Mascherine contro l'inquinamento atmosferico
La radice biblica e la tradizione storica del Giubileo ci parlano di un tempo kairos nel quale resettare le posizioni creditorie e debitorie per esigenze di giustizia. In una logica di fraternità e di solidarietà, la remissione del debito rappresentava di fatto un ripristino della parità di opportunità partendo dal principio che il dono della vita e dei beni della terra era stato concesso originariamente da Dio in parte eguale a tutti gli abitanti del creato.
La novità di questo Giubileo, rispetto ai precedenti, è quella del debito ecologico, tema sollevato da papa Francesco nella Laudato Si’ e ripreso poi più volte nei suoi discorsi e nel recente intervento del cardinale Parolin per conto della Santa Sede alla COP29 sul clima.
Se esiste un debito economico che vede Paesi a basso reddito del Sud del mondo come debitori nei confronti dei Paesi ad alto reddito, c’è anche un debito ecologico rispetto al quale le posizioni s’invertono e siamo noi ad essere debitori.
Ci sono due modi per spiegare il debito ecologico. Il primo è legato alla pratica oggi comune della distribuzione dei diritti ad inquinare in proporzioni eque (environmental trading system) tra le aziende di un determinato settore dell’economia per determinare un livello massimo di emissioni che non deve essere superato per esigenze di transizione ecologica. Successivamente le aziende ecologicamente più efficienti possono vendere i loro diritti ad inquinare alle aziende meno efficienti che hanno più bisogno d’inquinare per poter mantenere in vita le loro produzioni in un meccanismo di scambio che stimola ed incentiva l’aumento di efficienza ecologica delle imprese stesse.
Possiamo immaginare analogamente che sia esistita storicamente una ripartizione equa dei diritti inquinare tra i diversi stati. Le differenze di velocità di sviluppo hanno però fatto sì che i paesi ad alto reddito abbiamo prodotto molte più emissioni e dunque figurativamente utilizzato molti più diritti ad inquinare senza “acquistarli” dai paesi a basso reddito, maturando in questo senso un debito ecologico nei loro confronti. Un’altra prospettiva dalla quale guardare il problema è quella dei servizi ecosistemici.
L’ecosistema (qualità dell’aria, dell’acqua, dei suoli) è lo spazio vitale in cui viviamo che rende possibile la nostra vita sulla Terra. I servizi che l’ecosistema ci offre valgono, se avessero un prezzo di mercato, più del Pil globale. I Paesi poveri sono ricchi di risorse naturali (si pensi alla foresta amazzonica) che svolgono un ruolo fondamentale di cattura di CO2 mitigando la crescita delle emissioni e contrastando il riscaldamento globale. Non abbiamo mai pagato questi servizi e il problema concreto è che nel frattempo questi paesi, per esigenze di sviluppo e di servizio stesso del debito, rischiano di distruggere il loro capitale naturale che rappresenta un patrimonio per l’umanità.
Tornando al tema del debito estero, il giubileo arriva in un momento opportuno nel quale le periodiche crisi di debito estero dei paesi a basso reddito sono tornate ad essere acute e gravi. Esattamente come nella prima metà degli anni 80 l’alta inflazione ha costretto Europa e Stati Uniti ad adottare politiche monetarie restrittive aumentando i tassi d’interesse che hanno aumentato i rendimenti sui nostri titoli obbligazionari. Si è innescata una fuga verso la qualità con gli investitori che hanno abbandonato i titoli dei paesi poveri ed emergenti, costretti ad inseguire i rendimenti dei paesi ricchi alzando anche loro i tassi. Il circolo vizioso di svalutazione del cambio, tassi d’interesse in aumento ha portato alle stelle per questi paesi il costo del debito espresso spesso in valuta forte (dollaro) e a tassi variabili, un po’ come è accaduto da noi per chi aveva mutui a tasso variabile.
