Al Cairo il negoziato sulla tregua prosegue, a Tel Aviv Netanyahu promette: nessun accordo fino alla distruzione di Hamas. Pioggia di fuoco sull’ospedale Kamal Adwan di Gaza, Israele ordina ai medici di andarsene. Papa Francesco: «Non è guerra, è crudeltà»
L'intrattabile Al centro dei negoziati il destino del valico di Rafah. Bombe e artiglieria, a Gaza attacco senza precedenti contro l’ospedale Kamal Adwan. I missili yemeniti arrivano a Tel Aviv: 20 feriti
Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu durante un sopralluogo sul monte Hermon, nel Golan occupato, con il ministro della difesa Israel Katz – Ansa
Una delegazione israeliana è giunta ieri al Cairo per riprendere la discussione su un possibile accordo di cessate il fuoco a Gaza, con scambio di ostaggi e prigionieri politici palestinesi.
Al centro dei negoziati, secondo i media qatarioti, la gestione dei confini e il controllo del valico di Rafah. Hamas e i gruppi palestinesi della Jihad Islamica e del Fronte popolare per la liberazione della Palestina hanno dichiarato di essere vicini a un accordo, sempre che Israele «non aggiunga nuove condizioni».
SI TRATTEREBBE, in ogni caso, di una tregua temporanea e non della fine della guerra. Lo ha dichiarato apertamente il premier Netanyahu in un’intervista rilasciata venerdì al Wall Street Journal: «Non accetterò di porre fine alla guerra prima di aver rimosso Hamas». Mentre il gruppo islamico spiegava in un comunicato di aver discusso con le altre fazioni palestinesi del governo del dopoguerra, il primo ministro israeliano dichiarava che non c’è spazio per Hamas nella Striscia: «Non li lasceremo al potere a Gaza, a trenta miglia da Tel Aviv. Non succederà».
Nell’intervista traspare tutta la fiducia del governo di Tel Aviv sull’impegno del nuovo presidente Usa Donald Trump per garantire il proseguimento della guerra: «I rinforzi sono in arrivo», ha dichiarato, riferendosi all’invio di armi. Da utilizzare sui diversi fronti, anche in Libano se Hezbollah dovesse «voler continuare» il confronto.
Al momento i pericoli maggiori in termini di perdite militari per Israele sono a Gaza, mentre gli Houthi stanno mettendo a dura prova la sicurezza della popolazione civile: nella mattinata di ieri un missile balistico partito dallo Yemen ha colpito l’area di Tel Aviv. I sistemi di difesa non sono riusciti a intercettarlo e circa venti persone sono rimaste ferite. Dall’inizio della guerra gli Houthi hanno lanciato più di 200 missili e 170 droni.
Intanto, diverse fonti riportano notizie di un’ulteriore escalation delle operazioni israeliane nel nord di Gaza, soprattutto nell’area
Leggi tutto: Al Cairo si dialoga, Netanyahu frena: «Il conflitto non finirà» - di Eliana Riva *
Commenta (0 Commenti)Egregio Ministro, Le scrivo di nuovo dalla desolazione della “trincea”: quella in cui ogni giorno, con le studentesse e gli studenti, combattiamo l’eterna guerra contro la semplificazione e la superficialità. Oggi, però, le scrivo per ringraziarla delle Linee guida sull’insegnamento dell’educazione civica che ci ha inviato all’inizio dell’anno scolastico. Da oggi abbiamo un punto fermo nel nostro lavoro di docenti ed educatori: ci dirigeremo nella direzione esattamente opposta a quanto ci indica.
L’educazione civica, secondo lei deve «incoraggiare lo spirito di imprenditorialità, nella consapevolezza dell’importanza della proprietà privata». In modo quasi ossessivo nel documento traccia l’idea di una sorta di “educazione alla proprietà ”. Ma cosa dovremmo farci di questo slogan vuoto? Stiamo oltrepassando finanche il senso del ridicolo, andando oltre la teoria delle tre “i” di berlusconiana memoria (inglese, impresa, internet).
