Elezioni Germania Alla fine Friedrich Merz è stato eletto cancelliere, nonostante il clamoroso e inedito fallimento nella prima votazione del nuovo Bundestag
Alla fine Friedrich Merz è stato eletto cancelliere, nonostante il clamoroso e inedito fallimento nella prima votazione del nuovo Bundestag. Alternative non erano all’orizzonte. Ma un conto è arrivare al potere, non diciamo sull’onda dell’entusiasmo, ma almeno sospinto da un po’ di convinzione.
Un altro è arrivarci come soluzione di ripiego, o come scelta obbligata da circostanze sfavorevoli. La questione di chi siano i franchi tiratori, i loro giochi e le loro motivazioni è del tutto irrilevante. Il fatto è che la mancata elezione del cancelliere al primo scrutinio, in cui è richiesta la maggioranza assoluta, testimonia di una realtà inaggirabile: il governo che Merz si appresta a dirigere si fonda sul compromesso tra un non vincente, la Cdu, e un disastrosamente perdente, la Spd. Si tratta della somma di due debolezze, per giunta disorientate e sulle quali incombe l’ingombrante presenza dell’Afd.
Questa circostanza si rispecchia in pieno nel lungo e contorto documento del programma di governo di una piccola Grosse Koalition, nel quale il timore di perdere ulteriormente consensi prevale di gran lunga sulla capacità di proposta e di iniziativa politica non del tutto ordinaria. Un programma che cerca il più possibile di adeguarsi agli umori correnti (non certo buoni nell’odierna Rft) senza tenere in gran conto le culture politiche e le domande sociali più strutturate. Tanto che in entrambi i partiti non sono mancate e non mancano proteste perché troppo sarebbe stato concesso al partner di governo e troppo lasciato da parte delle rispettive convinzioni. È insomma ben peggio di un ritorno al passato.
Le forze che trattavano per il nuovo governo si erano preventivamente assicurate, grazie agli sgoccioli della vecchia maggioranza che si era affrettata ad accantonare il totem del freno all’indebitamento, una ricca base finanziaria. Da questa operazione avevano tratto la convinzione di poter accontentare più o meno tutti. Molto i fautori del riarmo e dello sviluppo industriale, pochino quelli della transizione ecologica e della redistribuzione sociale delle risorse. Inoltre il nuovo governo dovrà navigare in una contingenza internazionale tra le più difficili, addirittura ridefinire il ruolo della Germania in Europa e nel mondo e imprimere decisivi cambiamenti di rotta alla politica della Rft. In una condizione così difficile si trova ad agire una classe politica logorata, da tempo in perdita di consensi e di originalità politica, frequentemente in affanno. Friedrich Merz è espressione di questo contesto, di una destra democristiana rimasta ai margini durante l’era Merkel e tornata alla ribalta nel quadro di un generale spostamento a destra dell’asse politico tedesco ma con ora a fianco un temibile concorrente, quell’ Afd che l’Ufficio per la difesa della Costituzione ha classificato come destra radicale ostile ad alcuni principi costituzionali.
Che, ciò nonostante, questo partito possa avvalersi in qualche modo degli incidenti di percorso della rediviva ma non vitale Grosse Koalition è assai probabile. Potendo fare facilmente leva su uno dei principali feticci cari all’opinione pubblica tedesca: quello della stabilità. Su questo punto in particolare la mala parata del cancelliere in pectore non è priva di effetto, mostrandosi presaga di futuri scivoloni. In fondo i due grandi partiti popolari storici, Spd e Cdu, hanno sempre fatto digerire di tutto al proprio elettorato in nome della stabilità e della continuità, additando l’estrema destra come una grave minaccia per questi sacri principii. Ma la situazione in Germania è tutt’altro che stabile e non sarà un cancelliere eletto a fatica a restituire alla Repubblica federale le sue certezze di un tempo.
