Da Kiev a Gaza C’è sempre il giorno della fake news. L’Europa che porta la pace in Ucraina e persino Trump, il maggiordomo di Netanyahu, che vorrebbe riconoscere lo Stato di Palestina. La Nato […]
Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky a Bruxelles foto di Omar Havana/Ap
C’è sempre il giorno della fake news. L’Europa che porta la pace in Ucraina e persino Trump, il maggiordomo di Netanyahu, che vorrebbe riconoscere lo Stato di Palestina. La Nato e la Coalizione dei volenterosi continuano «a stare al fianco dell’Ucraina».
Lo ha scritto su X il segretario generale dell’Alleanza atlantica Mark Rutte. Intanto, secondo il Jerusalem Post, che cita fonti diplomatiche di Paesi del Golfo Persico, il presidente statunitense Trump sta pensando di annunciare il riconoscimento dello Stato di Palestina da parte degli Stati uniti, il più importante alleato di Israele.
Naturalmente è tutto falso.
I volenterosi europei sono un’accolita di capi di governo deboli che non hanno nessun appoggio dell’opinione pubblica, stanca dopo tre anni di guerra inutile in cui Vladimir Putin non ha rovesciato Volodomyr Zelensky, dimostrandosi uno stratega incapace, e migliaia di russi e ucraini sono morti per niente. Quanti? Nessuno del mainstream dell’informazione lo sa dire. E già solo per questo si sono squalificati davanti a tutti.
Se non sai neppure definire i rapporti di forza in campo significa che hai completamente fallito il tuo compito di informare. Era già accaduto nella guerra del Vietnam, cinque decenni fa, quando gli americani scappavano dal tetto dell’ambasciata americana. Bastava allora, per sapere e capire, leggere le cronache di Aldo Natoli sul manifesto.
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Per non parlare della Palestina. Ma davvero crediamo che Trump possa riconoscerla? Se mai accadesse sarebbe un colpo fatale alla geopolitica statunitense e atlantica. In questi decenni gli Stati uniti si sono legati allo Stato ebraico mani e piedi, al punto che oggi abbiamo un complesso militar-industriale israelo-americano. Paesi, nominalmente sovrani come l’Italia, si sono consegnati a Israele: basti pensare che la nostra cybersecurity è stata appaltata l’8 marzo 2023 a Netanyahu.
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Ma c’è dell’altro. Oggi in Europa e in Italia è impossibile criticare il massacro di Gaza senza essere accusati di antisemitismo. Se davvero Trump ci liberasse dalla gabbia in cui ci ha messo il potere saremmo tutti felici.
Ma c’è sempre un problema. Liberare i popoli e le nazioni vuol dire liberarsi dall’ingiustizia. E la domanda non è solo rivolta ai capi di stato e di governo. È una questione che riguarda noi stessi come individui e come collettività. Siamo disposti a perseguire la via della giustizia?
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La giustizia, scriveva Hannah Arendt, è un concetto fondamentale nella vita politica e sociale, strettamente legato alla libertà e al diritto di avere diritti. Non è un mero concetto astratto, ma un’esperienza politica concreta che richiede la capacità di agire e di prendere posizione. E oggi tutti noi, tutti i giorni, siamo chiamati a questo: a prendere posizione e ad agire contro l’ingiustizia. È il nostro maggiore impegno come esseri viventi, per non essere vittime inconsapevoli delle fake news.
Commenta (0 Commenti)Modello di potere Marzano ha ragione: in una parte del pubblico laico c’è un sentimento di invidia e si fa strada l’idea che sarebbe meglio consegnare l’autorità a un consesso di saggi. Ma la logica della cooptazione che governa in Vaticano trova le sue radici in una larghissima base di massa. Oggi il problema è far crescere la ricchezza di un soggetto collettivo
La cappella Sistina per il primo conclave del terzo millennio, in una immagine del 16 aprile 2005, Città del Vaticano. ANSA/PIER PAOLO CITO
Avverto il lettore: questo articolo la prende alla lontana, ma poi giunge a parlare del recente conclave, e degli insegnamenti che possono derivarne. Da che è nata la moderna democrazia non pochi si sono affannati a sollevare dubbi sull’incompetenza e sulla volubilità delle masse: come ha scritto su queste pagine Alfio Mastropaolo, si comprese che il voto a maggioranza, di per sé, non è una difesa affidabile.
