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Medio Oriente Parla Salih Muslim, del partito dell'unione democratica curda: La prospettiva di un assedio ci ha costretti a decidere di evacuare. Tra noi ci sono ezidi, armeni, assiri. Chiunque non sia arabo sunnita è in pericolo: evacuati anche gli sciiti

«La legittimazione rende Hts più pericolosa dell’Isis. Minoranze a rischio»

 

Ancora una volta la mezzaluna turca è tornata a sventolare sulla cittadella di Aleppo, esposta da un miliziano in posa dopo l’offensiva che ha portato la città nelle mani di Hayat Tahrir al-Sham (Hts). Una debacle militare dell’esercito siriano che ricorda la caduta di Mosul, avvenuta in una notte del giugno 2014 per mano dello stato Islamico.

«Hts è un’organizzazione ombrello sotto cui sono raccolti diversi gruppi ed elementi jihadisti – Spiega Salih Muslim, membro della presidenza del Partito dell’unione democratica (Pyd) – al suo interno si trovano salafiti passati per organizzazioni come Ahrar al-Sharqiya o il fronte daghestano, persino fuoriusciti di daesh. Un tempo erano noti come Jabhat al-Nusra».

IN SEGUITO alla cattura di Aleppo l’Esercito nazionale siriano (Sna) ha mobilitato le proprie forze e iniziato un’invasione su larga scala della regione di Shebah e la città di Tall Rifaat, completamente circondate in seguito alla fuga dell’Esercito Arabo Siriano (Saa). «In Hts almeno esiste una disciplina, loro sono bande di pazzi e criminali. Appena iniziati gli attacchi hanno iniziato a filmarsi mentre tagliano teste – commenta il politico curdo – Sono uno strumento nelle mani della Turchia, e sappiamo che la volontà del governo turco è l’annientamento dei curdi ovunque si trovino, per cui non sappiamo cosa faranno o dove si fermeranno».

LA RESISTENZA di Tall Rifaat è durata pochi giorni prima che la Daanes (Amministrazione Autonoma Democratica del Nord-Est della Siria) prendesse la decisione di concentrare gli sforzi nell’evacuazione dei civili: «La prospettiva di un assedio ci ha costretto a decidere di evacuare – spiega Muslim – tra noi ci sono ezidi, armeni, assiri e altri popoli, chiunque non sia arabo sunnita è in pericolo, anche i villaggi sciiti sono stati evacuati». Con Tall Rifaat sotto controllo, l’attenzione dell’Sna si è rivolta verso Manbij, bastione a maggioranza araba della Daanes a Ovest dell’Eufrate. La città fu liberata nel 2016 a seguito dell’operazione “Martire Abu Leyla”, intitolata all’omonimo fondatore del Battaglione del Sole del Nord, una delle molte fazioni dell’Esercito Libero Siriano che hanno rigettato l’ingerenza turca nella rivoluzione siriana. Da allora le pressioni turche non sono mai cessate e Manbij è divenuta uno degli obiettivi prioritari dell’esercito turco, seconda solo a Tall Rifaat. «La leadership turca ha sempre detto che vuole compiere il Misak-ı Millî – Sostiene Salih Muslim, riferendosi al Giuramento nazionale, una serie di decisioni prese dal morente parlamento ottomano che tracciò i confini rivendicati dai nazionalisti turchi – Questo è un pericolo per tutta la Siria».

In un comunicato del Consiglio memocratico siriano, organo parallelo alla Daanes responsabile del dialogo intersiriano, il regime di Damasco viene ritenuto principale responsabile dell’escalation, reo di aver rifiutato in tutti questi anni di impegnarsi in un dialogo che potesse aprire la strada alla transizione concludendo la guerra civile, preferendo piuttosto contare su forze esterne per imporre il suo dominio.

