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Viaggio a Roma La torsione autoritaria di cui sono propugnatori il presidente americano e il suo vice Vance è abbracciata da correnti di cattolicesimo postliberale americano

Gli Usa di Trump esportano la teologia della guerra Illustrazione – Getty Images

Donald Trump atteso a Roma, mentre per la prima volta Putin apre ad un negoziato diretto con «il regime di Kiev». Già il vicepresidente Vance, a cui sono affidate le provocatorie azioni di comunicazione, aveva portato la sfida nel cuore della Capitale; Giorgia Meloni lo ha accolto con grande favore. Convertitosi a 35 anni nel segno di un «Gesù maestoso» che non è il Gesù degli ultimi, Vance si era già scontrato con la dottrina del Papa in tema di umanitario e deportazioni.

Nelle sue ultime ore fra i fedeli Francesco non si risparmiava, con richiami di stretta rilevanza per l’agenda politica internazionale, condannando il disprezzo verso i migranti e ricordando che non c’è pace senza disarmo. Stemperando l’idea di uno scontro frontale fra Washington e Santa Sede, Francesco ha poi concesso a Vance un breve incontro fotografabile, omaggiandone i figli con due uova di cioccolato da supermercato.

Il problema è che la pace, più volte annunciata dai Maga come pratica da sbrigare in fretta, non è arrivata né Ucraina, né a Gaza, né in nessun altro scenario di guerra. Il giorno di venerdi Santo, il segretario di stato Usa Rubio aveva descritto la Casa bianca pronta a staccare la spina e abbandonare gli sforzi di mediazione. Incontrando a Parigi i leader europei, ed incassando l’accordo ucraino sulle famose terre rare, Rubio aveva ribadito che il presidente Trump è ancora – bontà sua – interessato alla pace, ma ha molte altre priorità, ed è dunque pronto a passare ad altre occupazioni.

Nelle sue ultime ore, Francesco ha ripetuto i suoi richiami di stretta rilevanza per l’agenda politica internazionale, ricordando che non c’è pace senza disarmo

Questa tattica che non può sorprendere. Per quanto gli Usa abbiano ripreso tutti i talking point della propaganda russa – inventandosi persino un «cessate il fuoco parziale» sulle sole infrastrutture energetiche – il tavolo delle trattative non si è avvicinato. Allo stesso tempo, come ha chiarito Zelensky, le forniture militari Usa sono ormai praticamente a zero. Se la linea difensiva ucraina regge, nonostante le difficoltà a mobilitare uomini, è perché gli ucraini hanno ancora dotazioni militari che consentono di arginare l’offensiva. Ma nelle ultime settimane e nelle ultime ore l’intensità della guerra non è diminuita. Il massacro di civili della domenica delle Palme, con i missili russi lanciati in double tap sui civili a Sumy, ci ricorda che Putin, grazie alla compiacenza di Washington, può alzare in ogni momento il prezzo del tavolo negoziale.

Il Cremlino, per parte sua, aspetta che la produzione militare ucraina e le forniture europee non saranno sufficienti a compensare il venir meno delle armi americane. Questione di settimane, qualche mese al massimo. Mosca ha dunque l’interesse a tenere la fase negoziale in stallo, mascherando risultati a dir poco elusivi con compiacenza di ritorno verso la Casa bianca, comunque in sintonia ideologica.

Il punto è che, centinaia di migliaia di morti dopo, Washington ha sposato la narrazione di Mosca, ma Mosca non ha rinunciato a nessuno degli obiettivi enunciati all’inizio dell’invasione. Non solo: Putin ci ha tenuto a ricordare che la guerra non potrà finire «finché non ne verranno risolte le cause profonde». Una formula che rimanda alle architetture di sicurezza europee, ancorate all’alleanza atlantica. Nulla può corrispondere meglio agli obiettivi perseguiti da Putin che un’America che si ritira da presidi che non ritiene più strategici (ad esempio l’Africa, secondo le indiscrezioni riportate dalla stampa americana), e di un’Europa che finisce priva di garanzie sul piano della deterrenza nucleare.