Commenta (0 Commenti)Dall'Iran alla Siria La guerra, cominciata con l’attacco di Hamas il 7 ottobre 2023, in atto su diversi fronti, è ormai la più lunga negli 80 anni di storia dello stato ebraico e all’interno della società cresce un movimento di opposizione con una consistente partecipazione popolare
Il premier israeliano Netanyahu con il presidente Trump alla Casa bianca – Ap/Susan Walsh
Quando un giorno vedremo la Papamobile, donata ai palestinesi da Bergoglio, entrare a Gaza forse la Striscia non esisterà più e il Medio Oriente sarà ancora un volta dilaniato dalla guerra e dal caos. I piani dell’escalation israeliana si delineano su cinque fronti: Gaza, Siria, Libano, Yemen e Iran, accusati questi ultimi due di avere coordinato il lancio del razzo non intercettato sull’aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv. Qualcuno pensa che la “diplomazia” di Trump possa fermare il governo Netanyahu? C’è da dubitarne visti i precedenti del presidente Usa e dei governi americani che lo hanno preceduto.
Il piano israeliano per Gaza approvato nella notte tra domenica e lunedì – che prevede il richiamo di migliaia di riservisti – comprende la conquista della Striscia e l’intensificazione degli attacchi contro Hamas. Durante la riunione del gabinetto di sicurezza il primo ministro israeliano ha affermato che continuerà a «promuovere il piano di Trump» per «la partenza volontaria degli abitanti di Gaza».
IN SINTESI: conquista e pulizia etnica. I palestinesi verranno cacciati dal nord e dal centro per essere concentrati nel sud della Striscia, il che significa moltiplicare il disastro umanitario già in atto in una sorta di inferno dove da oltre due mesi non entrano aiuti per il blocco israeliano.
Gaza è sull’orlo della carestia: «Lì non entrerà neppure un chicco di grano», aveva dichiarato il 7 aprile il ministro delle finanze Smotrich. A lui e a questo governo non importa nulla che usare come un’arma gli aiuti umanitari è una violazione del diritto internazionale. Tutto questo non accade per caso è ma un piano fortemente voluto dalla leadership israeliana che intende cacciare i palestinesi dalla Striscia, vivi o morti.
La catastrofe umanitaria sulle sponde del Mediterraneo è creata apposta per mettere con le spalle al muro la comunità internazionale e il mondo arabo, costretti, un giorno, a fare qualche cosa davanti alle immagini dei palestinesi che muoiono di fame. Ma questa è un fase già avanzata della crisi: prima gli israeliani concentreranno la popolazione in campi profughi, chiamati «isole», dove sopravvivere a stento o morire lentamente e senza alcuna prospettiva per il futuro. Noi staremo a guardare e dei gazawi resteranno gli scheletri: ecco come va a finire il piano Trump di «Gaza Riviera», per coloro che ancora credono alle sue pericolose carnevalate.
Certo, non tutto per Netanyahu va bene. La guerra, cominciata con l’attacco di Hamas il 7 ottobre 2023, in atto su diversi fronti, è ormai la più lunga negli 80 anni di storia dello stato ebraico e all’interno della società cresce un movimento di opposizione con una consistente partecipazione popolare. Per contrastarlo il premier continua a ordinare le mobilitazione dei riservisti: Israele, nella sua testa e in quelle dell’estrema destra al potere, deve diventare un paese in stato di mobilitazione permanente ed effettiva. Siamo allo stadio finale del sionismo? Una nazione colonizzatrice sempre in armi ma mai sicura, con un leadership che non si cura più neppure della sorte dei suoi ostaggi. Un messaggio di morte, non di vita.
PER GIUSTIFICARE la mobilitazione permanente si aprono nuovi fronti. Tra questi la Siria sta assumendo un ruolo sempre più importante, con l’invio di truppe sul campo che, secondo lo stato ebraico, avrebbero il compito di proteggere i drusi dopo una serie di episodi violenti nel paese. Alcuni di loro, infatti, si sono rivolti a Israele dopo aver subìto attacchi da parte di gruppi radicali sunniti, ma altri temono che il coinvolgimento di Tel Aviv possa trascinare la Siria, ma anche in Libano, verso la tanto temuta divisione del suo territorio. Non è un caso che il leader druso libanese Walid Jumblatt abbia appena compiuto una visita inaspettata a Damasco al siriano Al Jolani.
Qual è la strategia dello stato ebraico? Fare leva sulle questioni etnico-settarie per ridurre il Medio Oriente a micro entità facilmente manovrabili. Certo, in Siria le cose non vanno esattamente come vorrebbe Netanyahu, basti pensare all’accordo tra Erdogan e i curdi e alla stessa presenza militare della Turchia. Ma la cosa essenziale per Israele – e per gli Usa – è la destabilizzazione continua per imporsi come potenza egemonica in Medio Oriente, evitando qualsiasi trattativa che possa implicare concessioni.
