Fratello solo Intervista a monsignor Gian Carlo Perego, presidente della Fondazione Migrantes: «I governi non l’hanno mai ascoltato, e a volte lo hanno criticato apertamente»
La visita nel 2013 di Papa Francesco a Lampedusa foto Alessandra Tarantino – Ap
Monsignor Gian Carlo Perego, arcivescovo di Ferrara e presidente della Fondazione Migrantes della Cei. Dal primo viaggio a Lampedusa fino agli ultimi giorni di Pontificato. Quanto ha pesato nel magistero di Papa Francesco il tema dei migranti?
È stato uno dei temi che ha costituito una sorta di leit motiv che ha attraversato tutto il pontificato, fino all’ultimo messaggio urbi et orbi del giorno di Pasqua. Contro una cultura politica che esaltava i muri, i respingimenti, in forme che disprezzano anche la dignità umana, Francesco nell’esortazione apostolica Evangelii Gaudium del 2013, quasi un programma che ha consegnato alla Chiesa italiana nel Convegno ecclesiale di Firenze del 2015, ha ricordato che «Ogni straniero che bussa alla nostra porta è un’occasione per un incontro con Gesù Cristo» e nell’enciclica Fratelli tutti del 2020 ha parlato dei migranti come una «benedizione». Ha avuto anche il coraggio nel suo discorso al Parlamento europeo nel 2014 di affermare che «non si può tollerare che il Mediterraneo diventi un grande cimitero», come purtroppo è stato in questi dieci anni con oltre 20.000 morti che interpellano la coscienza di tutti.
Qual è l’eredità su questo tema da cui la Chiesa non potrà più prescindere?
Anzitutto il richiamo al passaggio del discorso della Montagna di Gesù: «Ero forestiero e mi avete ospitato», da cui nacque l’appello di Papa Francesco a tutte le parrocchie e istituti religiosi e monasteri ad accogliere almeno una famiglia di migranti o rifugiati. Le sue parole a Lampedusa nel primo viaggio apostolico del 2013, in cui ha ripetuto, con le parole di Dio a Caino «Dov’è tuo fratello?», la domanda a ciascuno di noi di accogliere il migrante come un fratello. I due viaggi a Lesbo nel 2016 prima e nel 2021 poi, dove di fronte a quei volti sofferenti, a quelle persone in fuga trattenute nei centri ha parlato di «naufragio di civiltà». E poi quattro parole, quattro verbi ripetuti più volte che mettono in crisi il nostro stile e modello di accoglienza: accogliere, proteggere, promuovere, includere. Un percorso chiaramente indicato dall’accoglienza alla cittadinanza ancora da costruire.
Come il suo messaggio ha influenzato l’opinione pubblica italiana e mondiale?
Certamente ha scosso le coscienze rette, ha provocato governi, politiche economiche e sociali. Penso ai dieci punti della lettera ai vescovi statunitensi, dopo i tagli alle risorse del governo Trump all’accoglienza dei rifugiati, del febbraio scorso, dove Papa Francesco richiamava che «uno Stato di diritto autentico si dimostra proprio nel trattamento dignitoso che tutte le persone meritano, specialmente quelle più povere ed emarginate». Purtroppo, l’opinione pubblica è divisa ancora a metà, anche in Italia, tra chi vorrebbe chiudere e chi aprire ai migranti, forse influenzata anche da una narrazione falsa sul fenomeno migratorio. Occorre continuare a ripetere il magistero di Papa Francesco sui migranti, che ha saputo leggere con verità, profezia e realismo il fenomeno migratorio. Il Giubileo che viviamo è un tempo per rilanciare e non disperdere questo messaggio.
C’è stata l’attenzione dovuta da parte dei governanti? Oppure questo messaggio è stato ignorato o contrastato?
Se guardiamo agli atti dei diversi governi, dagli Stati Uniti all’Europa all’Australia, vediamo che le politiche sono andate nella direzione opposta alle parole del Pontefice, con critiche manifeste nei suoi confronti o silenzi indifferenti. Ma ci sono parole che seminano in profondità e i frutti si vedono nel tempo.