«HEZBOLLAH, gli iraniani, la Russia e altri gruppi avevano formato un equilibrio nella regione di Aleppo sostenendo l’Esercito arabo siriano. Nel momento in cui Hezbollah e gli iraniani si sono ritirati, il Saa da solo non è stato in grado di mantenere le posizioni»,spiega Muslim. «Al momento siamo impegnati militarmente per difendere la popolazione da un possibile genocidio, umanitariamente per accogliere e proteggere gli sfollati, politicamente per aprire un canale con Hts affinché non succeda niente ai civili, specialmente a Sheikh Meqsoud – spiega Muslim riferendosi al quartiere curdo di Aleppo in stato di assedio – Se rispettano l’autonomia del quartiere possiamo convivere, ma se sfollano le persone come ad Afrin, le opprimono e torturano come ha fatto daesh, non lo accetteremo. In questi quartieri vivono quasi 400.000 tra curdi, cristiani e altre minoranze che vi hanno trovato rifugio, non vogliamo siano costretti ad abbandonare le proprie case».

Il leader di Hts Abu Muhammad al-Jolani ha lanciato una campagna di immagine volta a far dimenticare il suo passato al fianco di Abu Bakr al-Baghdadi e guadagnare legittimità agli occhi della comunità internazionale. Il leader jihadista si è prodigato nel rassicurare le minoranze per mezzo stampa, siano essi cristiani, curdi o persino gli odiati alawiti a cui appartiene lo stesso Bashar al-Assad. Nonostante l’efficace manovra comunicativa, nella Siria del Nord l’esperienza di Afrin, in cui alle stesse rassicurazioni sono seguiti sei anni di terrore, queste dichiarazioni vengono accolte con non poco scetticismo.

«L’OPINIONE pubblica deve conoscere queste forze, alcuni pensano si tratti di gruppi di opposizione ma non è così, l’essere legittimati li rende forse più pericolosi dell’Isis – Conclude Salih Muslim – noi li conosciamo bene, abbiamo visto e subito i loro massacri, in passato la comunità internazionale ci ha lasciati soli, speriamo non sia così anche questa volta».

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Autonomia differenziata Pubblicata la sentenza della Corte costituzionale. Si apre la partita del referendum. Sulla permanenza del quesito abrogativo, attesa il 12 dicembre la Cassazione. Ministri e governatori che insistono che nulla è cambiato offrono argomenti per il sì

Roberto Calderoli - Ansa Il ministro Roberto Calderoli, nel corso dei lavori della Camera dei deputati, sulle mozioni in materia di autonomia differenziata,

La sentenza della Corte costituzionale sull’autonomia differenziata – una delle più belle che si ricordi con le 39 ricorrenze della parola solidarietà/solidaristico – plana sulla politica italiana con effetti diversi tra la maggioranza di destra e le opposizioni, sia quelle politiche che quelle sociali. La prima incredibilmente tace annichilita dal dispositivo che culturalmente smonta non solo la legge Calderoli, ma anche le basi politico-ideologiche del patto che tiene insieme la coalizione. Le opposizioni assaporano il successo ma hanno ora da affrontare nell’immediatezza la questione sulla decisione della Cassazione circa la sussistenza o meno del referendum abrogativo della legge.

Ieri si è registrata una curiosa concomitanza per due riforme che la destra sta portando avanti. Alle 11,30 la Corte costituzionale ha depositato la sentenza con cui cancella i punti principali della legge Calderoli e ne riscrive molti altri; dopo poco la commissione Affari costituzionali della camera ha votato il mandato al relatore sulla separazione delle carriere dei magistrati (in aula il 9 dicembre per la sola discussione generale). Ebbene sulla seconda riforma sono piovute dichiarazioni esultanti della maggioranza («giornata storica» il sintagma più ricorrente), mentre sulla sentenza della Consulta c’è stato il silenzio. A rendere distopica la giornata l’esultanza di Antonio Tajani, il cui partito ha votato sempre la legge Calderoli, felice perché il Commercio con l’estero non potrà più essere devoluto alle regioni. Grottesco è apparso il «si va avanti con le intese» di Luca Zaia e Alberto Stefani, segretario della Liga Veneta. Analogo il comunicato del tardo pomeriggio del padre della legge, Roberto Calderoli: «La sentenza della Consulta conferma che la strada intrapresa dal governo è giusta»; quindi avanti con le Intese sulle funzioni non Lep, mentre «si lavora» a «ulteriori interventi legislativi» solo per i Lep e i fabbisogni standard. La consueta assertività di Fdi e Giorgia Meloni ieri non si è vista o sentita, sostituita dal silenzio.