Anche nel complesso militar-industriale israelo-americano non sempre le cose vanno come vuole Netanyahu. Almeno in apparenza. Per ora Trump sembra voler frenare un eventuale attacco di Israele all’Iran che comunque può contare su alleati come Mosca e Pechino, capitali con cui gli Usa devono trattare sull’Ucraina e sui dazi. Ma Netanyahu morde il freno: nel suo progetto di escalation vede rovine fumanti in tutto il Medio Oriente, la scomparsa definitiva di intere nazioni e dei loro popoli. Una guerra senza fine.
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Dov'è il diritto Da due mesi a Gaza non entra nulla, niente cibo, medicine, nessun bene necessario alla sopravvivenza di una popolazione bombardata, sfollata, ferita e già ridotta allo stremo. Di fronte alla […]
Da due mesi a Gaza non entra nulla, niente cibo, medicine, nessun bene necessario alla sopravvivenza di una popolazione bombardata, sfollata, ferita e già ridotta allo stremo. Di fronte alla paralisi, ignobile, dei nostri rappresentanti statali e degli organismi internazionali, un piccolo gruppo di attivisti si è organizzato attorno alla Freedom Flotilla, un’iniziativa della società civile per portare assistenza alla popolazione intrappolata. Le notizie riportano che la barca che avrebbe dovuto trasportare circa 30 persone e gli aiuti è stata attaccata di notte da un drone in acque internazionali al largo di Malta.
Il pensiero va indietro nel tempo, a 15 anni fa: la Mavi Marmara – la più grande tra le barche con a bordo centinaia di attivisti da tutto il mondo che tentavano di rompere il blocco di Gaza – fu presa d’assalto nella notte del 31 maggio 2010 da forze speciali israeliane. Il bilancio fu di nove civili uccisi e quasi trenta feriti. Nonostante le commissioni di inchiesta e le insistenti richieste, anche alla Corte penale internazionale (Cpi), di processare i responsabili di questo apparente crimine di guerra, non c’è stata mai alcuna forma di giustizia, né a livello interno né internazionale.
Il blocco di Gaza non ha due mesi di vita: con intensità diverse, da decenni Israele impone questa forma di punizione collettiva alla popolazione di quel piccolo lembo di terra. La politica di chiusura, o blocco, o assedio, di Gaza è praticata dagli anni Novanta: è da allora che il Palestinian Center for Human Rights di Gaza (Pchr) ha iniziato a documentare le restrizioni alla circolazione di persone e di beni a Gaza, ben prima dell’avvento di Hamas al potere. La situazione è drammaticamente peggiorata dal 2007, dopo la presa del potere di Hamas nella Striscia: Israele dichiarò l’intera Gaza «un’entità nemica» e alzò il livello di una politica illegale già in atto, centellinando tutto ciò che entrava a Gaza, perfino le calorie consumabili dalla popolazione – calcolate su quel minimo necessario per passare il vaglio dei giudici. È in quegli anni, che organizzazioni per i diritti umani, tra cui alcune israeliane, come Gisha, insieme a quelle palestinesi, iniziarono a denunciare insistentemente il blocco come illegale e a presentare petizioni ai tribunali israeliani per contrastare i divieti di ingresso a Gaza di merci fondamentali – cibo e medicinali ma anche il carburante per l’elettricità, necessaria al funzionamento di tutte le infrastrutture civili, tra cui gli ospedali. Come accade oggi, anche 15 anni fa le corti israeliane diedero di fatto mano libera al governo sulla base di presunte esigenze di sicurezza.
Ciò che sta avvenendo oggi e il compimento di quella politica, è l’atto finale di decisioni che vengono da lontano. Ciò che sconvolge ulteriormente è che ciò avviene mentre alla Corte internazionale di giustizia (Cig) si continua a discutere degli obblighi di Israele rispetto alla popolazione civile palestinese, che è popolazione protetta (compresa quella di Gaza) in base al diritto internazionale umanitario, tra cui la IV Convenzione di Ginevra.