Tra chi ha criticato gli appelli del Papa all’accoglienza c’è chi ha utilizzato il tema del rischio di de-cristianizzazione dell’Europa se arriveranno molti immigrati di religione islamica. Cosa ne pensa?
Una strumentalizzazione della religione, da parte di chi spesso non pratica la fede, che non corrisponde alla realtà dei fatti. Altri sono i fattori di de-cristianizzazione dell’Europa. Anzi, l’incontro tra l’esperienza religiosa cristiana e quella islamica ha prodotto sotto il Pontificato di Papa Francesco un nuovo dialogo con l’islam, di cui la dichiarazione di Abu Dabi è solo un segno, e un lavoro comune anche nelle Chiese locali su temi come la pace, la giustizia, la salvaguardia del creato, la promozione della donna.
Che tipo di cattolico è quello che invita ad alzare muri verso chi fugge da guerra e fame?
Lo ha ripetuto più volte il Papa: deve rivedere la sua fede alla luce del Vangelo e fare un salto di umanità nelle sue scelte morali.
Fratello solo Venuto «dalla fine del mondo», papa Francesco ha dato voce agli ultimi e lottato contro le ingiustizie, molto spesso isolato anche dalla sua Chiesa. Lascia un mondo a pezzi e riforme incompiute. Insieme a una testimonianza di impegno, fino alla fine
Incontro con il mondo In questo momento di grande tristezza per tanti nel mondo, una moltitudine di cui faccio parte anche io, di una cosa almeno sono contenta, anzi fiera: che sia stato il […]
In questo momento di grande tristezza per tanti nel mondo, una moltitudine di cui faccio parte anche io, di una cosa almeno sono contenta, anzi fiera: che sia stato il nostro manifesto nel 2016 a pubblicare e a distribuire insieme al quotidiano un libro che contiene uno dei più belli, e più significativi, discorsi di Bergoglio.
E questo in un tempo in cui ancora era possibile che altra pur paludata stampa uscisse con titoli come questi: «Papa Francesco benedice i centri sociali»; «Bergoglio incontra il Leoncavallo»; «Zapatisti, marxisti, Indignados, tutti dal papa». (In seguito capirono che era troppo impopolare ricorrere a questo tono di ironico sprezzo quasi che Papa Francesco fosse un secondario personaggio qualsiasi, sicché si corressero un poco).
Il libro di cui il nostro giornale si fece editore uscì in occasione dell’Incontro mondiale dei movimenti popolari (Emmp) a Roma, presenti fra gli altri un singolare e fino a poco prima presidente dell’Uruguay e prima guerrigliero Tupamaros, Pepe Mujica, la ben nota Vandana Schiva, assente invece l’invitato Bernie Sanders perché impegnato nella campagna elettorale americana. Più 99 organizzazioni di 68 paesi, una lista più o meno coincidente con quella dei movimenti che hanno partecipato ai nostri Forum Mondiali dei tempi di Porto Alegre, fra questi non a caso i Sem Terra brasiliani e il loro leader Stedile, analoghi i temi in discussione: ecologia, beni comuni, salario universale.
All’appuntamento dell’anno precedente tenuto in Bolivia l’allora presidente Evo Morales aveva regalato al Pontefice venuto fino a laggiù per presiedere l’incontro una croce composta da una falce e un martello, e si potrebbe dire che quella singolare composizione lignea già a Roma sembrava tacitamente diventata il distintivo degli Emmp.
Ho scritto «si potrebbe dire» perché so che bisogna fare attenzione. E però non si può non prendere atto che il pontificato di Francesco ha impresso alla politica vaticana una svolta di sostanza molto forte e chiara. Bergoglio non è stato infatti solo un
Leggi tutto: Agli sfruttati non serve la carità ma la lotta - di Luciana Castellina
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L’Iran in Medio Oriente è considerato la spina nel fianco di Israele e degli Usa ma il negoziato in corso va ben oltre lo status di potenza regionale della repubblica islamica e l’orizzonte, già ampio, del Golfo persico, dove passa il 40% dell’energia mondiale.