Detto più chiaramente, l’obiettivo strategico del Cremlino, in un ordine internazionale da riconfigurare sulla base di intesa ideologica, è negoziare l’Europa direttamente con Washington, con la voce degli europei all’angolo, priva di credibilità, e gli ucraini come residuo ormai invisibile. Trump è visto come null’altro che l’acceleratore di una dinamica di fondo già in atto: lo spostamento del baricentro degli interessi strategici americani verso la regione indo-pacifica (la Cina, ma non solo), con conseguente alleggerimento della propria presenza nel Mediterraneo e in Europa.

Trump e accoliti vedono la Nato, fondata sulla preservazione dello status quo geopolitico, come un sistema che abusa della fiducia americana. In questo quadro vanno letti gli attacchi di Vance ai valori della liberaldemocrazia europea, l’endorsement dato alle forze di estrema destra, e – più in profondità – l’appoggio ad operazioni di influenza a più lungo termine, incluse quelle che passano per le organizzazioni cattoliche più conservatrici. Le stesse impegnate, anche in vista del Conclave, a cancellare l’azione di Francesco, il papa che ha visto nella guerra in Ucraina, come in ogni guerra, una guerra civile. Che denunciato il terrorismo contro i palestinesi di Gaza. Che ha incontrato i signori della guerra nel Sud Sudan, gettandosi ai loro piedi perché fermassero i massacri.

L’Occidente che conoscevamo, qualunque cosa esso fosse, non esiste più davanti alla sfida del resto del mondo che cresce, e al tentativo di militarizzarne gli esiti. Gli stessi leader europei ce lo ricordano, quando disegnano un futuro di nazioni armate, guerre per l’egemonia e paci imperiali.

La torsione illiberale e autoritaria di cui è propugnatore Vance è predicata su una teologia della guerra che è abbracciata da correnti di cattolicesimo postliberale nordamericano, ben oltre i temi del tradizionalismo reazionario: un’umanità precipitata in una battaglia esistenziale, dove il popolo che crede in una «divinità maestosa» accetta la violenza come necessaria. L’Italia di Meloni sembra candidarsi a fungere da apriporta. La teologia della pace di Francesco ci lascia molto su cui riflettere.

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Fratello solo Intervista a monsignor Gian Carlo Perego, presidente della Fondazione Migrantes: «I governi non l’hanno mai ascoltato, e a volte lo hanno criticato apertamente»

La visita nel 2013 di Papa Francesco a Lampedusa foto Alessandra Tarantino/Ap La visita nel 2013 di Papa Francesco a Lampedusa foto Alessandra Tarantino – Ap

Monsignor Gian Carlo Perego, arcivescovo di Ferrara e presidente della Fondazione Migrantes della Cei. Dal primo viaggio a Lampedusa fino agli ultimi giorni di Pontificato. Quanto ha pesato nel magistero di Papa Francesco il tema dei migranti?
È stato uno dei temi che ha costituito una sorta di leit motiv che ha attraversato tutto il pontificato, fino all’ultimo messaggio urbi et orbi del giorno di Pasqua. Contro una cultura politica che esaltava i muri, i respingimenti, in forme che disprezzano anche la dignità umana, Francesco nell’esortazione apostolica Evangelii Gaudium del 2013, quasi un programma che ha consegnato alla Chiesa italiana nel Convegno ecclesiale di Firenze del 2015, ha ricordato che «Ogni straniero che bussa alla nostra porta è un’occasione per un incontro con Gesù Cristo» e nell’enciclica Fratelli tutti del 2020 ha parlato dei migranti come una «benedizione». Ha avuto anche il coraggio nel suo discorso al Parlamento europeo nel 2014 di affermare che «non si può tollerare che il Mediterraneo diventi un grande cimitero», come purtroppo è stato in questi dieci anni con oltre 20.000 morti che interpellano la coscienza di tutti.

Qual è l’eredità su questo tema da cui la Chiesa non potrà più prescindere?
Anzitutto il richiamo al passaggio del discorso della Montagna di Gesù: «Ero forestiero e mi avete ospitato», da cui nacque l’appello di Papa Francesco a tutte le parrocchie e istituti religiosi e monasteri ad accogliere almeno una famiglia di migranti o rifugiati. Le sue parole a Lampedusa nel primo viaggio apostolico del 2013, in cui ha ripetuto, con le parole di Dio a Caino «Dov’è tuo fratello?», la domanda a ciascuno di noi di accogliere il migrante come un fratello. I due viaggi a Lesbo nel 2016 prima e nel 2021 poi, dove di fronte a quei volti sofferenti, a quelle persone in fuga trattenute nei centri ha parlato di «naufragio di civiltà». E poi quattro parole, quattro verbi ripetuti più volte che mettono in crisi il nostro stile e modello di accoglienza: accogliere, proteggere, promuovere, includere. Un percorso chiaramente indicato dall’accoglienza alla cittadinanza ancora da costruire.