Ai nostri studenti, signor Ministro, l’articolo 42 della Costituzione lo leggiamo e lo spieghiamo: «La proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge […] allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti. La proprietà privata può essere [..] espropriata per motivi di interesse generale “. Dice proprio questo la Costituzione! Però non si ispira a Pol Pot ma alla dottrina sociale della Chiesa, al cristianesimo sociale di Giorgio La Pira e Giuseppe Dossetti.
Nelle Linee guida Lei continua, poi, con l’affermazione di sapore thatcheriano, ma in realtà generica e vuota quanto la prima, per cui dovremmo insegnare che «la società è in funzione dell’individuo (e non viceversa)». Vede Ministro, se le dovesse capitare di sfogliare la Costituzione italiana scoprirebbe che il termine “individuo” semplicemente non compare. E questo perché la rinuncia a questo concetto (l’angusto “io” paleo-liberale chiuso nella rivendicazione egoistica dei propri diritti) faceva parte del patto tra i social- comunisti e i cattolici democratici, che lo sostituiscono con la nozione di “persona” che indica «il singolo nelle formazioni sociali» in cui solo si può realizzare.
La questione della patria, che lei intende come appartenenza identitaria e suggerisce di mettere al centro dell’educazione civica, merita da sola una prossima lettera. Mi consenta però di farle notare che, se sfogliasse la Costituzione, scoprirebbe che il termine “patria” compare solo una volta (perché Mussolini lo aveva profanato e disonorato) e per di più non ha niente a che fare con “i sacri confini nazionali” da difendere o l’italianità quale identità da salvaguardare contro la minaccia della sostituzione etnica.
La patria è il patrimonio dei padri e delle madri costituenti, vale a dire le istituzioni democratiche non separabili dai valori costituzionali: l’eguaglianza, la libertà, la pace, la giustizia, il diritto di asilo per lo straniero «che non ha garantite le libertà democratiche» . I patrioti non sono quelli che impediscono lo sbarco dei migranti, ma coloro che ogni giorno testimoniano il rifiuto della discriminazione . Cosi come patrioti non erano i fascisti che hanno svenduto la patria a Hitler e l’hanno profanata costringendo milioni di italiani ad offendere altre patrie, ma i membri dei GAP (che non erano i “gruppi di azione proletaria” come ebbe a dire, per dileggio, Berlusconi), ma i “gruppi di azione patriottica (appunto), che operavano nella Brigate Garibaldi dei patrioti comunisti italiani, protagonisti della Resistenza quale secondo Risorgimento.
Ci consenta di formare i nostri studenti ispirandoci a chi di patria si intendeva: non a Julius Evola o Giorgio Almirante, ma a Giuseppe Mazzini che ha ripetuto per tutta la vita che la patria non è un suolo da difendere avidamente ma una «dimora di libertà e uguaglianza» aperta a tutti: «Non vi è patria dove l’eguaglianza dei diritti è violata dall’esistenza di caste, privilegi, ineguaglianze. In nome del vostro amore di patria, combattete senza tregua l’esistenza di ogni privilegio, di ogni diseguaglianza sul suolo che vi ha dato vita. (Dei doveri dell’uomo). Mazzini non contrapponeva la patria all’umanità, ma la considerava il mezzo più efficace per tutelare la dignità di ogni essere umano: «I primi vostri doveri, primi almeno per importanza, sono verso l’ Umanità. Siete uomini prima di essere cittadini o padri. […] In qualunque terra voi siate, dovunque un uomo combatte per il diritto, per il giusto, per il vero, ivi è un vostro fratello: dovunque un uomo soffre, tormentato dall’errore, dall’ingiustizia, dalla tirannide, ivi è un vostro fratello. Liberi e schiavi, siete tutti fratelli. (Dei doveri dell’uomo)
E ci consenta, da educatori democratici, di trascurare le sue Linee guida, per illuminare le coscienze dei giovani con le parole di don Milani: «Se voi avete il diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri, allora vi dirò che, nel vostro senso, io non ho Patria e reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall’altro. Gli uni sono la mia Patria, gli altri i miei stranieri».