E dove si incrociano i destini precari di popoli in guerra. La sfida sul caso iraniano è assai più globale di quanto si pensi. Lo stato ebraico, soprattutto dopo la caduta di Bashar Assad in Siria e le sconfitte subite dagli alleati dell’Iran nella regione, da Hamas a Hezbollah agli Houthi yemeniti, è ancora più tentato dall’idea di scatenare un attacco diretto agli impianti nucleari di Teheran sospettati di lavorare per l’atomica. In realtà a Roma, ieri, con la mediazione omanita, c’è stato il secondo round di un negoziato dove la pistola è sempre sul tavolo.
Gli israeliani hanno già testato le difese della repubblica islamica e sono pronti a farlo di nuovo. Con l’attacco del 26 ottobre Israele, in replica a quello di Teheran, avrebbe eliminato oltre l’80% delle difese aeree iraniane: Netanyahu ritiene la repubblica islamica una minaccia esistenziale ed è sempre pronto a intervenire. Trump, secondo la stampa americana, avrebbe fermato di recente un attacco già pianificato in maggio dallo stato ebraico. Se fosse vero significa che Netanyahu può decidere di trascinare gli Usa in guerra in qualunque momento.
Non che Trump sia particolarmente incline a usare la diplomazia con Teheran, tanto è vero che nel 2018 fu lui al primo mandato ad annullare l’accordo del 2015 firmato dalla presidenza Obama. Quell’intesa non funzionò non perché fosse “pessima”, come continua a ripetere Trump imbrogliando le carte per l’ennesima volta, ma semplicemente in quanto non venne attuata: gli americani non tolsero mai le sanzioni bancarie e finanziarie a Teheran come sa benissimo qualunque banchiere europeo. Tanto è vero che il memorandum da 30 miliardi di euro firmato a Roma dall’allora presidente iraniano Rohani non ebbe seguito e la prima tranche di un prestito alle imprese italiane in Iran fu congelata per timore di ritorsioni americane (blocco dei conti e delle operazioni in dollari). Non è un dettaglio da poco: gli iraniani potrebbero arrivare un compromesso sull’arricchimento dell’uranio solo se avranno garanzie concrete di un alleggerimento vero delle sanzioni.
Le conseguenze del fallimento dell’accordo del 2015 sono state evidenti: l’Iran è stato spinto sempre di più nelle braccia di Mosca e di Pechino. La Russia è il primo destinatario dell’industria dei droni iraniana, la Cina è il primo cliente del petrolio di Teheran. Non si contano poi le manovre militari congiunte dell’Iran con Mosca e Pechino e gli scambi di visite militari e diplomatiche. L’Iran è quindi dentro al fronte bollente dei conflitti e degli interessi strategici che stanno a cavallo tra il Medio Oriente e l’Asia centrale e fa parte dell’organizzazione dei Brics, un blocco economico che rappresenta oltre il 30% del Pil mondiale.
I due alleati dell’Iran, membri del Consiglio di sicurezza Onu, non hanno interesse che l’Iran diventi una potenza nucleare – nonostante fronteggi Israele che lo è e confini con un altro stato dotato di atomica come il Pakistan – ma neppure vogliono che lo stato ebraico e gli Usa attacchino Teheran e tanto meno desiderano un cambio di regime che in Medio Oriente finora ha portato più anarchia e distruzione che stabilità, come è avvenuto in Iraq e Afghanistan, Paesi confinanti con l’Iran. Inoltre un attacco al nucleare iraniano in prospettiva potrebbe anche rivelarsi un boomerang: gli stati della regione come Turchia e Arabia saudita potrebbero essere spinti a una corsa verso l’atomica vista come una garanzia irrinunciabile per limitare le minacce esterne.