A questo problema si è sommato quello delle conseguenze della pandemia e della guerra in Ucraina e del rincaro delle importazioni di grano che hanno anch’essi alimentato povertà e debito. La conseguenza è stata la dichiarazione di fallimento di diversi paesi (Argentina, Ecuador, Libano, Suriname, Zambia e Belize seguiti da Sri Lanka, Ghana, Malawi e Ucraina tra il 2021 e il 2022). Anche nei paesi a basso reddito dove il default non è arrivato il peso del debito la situazione è spesso quella di spese per interessi che riducono di fatto l’investimento in salute ed istruzione e l’uscita dalle condizioni di povertà. Stime delle Nazioni Unite calcolano che nel continente africano si spendono 70 dollari pro capite per il servizio del debito contro 60 per l’istruzione e 39 per la sanità. Dall’insieme delle circostanze che hanno portato a questa situazione descritte in questo articolo è evidente che la questione di giustizia sorge per il fatto che chi ne paga le conseguenze non ha alcuna responsabilità.
La letteratura in materia offre diversi modelli possibili di scambio tra debito finanziario e debito ecologico e di pagamento di servizi ecosistemici che potrebbero essere utilizzati durante il giubileo per realizzare l’obiettivo di dare nuove opportunità a chi ne ha più bisogno accelerando contemporaneamente la transizione ecologica. L’esortazione della Santa Sede alla COP29 ai paesi partecipanti è di metterli in atto cogliendo il tempo-opportunità del giubileo per conciliare giustizia e sostenibilità.
Commenta (0 Commenti)Opinioni Il diritto internazionale soffre di un paradosso: che vige solo in virtù della forza che regola. Non basta l’occhio nichilista della geopolitica, metafisica geografica della volontà di potenza. Ecco oggi il mondo girato a destra: la giustizia appiattita sulla forza, vince la politica che viola i vincoli del diritto, diventando criminale e si rovescia nell’opposto, la guerra
No. Morire di freddo a tre settimane di vita, a Natale, in Palestina: non si può! Una bimba, il quarto bebé in pochi giorni. Non si può continuare a chiamare “terroristi” i giornalisti per poterne sterminare cinque in un colpo solo, come ieri. Questa è violenza assoluta, legibus soluta. È inconcepibile che un responsabile di questo sterminio se ne vanti.
Calpestando la terra sacra alle sue vittime, nel nome del dio dei suoi eserciti. Dove ha origine allora la separazione tra forza, violenza e giustizia?
Pascal era conciso. «Non potendo fare che ciò che è giusto fosse forte, abbiamo fatto che ciò che è forte fosse giusto». Conciso nelle ragioni del cuore: lo sconforto etico, ma anche lo sconcerto filosofico-giuridico. Questo detto famoso esprime una versione del paradosso del diritto, che vige (ha vigore, efficacia) solo in virtù della forza che regola (o dovrebbe: è nato per vincolarla, limitarla, civilizzarla). Niente quanto il diritto internazionale soffre oggi di questo paradosso, che può essere guardato con l’occhio nichilista della dottrina geopolitica, questa metafisica geografica della volontà di potenza, che ha trovato oggi un alleato nel «copresidente Elon Musk» (The Washington Post).