L'effetto della sentenza della Corte costituzionale sui primi quattro articoli, i fondamentali, delle legge Calderoli per l'autonomia differenziata
L’effetto della sentenza della Corte costituzionale sui primi quattro articoli, i fondamentali, delle legge Calderoli per l’autonomia differenziata

Qui entra in gioco il discorso delle opposizioni. Lunedì sera, il giorno precedente la sentenza, il direttivo del Comitato promotore del referendum abrogativo si è riunito per una valutazione sul da farsi davanti alla Cassazione.

Questa a metà dicembre dovrà decidere se dopo l’abbondante “sbianchettatura” della Consulta dei punti focali della legge Calderoli, sussistano i presupposti per svolgere il referendum. Questo verrebbe meno se vengono abrogati «i contenuti normativi essenziali» e «i principi ispiratori» della legge: ieri qualcuno come Stefano Ceccanti o Peppino Calderisi ha sostenuto che la Consulta abbia intaccato entrambi e quindi la Cassazione bloccherà il referendum. Al direttivo del Comitato referendario è invece prevalsa la decisione di sostenere in Cassazione (o con una memoria o in udienza pubblica) che le ragioni del quesito permangono, soprattutto quelle politiche, diverse da quelle giuridiche. Peraltro tesi avvalorata dalle dichiarazioni di Zaia, Calderoli ed altri della Lega per i quali «non cambia nulla e si va avanti». Certo, poi, dopo il via libera eventuale della Cassazione andrebbe sostenuta a gennaio, di nuovo in Corte costituzionale, l’ammissibilità del quesito stesso. Tema su cui c’è nel Comitato ampia fiducia di una risposta affermativa. Ed è per tale fiducia, si è detto lunedì sera, che la mobilitazione va tenuta alta: infatti se si andrà alle urne andrà scalata la montagna del quorum.

Questi ragionamenti ci fanno tornare alla maggioranza e alla tempistica di un nuovo intervento normativo. Palazzo Chigi e Calderoli concordano sull’opportunità di attendere i due passaggi, cioè Cassazione a metà dicembre e Consulta a metà gennaio. Solo allora, a seconda anche dell’orientamento dell’opinione pubblica, ci sarà un intervento normativo. Se infatti crescerà il movimento referendario in termini tali da far temere il raggiungimento del quorum, la destra tenterà nuovamente di bloccare il referendum, appunto con nuove norme che obbligherebbero a riportare il quesito in Cassazione per una nuova valutazione della sua sussistenza. Il “calderolismo” sembra ancora un karma di queste destre. Auguri.

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Le fiamme di Aleppo È noto che Donald Trump intende portare a termine il disimpegno delle forze statunitensi dal Nord-Est della Siria: un ritiro che già aveva iniziato, scontrandosi i comandi dell’esercito, nel corso del suo primo mandato presidenziale

Jihadisti in posa davanti alla cittadella di Aleppo Ap/Anas Alkharboutl Jihadisti in posa davanti alla cittadella di Aleppo – Ap

Nei calcoli di Mosca, doveva essere Kyiv a cadere in tre giorni, non Aleppo. Così i russi hanno cacciato il loro comandante, costretti a guardarsi le spalle, con un occhio alle proprie basi navali di Tartus e Latakia, cuore della proiezione nel Mediterraneo (Cirenaica) e in Africa. Negli ultimi cinque anni il mondo ha coltivato l’illusione che i fronti siriani, lungo i quali si sa dove si comincia ma raramente dove si va a finire, si fossero in qualche modo cristallizzati. Troppo difficile seguirne le dinamiche tutt’altro che lineari.

Dinamiche dove il nemico non è mai uno solo, e logiche fra loro diverse guidano gli interventi di molteplici attori esterni: la Russia e gli Usa, ma anche i paesi del Golfo, l’Iran e la Turchia.

Da più parti si è sottolineato il modo dirompente in cui, partendo dalla roccaforte di Idlib, i miliziani jihadisti di Hayat Tahrir al-Sham (Hts), ricondizionati in veste islamo-nazionalista, hanno messo a nudo la debolezza del regime di Assad, raddoppiando l’estensione di territorio su cui esercitano controllo, imboccando l’autostrada M5 verso Hama (dove al momento si trova la linea del fronte), puntando su Homs (la città-martire, cruciale per il controllo della costa) in direzione Damasco (la cui sola idea di conquista ha significati simbolici immensi). Si è scritto dell’indecifrabilità di ciò che accade nella cerchia di potere del regime, e di come le forze armate, costituite da una congerie di milizie demoralizzate, dipendano dal supporto militare esterno.