Persino la storica contrapposizione settaria sciiti-sunniti non fornisce una lettura del tutto soddisfacente della situazione. Se è vero che sul piano locale è sempre viva (basti pensare alla Siria e al Libano, oltre che all’Iraq), su quello strategico le cose sono un po’ diverse. Lo dimostra l’evoluzione delle relazioni tra Riad e Teheran. Queste due potenze regionali, poli di riferimento del mondo sunnita e di quello sciita, sono sempre più spinti verso la coesistenza nel Golfo, come in una sorta di matrimonio obbligato e di convenienza: la geografia non si può cambiare e i loro destini si incrociano. Le recenti esercitazioni navali congiunte di iraniani e sauditi nel Golfo dell’Oman, insieme a scambi di visite militari, non sono gesti simbolici ma il segnale di un nuovo pragmatismo di fronte alla sfide sulla sicurezza che vanno dal Mar Rosso allo Stretto di Hormuz. In buona parte questo atteggiamento alla cooperazione è stato raggiunto grazie alla normalizzazione delle relazioni bilaterali mediata due anni fa dalla Cina.
Ma al negoziato con l’Iran c’è sempre una pistola carica sul tavolo e il grilletto lo può premere Netanyahu mentre Trump più che una trattativa sembra volere imporre degli ultimatum. «L’Iran – ha detto – non ha alternative: gli estremisti non possono avere un’atomica». Tradotto: l’unico che può possederla in Medio Oriente è il notoriamente “moderato” Netanyahu con il suo governo di “moderati” estremisti.
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Fronte orientale Intervista all'analista ucraino Konstantin Skorkin
Le dichiarazioni rilasciate questa settimana dall’inviato speciale della Casa Bianca Steve Witkoff, per cui l’Ucraina potrebbe “cedere” alla Russia le regioni occupate dall’esercito del Cremlino come base per eventuali negoziati, ha riportato al centro della discussione un tema sensibile, già oggetto di aspre contese diplomatiche. Tuttavia la vaghezza della proposta, che il funzionario statunitense ha menzionato riferendo dei suoi colloqui con Vladimir Putin, si associa alla vaghezza con cui talvolta vengono considerati quei territori (la penisola di Crimea e le quattro oblast di Donetsk, Lugansk, Zaporzhizhia e Kherson), lasciando in ombra specificità locali e, soprattutto, il punto di vista delle persone che ancora ci vivono o ci hanno vissuto. Ne abbiamo parlato con l’opinionista politico indipendente Konstantin Skorkin, nato e cresciuto a Lugansk e ora di stanza in Gran Bretagna.
Può descrivere la situazione dei territori occupati?
Credo che la questione vada suddivisa in tre sotto-categorie. Da un lato la Crimea fa un po’ storia a sé e rappresenta il caso più spinoso. È stata annessa dal Cremlino più di dieci anni fa e già prima del 2014 erano presenti nella penisola sentimenti separatisti (durante gli anni ‘90 ci fu addirittura un tentativo di secessione). Possiamo dire dunque che nel 2014 il sostegno per la Russia era molto alto, il che comunque né giustifica l’annessione da parte di Putin né rende credibile il referendum che si svolse quell’anno. Ora è un territorio completamente integrato nel sistema russo, con una popolazione leale al Cremlino e con persone russe che si sono stabilite lì arrivando dalla Federazione. Perciò una sua reintegrazione sotto l’Ucraina sarebbe qualcosa di molto difficile: le leggi attuali peraltro considerano chi si è stabilito lì dopo il 2014 come un occupante illegale ed eventuali misure di espulsione potrebbero attirare accuse verso Kiev di deportazione etnica. Penso che si debba accettare il fatto che quella della Crimea è una questione esclusivamente diplomatica, la cui risoluzione va rimandata in maniera indefinita. Tuttavia, nessuno ne riconoscerà ufficialmente lo status di territorio russo, questa è una “linea rossa” per Kiev.
Gli altri territori occupati da tempo?
I territori del Donbass occupati fra il 2014-2015: anche qui erano presenti simpatie filorusse, che però non sono risultate decisive finché il Cremlino non è intervenuto militarmente con le sue milizie-proxy. Qua nel corso del tempo è avvenuta una grossa trasformazione sociale: la maggior parte delle persone filoucraine si sono ricollocate in Ucraina, mentre quelle più filorusse magari se ne sono andate in Russia. Sono rimasti soprattutto anziani o persone non così attive a livello sociale e politico, tendenzialmente leali alla nuova amministrazione (e nel frattempo, persone dalla Russia hanno iniziato a insediarsi anche in questi territori).