Proprio questa settimana, mentre l’Unrwa e le altre organizzazioni umanitarie continuano a suonare allarmi sempre più disperati sulla catastrofe umanitaria in corso a Gaza – mostrandoci foto strazianti, specie di bambini, che muoiono di fame davanti ai nostri occhi – si susseguono le udienze all’Aia, dove i delegati di oltre 40 Stati hanno preso una chiara posizione contro le politiche di Israele di questi mesi e alla decisione di impedire alle agenzie delle Nazioni unite che prestano assistenza ai palestinesi di svolgere la propria missione.
Assistiamo impotenti, come se l’Onu non potesse fare nulla di fronte alla più grande violazione di tutti i principi posti alla base della sua Carta, lasciando nelle mani di trenta attivisti su una barca il tentativo (già fallito) di rompere l’assedio di Gaza. Come può essere che la più importante organizzazione internazionale, l’Onu, non possieda alcun meccanismo giuridico attivabile di fronte a uno Stato che sta affamando la popolazione civile come arma di guerra, come riconosciuto nei mandati di arresto della Cpi, e i cui atti sono in discussione quali atti di genocidio davanti alla Cig?
Il diritto internazionale non si «auto-esegue»: le Corti prendono decisioni, ma spetta agli Stati renderle esecutive. È vero tanto nel caso dell’obbligo di prevenire un genocidio (gli ordini emessi nel 2024 dalla Cig verso Israele sono rimasti lettera morta), quanto del parere consultivo del 19 luglio 2024 sull’illegalità dell’occupazione di tutto il territorio palestinese (Cisgiordania, inclusa Gerusalemme est e Gaza), che la Corte ha dichiarato debba cessare «il più rapidamente possibile». Il governo di Israele, lo ha dimostrato, non si fermerà – nemmeno di fronte a una eventuale sentenza della Cig. Netanyahu è oggetto di un mandato di arresto per gravissimi crimini di guerra e contro l’umanità spiccato dalla Cpi. Eppure, nessuno Stato sta prendendo misure concrete per costringerlo a rispettare i principi dello stato di diritto, il divieto di commettere un genocidio o almeno quelle regole basiche del diritto internazionale umanitario, in cui gli Stati fanno ancora finta di credere nei loro argomenti davanti alla massima autorità giudiziaria dell’Onu.
Commenta (0 Commenti)Medio Oriente Tante le sfide, a partire dal sicuro veto Usa all’Onu. Un ostacolo che non è insuperabile: paesi e gruppi della società civile possono e devono agire in autonomia. L’alternativa è continuare a lasciare le vite dei palestinesi senza protezione, alla mercé di un processo di sterminio coloniale sempre più intenso
Membri dell’Onu al valico di Karem Abu Salem – Ap/Abed Rahim Khatib
Nelle ultime settimane sono ricomparse le richieste di dispiegamento di una forza di protezione a Gaza e in Cisgiordania. Sono giunte da operatori sanitari e organizzazioni mediche, da ong palestinesi e da civili arabi. L’anno scorso, anche la Lega araba e le organizzazioni per i diritti umani hanno chiesto l’invio di una forza di pace a Gaza.
Alla luce della normalizzazione globale del genocidio in diretta e della riluttanza politica ad applicare il diritto internazionale, questa richiesta rappresenta una misura minima per salvaguardare i palestinesi da orrori inimmaginabili.
La richiesta è saldamente fondata sul diritto internazionale. A Gaza, una forza di pace potrebbe portare avanti il dovere degli Stati e delle Nazioni unite di proteggere un popolo che sta affrontando un genocidio, crimini di guerra e crimini contro l’umanità sotto inchiesta presso la Corte internazionale di giustizia e la Corte penale internazionale. Sia a Gaza che in Cisgiordania, tali forze potrebbero sostenere il processo di cessazione dell’occupazione, come richiesto dall’Assemblea generale delle Nazioni unite e dalla Corte Internazionale di Giustizia.
Tuttavia, la richiesta di una forza di protezione deve affrontare sfide importanti. La domanda cruciale è: possono essere superate?
La giustificazione di una forza di protezione
La situazione a Gaza e in Cisgiordania ha raggiunto un’urgenza e un’estremizzazione senza precedenti. La pressione militare esercitata dai gruppi armati in Libano e nello Yemen nel tentativo di proteggere il popolo palestinese non è riuscita a fermare le atrocità e i popoli libanese e yemenita ha pagato un prezzo pesante.