L’arcivescovo di Ferrara Gian Carlo Perego L’arcivescovo di Ferrara Gian Carlo Perego

Come il suo messaggio ha influenzato l’opinione pubblica italiana e mondiale?
Certamente ha scosso le coscienze rette, ha provocato governi, politiche economiche e sociali. Penso ai dieci punti della lettera ai vescovi statunitensi, dopo i tagli alle risorse del governo Trump all’accoglienza dei rifugiati, del febbraio scorso, dove Papa Francesco richiamava che «uno Stato di diritto autentico si dimostra proprio nel trattamento dignitoso che tutte le persone meritano, specialmente quelle più povere ed emarginate». Purtroppo, l’opinione pubblica è divisa ancora a metà, anche in Italia, tra chi vorrebbe chiudere e chi aprire ai migranti, forse influenzata anche da una narrazione falsa sul fenomeno migratorio. Occorre continuare a ripetere il magistero di Papa Francesco sui migranti, che ha saputo leggere con verità, profezia e realismo il fenomeno migratorio. Il Giubileo che viviamo è un tempo per rilanciare e non disperdere questo messaggio.

C’è stata l’attenzione dovuta da parte dei governanti? Oppure questo messaggio è stato ignorato o contrastato?
Se guardiamo agli atti dei diversi governi, dagli Stati Uniti all’Europa all’Australia, vediamo che le politiche sono andate nella direzione opposta alle parole del Pontefice, con critiche manifeste nei suoi confronti o silenzi indifferenti. Ma ci sono parole che seminano in profondità e i frutti si vedono nel tempo.

Tra chi ha criticato gli appelli del Papa all’accoglienza c’è chi ha utilizzato il tema del rischio di de-cristianizzazione dell’Europa se arriveranno molti immigrati di religione islamica. Cosa ne pensa?
Una strumentalizzazione della religione, da parte di chi spesso non pratica la fede, che non corrisponde alla realtà dei fatti. Altri sono i fattori di de-cristianizzazione dell’Europa. Anzi, l’incontro tra l’esperienza religiosa cristiana e quella islamica ha prodotto sotto il Pontificato di Papa Francesco un nuovo dialogo con l’islam, di cui la dichiarazione di Abu Dabi è solo un segno, e un lavoro comune anche nelle Chiese locali su temi come la pace, la giustizia, la salvaguardia del creato, la promozione della donna.

Che tipo di cattolico è quello che invita ad alzare muri verso chi fugge da guerra e fame?
Lo ha ripetuto più volte il Papa: deve rivedere la sua fede alla luce del Vangelo e fare un salto di umanità nelle sue scelte morali.

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Fratello solo Venuto «dalla fine del mondo», papa Francesco ha dato voce agli ultimi e lottato contro le ingiustizie, molto spesso isolato anche dalla sua Chiesa. Lascia un mondo a pezzi e riforme incompiute. Insieme a una testimonianza di impegno, fino alla fine

Incontro con il mondo In questo momento di grande tristezza per tanti nel mondo, una moltitudine di cui faccio parte anche io, di una cosa almeno sono contenta, anzi fiera: che sia stato il […]

Agli sfruttati  non serve la carità ma la lotta 

In questo momento di grande tristezza per tanti nel mondo, una moltitudine di cui faccio parte anche io, di una cosa almeno sono contenta, anzi fiera: che sia stato il nostro manifesto nel 2016 a pubblicare e a distribuire insieme al quotidiano un libro che contiene uno dei più belli, e più significativi, discorsi di Bergoglio.