Il Cremlino ha condotto una politica di assimilazione: rilascio dei passaporti semplificato, sistema legale armonizzato con quello russo, fine dell’insegnamento della lingua e della storia ucraine nelle scuole, ecc. Tutto ciò si è solo intensificato dopo il 2022. Per chi si è ricollocato in Ucraina da questi territori e vuole mantenere i legami la situazione è difficile: spesso a chi ha un passaporto ucraino non viene concesso di andare in territorio russo, mentre gli appartamenti di chi viveva a Lugansk o Donetsk vengono confiscati se non sono registrati nuovamente secondo le norme russe. Difficile che il governo di Kiev faccia grosse concessioni rispetto a queste zone: c’è comunque una lobby cospicua di ex-residenti del Donbass a Kiev (che include deputati, personale militare e giornalisti) che fatica ad accettare che i loro luoghi d’origine diventino russi a tutti gli effetti.
E siamo alle zone occupate dopo l’invasione.
Altri territori del Donbass e del sud dell’Ucraina passati sotto controllo del Cremlino dopo il 2022 vanno considerati come una classica forma d’occupazione. Un movimento filorusso è debole o inesistente e la maggior parte delle persone non vede di buon occhio la nuova amministrazione e attende di essere liberata, oppure prova a passare dal lato ucraino sperando di far presto ritorno. In questo senso, Kiev non accetterà mai una cessione territoriale a meno di una capitolazione militare.
Trova credibile la proposta di Witkoff?
Come accennato, mi pare una strada davvero poco percorribile a meno che, appunto, non ci sia una sconfitta sul campo delle forze ucraine o una crisi politica interna al paese. Molto più realistica è invece la situazione per cui il conflitto viene congelato lungo le linee attuali. Questo non costituisce una base per una pace duratura, ma almeno potrebbe fermare lo spargimento di sangue. Tuttavia non mi pare un’opzione che convince Putin, ancora deciso a sottomettere tutta l’Ucraina.
Corte suprema Usa Ci sono ben sei cattolici nella Corte suprema degli Stati Uniti, un paese dove fino a ieri i fedeli alla chiesa di Roma venivano chiamati "papisti". Non solo: fino ad oggi i politici cattolici non sono stati particolarmente fortunati
Ci sono ben sei cattolici nella Corte suprema degli Stati Uniti, un paese dove fino a ieri i fedeli alla chiesa di Roma venivano chiamati “papisti”. Non solo: fino ad oggi i politici cattolici non sono stati particolarmente fortunati.
Nel 1928 Al Smith fu sonoramente sconfitto, nel 1960 John Kennedy fu eletto, ma assassinato tre anni dopo, nel 2004 John Kerry perse contro George W. Bush e Joe Biden ha sì vinto le elezioni nel 2020 ma solo per lasciare in eredità la Casa Bianca a Donald Trump nel 2024. Oggi, però, la politica prevale sulla religione e il cattolicesimo americano è spaccato a metà.
Una parte significativa della gerarchia cattolica degli Stati Uniti è stata da sempre schierata su posizioni reazionarie: nel 2008, ad esempio, il vescovo Joseph Martino di Scranton (Pennsylvania) diocesi natale di Biden, propose di negargli la comunione a causa delle sue posizioni sull’aborto e la cosa si ripetè nel 2019, a Florence, in South Carolina. I temi dell’interruzione della gravidanza, della crisi della famiglia tradizionale e della secolarizzazione della società hanno avvicinato da tempo una parte sostanziale dei cattolici, che sono il 20% della popolazione, al partito repubblicano.