Egregio Ministro, dal momento che la costruzione di una cittadinanza consapevole avviene anche attraverso l’esercizio della memoria storica e civile, Lei ci ha inviato a una circolare con cui ha bandito un concorso per le scuole con lo scopo di celebrare la «Giornata Nazionale delle Vittime Civili delle Guerre e dei Conflitti nel Mondo». Il titolo del concorso: «1945: la guerra è finita!»
Incredibile! Il 25 aprile 1945 che, prima dell’era Valditara, era semplicemente e banalmente la «liberazione dal nazifascismo» ora diventa un momento della «Giornata Nazionale delle Vittime Civili delle Guerre e dei Conflitti nel Mondo». Cosa dovrebbero ricordare le giovani generazioni nella sua bizzarra idea di memoria civile? Ecco il suo testo: «il popolo che ha subito sulla propria pelle gli orrori di quel tremendo conflitto, dai bombardamenti degli alleati alle rappresaglie nazifasciste [equiparati !] fino agli ordigni bellici inesplosi che, nei decenni a venire, hanno continuato a produrre invalidità e mutilazioni». E tutto per andare «al di là della tradizionale lettura vincitori-vinti», opposizione che attentamente sostituisce quella di antifascisti/liberatori e fascisti.
Si tratta dunque, secondo lei, di ricordare una guerra tra tante, quasi un ineluttabile evento naturale in cui tutti sono cattivi (i liberatori, gli aguzzini e i partigiani) e dunque tutti ugualmente assolti nel tribunale della neostoria.
Del resto, Ministro, devo darle atto di una certa garbata compostezza sulla memoria del 25 aprile. La sua sottosegretaria (la nostra sottosegretaria all’Istruzione) Paola Frassinetti la Festa della Liberazione l’ha festeggiata al campo 10 del Cimitero maggiore di Milano per onorare i volontari italiani delle SS. E’ immortalata in un video in mezzo a un drappello di camerati che sfidano, tra insulti e minacce, alcuni manifestanti antifascisti. Frassinetti si lascia andare alla rabbia ed esclama “ma vai aff…”. Sempre a proposito di Linee guida per l’educazione civica… Da sottosegretaria del suo Ministero Paola Frassinetti, il 28 ottobre del 2024, anniversario della marcia su Roma, ha celebrato il “fascismo immenso e rosso”.
Capisce, signor Ministro, perché ci sentiamo soli nella trincea? E perché le ho detto che è “passato al nemico” (il nemico è la parzialità, la manipolazione, la contrapposizione faziosa). Ma noi siamo combattenti testardi. Non avendo capi politici da lusingare, la nostra coscienza e la Costituzione antifascista sono le nostre uniche e inderogabili “linee guida” da seguire nel formare cittadine e cittadini liberi e consapevoli.
Egregio Ministro, spero che queste parole non mi costino quella decurtazione dello stipendio che ha inflitto a un mio collega per aver pronunciato delle parole che Lei non ha gradito.
Sarebbe non solo grave ma anche di cattivo gusto anche perché di recente insieme ad altri ministri lei lo stipendio ha cercato di aumentarselo.
P. S.
Le sue Linee guida stanno conseguendo i primi risultati. Qualche giorno fa uno studente che aveva studiato la divisione dei poteri di Montesquieu ha osservato che se un ministro fa una manifestazione sotto un tribunale per difendere un altro ministro sotto processo viola la separazione dei poteri. Aggiungendo che un ministro non è un semplice cittadino ma un membro dell’esecutivo, cioè di un potere dello stato. Gli ho risposto che ha ragione e gli ho dato un ottimo voto in educazione civica.