Il costituzionalismo democratico nasce appunto per porre limiti all’esercizio del potere, quand’anche questi fosse legittimato da un consenso plebiscitario. Sono, o dovrebbero essere, cose note; eppure, oggi, si sente il bisogno di richiamare questi principi basilari, nel momento in cui siamo circondati da «abbondanti miasmi autoritari» a cui le classiche difese del costituzionalismo liberale sembrano opporre sempre più fragili resistenze.
Misuriamo così la forza di un principio: la democrazia non può essere intesa come espressione diretta e immediata della volontà popolare: ha bisogno di un filtro, di ciò che a suo tempo Habermas evocò con l’immagine delle «chiuse idrauliche»; e si fonda su un processo di formazione e trasformazione delle opinioni e dei giudizi dei cittadini nel corso di un processo dialogico pubblico e quanto più inclusivo. È ciò che si intende quando si parla di democrazia «deliberativa». E il fatto, indubitabile, che tutto, o molto, oggi sembra contraddire questo modello, non implica di per sé che esso non debba essere assunto come un parametro critico per valutare la qualità delle nostre «democrazie reali».
Storicamente, le forze che potevano contare su minori risorse di potere economico e sociale hanno trovato una via per contrastare il dominio della ricchezza e del privilegio: l’organizzazione delle proprie energie collettive (partiti, sindacati, movimenti). E ci sono anche, almeno in parte, riuscite. Oggi sembra che anche questo baluardo non sia più riproponibile: non è così, non è scritto da nessuna parte che debba essere così. Ma, per poter invertire la rotta, bisogna anche condurre una battaglia culturale intorno ad alcune idee insidiose, che si fanno strada anche all’interno del pensiero democratico.
Ci offre lo spunto per discuterne un interessante articolo del sociologo Marco Marzano (su Domani del 9 maggio). Marzano ha ragione: una delle reazioni che, in una parte del pubblico laico e democratico, ha accompagnato il rituale solenne del Conclave è un sentimento di invidia e ammirazione; con un retropensiero, che giustamente Marzano deplora: «Anche tra coloro che si dichiarano inorriditi dall’avanzata delle autocrazie, dal vilipendio dei diritti e dal ritorno dei fascismi» si fa strada l’idea che del popolo non ci può più fidare e che sarebbe meglio consegnare l’autorità politica ad un consesso di saggi e di competenti, di persone colte e lungimiranti. Come appunto, in modo esemplare, è il collegio cardinalizio che ha eletto il Papa. Ed in effetti, leggendo le varie biografie apparse in questi giorni, colpisce la ricchezza e la varietà del profilo culturale di molti protagonisti.
Si è diffusa così la tentazione di rifugiarsi in una concezione epistemica della democrazia: ossia nell’idea che l’autorità non debba essere conferita ad un popolo volubile, incolto ed emotivo, ma ad una platea qualificata per saperi e competenze. È l’idea, ad esempio, che sta alla base dei cosiddetti panel di cittadini estratti a sorte: chiusi in una stanza a discutere per alcuni giorni, questi cittadini, finalmente edotti sulle scelte da compiere, si riveleranno alla fine imparziali come dei giudici e oggettivi come degli scienziati, e saranno quindi in grado di prendere «la» decisione più corretta. Ovviamente, è una strategia del tutto illusoria, eppure trova non pochi adepti.
E quindi, tornando al conclave: ben altri sono gli insegnamenti che possono derivarne. E per dirla in modo provocatorio, la procedura che vi si svolge non è per nulla oligarchica e mostra bene le virtù di un’organizzazione complessa e ramificata quale è la Chiesa. Intanto, i cardinali arrivano ad essere tali dopo un lungo processo di formazione e selezione: nella Chiesa, la logica della cooptazione, in linea di massima, funziona e trova le sue radici, ovviamente, in una larghissima «base di massa», da cui emergono via via personalità che esprimano le qualità necessarie ai compiti cui sono chiamate.