Ecco perché è urgente una forza di protezione internazionale. Il suo dispiegamento realizzerebbe ciò che la popolazione palestinese chiede alla comunità internazionale: proteggerla. Questa forza servirebbe come «scudo umano» – non nel senso dispregiativo utilizzato dall’esercito israeliano per giustificare il suo genocidio etichettando l’intera popolazione palestinese come scudo umano, ma nel senso di una barriera letteralmente pacifica tra i palestinesi e il loro annientamento.
La sua presenza potrebbe fare la differenza tra la vita e la morte di massa per i civili che hanno affrontato un anno e mezzo di bombardamenti, assedio e fame.
Inoltre, questa forza offre un’alternativa critica a «soluzioni» più sinistre. Mentre Israele intensifica la sua campagna genocida, imponendo condizioni volte a distruggere la vita dei palestinesi, gli Stati uniti hanno ventilato l’idea di dispiegare le proprie truppe a Gaza per «prenderne il controllo». Questa mossa costituirebbe un’invasione illegale degli Stati uniti in Palestina, rafforzando ulteriormente la violenza coloniale con il pretesto di mantenere la «stabilità». Al contrario, forze incaricate di proteggere i palestinesi – e non gli interessi imperiali e coloniali – potrebbero fornire una contromisura legittima e fondata a livello internazionale.
Le sfide della formazione di una forza di protezione
Il dispiegamento di forze di protezione su mandato delle Nazioni unite richiede una risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Gli Stati uniti porranno sicuramente il veto a qualsiasi tentativo di creare una forza di questo tipo, così come hanno bocciato diverse risoluzioni di cessate il fuoco, consentendo di fatto un genocidio e bloccando qualsiasi sforzo per sostenere anche i più elementari principi di umanità previsti dalla Carta delle Nazioni unite.
La situazione sta indubbiamente diventando sempre più disperata sotto un’amministrazione statunitense che sostiene attivamente le espulsioni e le deportazioni di massa della popolazione palestinese da Gaza. Lo stesso presidente degli Stati uniti Donald Trump ha descritto la Striscia di Gaza come un «sito di demolizione» e ha espresso il desiderio che gli Stati uniti la trasformino nella «Riviera del Medio Oriente».
Poiché una risoluzione che richiede una forza di protezione sarebbe bloccata dal Consiglio di Sicurezza, l’alternativa è una chiamata all’azione multilaterale attraverso l’Assemblea generale. Anche in questo caso, il potere coercitivo degli Stati uniti influenza pesantemente i voti – compresi quelli dell’Autorità Palestinese – ma si tratta comunque di un’opzione praticabile. Una mossa del genere potrebbe avvenire non prima della prossima sessione dell’Assemblea generale di maggio e richiederebbe un’immensa pressione diplomatica.
Un voto a favore di una forza di protezione da parte dell’Assemblea non sarebbe vincolante e richiederebbe l’approvazione del Consiglio di Sicurezza. Tuttavia, potrebbe contribuire a creare una coalizione di paesi che segnalino la loro volontà di intervenire con misure di protezione concrete in difesa della vita dei palestinesi dopo 19 mesi di parole vuote senza azioni tangibili.
Un’altra sfida è rappresentata dal fatto che il meccanismo di dispiegamento delle forze di pace è stato a lungo considerato con sospetto dagli Stati del Sud globale – e per una buona ragione. Le truppe di mantenimento della pace delle Nazioni unite sono spesso servite come strumenti di polizia nel Sud globale e come estensione del controllo imperiale, a volte commettendo esse stesse atrocità.
Storicamente, il mantenimento della pace si è in gran parte allineato con gli interessi imperiali, raramente opponendosi ad essi. I paesi che contribuiscono con le truppe hanno spesso alleanze militari discutibili e le operazioni di mantenimento della pace dipendono dai finanziamenti di grandi donatori, come gli Stati uniti. Un buon esempio è la missione di pace Unifil in Libano, che ha una presenza europea insolitamente alta e che non è riuscita a proteggere il sud del paese dall’aggressione di Israele.