Con cordialità
Giancarlo Burghi
Migranti Intervista all'ordinaria di Diritto Ue presso l'università di Firenze. «La sentenza afferma un principio diametralmente opposto a quello sostenuto da esecutivo e avvocatura dello Stato: quella lista non è un atto politico, dunque è sindacabile dai giudici», afferma la docente
Chiara Favilli, ordinaria di Diritto Ue presso l'università di Firenze
Forse 40 pagine erano troppe o forse qualcuno preferisce fidarsi delle veline del governo. Fatto sta che ieri si è letta e sentita una singolare interpretazione della sentenza sui «paesi sicuri» resa pubblica giovedì dalla Cassazione: è favorevole all’esecutivo. «In realtà va in direzione opposta», dice Chiara Favilli, ordinaria di Diritto Ue all’università di Firenze e direttrice della rivista Diritto, immigrazione e cittadinanza.
La Cassazione ha dato ragione al governo?
No, ha affermato un principio diametralmente opposto a quello sostenuto dal governo nelle scorse settimane e dall’avvocatura dello Stato in questo ricorso. Loro dicevano che la qualificazione di un paese come sicuro è una prerogativa governativa ed è un atto politico. La Cassazione ha affermato che sì spetta al governo ma non è un atto politico, come ad esempio tessere relazioni diplomatiche o scegliere partner commerciali. L’elenco dei paesi di origine sicuri, invece, è un atto caratterizzato da discrezionalità tecnica: i requisiti sono previsti dalla direttiva 32/2013 e dalla legge italiana. Quindi sussiste il sindacato giurisdizionale, ovvero il potere del giudice di pronunciarsi sull’atto.
La sentenza dice che il giudice può solo disapplicare l’atto amministrativo, non annullarlo. Un punto a favore dell’esecutivo?
Un punto a favore della legalità costituzionale. È assolutamente pacifico, la dottrina e la giurisprudenza lo hanno ampiamente affermato nel secolo scorso, che un giudice deve disapplicare un atto amministrativo che ritiene non conforme alla legge ma questo rimane comunque in vigore. Il giudice di merito ordinario non ha il potere di annullarlo. Cosa che potrebbe fare un tribunale amministrativo, che però in questa vicenda giuridica non può essere chiamato in causa, oppure la Corte costituzionale, nel caso di una legge.
A proposito di questa distinzione. L’elenco dei «paesi sicuri» su cui si è pronunciata la Cassazione era un atto amministrativo, ora è stato inserito in una norma primaria. I principi affermati dalla sentenza già non valgono più?
No, perché i principi riguardano più fasi e aspetti del sindacato giurisdizionale. In primis la Corte afferma che la qualificazione del paese come sicuro è un atto politico, a prescindere dalla veste giuridica. Quindi il potere del giudice rimane comunque, anche con la legge. Certo qualcosa cambia. Non essendo più un decreto interministeriale non si può parlare di disapplicazione dell’atto amministrativo. Si può però ipotizzare la disapplicazione della legge se ritenuta in con la direttiva Ue. Dal punto di vista giuridico non esiste alcun ostacolo a che i giudici traslino i principi stabiliti e li applichino al nuovo ambiente normativo. Inoltre, trattandosi di una legge, il magistrato potrebbe anche sollevare una questione di legittimità costituzionale davanti alla Consulta. Questa è una nuova possibilità che si apre, con il decreto precedente non era possibile.
La Cassazione ha ribadito che spetta al governo stilare la lista paesi sicuri. I giudici chiedevano di scriverla loro?
Questo non è mai stato ventilato, in nessun provvedimento o commento giuridico. Neanche in quelli più critici verso l’esecutivo. La direttiva Ue attuale e il Regolamento che sarà in vigore dal 2026 sono chiarissimi: è il governo, o l’autorità da esso individuata, a stilare l’elenco. Il giudice deve invece verificare che quelle scelte rispettino i requisiti previsti dalla legge.
Resta il fatto che secondo la sentenza il giudice può valutare solo caso per caso. Si riferisce solo ai singoli richiedenti asilo, con le loro storie, o anche ai paesi ritenuti sicuri, quindi alla stessa presenza nell’elenco?