Non è un caso che i due giudici della Corte suprema più ferocemente di destra siano Samuel Alito e Clarence Thomas, eredi di Antony Scalia, cattolico tradizionalista e influente giudice conservatore della Corte per ben 30 anni (è morto nel 2016). Nello stesso tempo, molti cattolici americani si rifanno all’eredità di Daniel Berrigan, un gesuita che fu una figura di spicco del pacifismo negli Stati Uniti, protagonista delle proteste contro la guerra in Vietnam e di tutte le campagne contro l’energia nucleare e le ingiustizie sociali (anche Berrigan morì nel 2016). La giudice Sonia Sotomayor è la rappresentante del cattolicesimo progressista all’interno della Corte.
Come ha scritto qualche giorno fa David French sul New York Times, «la Corte suprema non può salvare l’America, ma qualcosa può fare» e il «qualcosa» è ovviamente frenare la furia distruttiva di Trump. Solo la mobilitazione dei cittadini nei prossimi mesi potrà difendere la malconcia democrazia americana ma l’orientamento della Corte sarà di vitale importanza. E l’orientamento della maggioranza della Corte dipende da altri tre cattolici: il presidente John Roberts, Brett Kavanaugh e Amy Coney Barrett.
I segnali che vengono da questi tre giudici, che per comodità potremmo definire i “conservatori moderati”, vanno in direzione di un distacco dal progetto autoritario di Trump, in particolare sul tema dei migranti, che è anche quello su cui papa Francesco è sempre stato più esplicito nel condannare il Gangster-in-Chief ritornato alla Casa Bianca. Non a caso, la Corte ha approvato all’unanimità l’ordine diretto all’amministrazione Trump di facilitare il ritorno di Kilmar Abrego Garcia, deportato illegalmente in Salvador. E, l’altroieri, una maggioranza di 7 giudici contro due (Thomas e Alito) ha sospeso le deportazioni di gruppi di migranti venezuelani, ordinando al governo di non procedere fino a nuovo ordine della Corte stessa.
La foglia di fico legale usata fin qui dal Dipartimento della giustizia era una legge del 1798, tuttora in vigore, l’Alien Enemies Act, che conferisce al presidente poteri straordinari in tempo di guerra. Fu usata per l’ultima volta durante la Seconda guerra mondiale per giustificare la detenzione di ben 120.000 giapponesi-americani, cittadini statunitensi, che furono internati in campi di concentramento.
Ovviamente oggi non c’è alcuna guerra e nessun pericolo di invasione o di spionaggio: la deportazione dei migranti ha l’unico scopo di terrorizzare tutti i potenziali oppositori, mostrando a quali estremi di illegalità può arrivare la presidenza Trump. Su questo terreno, John Roberts e Amy Coney Barrett non sembrano disposti a lasciare mano libera alla Casa Bianca, almeno per ora.
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Per il nostro mondo, il mondo in cui noi occidentali siamo cresciuti dal dopoguerra in poi, le cose non saranno più le stesse. Nessun avvenimento ha segnato in maniera così […]
Gaza. Una ragazza trasporta acqua nel campo profughi di Jabaliya – Mahmoud Zaki/Xinhua/ABACAPRESS.COM
Per il nostro mondo, il mondo in cui noi occidentali siamo cresciuti dal dopoguerra in poi, le cose non saranno più le stesse. Nessun avvenimento ha segnato in maniera così drastica una linea di demarcazione nella nostra recente storia culturale. Nessun impegno bellico per quanto indiretto, nessuna tragedia e rivoluzione ha avuto lo stesso effetto, benché si fatichi ancora a prenderne atto. Perché mai prima, noi Paesi occidentali, avevamo sostenuto o avallato qualcosa di così dirompente.