MA LO STESSO PARADOSSO può e dovrebbe essere guardato, invece, con l’occhio del pacifismo giuridico da cui è nato il moderno diritto internazionale. Che per eccellenza esemplifica un altro concetto, espresso con un aforisma di pascaliano nitore: il diritto è la prosecuzione della filosofia con altri mezzi (copyright Ileana Alesso, Presidente di Fronte Verso Network, un’associazione dedita a tradurre in una lingua comprensibile a tutti le leggi e le sentenze, progetto che più socratico non si potrebbe: vedi il libro che Alesso ha scritto con Gianni Clocchiati, prefatto da Gherardo Colombo: Con parole semplici. Leggi, etica e cittadinanza: la comunicazione responsabile, Melampo). Tornando al paradosso: questa altezza mediana del diritto, che sta sospeso a metà fra la giustizia e la polizia, non è un’infelice contraddizione, ma un circolo, che può girare in senso virtuoso o in senso vizioso. E gira all’indietro, viziosamente, se Gorgia la vince su Socrate, la sofistica e la retorica sull’etica e la logica, se l’uomo più potente al mondo grida (nello spazio pubblico che privatamente possiede) alla Germania che solo i neonazisti potranno salvarla e all’Italia che se il suo governo calpesta i diritti umani dei migranti ha sempre ragione; se l’Unione europea approva che i sistemi missilistici forniti dai paesi occidentali possano colpire in profondità la Russia, accettando così lo scontro diretto fra Russia e Nato; se il presidente statunitense uscente approva la reintroduzione di armi micidiali già proibite, se le potenze disfano del tutto gli accordi del 1987 fra Reagan e Gorbaciov, riposizionando in Europa i missili a medio raggio; se pochissimi fra gli stati membri dell’Onu e della Convenzione sul genocidio mettono in pratica le misure immediatamente esecutive della corte di Giustizia Internazionale per fermare il genocidio a Gaza, se Israele può sputare impunemente sull’Onu e i suoi tribunali con l’appoggio dei suoi alleati, se Amnesty International e Human Rights Watch denunciano l’inferno in Palestina nella più generale indifferenza. Natalizia. Col conforto giornalistico degli aedi della violenza levatrice della storia: anime belle e costituzionalisti più o meno globali levatevi di torno.
Oggi che il mondo si sia girato a destra vuol dire questo: che il polo della giustizia si appiattisce completamente su quello della forza e vince la politica che rigetta i vincoli del diritto, anche se violandoli diventa criminale e si rovescia nel suo opposto, la guerra. Forse se i leader della sinistra mettessero finalmente a fuoco questa catastrofe, invece di chiamarsi “sinistra per Israele” o sostenere la guerra giusta, qualche cuore tornerebbe a battere per loro.
EPPURE IL CIRCOLO diventa virtuoso, se ricomincia a girare dalla parte opposta, senza che ci sia bisogno di un’altra apocalissi per arrivare alla conclusione che «la guerra è un assassinio di massa, la più grande disgrazia della nostra civiltà; e che garantire la pace mondiale deve essere il nostro principale obiettivo politico, un obiettivo che viene molto prima della scelta fra democrazia e dittatura, o tra capitalismo e socialismo» (Hans Kelsen, La pace attraverso il diritto, 1944).
Lungi dall’essere “risolvibile”, il paradosso del diritto è motore di civiltà finché l’intelligenza che abita il suo polo ideale fabbrica strumenti legali e istituzioni per regolamentare e dirigere settori sempre più vasti del polo inferiore, quello della forza, inclusa quella globale del cosiddetto sistema militare-industriale. Il pacifismo giuridico è un’invenzione di questa intelligenza, che fu da noi quella di Norberto Bobbio e dei suoi scritti postbellici raccolti ne Il problema della guerra e le vie della pace (Il Mulino), come fu quella di Altiero Spinelli, architetto istituzionale di un’unione politica europea che privasse del tutto gli stati nazionali del monopolio legittimo della forza, in linea di principio riducendo gli eserciti alla polizia di uno spazio comune sempre più ampio di sicurezza, libertà, giustizia e commercio sul continente intero, come anche Gorbaciov sognava.
MOLTO PRIMA, nella fucina profonda di un nuovo illuminismo, Edmund Husserl, cui la Grande Guerra aveva rivelato che la ragione doveva farsi diritto dell’umanità, universale e positivo vincolo all’arbitrio di qualunque potere, svolgeva nei suoi corsi di etica un’idea nuova di cultura, come consapevolezza delle delicate e complesse relazioni di interdipendenza fra tutte le vite, e dei vincoli fattuali e normativi, economici, etici, ecologici, estetici e logici, all’interno dei quali soltanto la libertà, la novità, la personalità di ognuno possono fiorire.