Questo punto è importante. Dobbiamo distinguere le diverse fasi. Prima di tutto la Cassazione afferma che il sindacato giurisdizionale c’è. Poi indica su cosa verte. I profili sono due. Il primo riguarda la qualificazione di un paese come sicuro in via generale. È possibile considerare tale l’Egitto? Il giudice deve stabilirlo ex nunc, nel momento in cui esamina il ricorso di una persona per capire se è stata pregiudicata la tutela effettiva dei suoi diritti. Se ritiene la classificazione illegittima deve disapplicare: così il richiedente seguirà la procedura d’asilo ordinaria. C’è poi il secondo profilo. Se il giudice ritiene che la qualificazione del paese come sicuro è corretta, ma la persona è minacciata per la sua situazione specifica, dispone comunque la procedura ordinaria. Senza bisogno di disapplicare. Ma la Cassazione si è espressa sulla prima ipotesi, la seconda è pacifica: è nella direttiva e nella legge, nessuno la contesta.
La sentenza avrà ripercussioni sul progetto Albania?
Questa decisione, che conferma la legittimità dell’operato dei giudici, nasce da un ricorso contro un diniego dell’asilo. Su quelli relativi ai trattenimenti la Cassazione non si è ancora espressa. Siamo in attesa del responso. Mi pare però difficile possa affermare principi completamente diversi. Comunque la cosa più probabile è che sospenda in attesa della sentenza della Corte europea attesa per la primavera.
Politica e giustizia Resuscitare politicamente Matteo Salvini resta un’impresa difficile, ma il processo di Palermo dal quale ieri sera è emerso candido come un giglio darà il suo contributo. Ennesima prova che la […]
Resuscitare politicamente Matteo Salvini resta un’impresa difficile, ma il processo di Palermo dal quale ieri sera è emerso candido come un giglio darà il suo contributo. Ennesima prova che la correzione dei torti politici per via giudiziaria non è solo inefficace ma anche controproducente. Il nostro paese dovrebbe conoscere a memoria questa storia, nella quale però puntualmente ricasca.
Certo, non è una buona notizia per nessun cittadino dotato di elementare spirito democratico apprendere all’ora di cena che per un tribunale della Repubblica tenere forzatamente a bordo 147 persone in stato di sofferenza per 19 giorni, impedendo loro di sbarcare a terra, non è contrario alla legge. Essendo evidentemente contrario a tante altre cose più immediate, dal raziocinio al senso di umanità. Ma è notizia assai peggiore che questo infame comportamento sia meritevole, per tanti, di quel consenso politico in forza del quale si governano il nostro paese e un bel po’ del civilizzato Occidente. E questo non ce lo doveva dire, ieri sera, il tribunale di Palermo.
La giustizia penale è un fatto tecnico, la verità processuale non è quella storico politica che talvolta è migliore e talvolta peggiore. In un’aula di tribunale si può, carte e mail dell’ex presidente del Consiglio Conte alla mano, sostenere che Salvini ha fatto tutto da solo quando – per due volte – ha tenuto i migranti, molte donne e molti bambini, legati alla banchina a impazzire sotto il sole per giorni. In qualsiasi altro consesso dotato di memoria non si può invece dimenticare quanto ci tenessero i 5 Stelle, alleati di governo della Lega, a rivendicare anche loro la linea durissima contro i migranti e quanto condividessero la vile retorica della difesa dei confini.
Adesso, almeno, Salvini non potrà fare il martire, lui che su questa presunta salita al patibolo stava politicamente campando da anni, un video e un tweet dopo l’altro. Gli mancherà un argomento, ma lo sostituirà con un altro più pericoloso ancora, e cioè che d’ora in avanti sarà lecito e più semplice negare lo sbarco alle navi che soccorrono i migranti, senza bisogno di tenerle in mare a navigare verso i porti più lontani. Naturalmente non è così, proprio perché questo processo penale ha giudicato un singolo episodio amministrativo e due specifiche accuse. Ma è vano sperare in un discorso razionale, soprattutto da parte di Salvini.