Per Teheran la sopravvivenza del regime degli Assad, amico sin dalla guerra Iran-Iraq, è strategicamente imprescindibile, a partire dalla connessione territoriale con il Libano. Impegnato nella propria sopravvivenza in casa, nel pieno di un cessate-il-fuoco quantomai instabile, Hezbollah, che proprio in Siria si è distinto come forza militare regionale, ha dovuto dichiarare di non poter inviare truppe. Tutto ciò che è arrivato, finora, sono qualche centinaio di miliziani sciiti dall’Iraq.

Sull’altro versante, il leader di Hts, al-Jolani, è riuscito negli anni a smarcarsi tanto dall’Isis quanto da al-Qaida, per poi accreditarsi con Ankara e portare la Turchia nel cuore delle guerre siriane. È infatti solo dal terzo giorno dell’offensiva di Hts che la coalizione di miliziani prezzolati da Ankara, convergendo su Aleppo, ha aperto un nuovo fronte contro le Syrian Democratic Forces (Sdf) a guida curda. Sviluppatosi all’ombra del primo, questo secondo fronte appare ogni giorno più importante: è qui, infatti, che vediamo i curdi di Aleppo, assediati, incolonnarsi in uscita dalla città. Ed è sempre qui che i curdi hanno dovuto cedere l’enclave di Tal Rifaat, da sempre una spina del fianco per Erdogan. Qui vediamo miliziani jihadisti trascinare le combattenti curde sui camion, esibite come trofei di guerra.

Dietro alle quinte, la partita in questi anni è stata giocata su quanto concedere alla persistente richiesta turca – osteggiata dagli Usa di Obama al tempo dell’intervento a difesa di Kobane – di estendere lungo il proprio confine con la Siria una propria fascia di sicurezza contro le formazioni curde. Occorre ricordare come già nel 1998, la Russia in cui Putin era a capo del servizio segreto negoziò l’espulsione del leader del Pkk Abdullah Ocalan da Damasco e una fascia sul confine di tre miglia dove colpire, previo assenso di Damasco. Il Putin di oggi non ha fatto che riproporre le medesime linee di riconciliazione turco-siriana: con il problema che Erdogan oggi occupa militarmente, anche tramite le predatorie milizie islamiste che foraggia, diverse regioni a ridosso del confine, mentre insiste su una fascia di sicurezza profonda ben 22 miglia. La novità è che dalla scorsa estate Damasco non insiste più sul ritiro immediato delle truppe turche da Jarablus, Azaz, al-Bab e Afrin, ma mostra incline ad accettare un impegno graduale nel futuro. Questo piano, tuttavia, sembrerebbe naufragato proprio attorno alle modalità previste per liberarsi dell’autogoverno curdo a Est dell’Eufrate, nonché delle forze statunitensi qui stazionate: Erdogan si è mostrato scettico circa il fatto che, all’indomani di un’operazione che avrebbe dovuto vedere nientemento che il supporto dell’aviazione turca (con rischio di escalation con l’alleato americano) le truppe di Damasco avrebbero poi ceduto l’effettivo controllo sul Nord.

È noto che Donald Trump intende portare a termine il disimpegno delle forze statunitensi dal Nord-Est della Siria: un ritiro che già aveva iniziato, scontrandosi i comandi dell’esercito, nel corso del suo primo mandato presidenziale. Qui i militari americani affiancano le Sdf nelle azioni anti-Isis. La notizia di ieri, gli scontri fra le Sdf e le forze di Damasco nella regione semidesertica di deir Ezzor è importante perché segna la fine di uno stato di non aggressione fra curdi e regime. La versione dei primi è di essere intervenuti davanti al rinfocolarsi di attività delle milizie dell’Isis, che – galvanizzate dalle avanzate jihadiste – avrebbero colto l’opportunità per cercare di colpire alle spalle. È evidente, tuttavia, che c’è una posta più grande sul tavolo, ed essa riguarda il destino stesso dell’autogoverno guidato dalle forze di difesa curde. Resta da vedere fin dove si spingeranno le offensive: oltre quale linea, chi inizialmente ha gioito per i duri colpi inferti ad Assad, iraniani e russi, inizierà a temere di perdere il controllo in mosaico siriano delicatissimo, incastonato in un Medio Oriente in cui la deterrenza non pare più funzionare per nessuno.