Ma era poi un’idea così nuova? I cristiani d’Oriente chiamarono Fotina, l’Illuminata, quella samaritana che al pozzo aveva ascoltato la lezione del maestro nazareno su quanto poco c’entrassero spirito e verità coi monti Garizim o Sion. E fu l’illuminato Capitini a risvegliare il pacifismo nell’illuminista Bobbio.
Forse si può pregare che Natale sia un simile solstizio, insieme, del cuore e della mente, nel pieno dell’inverno.
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Governare contro Ci sono molti motivi per cui il governo in carica avrebbe fatto bene a convocare un vertice straordinario l’antivigilia di Natale. Dal crollo della produzione industriale alla dinamica negativa dei […]
Giorgia Meloni in occasione del comizio del centrodestra a Bologna a sostegno della candidata presidente dell'Emilia Romagna – Max Cavallari/Ansa
Ci sono molti motivi per cui il governo in carica avrebbe fatto bene a convocare un vertice straordinario l’antivigilia di Natale.
Dal crollo della produzione industriale alla dinamica negativa dei salari, dall’aumento della povertà assoluta al disastro della sanità pubblica al record di analfabetismo funzionale tra i paesi industrializzati, non c’è ricerca né dato di esperienza che in questa fine d’anno non stia fotografando i problemi drammatici e urgenti del nostro paese.
Ma non è di questi problemi che si sono occupati Meloni e i suoi ministri. Anteponendo ancora la propaganda al governo, sono tornati sui centri di deportazione e detenzione dei migranti in Albania.
Un crudele pasticcio che dura da mesi e che non ha prodotto nulla se non sofferenza per qualche decina di migranti, traghettati avanti e indietro dalle celle d’oltremare, e lo spreco di denaro pubblico. Il vertice di ieri dice che il governo intende perseverare nel fallimento.
La formula alla quale si affida Meloni e che è riuscita a imporre in un vertice informale a margine dell’ultimo Consiglio europeo è «soluzioni innovative». Per comprenderne il senso bisogna riferire l’innovazione all’oggetto giusto, che non è l’immigrazione ma il diritto europeo. Le soluzioni che ha in mente Meloni e che sperimenta in Albania sono fuori dal diritto europeo. Contro il quale, infatti, sono andate a cozzare nel giudizio dei tribunali italiani che hanno annullato le «innovazioni» e ordinato il rapido ritorno dei migranti dall’Albania. «Soluzioni innovative» vuol dire soluzioni illegali. Almeno al momento, perché è chiaro che la nuova maggioranza che sostiene von der Leyen così come un numero crescente di paesi europei non vedono l’ora di cambiare in peggio le regole sull’asilo e sui rimpatri.
Nel frattempo il governo italiano vuole portarsi avanti, vertice dopo vertice, decreto dopo decreto, ormai dichiaratamente provando ad aggirare i vincoli del diritto costituzionale e comunitario. E se non basta ancora, allora si «innova» nel racconto dei fatti – del resto Trump non ha insegnato che le falsità sono solo «fatti alternativi»?
«Innovativa» è la lettura che propone il governo della sentenza della Cassazione in materia di protezione internazionale. La Corte ha chiarito che spetta ai giudici, quando devono giudicare sul diniego dell’asilo, valutare l’effettivo grado di sicurezza di uno stato estero anche se il governo lo ha qualificato come «sicuro». Naturalmente la Corte ha ribadito l’ovvio, e cioè che la valutazione deve avvenire sulla base di specifiche circostanze, che la compilazione della lista dei paesi sicuri spetta all’autorità politica e che le ordinanze dei giudici, anche quando sfavorevoli al governo, non cancellano la lista.