Anche perché, altrimenti, questo processo dimostrerebbe innanzitutto alla maggioranza di governo, impegnata in una guerra contro la magistratura e la sua indipendenza, che quella delle toghe rosse e politicizzate è una favola. E che non c’è quel totale appiattimento dei giudici sui pubblici ministeri, in forza del quale sarebbe necessaria la definitiva separazione delle carriere.
Nessun tribunale richiamerà mai l’incoerenza di un ministro che rivendica le sofferenze imposte con il suo blocco a 147 persone fragili e in fuga e il contemporaneo disegno di legge sicurezza che punisce con anni di galera chi con il suo semplice corpo prova a non farsi trascinare via da un agente. Nessun giudice condannerà La Russa per aver rubato la voce a quel vecchio busto che aveva in casa per rispondere al Consiglio d’Europa che non si intromettesse nelle nostre autarchiche violazioni dello stato di diritto. Per quello c’è solo la politica, o dovrebbe esserci.
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Congresso Fuori dai radar mediatici, si sta svolgendo in queste settimane il congresso di Rifondazione comunista. E meritano attenzione i termini del duro scontro in atto, non solo per le sorti del partito, ma anche per le implicazioni più generali che suggeriscono
Fuori dai radar mediatici, si sta svolgendo in queste settimane il congresso di Rifondazione comunista. E meritano attenzione i termini del duro scontro in atto, non solo per le sorti del partito, ma anche per le implicazioni più generali che suggeriscono.
«Il congresso più difficile della nostra storia, in cui è in gioco l’esistenza stessa di Rifondazione comunista», si legge in apertura del documento firmato dal segretario uscente, Maurizio Acerbo; altrettanto severi i toni del documento alternativo, firmato tra gli altri da Paolo Ferrero: «Per rilanciare il Partito è necessario fare i conti con la nostra debolezza», dovuta «innanzitutto all’attuale assenza di una prospettiva politica chiara, di un ruolo da svolgere nell’Italia di oggi».
Ora, lasciando da parte gli aspetti retrospettivi, su cui i documenti si soffermano con ricostruzioni divergenti del passato, si può individuare la linea discriminante della discussione: il rapporto tra identità e autonomia del partito, da un lato, e le possibili alleanze politiche, dall’altro.
Da una parte (tesi Acerbo) si denuncia come, nell’altro documento, il rilancio del Prc sia prospettato solo «in un ripiegamento settario, nel rifiuto pregiudiziale di ogni possibile alleanza» e «nell’isolamento identitario»; e si oppone a ciò, una «riscoperta del ruolo della politica, condizione indispensabile per superare, in ogni situazione, le condizioni dello stato presente e fare muovere le cose in avanti».
Nell’altro documento, si sostiene invece che, qualsiasi strategia di alleanze debba essere subordinata alla «modifica dei rapporti di forza dentro le opposizioni», e si assume come esempio il caso francese di Mélenchon che, «da oltre un decennio», ha lavorato a costruire una sinistra di alternativa, «rifiutando ad ogni livello accordi con il partito socialista», e che «solo dopo aver ribaltato i rapporti di forza elettorali con il partito socialista nelle elezioni presidenziali», ha poi proposto e costruito l’unità della sinistra.
Naturalmente, non spetta a chi scrive schierarsi per una o l’altra di queste tesi. Sono possibili però alcune considerazioni di ordine più generale, a partire da una domanda: è possibile uscire dalla gabbia concettuale secondo cui «le alleanze» sono la cartina di tornasole, il metro di misura, della propria identità? Per dirla, in termini più spicci, è proprio vero che, in politica, si possa applicare il detto «dimmi con chi vai e ti dirò chi sei?».
Quando si ha una propria identità politica, forte di una propria autonomia culturale, non si teme la contaminazione, la questione delle alleanze perde il suo carattere pregiudiziale, e si apre la via ad una prassi di possibili mediazioni sul piano programmatico. Nessuno, ovviamente, può sostenere alleanze apertamente contraddittorie con il proprio profilo, ma si può e si deve distinguere tra le finalità generali che una forza politica si propone e i passaggi a breve e medio termine che possono essere compiuti. Non regge una visione esclusivista delle proprie «verità»: nell’ambito delle forze democratiche e di sinistra vi è un pluralismo costitutivo di idee e nessuno può ergersi a portatore della linea «giusta».