Alla luce di tutte queste sfide, dobbiamo rinunciare alla richiesta di una forza di protezione nei territori palestinesi occupati? Assolutamente no.
Una riprogettazione radicale delle forze di protezione
Gli ostacoli sono reali, ma la richiesta di una forza di protezione è legittima. Proviene da diversi settori della stessa società palestinese ed è sostenuta a livello globale da individui e gruppi antigenocidio.
In una recente petizione, operatori sanitari palestinesi e internazionali hanno proposto un modello: una missione protettiva neutrale e multinazionale – non per mediare, ma per proteggere. Le loro richieste includono l’esclusione delle nazioni complici dell’aggressione dall’apporto di truppe e il mandato alla forza di protezione di proteggere fisicamente i civili palestinesi e gli operatori sanitari, per ristabilire corridoi umanitari e medici sicuri e sostenere la ricostruzione a guida palestinese delle infrastrutture annientate di Gaza. Allo stesso modo, la Rete delle ong palestinesi ha chiesto la protezione internazionale, l’apertura dei valichi verso Gaza e la garanzia di corridoi sicuri per gli aiuti.
Nel frattempo, i civili egiziani hanno ripetutamente dichiarato di essere pronti a entrare a Gaza come forza di protezione civile in caso di apertura delle frontiere. Ciò sottolinea il potenziale di protezione alimentato dalle persone, accanto ai meccanismi formali.
Per tradurre in azione questi molteplici appelli, è necessario ripensare radicalmente l’aspetto e il funzionamento di una forza di protezione.
In primo luogo, è necessario che gli Stati non coinvolti nel genocidio e i gruppi della società civile spingano per aggirare il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni unite. Devono concentrare tutti gli sforzi e l’influenza sulla sessione speciale di emergenza dell’Assemblea generale dell’Onu che si terrà a maggio, per resistere alle pressioni degli Stati uniti e spingere per un voto su un mandato di mantenimento della pace.
In secondo luogo, abbiamo bisogno di nuove alleanze Sud-Sud. Significa partenariati strategici tra le nazioni del Sud globale non coinvolte nel genocidio per finanziare e fornire personale a una missione libera da influenze imperiali, che possa procedere anche senza l’autorizzazione del Consiglio di Sicurezza.
In terzo luogo, abbiamo bisogno di una mobilitazione senza precedenti della società civile in un’unica direzione: fare pressione sui governi affinché sostengano e partecipino a una forza di protezione veramente neutrale.
Gli Stati uniti si opporrebbero alla creazione di nuove coalizioni che mettano al centro la vita dei palestinesi e si presentino come i campioni meridionali della dottrina della responsabilità di proteggere. Vedrebbero in ciò una sfida alla loro egemonia e al monopolio occidentale del discorso sull’antigenocidio e userebbero il loro veto in seno al Consiglio. Tuttavia, i paesi e i gruppi della società civile coinvolti nella creazione della forza di protezione dovrebbero ignorare il veto, formare la missione in modo autonomo e sfidare l’ordine internazionale genocida in cui viviamo.
Le sfide che questo sforzo di re-immaginazione radicale deve affrontare sono formidabili. Ma l’alternativa è continuare a lasciare le vite dei palestinesi senza protezione, alla mercé di un processo di sterminio coloniale sempre più intenso. Dobbiamo agire ora e spingere per una forza di protezione per la Palestina occupata.
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51esimo stato Reduce dall’inutile trasferta di Roma, Donald Trump ha pensato di combattere il jet-lag con un post su Truth Social ieri all’alba, prima che si aprissero i seggi per le politiche in Canada: «Buona fortuna al grande popolo del Canada mentre oggi andate a votare!»
Donald Trump in Michigan per il raduno per i suoi 100 giorni – Ap
Reduce dall’inutile trasferta di Roma, Donald Trump ha pensato di combattere il jet-lag con un post su Truth Social ieri all’alba, prima che si aprissero i seggi per le politiche in Canada: «Buona fortuna al grande popolo del Canada mentre oggi andate a votare!»
Basta con una linea di confine tracciata artificialmente tanti anni fa. Guardate quanto sarebbe bello questo territorio. Accesso libero, SENZA CONFINI (…) se solo il Canada diventasse il prezioso 51° Stato degli Stati Uniti d’America”. Detto, fatto! I canadesi sono andati a votare e, non solo hanno dato la maggioranza al partito liberale, ma hanno anche eliminato dal Parlamento Pierre Poilievre, leader dal partito conservatore e marionetta di Trump.