Dentro il Conclave, poi, si svolge un processo propriamente definibile come «deliberativo»: certo, contano anche le affiliazioni di potere, ma conta soprattutto il formarsi di un giudizio collettivo, la reputazione di cui ciascun candidato può godere, la stima da cui è circondato, gli equilibri da rispettare, le mediazioni da ricercare. Non è una mera «conta», insomma. E la segretezza, poi, è un requisito essenziale: anche a Philadelphia, quelli che scrissero la Costituzione americana, si impegnarono in un solenne giuramento per non rendere pubbliche le opinioni che si scambiavano. «Non sempre avremo al timone degli statisti illuminati», scrisse allora profeticamente James Madison, confidando nell’architettura costituzionale della nuova repubblica. Non sappiamo oggi se queste difese reggeranno; ma, in ogni caso, «abolire il popolo» non è la soluzione: anzi, più che mai, il problema oggi è quello di «costruirlo», questo popolo, di far crescere anche culturalmente la forza e la ricchezza di un soggetto collettivo. E non ci sono scorciatoie.
Commenta (0 Commenti)Papa Leone Il primo Papa a chiamarsi Leone era stato Leone Magno, nel V secolo d. C., un’epoca caratterizzata dalla disintegrazione dell'Impero romano d'Occidente
Il nome Leone, per il nuonvo papa, non se lo aspettavano in molti. Piuttosto, si pensava a una scelta più in linea con i papi del ‘900. Anzitutto papa Giovanni, il “papa buono” che indisse e aprì il Concilio Vaticano II e traghettò la Chiesa verso la modernità; il pontefice dell’enciclica Pacem in Terris, colui che si impegnò a scongiurare la crisi dei missili a Cuba nel 1962…
Oppure papa Paolo, in continuità con Montini, Paolo VI, che fu papa dal 1963 al 1978, subito dopo Giovanni XXIII; e che pose termine al Concilio, promosse la riforma liturgica (abolendo il rito in lingua latina e rinnovando il messale); il papa dell’enciclica Populorum Progressio, sullo sviluppo e l’emancipazione dei popoli; ma anche quello della Humanae Vitae, che chiudeva in modo netto il dibattito che da anni era stato avviato sulla contraccezione; il papa amico di Aldo Moro, che non resse alla tragedia del suo rapimento e della sua uccisione. C’era anche l’eventualità (remota ma non impossibile, visto il “peso” del pontificato di Wojtyla) di un Giovanni Paolo; oppure di un Benedetto, anche se Ratzinger si è dimesso troppo recentemente, e sulla sua figura pesa il non aver saputo o potuto guidare la Chiesa in una fase molto delicata.
IL NOME LEONE richiama invece alla memoria papa Leone XIII, il papa che portò la Chiesa cattolica nel ‘900 (morì nel 1903) e che passò alla storia per aver promulgato nel 1891 una enciclica, la Rerum Novarum, considerata la prima enciclica a carattere sociale della Chiesa, fondamento della moderna dottrina sociale. Questo documento gli valse l’appellativo di «papa dei lavoratori» e «papa sociale», nonostante l’enciclica contenesse una ferma condanna nei confronti del socialismo e della teoria della lotta di classe, oltre che della massoneria, suggerendo che datori di lavoro e lavoratori cristiani si impegnassero a formare proprie associazioni di categoria, piuttosto che aderire a organizzazioni contrarie «allo spirito cristiano e al bene pubblico».