E questo in un tempo in cui ancora era possibile che altra pur paludata stampa uscisse con titoli come questi: «Papa Francesco benedice i centri sociali»; «Bergoglio incontra il Leoncavallo»; «Zapatisti, marxisti, Indignados, tutti dal papa». (In seguito capirono che era troppo impopolare ricorrere a questo tono di ironico sprezzo quasi che Papa Francesco fosse un secondario personaggio qualsiasi, sicché si corressero un poco).

Il libro di cui il nostro giornale si fece editore uscì in occasione dell’Incontro mondiale dei movimenti popolari (Emmp) a Roma, presenti fra gli altri un singolare e fino a poco prima presidente dell’Uruguay e prima guerrigliero Tupamaros, Pepe Mujica, la ben nota Vandana Schiva, assente invece l’invitato Bernie Sanders perché impegnato nella campagna elettorale americana. Più 99 organizzazioni di 68 paesi, una lista più o meno coincidente con quella dei movimenti che hanno partecipato ai nostri Forum Mondiali dei tempi di Porto Alegre, fra questi non a caso i Sem Terra brasiliani e il loro leader Stedile, analoghi i temi in discussione: ecologia, beni comuni, salario universale.

All’appuntamento dell’anno precedente tenuto in Bolivia l’allora presidente Evo Morales aveva regalato al Pontefice venuto fino a laggiù per presiedere l’incontro una croce composta da una falce e un martello, e si potrebbe dire che quella singolare composizione lignea già a Roma sembrava tacitamente diventata il distintivo degli Emmp.

Ho scritto «si potrebbe dire» perché so che bisogna fare attenzione. E però non si può non prendere atto che il pontificato di Francesco ha impresso alla politica vaticana una svolta di sostanza molto forte e chiara. Bergoglio non è stato infatti solo un

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Scenari Con mediazione omanita, ieri a Roma secondo round d’un negoziato con la pistola sul tavolo: Israele, l’unica potenza atomica della regione, è sempre pronto a colpire di nuovo

Illustrazione Getty Images Illustrazione – Getty Images

L’Iran in Medio Oriente è considerato la spina nel fianco di Israele e degli Usa ma il negoziato in corso va ben oltre lo status di potenza regionale della repubblica islamica e l’orizzonte, già ampio, del Golfo persico, dove passa il 40% dell’energia mondiale.

E dove si incrociano i destini precari di popoli in guerra. La sfida sul caso iraniano è assai più globale di quanto si pensi. Lo stato ebraico, soprattutto dopo la caduta di Bashar Assad in Siria e le sconfitte subite dagli alleati dell’Iran nella regione, da Hamas a Hezbollah agli Houthi yemeniti, è ancora più tentato dall’idea di scatenare un attacco diretto agli impianti nucleari di Teheran sospettati di lavorare per l’atomica. In realtà a Roma, ieri, con la mediazione omanita, c’è stato il secondo round di un negoziato dove la pistola è sempre sul tavolo.

Gli israeliani hanno già testato le difese della repubblica islamica e sono pronti a farlo di nuovo. Con l’attacco del 26 ottobre Israele, in replica a quello di Teheran, avrebbe eliminato oltre l’80% delle difese aeree iraniane: Netanyahu ritiene la repubblica islamica una minaccia esistenziale ed è sempre pronto a intervenire. Trump, secondo la stampa americana, avrebbe fermato di recente un attacco già pianificato in maggio dallo stato ebraico. Se fosse vero significa che Netanyahu può decidere di trascinare gli Usa in guerra in qualunque momento.

Non che Trump sia particolarmente incline a usare la diplomazia con Teheran, tanto è vero che nel 2018 fu lui al primo mandato ad annullare l’accordo del 2015 firmato dalla presidenza Obama. Quell’intesa non funzionò non perché fosse “pessima”, come continua a ripetere Trump imbrogliando le carte per l’ennesima volta, ma semplicemente in quanto non venne attuata: gli americani non tolsero mai le sanzioni bancarie e finanziarie a Teheran come sa benissimo qualunque banchiere europeo. Tanto è vero che il memorandum da 30 miliardi di euro firmato a Roma dall’allora presidente iraniano Rohani non ebbe seguito e la prima tranche di un prestito alle imprese italiane in Iran fu congelata per timore di ritorsioni americane (blocco dei conti e delle operazioni in dollari). Non è un dettaglio da poco: gli iraniani potrebbero arrivare un compromesso sull’arricchimento dell’uranio solo se avranno garanzie concrete di un alleggerimento vero delle sanzioni.