In effetti il Gangster-in-Chief ha compiuto un miracolo politico: in gennaio i liberali stavano 27 punti dietro i conservatori nei sondaggi: secondo Abacus i conservatori avrebbero ricevuto il 47%, dei suffragi e i liberali di Justin Trudeau il 20%. Non solo: i liberali rischiavano addirittura di diventare il terzo partito, dietro il socialdemocratico Ndp, stimato attorno al 18% ma in crescita. Poi sono arrivati i dazi e le minacce di annessione, un cocktail ideale per resuscitare il nazionalismo canadese dormiente e lanciare il successore di Trudeau, Mark Carney, verso la vittoria.
Il Canada è un boccone un po’ grosso per chiunque e Donald Trump, per di più, non aveva studiato la storia della guerra del 1812, quando gli Stati Uniti invasero il loro vicino del Nord (allora colonia della Gran Bretagna) perdendo sette battaglie di fila e ritrovandosi infine con la Casa Bianca bruciata dagli inglesi, il 24 agosto 1814. L’unica vittoria avvenne a New Orleans ma a guerra finita: il trattato di pace era stato firmato qualche settimana prima.
Carney è un rappresentante un po’ anomalo del centrosinistra: il suo curriculum riporta infatti che è stato governatore sia della Banca centrale canadese che della Banca d’Inghilterra (il primo straniero a ricoprire questa carica dalla fondazione, nel 1694). Non solo: era stato lui a adottare politiche monetarie straordinarie per contrastare gli effetti della crisi finanziaria scoppiata negli Stati Uniti nel 2008, in particolare attraverso l’uso del Quantitative Easing, ovvero l’acquisto massiccio di obbligazioni governative per immettere liquidità nell’economia, con l’obiettivo di stimolare la crescita e ridurre la disoccupazione. Una politica che, secondo simulazioni della stessa Bank of England avevano fatto crescere il pil britannico dell’8% e ridotto la disoccupazione del 4%.
Carney aveva anche introdotto la pratica della forward guidance, ovvero di indicazioni chiare e anticipate sulle future scelte di politica monetaria, per ridurre l’incertezza dei mercati: esattamente l’opposto di quanto ha fatto, e fa, Trump imponendo dazi la mattina per revocarli o modificarli la sera. Questo approccio aveva aiutato a stabilizzare le aspettative di inflazione e a mantenere la fiducia degli investitori.
Come primo ministro, Carney ha immediatamente applicato dei contro-dazi su prodotti statunitensi per un valore compreso tra 30 e 60 miliardi di dollari canadesi, colpendo settori chiave come acciaio, alluminio, prodotti agricoli, auto. Queste tariffe sono state pensate per avere effetto immediato e rimarranno in vigore fino a quando gli Stati Uniti non ritireranno le misure protezionistiche. In risposta a minacce specifiche di Trump su acciaio e alluminio automobili, il Canada ha minacciato ulteriori ritorsioni in settori come l’elettricità e i prodotti alimentari. Alcune province canadesi (Ontario, Québec, British Columbia) hanno poi rimosso dagli scaffali dei negozi birra, vino e liquori statunitensi come ulteriore forma di pressione economica e simbolica.
Ciliegina sulla torta: Carney ha dichiarato che la cooperazione in materia di difesa con gli Stati Uniti «è finita» e che, anzi, Washington è oggi «una minaccia per la sicurezza nazionale» del Canada.
In questo clima, c’è stata un’affluenza record alle urne, superiore al 70%, con alcune circoscrizioni che hanno registrato code ai seggi e un numero mai visto prima di voti espressi in anticipo: oltre 7,3 milioni. I liberali hanno ovviamente tratto vantaggio dalla percezione che Carney fosse l’unico in grado di opporsi efficacemente a Trump, sottraendo due terzi del suo elettorato al socialdemocratico Ndp, che passa dal 18% nel 2021 al 6% circa oggi. I conservatori, dal canto loro, possono consolarsi con il fatto di aver mantenuto una base di consenso solida, con circa il 41% dei suffragi popolari e tra i 137 e i 144 seggi in parlamento.