IL PRIMO PAPA della storia a chiamarsi Leone era stato invece Leone Magno, nel V secolo d. C., un’epoca caratterizzata dalla disintegrazione dell’Impero romano d’Occidente, e dalle controversie dogmatiche in Oriente. Fermo difensore dell’ortodossia contro le correnti “ereticali” – soprattutto manicheismo e pelagianesimo – papa Leone «Magno» rafforzò l’autorevolezza e il prestigio del vescovo di Roma sugli altri vescovi. Nel 452 l’evento che lo consegnò alla leggenda: gli unni guidati da Attila, erano penetrati da più parti verso Occidente e si erano diretti in Italia: Aquileia fu assediata e distrutta e così altri centri del Veneto. Si tentò la via del negoziato e l’imperatore Valentiniano III, nell’estate 452, promosse una legazione composta da Avieno, che era stato console nel 450, Trigezio, che era stato prefetto, e papa Leone.
L’incontro avvenne sulle sponde del Mincio, non lontano da Mantova. Attila decise di rinunciare alla guerra e di ritirarsi al di là del Danubio, dopo aver promesso la pace. . L’immagine del vecchio papa che appare in abiti sacerdotali e che avrebbe irretito i barbari assalitori attraversò i secoli e fu anche rappresentata in un celebre affresco di Raffaello che si trova in una delle “stanze” da lui realizzate in Vaticano. Raffaello realizzò un’altra opera dedicata a un papa Leone: si tratta di un ritratto di Leone X, un papa appartenente alla potente famiglia dei Medici. Considerato un pontefice mite e propenso alla diplomazia, Giovanni de’ Medici fu comunque il pontefice che intervenne con la bolla Exsurge Domine per condannare alcune delle tesi di Lutero (che all’epoca era un monaco agostiniano, proprio come il papa neo eletto), minacciandolo di scomunica. Lutero ignorò la bolla e il 10 dicembre 1519 la bruciò anzi nella piazza di Wittenberg. Il 3 gennaio 1521 papa Leone X scomunicava Lutero con la bolla Decet Romanum Pontificem.
LA CHIAVE DELLA SCELTA del nome Leone da parte di Robert Francis Prevost sta forse nella sintesi contenuta in tutti questi brevi “profili”: sarà un papa “sociale”, attento ai diritti del lavoro e dei migranti; un papa ortodosso, piuttosto fermo sulle questioni teologiche e sulla difesa della morale cattolica; un papa impegnato sui temi della pace, parola che ha più volte ripetuto nel corso del suo discorso alla folla accorsa a S. Pietro. E anche un papa più tradizionale rispetto a Francesco. A metà strada, probabilmente, tra Bergoglio e Ratzinger (da cui ha recuperato l’uso della mozzetta, che Francesco non aveva mai voluto indossare)
Commenta (0 Commenti)600 giorni Dopo quasi seicento giorni di omicidi di bambini e donne e medici e giornalisti, dopo gli orrori dei tunnel, dopo l’appoggio di tutti alla destra d’Israele
Bambini a Khan Younis, Gaza foto Ap
Se qualcuno sente l’inutilità dei propri giorni e se ne chiede il motivo.
Se il nostro vivere occidentale abituato alle agende da rispettare, ai piccoli e grandi dolori, al lavoro e al riposo, alle strade da attraversare, sente che non c’è più tempo per nulla.
Chi dovesse essere afferrato dall’inanità della vita, e si dovesse chiedere ma perché? Eppure ho fatto ho detto ho sentito ho scritto, allora perché?
Allora è Gaza.
Dopo settantacinque anni di apartheid, in cui è stato possibile che tre generazioni di persone dovessero chiedere il permesso di vivere dove erano nate, chiusi dentro una striscia di terra, scusa se passo e scusa se torno, e quella terra mangiata metro dopo metro, e case profanate a una a una. Dopo due intifada, dopo che abbiamo ascoltato la poesia e il teatro palestinese, e portato la kefiah e sentito fiorire la possibilità in una stretta di mano tra Rabin e Arafat. Dopo che abbiamo chiesto che venisse riconosciuto lo stato di Palestina e abbiamo visto che non succedeva, non qui, non dappertutto, non ora (e quando dico noi intendo un noi in cui ci si dimentica chi siamo perché non è così importante).
Dopo quasi seicento giorni di omicidi di bambini e donne, e medici e giornalisti, dopo gli orrori dei tunnel, dopo l’appoggio palese o velato, politico o economico di tutti alla destra d’Israele.