Le conseguenze del fallimento dell’accordo del 2015 sono state evidenti: l’Iran è stato spinto sempre di più nelle braccia di Mosca e di Pechino. La Russia è il primo destinatario dell’industria dei droni iraniana, la Cina è il primo cliente del petrolio di Teheran. Non si contano poi le manovre militari congiunte dell’Iran con Mosca e Pechino e gli scambi di visite militari e diplomatiche. L’Iran è quindi dentro al fronte bollente dei conflitti e degli interessi strategici che stanno a cavallo tra il Medio Oriente e l’Asia centrale e fa parte dell’organizzazione dei Brics, un blocco economico che rappresenta oltre il 30% del Pil mondiale.

I due alleati dell’Iran, membri del Consiglio di sicurezza Onu, non hanno interesse che l’Iran diventi una potenza nucleare – nonostante fronteggi Israele che lo è e confini con un altro stato dotato di atomica come il Pakistan – ma neppure vogliono che lo stato ebraico e gli Usa attacchino Teheran e tanto meno desiderano un cambio di regime che in Medio Oriente finora ha portato più anarchia e distruzione che stabilità, come è avvenuto in Iraq e Afghanistan, Paesi confinanti con l’Iran. Inoltre un attacco al nucleare iraniano in prospettiva potrebbe anche rivelarsi un boomerang: gli stati della regione come Turchia e Arabia saudita potrebbero essere spinti a una corsa verso l’atomica vista come una garanzia irrinunciabile per limitare le minacce esterne.

Persino la storica contrapposizione settaria sciiti-sunniti non fornisce una lettura del tutto soddisfacente della situazione. Se è vero che sul piano locale è sempre viva (basti pensare alla Siria e al Libano, oltre che all’Iraq), su quello strategico le cose sono un po’ diverse. Lo dimostra l’evoluzione delle relazioni tra Riad e Teheran. Queste due potenze regionali, poli di riferimento del mondo sunnita e di quello sciita, sono sempre più spinti verso la coesistenza nel Golfo, come in una sorta di matrimonio obbligato e di convenienza: la geografia non si può cambiare e i loro destini si incrociano. Le recenti esercitazioni navali congiunte di iraniani e sauditi nel Golfo dell’Oman, insieme a scambi di visite militari, non sono gesti simbolici ma il segnale di un nuovo pragmatismo di fronte alla sfide sulla sicurezza che vanno dal Mar Rosso allo Stretto di Hormuz. In buona parte questo atteggiamento alla cooperazione è stato raggiunto grazie alla normalizzazione delle relazioni bilaterali mediata due anni fa dalla Cina.

Ma al negoziato con l’Iran c’è sempre una pistola carica sul tavolo e il grilletto lo può premere Netanyahu mentre Trump più che una trattativa sembra volere imporre degli ultimatum. «L’Iran – ha detto – non ha alternative: gli estremisti non possono avere un’atomica». Tradotto: l’unico che può possederla in Medio Oriente è il notoriamente “moderato” Netanyahu con il suo governo di “moderati” estremisti.

 

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Fronte orientale Intervista all'analista ucraino Konstantin Skorkin

Konstantin Skorkin Konstantin Skorkin

Le dichiarazioni rilasciate questa settimana dall’inviato speciale della Casa Bianca Steve Witkoff, per cui l’Ucraina potrebbe “cedere” alla Russia le regioni occupate dall’esercito del Cremlino come base per eventuali negoziati, ha riportato al centro della discussione un tema sensibile, già oggetto di aspre contese diplomatiche. Tuttavia la vaghezza della proposta, che il funzionario statunitense ha menzionato riferendo dei suoi colloqui con Vladimir Putin, si associa alla vaghezza con cui talvolta vengono considerati quei territori (la penisola di Crimea e le quattro oblast di Donetsk, Lugansk, Zaporzhizhia e Kherson), lasciando in ombra specificità locali e, soprattutto, il punto di vista delle persone che ancora ci vivono o ci hanno vissuto. Ne abbiamo parlato con l’opinionista politico indipendente Konstantin Skorkin, nato e cresciuto a Lugansk e ora di stanza in Gran Bretagna.