Ma c’è anche un secondo elemento, specifico della situazione italiana: giustamente, nei documenti citati, si denuncia la logica perversa del maggioritario che domina da anni nella politica del nostro paese. Il paradosso, tuttavia, è che si rimane subalterni a questa logica quando il tema delle alleanze viene ad assumere un’indebita centralità, e soprattutto quando si ignora la necessaria distinzione tra il piano degli accordi elettorali e il piano delle alleanze politico-programmatiche e della proposta di governo. Specie in presenza di un sistema elettorale come quello oggi vigente in Italia, è possibile, – e credo sarà doveroso – sfruttarne i meccanismi e realizzare forme di coordinamento tra il più ampio possibile arco di forze democratiche. Accordi che puntino a neutralizzare proprio gli effetti distorsivi del maggioritario. Con un obiettivo politico, che molti tendono colpevolmente a sottovalutare: impedire quanto meno che, come nel 2022, la destra – capace sempre di compattarsi – ottenga una super-maggioranza in grado, come i fatti stanno dimostrando, di mettere ulteriormente a repentaglio i fondamenti costituzionali della nostra democrazia; e, perché no, provare anche a determinare nuovi rapporti di forza in parlamento. Vi pare poco?
Attorno a questo obiettivo possono convergere forze molto diverse: da quelle che si pongono un orizzonte rivoluzionario a quelle che vogliono difendere i principi del costituzionalismo liberal-democratico. E se si ritiene, come alcuni sostengono con buone ragioni, che sia necessario anche il «centro», perché mai le forze della sinistra radicale dovrebbe essere escluse, o auto-escludersi, o che non possano finalmente provare ad avere una propria rappresentanza parlamentare?
Ho l’impressione che tra gli elettori di sinistra ci sia una certa stanchezza e ritrosia ad intraprendere l’ennesima «traversata nel deserto»; nel deserto, si sa, si incontrano poche oasi e molti miraggi.
L’inverno di Kiev Pesa l’effetto Trump. Il presidente ucraino di fatto accetta la divisione (forse per molti anni) del Paese che è esausto: son più di 100mila i soldati ucraini incriminati per diserzione
I militari ucraini in una trincea in prima linea, vicino a Bakhmut, regione di Donetsk foto Efrem Lukatsky/Ap
Come c’erano una volta due Germanie, ci saranno due Ucraine. Zelenski riconosce ora quello che la gran parte dei governi occidentali, a cominciare da quello americano, pensa da tempo: l’esercito ucraino non ha i mezzi militari né gli uomini necessari per riconquistare la Crimea e il Donbass. E non li ha mai avuti già dal 2014.
Quando la Russia, con i ribelli filorussi – e anni di guerra civile -, occupò quei territori. Era solo la metà dell’ottobre scorso quando Zelenski presentava il suo «piano per la vittoria», adesso ha ammesso, in videoconferenza con i lettori del quotidiano Le Parisien, che l’Ucraina «non ha la forza di riconquistare la Crimea e il Donbass, de facto – ha dichiarato – questi territori sono controllati dai russi. Possiamo contare solo sulla pressione diplomatica della comunità internazionale per costringere Putin al tavolo dei negoziati».
GLI UCRAINI DEVONO dunque prepararsi a cedere almeno una parte di quel 20% conquistato con la forza dai russi, questo è il messaggio. Zelenski ne ha preso atto, anche se poi bisognerà capire che cosa si debba intendere per “Donbass”, se tutto il territorio occupato tra il 2022 e il 2024 o solo i distretti di Donetsk e Lugansk controllati da Mosca fin dal 2014. Ma di fatto il presidente ucraino accetta che il Paese sarà diviso in due parti per alcuni anni (forse per molti anni) con una formula transitoria, almeno finché al potere a Mosca ci sarà questo regime. Con l’elezione di Trump, Kiev ha capito che rischiava di essere abbandonata al suo destino, come dimostrava il tweet volgare con cui il figlio del presidente eletto statunitense paragonava gli aiuti a un paese aggredito a una «paghetta» per Zelensky.