Mentre ascoltiamo Netanyahu capo di stato incriminato dal tribunale de l’Aja dire che domani i palestinesi saranno ancora deportati, che i soldati israeliani entreranno per restare. Per restare dove? come? A far che? Per essere uccisi anche loro in uno scontro finale, per osservare l’ultima volta come si muore di fame e di malattia perché lì fuori hanno permesso che accadesse ancora. Che i camion si fermassero. Che il diritto internazionale non entrasse. Avevamo detto mai più e invece di nuovo.
Lì dove il capo dell’esercito israeliano si oppone al piano militare del premier e dice «non possiamo farli morire di fame».
Dove la moglie del premier abbassa gli occhi perché sa che non è vero: che gli ostaggi del 7 ottobre in vita sono meno di così e comunque cosa accade loro se domani Netanyahu entra «per restare»?
Quando «occupazione totale» non è un sintagma nominale qualsiasi perché suona nella sua costruzione così simile a «soluzione finale», e chi l’ha trovato scritto nei libri ha sperato di non sentirlo più.
Davanti alla buganvillea impolverata di Susan Abulhawa quando non c’era già più nulla da mangiare a nord – eppure fiorita.
Dopo dieci minuti di buio nelle nostre case per non sopportare la frustrazione del niente potere – ogni dieci minuti lì muore un bambino, in quei dieci minuti è morto un bambino.
Se cerchiamo di non pensarci e continuiamo a fare dire pensare attraversare le strade, soffriamo o ci dimentichiamo, agiamo o scappiamo ma i conti non ci tornano.
Allora è Gaza.
Gaza è entrata in noi, anche nel più distratto di noi. Anche in chi non crede di avere spazio per Gaza dentro di sé. Se Smotrich dice «sarà completamente distrutta» e un minuto dopo non viene afferrato e messo in vincoli, zittito e condannato, ma resta al suo posto significa che noi tutti saremo distrutti, che già lo siamo mentre guardiamo e aspettiamo.
Questo peso che ci fa camminare curvi così che gli occhi non possano guardare alcun orizzonte. Se l’orizzonte è scomparso, allora è Gaza.
Commenta (0 Commenti)Illusione democratica Come se si fosse diffusa una strana sindrome da presbiopia democratica, molti commentatori, che non esitano a inquadrare come pericoloso quanto sta accadendo lontano dai nostri confini, da ultimo in […]
La presidente del Consiglio Giorgia Meloni – foto Getty Images /Simona Granati
Come se si fosse diffusa una strana sindrome da presbiopia democratica, molti commentatori, che non esitano a inquadrare come pericoloso quanto sta accadendo lontano dai nostri confini, da ultimo in Romania, stentano a riconoscere l’esistenza di un analogo pericolo nell’Italia a guida Meloni.
È vero: diversamente dal presidente degli Stati uniti, la presidente del Consiglio italiana non sembra affetta dall’ossessione di farsi continuamente «baciare il culo» da qualcuno – si limita a fare smorfie e a strabuzzare gli occhi di fronte alle, sempre più rare, domande scomode -, ma ciò è sufficiente per considerare maggiormente equilibrata la sua azione di governo?
Tra gli obiettivi preminenti di palazzo Chigi spiccano tre riforme istituzionali il cui esito sarebbe il rovesciamento della Carta costituzionale vigente.
Oggi la formazione dell’esecutivo dipende dall’elezione del parlamento; il governo vorrebbe che la formazione del parlamento dipendesse dall’elezione del presidente del Consiglio dei ministri (non accade in alcuna democrazia al mondo).
Oggi il principio di uguaglianza è il criterio (ancorché spesso violato) che disciplina il godimento dei diritti; il governo vorrebbe che il criterio divenisse quello del luogo di residenza, a beneficio degli abitanti delle regioni più ricche. Oggi l’indipendenza dell’intera magistratura è tutelata da un organo rappresentativo dei magistrati, il Csm elettivo; il governo vorrebbe scindere il Csm in due organi formati per sorteggio, dunque non rappresentativi, uno per i giudici, l’altro per i pubblici ministeri, così aprendo le porte alla subordinazione di questi ultimi all’esecutivo (oltre che all’indebolimento della magistratura nel suo complesso).