Aleppo, la grande città-mercato della borghesia sunnita che infine si sentì tradita dal regime, venne riconquistata da Damasco dopo tre anni di massacri. Era l’inizio del 2016 e incombeva la prima presidenza Trump. Russia e Iran si affacciavano con un loro successo su mondo più unipolare di quello di oggi, e sancivano come l’opposizione siriana non potesse rappresentare un’alternativa credibile ad Assad. Alla vigilia di un nuovo mandato per Trump, gli equilibri più fragili iniziano a saltare, mentre i fronti di guerre fra loro distanti appaiono più che mai fra loro connessi, e a noi vicini.

 

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Scenari Inflazione, produzione e scambi. Le ultime proiezioni del Fondo mondiale internazionale disegnano un quadro mediocre. Che rischia di rivelarsi persino ottimistico

Vari simbole di valute monetarie su un marciapiede a Mosca, in Russia foto Maxim Shipenkov/Ansa Vari simboli di valute monetarie su un marciapiede a Mosca, in Russia – Maxim Shipenkov/Ansa

La proiezione di ottobre 2024 del Fondo monetario internazionale per l’economia mondiale nel 2025-2029 ruota attorno al numero tre: una dinamica sul 3% l’anno del Pil, degli scambi fra paesi, dei prezzi al consumo. Lo stesso Fmi definisce deludente la prospettiva della crescita.
Se il quadro è mediocre, non si deve escludere che risulti ottimistico.

Su scala mondiale l’inflazione potrebbe essere più alta, lo sviluppo della produzione e degli scambi inferiore, le tensioni geopolitiche esplosive. Ciò per il concorso di cinque possibili motivi: calo dell’offerta; espansione della domanda; banche centrali incerte; bassa produttività; crisi della cooperazione internazionale.
Autarchia, protezionismo, conflitti e tensioni geopolitiche stanno frantumando le relazioni commerciali e finanziarie internazionali.

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Un futuro di armi e finanza

Comportano un generale aggravio dei costi, un restringimento dell’offerta aggregata di beni e servizi. Ceteris paribus uno shock d’offerta di tale segno contrae attività economica e occupazione, innalza il livello dei prezzi. L’autarchia assume la forma di sussidi statali ancora più cospicui degli attuali alle produzioni nazionali, anche alle imprese meno efficienti, incapaci di sostenere la concorrenza estera. È negativa e distorsiva più dello stesso protezionismo. La guerra non appena li utilizza consuma i beni militari, che è poi molto oneroso riprodurre, e spiazza i beni e i servizi civili, aumentando così i costi e i prezzi complessivi. Non a caso Keynes, pacifista, cento anni fa diceva (nella Fine del laissez-faire) che «le merci e i servizi ottenuti con le spese militari sono destinati a estinzione immediata e infruttifera».

ALLO SHOCK D’OFFERTA potrebbe unirsi uno shock di domanda: una espansione della domanda aggregata mondiale legata a due fattori. Ovunque si stanno pianificando e attuando spese militari aggiuntive, che moltiplicano la domanda globale. Inoltre negli Stati uniti la nuova amministrazione darebbe concreto seguito alla duplice promessa con cui Trump ha vinto le elezioni per «rendere di nuovo grande l’America»: effettuare nel medio termine maggiore spesa pubblica per almeno 7,5 trilioni di dollari (25% del Pil attuale!), bloccare l’immigrazione ed espellere immigrati sebbene vi siano pieno impiego e scarsità di manodopera. Già attraverso le aspettative l’effetto inflazionistico sarebbe molto forte. Date le dimensioni dell’economia americana, come è avvenuto nel 2021 e nel 2022 prima della guerra in Ucraina, dagli Usa l’inflazione si estenderebbe al resto del mondo

I TASSI D’INTERESSE, già calmierati in termini reali dall’attuale inflazione core, si stanno ulteriormente riducendo. Nell’abbassare i tassi nominali le banche centrali sono condizionate dalla pressione miope della politica e del mondo degli affari, in particolare di chi specula sui mercati finanziari. Ma se l’inflazione ripartisse il prezzo del danaro potrebbe bruscamente salire, sgonfiando le borse sopravvalutate e frenando direttamente gli investimenti. Lo shock d’offerta tenderebbe allora a risolversi nel peggiore degli scenari: inflazione e disoccupazione. Se invece le banche centrali lasciassero i tassi invariati o continuassero a ridurli e la domanda globale si dilatasse l’aumento della disoccupazione ne risulterebbe contenuto, ma l’inflazione sarebbe più alta. Si riproporrebbe comunque il dilemma della stagflation.