Può descrivere la situazione dei territori occupati?
Credo che la questione vada suddivisa in tre sotto-categorie. Da un lato la Crimea fa un po’ storia a sé e rappresenta il caso più spinoso. È stata annessa dal Cremlino più di dieci anni fa e già prima del 2014 erano presenti nella penisola sentimenti separatisti (durante gli anni ‘90 ci fu addirittura un tentativo di secessione). Possiamo dire dunque che nel 2014 il sostegno per la Russia era molto alto, il che comunque né giustifica l’annessione da parte di Putin né rende credibile il referendum che si svolse quell’anno. Ora è un territorio completamente integrato nel sistema russo, con una popolazione leale al Cremlino e con persone russe che si sono stabilite lì arrivando dalla Federazione. Perciò una sua reintegrazione sotto l’Ucraina sarebbe qualcosa di molto difficile: le leggi attuali peraltro considerano chi si è stabilito lì dopo il 2014 come un occupante illegale ed eventuali misure di espulsione potrebbero attirare accuse verso Kiev di deportazione etnica. Penso che si debba accettare il fatto che quella della Crimea è una questione esclusivamente diplomatica, la cui risoluzione va rimandata in maniera indefinita. Tuttavia, nessuno ne riconoscerà ufficialmente lo status di territorio russo, questa è una “linea rossa” per Kiev.

Gli altri territori occupati da tempo?
I territori del Donbass occupati fra il 2014-2015: anche qui erano presenti simpatie filorusse, che però non sono risultate decisive finché il Cremlino non è intervenuto militarmente con le sue milizie-proxy. Qua nel corso del tempo è avvenuta una grossa trasformazione sociale: la maggior parte delle persone filoucraine si sono ricollocate in Ucraina, mentre quelle più filorusse magari se ne sono andate in Russia. Sono rimasti soprattutto anziani o persone non così attive a livello sociale e politico, tendenzialmente leali alla nuova amministrazione (e nel frattempo, persone dalla Russia hanno iniziato a insediarsi anche in questi territori).

Il Cremlino ha condotto una politica di assimilazione: rilascio dei passaporti semplificato, sistema legale armonizzato con quello russo, fine dell’insegnamento della lingua e della storia ucraine nelle scuole, ecc. Tutto ciò si è solo intensificato dopo il 2022. Per chi si è ricollocato in Ucraina da questi territori e vuole mantenere i legami la situazione è difficile: spesso a chi ha un passaporto ucraino non viene concesso di andare in territorio russo, mentre gli appartamenti di chi viveva a Lugansk o Donetsk vengono confiscati se non sono registrati nuovamente secondo le norme russe. Difficile che il governo di Kiev faccia grosse concessioni rispetto a queste zone: c’è comunque una lobby cospicua di ex-residenti del Donbass a Kiev (che include deputati, personale militare e giornalisti) che fatica ad accettare che i loro luoghi d’origine diventino russi a tutti gli effetti.

E siamo alle zone occupate dopo l’invasione.
Altri territori del Donbass e del sud dell’Ucraina passati sotto controllo del Cremlino dopo il 2022 vanno considerati come una classica forma d’occupazione. Un movimento filorusso è debole o inesistente e la maggior parte delle persone non vede di buon occhio la nuova amministrazione e attende di essere liberata, oppure prova a passare dal lato ucraino sperando di far presto ritorno. In questo senso, Kiev non accetterà mai una cessione territoriale a meno di una capitolazione militare.

Trova credibile la proposta di Witkoff?
Come accennato, mi pare una strada davvero poco percorribile a meno che, appunto, non ci sia una sconfitta sul campo delle forze ucraine o una crisi politica interna al paese. Molto più realistica è invece la situazione per cui il conflitto viene congelato lungo le linee attuali. Questo non costituisce una base per una pace duratura, ma almeno potrebbe fermare lo spargimento di sangue. Tuttavia non mi pare un’opzione che convince Putin, ancora deciso a sottomettere tutta l’Ucraina.