Insomma, quel che prefigura il governo è un Paese in cui la sola elezione che conta è quella del capo del governo, i diritti dipendono dal luogo in cui si vive e la magistratura è assoggettata all’esecutivo: difficile ritenerlo un Paese in equilibrio con il dettato del costituzionalismo liberale.
Analoga è l’attitudine che emerge dalla concreta azione dell’esecutivo Meloni. Limitiamoci ad alcuni fatti (peraltro, ascrivibili a esponenti di tutti i partiti della maggioranza e apertamente rivendicati dai loro autori): la sconfessione della giustizia penale internazionale a protezione di persone accusate di crimini di guerra o contro l’umanità; il disconoscimento del primato del diritto europeo e l’intimidazione della magistratura al fine di avere mano libera nei confronti dei migranti; l’umiliazione del parlamento tramite il continuo ricorso alla decretazione d’urgenza e alla fiducia (fino al clamoroso caso del decreto cosiddetto «sicurezza», approvato scippando il parlamento della funzione legislativa); la creazione di una pletora di nuovi reati e aggravanti ai fini della repressione del dissenso politico e del disagio sociale; lo svilimento del lavoro da diritto a mero costo di produzione (con taluni provvedimenti provocatoriamente decisi durante le celebrazioni del primo maggio!); la plateale negazione delle urgenze ambientali; il discredito delle pretese fiscali dell’erario (le tasse come «pizzo di Stato») e la sconfessione della progressività dei tributi; la benevolenza verso le sempre più sfacciate manifestazioni pubbliche di matrice neofascista.
Com’è possibile che strappi tanto profondi al tessuto costituzionale non siano percepiti come un pericolo democratico? Probabilmente, per due motivi.
Il primo è l’acquiescenza meloniana nei riguardi degli equilibri economici e geopolitici europei improntati al neoliberismo finanziario, alla corsa al riarmo, alla prosecuzione delle ostilità in Ucraina: una rassicurazione decisiva per i poteri che contano.
Il secondo è la rimozione delle cause che, in larga parte del mondo, hanno portato al potere, o alla soglia del potere, la destra estrema, grazie al consenso o all’astensione delle classi popolari.
È chiaro che la ragione principale è l’abbandono delle politiche sociali legata all’appiattimento generalizzato della politica sull’agenda neoliberista. Riconoscerlo significherebbe, tuttavia, ammettere, oltre alle responsabilità delle forze democratiche nell’involuzione antidemocratica in atto, la necessità di tornare a sostenere lo Stato sociale, con la connessa redistribuzione della ricchezza dall’alto verso il basso che esso richiede. Esattamente quello che le élite, anche se democratiche, drogate da decenni di benefici inusitati, paventano.
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Papato Intervista a Daniele Menozzi, professore emerito alla Scuola Normale Superiore di Pisa
Daniele Menozzi, studioso della Chiesa e del Papato
«La durata e l’andamento del Conclave dipenderanno dal grado di convergenza sulle necessità attuali della Chiesa raggiunto all’interno delle congregazioni generali dei cardinali e poi dall’abilità dei «tessitori» di far convergere il consenso sul candidato più adatto». È la previsione di Daniele Menozzi, professore emerito alla Scuola Normale Superiore di Pisa, studioso della Chiesa e del papato in età moderna e contemporanea.
In ogni caso si riparte da papa Bergoglio. Qual è l’eredita del suo pontificato?
In termini generali si può dire che una Chiesa attestata sulla pretesa di ricondurre tutti gli ordinamenti pubblici ai «valori non negoziabili», tratti da una autoreferenziale interpretazione della legge naturale, si è trasformata in una Chiesa che fa della figura evangelica del «buon samaritano» il segno del suo rapporto con il mondo. Il volto di una Chiesa «madre misericordiosa» anziché «maestra inflessibile» si è rivelato pastoralmente efficace, anche verso chi si era allontanato. Questa linea, poi, si è tradotta in una serie di riforme.