ORMAI SONO cambiati i termini della questione ucraina. Dopo gli annunci roboanti, sotto l’effetto Trump siamo passati dalla questione dei territori a quella della sicurezza. L’Ucraina aveva posto il ripristino della sovranità piena come condizione imprescindibile per mettere fine alla guerra ma il rapporto di forze sul campo, diventato sempre più favorevole alla Russia che continua a bombardare a tutto spiano anche i civili, ha reso questa ipotesi di fatto impossibile, sicuramente molto lontana e costosa in termini di vite umane e di sostegno economico occidentale. Oggi l’Ucraina sa che dovrà sacrificare i territori conquistati dalla Russia in attesa di giorni migliori, in uno scenario che ricorda appunto le due Germanie (separate per decenni ma che alla fine si sono riunite).
L’UCRAINA, in cambio dei sacrifici territoriali, chiede reali garanzie di sicurezza, in modo da assicurarsi che il conflitto non riprenda non appena l’Occidente volterà le spalle. Quali potrebbero essere queste garanzie? L’adesione dell’Ucraina alla Nato sarebbe la garanzia suprema, grazie all’articolo 5 che prevede la solidarietà automatica in caso di aggressione. Ma Putin non lo accetterà mai e Trump è della stessa opinione. Si sta discutendo quindi un’altra opzione: lo schieramento in Ucraina di truppe dei paesi Nato che agiscano indipendentemente e offrano una garanzia concreta di difesa della sovranità del paese, oppure quella di truppe europee ma sotto l’egida delle Nazioni unite.Il fatto che i leader europei ne parlino è già un passo avanti ma non a tutti piacciono questi discorsi. Il segretario generale della Nato, Mark Rutte, ha affermato che «concentrarsi sui negoziati di pace aiuta la Russia».
A RUTTE, CHE DEVE essere uno stratega da divano, deve essere sfuggito qualche passaggio, dall’arrivo alla Casa bianca di un presidente che si è vantato di poter risolvere la guerra in Ucraina nell’arco di 24 ore, ma soprattutto che l’Ucraina è un Paese esausto. Nei primi 10 mesi di quest’anno hanno disertato più soldati ucraini che nei due anni precedenti di guerra, il che evidenzia la difficoltà di Kiev nel ricostituire la prima linea mentre la Russia conquista sempre più territorio nell’Ucraina orientale: più di 100mila soldati sono stati incriminati in base alle leggi sulla diserzione in Ucraina dall’invasione della Russia nel 2022, secondo i dati del procuratore generale di Kiev. Anche i russi sono stanchi di guerra e la crisi economica morde ma Putin conta sui mercenari e persino sulle truppe nordcoreane.
RUTTE, CHE IERI era a cena con Zelesnki a Bruxellex dove si svolgeva un vertice ristretto sull’Ucraina, continua a insistere che bisogna prepararsi alla guerra, all’aumento delle spese militari anche a costo di tagliare le spese per il welfare: ma forse dal presidente ucraino questa volta sentirà una musica un pò diversa. Perché lo stesso Zelesnki non appare più tanto saldo in sella. L’attentato che ha eliminato a Mosca il generale Kirillov rivendicato dall’Sbu, i servizi di sicurezza ucraini, significa che l’Ucraina vuole portare la guerra nel cuore della società russa, in modo che anche la popolazione russa ne subisca gli effetti in un momento in cui le città sono bombardate quotidianamente da Mosca. Ma mentre si attende la rappresaglia di Mosca – che ha arrestato per l’assassinio un giovane uzbeko – Zelenski ha già alzato la posta: ora dovrà far accettare l’esistenza di due Ucraine, un cambio di rotta vertiginoso che può costargli caro.
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