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Corte suprema Usa Ci sono ben sei cattolici nella Corte suprema degli Stati Uniti, un paese dove fino a ieri i fedeli alla chiesa di Roma venivano chiamati "papisti". Non solo: fino ad oggi i politici cattolici non sono stati particolarmente fortunati

Quei cattolici che sfidano la furia di Trump 

Ci sono ben sei cattolici nella Corte suprema degli Stati Uniti, un paese dove fino a ieri i fedeli alla chiesa di Roma venivano chiamati “papisti”. Non solo: fino ad oggi i politici cattolici non sono stati particolarmente fortunati.

Nel 1928 Al Smith fu sonoramente sconfitto, nel 1960 John Kennedy fu eletto, ma assassinato tre anni dopo, nel 2004 John Kerry perse contro George W. Bush e Joe Biden ha sì vinto le elezioni nel 2020 ma solo per lasciare in eredità la Casa Bianca a Donald Trump nel 2024. Oggi, però, la politica prevale sulla religione e il cattolicesimo americano è spaccato a metà.

Una parte significativa della gerarchia cattolica degli Stati Uniti è stata da sempre schierata su posizioni reazionarie: nel 2008, ad esempio, il vescovo Joseph Martino di Scranton (Pennsylvania) diocesi natale di Biden, propose di negargli la comunione a causa delle sue posizioni sull’aborto e la cosa si ripetè nel 2019, a Florence, in South Carolina. I temi dell’interruzione della gravidanza, della crisi della famiglia tradizionale e della secolarizzazione della società hanno avvicinato da tempo una parte sostanziale dei cattolici, che sono il 20% della popolazione, al partito repubblicano.

Non è un caso che i due giudici della Corte suprema più ferocemente di destra siano Samuel Alito e Clarence Thomas, eredi di Antony Scalia, cattolico tradizionalista e influente giudice conservatore della Corte per ben 30 anni (è morto nel 2016). Nello stesso tempo, molti cattolici americani si rifanno all’eredità di Daniel Berrigan, un gesuita che fu una figura di spicco del pacifismo negli Stati Uniti, protagonista delle proteste contro la guerra in Vietnam e di tutte le campagne contro l’energia nucleare e le ingiustizie sociali (anche Berrigan morì nel 2016). La giudice Sonia Sotomayor è la rappresentante del cattolicesimo progressista all’interno della Corte.

Come ha scritto qualche giorno fa David French sul New York Times, «la Corte suprema non può salvare l’America, ma qualcosa può fare» e il «qualcosa» è ovviamente frenare la furia distruttiva di Trump. Solo la mobilitazione dei cittadini nei prossimi mesi potrà difendere la malconcia democrazia americana ma l’orientamento della Corte sarà di vitale importanza. E l’orientamento della maggioranza della Corte dipende da altri tre cattolici: il presidente John Roberts, Brett Kavanaugh e Amy Coney Barrett.

I segnali che vengono da questi tre giudici, che per comodità potremmo definire i “conservatori moderati”, vanno in direzione di un distacco dal progetto autoritario di Trump, in particolare sul tema dei migranti, che è anche quello su cui papa Francesco è sempre stato più esplicito nel condannare il Gangster-in-Chief ritornato alla Casa Bianca. Non a caso, la Corte ha approvato all’unanimità l’ordine diretto all’amministrazione Trump di facilitare il ritorno di Kilmar Abrego Garcia, deportato illegalmente in Salvador. E, l’altroieri, una maggioranza di 7 giudici contro due (Thomas e Alito) ha sospeso le deportazioni di gruppi di migranti venezuelani, ordinando al governo di non procedere fino a nuovo ordine della Corte stessa.

La foglia di fico legale usata fin qui dal Dipartimento della giustizia era una legge del 1798, tuttora in vigore, l’Alien Enemies Act, che conferisce al presidente poteri straordinari in tempo di guerra. Fu usata per l’ultima volta durante la Seconda guerra mondiale per giustificare la detenzione di ben 120.000 giapponesi-americani, cittadini statunitensi, che furono internati in campi di concentramento.

Ovviamente oggi non c’è alcuna guerra e nessun pericolo di invasione o di spionaggio: la deportazione dei migranti ha l’unico scopo di terrorizzare tutti i potenziali oppositori, mostrando a quali estremi di illegalità può arrivare la presidenza Trump. Su questo terreno, John Roberts e Amy Coney Barrett non sembrano disposti a lasciare mano libera alla Casa Bianca, almeno per ora.

 

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