Molte però sono rimaste incompiute.
Sì, in particolare sul piano istituzionale. Penso in primo luogo alla riforma della curia. Ad esempio l’attuazione del nuovo indirizzo dato al Dicastero per la dottrina della fede, evitare le condanne e promuovere gli studi, richiede ben altro che una pur chiarissima lettera di intenti inviata al suo prefetto.
Quali problemi restano aperti?
Ne ricorderei in particolare due, che Francesco ha esplicitamente affidato al successore: un’enciclica sulla nonviolenza attiva come risposta evangelica del cristiano alle violazioni della giustizia con le armi e la disciplina dell’istituto delle dimissioni del pontefice.
Alcuni cardinali, ma non solo loro, parlano di «ermeneutica della continuità» Giovanni Paolo II-Benedetto XVI-Francesco. Bergoglio non ha provocato nessuna rottura?
Una Chiesa che fa della tradizione una delle fonti della rivelazione non può cancellare il richiamo alla continuità. Bergoglio ha però mostrato, attraverso un approfondimento del rapporto tra dottrina e pastorale, che è possibile introdurre cambiamenti senza intaccare l’ortodossia tradizionale. Il nuovo atteggiamento verso le persone omosessuali ne è un esempio. L’ermeneutica della continuità è uno stratagemma retorico per eliminare, se possibile, questa eredità del suo pontificato.
Quali direzioni potrà prendere ora la Chiesa?
Il pontificato di Francesco ha rappresentato una ripresa di aspetti dell’aggiornamento conciliare del Vaticano II accantonato dai suoi predecessori. Basta pensare al riconoscimento ecclesiale di uno dei segni dei tempi già individuati da Giovanni XXIII: il nuovo protagonismo femminile. Bergoglio ha promosso donne a ruoli di governo dell’istituzione ecclesiastica. Può sembrare poco, ma questa scelta ha dato alla Chiesa un volto impensabile solo dieci anni fa. Il successore sarà decisivo per la ripresa e lo sviluppo di questo orientamento o al contrario il suo abbandono.
L’elezione papale può essere influenzata da alcuni Stati, a cominciare dagli Usa di Trump?
Ogni conclave ha visto l’intervento dei governi: il ruolo planetario della Santa sede lo rende inevitabile, ne è solo mutata la modalità. Nel 1904 venne cancellato il diritto, tradizionalmente attribuito al «cardinale della corona», di porre un veto all’elezione di un papa. Ne era ragione lo scandalo avvenuto nel conclave del 1903, quando, per conto dell’impero austro-ungarico, il principe-vescovo di Cracovia pose il veto sull’elezione papale del cardinal Rampolla, ritenuto filo-francese. Dal conclave successivo, i cardinali interpreti delle istanze politiche del loro Paese e gli stessi governi hanno fatto ricorso ad altri strumenti per orientare il voto: informazioni fatte filtrare ad arte sui mezzi di comunicazione o dossier recapitati agli elettori. Non ho alcun dubbio che Trump, il quale può valersi di cardinali come Dolan che condividono molte delle sue concezioni politiche, ma anche altri governanti stiano cercando di influenzare l’elezione. Che ci riescano è altro discorso: l’immagine fatta circolare da Trump nelle vesti di papa è probabilmente frutto della sua frustrazione per gli scarsi esiti delle pressioni esercitate.
Non ho alcun dubbio che Trump, ma anche altri governanti, stiano cercando di influenzare l’elezione. Che ci riescano è altro discorso
Attorno a quali linee di faglia i cardinali elettori potrebbero aggregarsi o dividersi?
Un punto di aggregazione è formato dai cardinali che hanno operato all’interno del Sinodo. Si tratta di una sessantina di elettori che per due anni si sono incontrati e hanno lavorato assieme. Impossibile una maggioranza di due terzi senza di loro. È dunque presumibile che sulla continuazione del rinnovamento della Chiesa in senso sinodale e sui suoi contenuti si giochi la partita decisiva tra i diversi orientamenti.
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