PARTICOLARMENTE INCERTA in questo quadro incerto è la produttività. Il suo incremento stabilizzerebbe i prezzi e favorirebbe la crescita più della stessa accumulazione di capitale. Ma nell’ultimo ventennio la dinamica della produttività totale dei fattori nei paesi dell’Ocse ha progredito solo dello zero virgola per cento l’anno. Ict e Intelligenza artificiale non hanno ancora dispiegato l’effetto sperato, di estendere la produttività agli altri settori.

CIÒ CHE È PIÙ GRAVE, la cooperazione economica internazionale e la stessa pace sono minate da autarchia, protezionismo, conflitti, ma anche dall’affermarsi di paesi nuovi. Vi si unisce la fragilità, economica e politico-istituzionale, degli Usa, dove la stessa democrazia è scossa dall’asprezza dello scontro fra i partiti, da tensioni sociali, da spinte centrifughe. Gli equilibri mondiali stanno quindi attraversando una fase di transizione confusa, imprevedibile negli sbocchi. Ai cinque originari Brics ( Brasile, Russia, India, Cina, Sud Africa) si sono aggiunti dal Egitto, Emirati Arabi uniti, Etiopia, Iran. Decine di altre nazioni hanno deciso di candidarsi.

Se una parte venisse accolta il club supererebbe la metà dell’economia del globo. In questo molto variegato consesso anti-occidentale al di là delle motivazioni politiche v’è un intento economico comune, che ne riassume altri: sottrarsi al signoraggio del dollaro. L’accettazione del dollaro ha sinora consentito agli Usa di indebitarsi verso l’estero, di vivere per decenni al disopra delle proprie risorse col risparmio che i paesi creditori non impiegano al loro interno e trasferiscono all’economia americana.

Dal dopoguerra il mondo ha beneficiato di una pax americana, non solo economica. Ma le debolezze attuali degli Stati uniti suscitano dubbi sulla loro primazia. La finanza statale è dissestata, con un disavanzo superiore al 7% del Pil e un debito che travalica ormai il 120% del Pil sommandosi a un debito privato pur esso alto. Con buona pace del rapporto Draghi l’economia è ancor meno competitiva di quella europea. Per lo scemare della concorrenza interna la crescita della produttività totale dei fattori dall’1,9% l’anno del 1920-1970 si è ridotta nell’ultimo ventennio allo “zero virgola”, come in altri paesi.

Dal 2009 la competitività in termini sia di costo unitario del lavoro sia di prezzi è scemata di un terzo. La bilancia dei pagamenti correnti è afflitta da un passivo strutturale, giunto a sfiorare il trilione di dollari l’anno. La posizione debitoria netta verso l’estero è quindi in continua ascesa e già varca 23 trilioni, l’80% del Pil. Una vendita di dollari da parte della Cina e la sfiducia nella moneta di riserva alimenterebbero la stagflation. Le crepe nella cooperazione fra paesi la renderebbero più difficile da governare.

Come in passato, lo sbocco peggiore delle contraddizioni e dei contrasti interni al capitalismo è la guerra. Forse non è nell’interesse di una Cina tuttora bisognosa di progresso economico. Forse la Russia non ha la forza economica per sostenerla. L’Europa non ha il peso geopolitico. Gli Usa, consci di essere sfidati perché indeboliti, potrebbero far leva sullo strapotere militare. Come spesso accade, il verificarsi di un insieme di eventi sfavorevoli non è valutabile in termini di probabilità commensurabili. Tuttavia la logica – non dimostrativa – e l’analisi empirica invitano a non escludere lo scenario più negativo.