Su questo ovvio il governo ha costruito un racconto falso per il quale i giudici di Cassazione gli avrebbero dato ragione. E persevera. Anche perché l’assoluzione di Salvini a Palermo riporta di attualità la competizione tra il leghista e la presidente del Consiglio su chi è più bravo a «difendere i confini», cioè chi è più feroce con i migranti. Una concorrenza che si gioca sulla pelle di un numero relativamente molto ridotto di uomini, donne e bambini sofferenti e in fuga e che dunque non può servire neanche in astratto ad affrontare il tema delle migrazioni.
Serve alla propaganda, serve giorno dopo giorno a indebolire la presa dei principi fondamentali e la tenuta dello stato di diritto. Perché questo accade, alla lunga, quando è il potere costituito a prendere a spallate le leggi superiori che regolano la convivenza civile. Non si chiama innovazione, si chiama eversione.
Commenta (0 Commenti)Medio Oriente Di fronte a sé Netanyahu ha l’opportunità storica che, prima di lui, si presentò solo al “padre della patria” David Ben Gurion: ridisegnare le frontiere fisiche dello Stato di Israele; costringere il popolo palestinese a scegliere tra la diaspora o una vita da schiavi sulla propria terra; e restringere (ancora) il perimetro della «democrazia etnica» su cui dal 1948 lo Stato ebraico fonda la sua legittimazione internazionale
Gaza City, la distruzione lasciata dall'offensiva aerea e terrestre israeliana nella zona dell'ospedale Al Shifa – Ap
Da quattordici mesi analisti e commentatori tentano di stare al passo del governo di Benyamin Netanyahu per carpirne gli obiettivi militari definitivi, la linea oltre la quale Tel Aviv possa dirsi soddisfatta della carneficina compiuto e rivendicata. L’entusiasmo dell’ultima settimana intorno al cessate il fuoco con Hamas si è andato via via spegnendo, identico destino di tutti gli entusiasmi precedenti.
CAPIRE se la tregua, seppur parziale, sia stavolta davvero a un passo è materia per stregoni, non per analisti.
Si è detto che l’obiettivo di Netanyahu fosse la guerra per la guerra, proseguire nell’annientamento di Gaza per non finire sotto processo e per trasformare la Striscia in un luogo invivibile. La campagna libanese prima e quella siriana oggi disegnano un’altra realtà: di fronte a sé Netanyahu ha l’opportunità storica che, prima di lui, si presentò solo al “padre della patria” David Ben Gurion.
Ridisegnare le frontiere fisiche dello Stato di Israele; costringere il popolo palestinese a scegliere tra la diaspora o una vita da schiavi sulla propria terra; e restringere (ancora) il perimetro della «democrazia etnica» su cui dal 1948 lo Stato ebraico fonda la sua legittimazione internazionale.
L’OBIETTIVO è il superamento dei confini – territoriali, morali e politici – secondo la visione messianica di un’estrema destra iper nazionalista e razzista che travalica gli argini su cui il primo sionismo aveva costruito il racconto di sé: la separazione, cifra originaria dello Stato, che ha sempre seguito linee sociali ed etniche, ora alza barriere anche dentro la popolazione privilegiata, quella bianca europea. Al nemico interno per eccellenza, il popolo palestinese, si affiancano nuovi nemici, chi diserta, chi contesta, chi promuove una stampa dissidente.
Netanyahu sta ridisegnando il Medio Oriente secondo coordinate coloniali e di potenza – con un genocidio a Gaza, una pulizia etnica in Cisgiordania e l’indebolimento strutturale dei paesi “nemici” – come ridisegna l’immagine del suo paese, facendo cadere una volta per tutte quella finzione democratica che i palestinesi denunciano da sette decenni. L’ovvia deriva autoritaria di un regime coloniale e di segregazione razziale non può che passare per la guerra infinita e per l’imposizione di un’idea di «sicurezza» che coincide con l’annientamento dell’altro.
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