IN EFFETTI, tutto era chiaro fin dall’inizio. Fin dalle prime battute di quella che molti si ostinano ancora a chiamare guerra, si era parlato di “suicidio di Israele” ma anche di “suicidio dell’Occidente” perché l’improvviso, manifesto, ostentato, superamento di certe linee rosse aveva messo in crisi certezze di civiltà sempre rivendicate, vissute con orgoglio, e ormai quasi date per scontate. L’infinito sacrificio di civili, e in particolare di bambini, paramedici, medici; l’uso della fame e della sete come armi; l’arresto, le torture, le umiliazioni indiscriminate; la distruzione completa di un mondo: scuole, università, anagrafe, catasto; l’uso sconvolgente di armi di ogni tipo, una forza sproporzionata per annichilire, travolgere, spazzar via: quasi fosse un sogno assurdo di oltre-umanità; tutto quello che abbiamo visto, quasi in diretta, in immagini che ci sono arrivate fin dai primi giorni di questo infinito eccidio potevano spingere all’immediata consapevolezza. Mentre intellettuali, studiosi, politici e commentatori si accapigliavano su una questione linguistica – la congruità della parola “genocidio” per la strage in atto (una miseria culturale che da sola dovrebbe aprire gli occhi sull’abisso in cui siamo caduti) – chi non smetteva di seguire gli avvenimenti affidandosi alle fonti dirette che questi nostri tempi ci consentono, aveva già ben chiaro il drammatico superamento di una linea da sempre ritenuta insuperabile.
E TUTTAVIA, oggi, dopo un anno e mezzo di morte, non si finisce di andare più in là. Il fondo non si tocca mai. Eventi paradigmatici di questa deriva di insensatezza si moltiplicano e a tratti si condensano in immagini definitive. È di ieri il video che ritrae le fiamme in cui sono avvolti i corpi di bambini colpiti nel sonno, nelle loro tende a Al Mawasi-Khan Younis. Di alcuni sappiamo anche i nomi, conosciamo le loro storie. Non le raccontiamo, certo, non dedichiamo loro programmi o riflessioni, e il motivo è chiaro: siamo noi tutti responsabili di quelle morti. Quel che dobbiamo sapere, però, è che in rete molti festeggiano. La notizia viene celebrata con bottiglie di champagne e tappi volanti, coriandoli che sprizzano da cappelli aperti, cuori pulsanti, like, braccia muscolose, e inevitabili fuocherelli, insomma tutto l’armamentario dell’approvazione social. Siamo arrivati oltre, insomma. Oltre qualunque punto di non ritorno. Come è possibile, infatti, festeggiare, ridere, esultare, approvare e stappare bottiglie davanti a bambini arsi vivi? Ragioniamo. Come si è arrivati a tanto? Si è partiti parlando dell’inevitabile prezzo da pagare. Poi si è ripetuto il ritornello degli scudi umani. E ogni volta, la voce ufficiale ripeteva che fra le vittime c’erano uomini di Hamas (una giustificazione quasi mai provata e anzi, spesso, come nel caso dei quindici paramedici giustiziati, tragicamente smentita dalle prove reali). Ogni volta, le voci che approvavano e giustificavano sono state numerose. «Stiamo combattendo questa guerra per voi» è stato il mantra, sbandierato da chi ha rivendicato, fra noi, la necessità di acconsentire, ossia di “sporcarsi le mani”. Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti: chi oggi continua a manifestare lo sdegno è sotto attacco. Deportazioni di giovani attivisti in due Paesi simbolo come Stati Uniti e Germania indicano la linea da seguire. In nome di una presunta superiorità democratica, tutto è diventato possibile, qualsiasi orrore, qualsiasi aberrazione.
SI FATICA a immaginare un futuro. Eppure il futuro è proprio la democrazia, che non è semplice meccanismo elettorale di voto, bensì rispetto delle minoranze. E che alcune linee di demarcazione ben precise continua a segnarle da sempre. Alle origini, per esempio, c’è chi la democrazia la mette in crisi, soprattutto quando essa diventa strumento di terrore. C’è Tucidide, tanto per fare un esempio, che il delirio di onnipotenza in cui cade la “sua” città lo racconta e lo denuncia. Devono esserci dunque anche oggi storici, intellettuali e giornalisti pronti a denunciare. Su di loro, ossia su di noi, sta il grande dovere morale. Perché è vero che non si tornerà più indietro. Ma avanti si può andare in molti modi. E l’unica nostra strada è quella indicata innanzitutto da chi a Gaza continua a raccontare la verità. Sono almeno duecentodieci i giornalisti uccisi, un numero spropositato, mai raggiunto prima. È questo ennesimo orrore a dire a noi il nostro dovere.
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