Iran. Una spirale che sembra inarrestabile.

Tutte le guerre in corso sono connesse, è una catena. E Netanyahu sta raggiungendo e superando Putin nell’escalation dell’orrore. Temo che il probabile convolgimento diretto degli Usa alzi ancora di più il livello dello scontro. In questo quadro l’Europa non solo non è in grado di fare da argine, ma è a sua volta sempre più risucchiata in una logica di guerra. Giusto dunque manifestare ancora, e mi fa piacere che in Italia ci sia la punta più avanzata dei movimenti pacifisti: la nostra opinione pubblica resiste meglio di altre al clima da arruolamento. Le piazze devono incalzare le forze progressiste, chiedere uno scatto politico per investire questa deriva.

Tra i progressisti, in Europa, non c’è stato un reale freno al riarmo.

Ci sono divisioni non solo dentro i Socialisti e Democratici, ma anche nei gruppi Left e Verdi. Il Parlamento Ue non è stato un argine alla bellicizzazione della politica, i numeri sono schiaccianti. La situazione italiana è promettente: Pd, M5S e Avs si stanno muovendo finalmente insieme, devono andare avanti. Le politiche di pace saranno uno degli assi portanti dell’alternativa di governo. Bisogna che ci siano alcuni grandi paesi, come l’Italia, che indichino una direzione diversa.

Difficile costruire l’alternativa sul no al riarmo. Il Pd è diviso, e una volta tornato al governo avrebbe pochi margini rispetto alle alleanze internazionali, Nato in primis.

La linea di Schlein è molto chiara: un secco no al piano che prevede di aumentare le spese militari dei singoli stati. E un sì alla difesa comune che serve per razionalizzare, fare economie di scala, al dunque per spendere meno in armi. Il Pd, che non può essere certo accusato di essere anti-occidentale, può svolgere un ruolo importante nel progettare un’Europa come occidente “altro” rispetto all’America di Trump. Quanto alla postura se i dem dovessero tornare al governo, vedo tutte le difficoltà, ma sono convinto che si possa trovare una strada che, pur senza sconvolgere il quadro di alleanze, consenta all’Italia di essere capofila in Europa dei paesi che non vogliono la difesa militare come investimento prioritario che condiziona e penalizza tutto il resto, in una sorta di economia di guerra non dichiarata. Anche Meloni ha parecchie difficoltà nel rispettare gli obiettivi sempre più alti della Nato, e questo deve valere ancora di più per noi: la sicurezza deve essere innanzitutto sociale.

Quando si sono votati a Strasburgo documenti sul piano di riarmo Ue, il Pd si è spinto solo all’astensione sui paragrafi più bellicisti, contestata da mezzo gruppo che ha votato sì. Votando poi tutti a favore del testo finale delle risoluzioni (tranne lei e Cecilia Strada).

C’è un dibattito aperto nel gruppo socialista, non solo nel Pd. Noto che le sensibilità pacifiste stanno crescendo, c’è un lavoro politici che inizia a dare frutti. Io apprezzo le scelte di Schlein, la sua è una linea riconoscibile, e le contestazioni che riceve confermano che queste sue posizioni disturbano i manovratori dei progetti di riarmo, che sono anche nel Pd.

Molti suoi colleghi eurodeputati sono per il riarmo. Pina Picierno sostiene che l’adesione alla piazza del 21 mina la credibilità del Pd e lo isola.

Penso l’esatto contrario. La credibilità del Pd e la sua capacità di rappresentanza sono minate da quella parte del gruppo dirigente che ci vuole allontanare dal sentire del popolo della sinistra democratica, di cui il movimento pacifista è parte fondamentale. Il nostro compito è non rassegnarci all’idea di un’Europa come grande fabbrica di armi. Domani (oggi, ndr) voteremo a Strasburgo una relazione sull’attuazione del Pnrr in cui sono stati infilati dei paragrafi sulla spese militari che collegano al Rearm Eu. È solo una delle tante tappe di uno slittamento dell’Ue a destra e verso la guerra. Io ovviamente voterò contro, il partito di Meloni a favore. Mi auguro che anche gli altri del Pd siano contrari.

 

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