* Pierluigi Ciocca è un banchiere ed economista italiano, è stato vicedirettore generale della Banca d'Italia dal 1995 al 2006

 

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La mobilitazione Oggi e domani a Schengjin e Tirana proteste contro i centri di detenzione per migranti

Un gruppo di giovani attivisti albanesi hanno protestato oggi davanti al porto di Shengjin dove questa mattina la nave Libra della marina militare italiana, ha sbarcato 16 migranti, i primi a sperimentare le procedure accellerate di frontiera in un Paese terzo. I giovani che contestano l’accordo fra Roma e Tirana tenevano in mane uno stricione con la scritta in inglese “Il sogno europeo finisce qui” ed un fotomontaggio di Rama e Meloni vestiti con l’uniforme della polizia pentenziaria. “Noi abbiamo contestato sin dall’inizio l’accordo perche’ viola gravemente i diritti umani”, ha spiegato all’Ansa Sidorela Vatnikaj, una delle attiviste. “Sia Rama, che Melono sono due leader autocratici, e non hanno fatto trasparenza sull’accordo, che rischia di trasformari in un pericoloso precedente per l’Europa”, ha sostenuto Vatnikaj. ARMAND MERO Un gruppo di giovani attivisti albanesi hanno protestato oggi davanti al porto di Shengjin dove questa mattina la nave Libra della marina militare italiana, ha sbarcato 16 migranti – ARMAND MERO

Le roboanti dichiarazioni e le conferenze stampa spettacolari sembrano un lontano ricordo. Sul campo, regna il silenzio. Per gli italiani che lavorano in Albania, ben più pagati e meglio trattati rispetto ai colleghi albanesi, questa missione sembra ormai una sfida alla noia.

A Tirana non si discute molto del fallimento del protocollo. Nel pieno della discussione sul bilancio dello Stato albanese, a tenere banco sono le partecipatissime proteste dei pensionati. Proteste che hanno costretto Edi Rama a varare un bonus di fine anno che varia dai 100 ai 150 euro. Ma si discute anche dei regolamenti di conti della criminalità organizzata, dell’uccisione di un ventottenne figlio di un ex magistrato, di violenza giovanile dopo la morte per accoltellamento di un ragazzo di 14 anni da parte di un altro adolescente nei pressi della scuola elementare più nota e centrale della Capitale. Edi Rama ha annunciato di voler imporre una stretta ai social network a partire da TikTok e Snapchat, accusati di veicolare modelli diseducativi.

A rompere il silenzio che sta calando sul protocollo Rama-Meloni sarà il Network Against Migrant Detention che dopo la conferenza stampa che si è tenuta il 6 novembre a Tirana ha rilanciato per oggi e domani una due giorni di mobilitazioni con l’obiettivo di portare la protesta nei centri per migranti di Shengjin e Gjader, oltre che nei palazzi del potere della capitale.

Il network è una vera e propria alleanza di attiviste e attivisti albanesi, italiani e italoalbanesi che si sta allargando anche a Grecia, Spagna e Germania. La critica ai Cpr come modello di detenzione amministrativa lesiva dei diritti e della dignità umana è l’innesco per la critica alla violazione della sovranità albanese sul proprio territorio e all’approccio neocoloniale italiano, all’esternalizzazione delle frontiere europee, allo smantellamento dei principi fondanti del diritto d’asilo. Un’alleanza alla pari, dunque, che ribalta la retorica sull’amicizia, la riconoscenza e il debito che gli albanesi avrebbero nei confronti dell’Italia e che sono stati centrali nella costruzione della narrazione sull’accordo.

La posta in palio è altissima: dare l’ultima spallata al protocollo è necessario per porre un argine alla moltiplicazione di un modello che gli altri paesi europei vorrebbero replicare. Ma l’affermazione della libertà di movimento non passa solamente dalle mani dei magistrati italiani e della Corte di Giustizia dell’Ue.

Il 28 e 29 novembre sono state celebrate le due feste più importanti di un’Albania che spera finalmente di entrare nell’Unione europea: l’indipendenza dall’impero ottomano e la liberazione dall’occupazione nazifascista. Le centinaia di attiviste e attivisti che chiederanno ai militari italiani di tornarsene a casa propria, restituiranno in parte quanto fu fatto a migliaia di albanesi negli anni ’90. Sono certo che saranno di nuovo i benvenuti, una volta dismesso il ruolo di carcerieri di lager per migranti.

* L’autore è consigliere comunale di Bologna, eletto con Coalizione civica

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