Commenta (0 Commenti)Palestina Intervista a Nicola Fratoianni in Palestina con una delegazione di AVS
Prosegue la missione in Palestina di Nicola Fratoianni e altri quattro parlamentari di Avs – Angelo Bonelli, Giuseppe De Cristofaro, Francesco Mari e Marco Grimaldi – accompagnati da Luisa Morgantini, già vicepresidente dell’Europarlamento. Obiettivo della delegazione è vedere con i propri occhi la condizione dei palestinesi sotto occupazione, osservare le pratiche del governo israeliano e incontrare rappresentanti della società civile e della politica palestinese. «L’impressione che si ha da lontano è che, oltre la tragedia infinita di Gaza, sia in corso ovunque un’accelerazione dei processi di espulsione, non solo fisica, ma anche politica della questione palestinese», ci dice Fratoianni, che abbiamo incontrato a Gerusalemme Est.
Ti riferisci alla Cisgiordania e a Gerusalemme?
Sì, girando per due quartieri di Gerusalemme Est, i palestinesi, gli abitanti, ci hanno riferito che dopo il 7 ottobre 2023 tutto corre più velocemente: gli sgomberi, le demolizioni delle case, la violenza dei coloni israeliani, tante violazioni. Essere qui ora significa per noi parlare, ascoltare, confrontarsi, vedere quello che accade e provare ad accendere un faro ulteriore su ciò che sta succedendo.
Ciò che hai descritto viene percepito fino in fondo in Italia, all’interno del Parlamento?
C’è una parte che lo percepisce, che è consapevole, attenta e solidale. Ci sono stati dei passi avanti importanti, anche tra le opposizioni. La mozione unitaria che abbiamo presentato con il Partito democratico e il Movimento 5 Stelle pochi giorni fa rappresenta un salto di qualità importante, sia sul piano della consapevolezza che su quello della nettezza delle richieste. Per la prima volta tutti insieme abbiamo chiesto cose importanti come il riconoscimento dello Stato palestinese, il blocco di ogni commercio di armi (con Israele), la sospensione del trattato di associazione tra UE e Israele, e l’imposizione di sanzioni contro il governo israeliano, non solo contro i singoli coloni responsabili di violenze e reati. Allo stesso tempo, l’attenzione su ciò che accade fuori da Gaza, in Cisgiordania e a Gerusalemme, è meno presente. Per questo ci è parso necessario venire. Sono inoltre in preparazione altre missioni, come la seconda carovana solidale verso Rafah.
Fuori dal Parlamento, però, il movimento pro-Palestina vi ripete che non è abbastanza e che occorre fare di più.
Non so dire cosa sia abbastanza. Certo, sul piano politico mi sembra che quanto abbiamo incluso nella mozione unitaria sia ciò che deve essere posto su quel terreno. È una posizione che pone con grande forza un tema che riguarda in modo drammatico la vicenda palestinese, ma anche, più in generale, il mondo di oggi: la centralità e la difesa del diritto internazionale. Penso al rapporto con la Corte Penale Internazionale, in particolare ai mandati di arresto come quello nei confronti del premier israeliano Netanyahu. O al doppio standard che, ad esempio, la comunità europea utilizza: da un lato rispetto all’invasione russa dell’Ucraina, dall’altro rispetto alla vicenda di Gaza e della Cisgiordania. Il diritto internazionale è il cuore della questione, ed è su questo terreno che occorre posizionare la battaglia politica.
Su questo, come giudichi la linea del governo Meloni?
La vedo molto male. Glielo abbiamo detto molte volte in questi mesi, con il numero enorme di atti parlamentari, interrogazioni e question time che abbiamo presentato. La risposta che viene dal governo italiano oscilla tra l’ipocrisia e la complicità. E l’ipocrisia che si ripete all’infinito diventa complicità.
La giurista italiana Francesca Albanese, Relatrice dell’Onu per i diritti umani nei Territori occupati, è attaccata da più parti per ciò che dice sulle violazioni israeliane a danno dei palestinesi. Le autorità italiane, il governo Meloni, dovrebbero fare di più per difenderla e proteggerla?
Dovrebbero fare molto di più, non perché è italiana, ma per ciò che dice, che non è il frutto di una sua posizione politica, bensì il risultato delle sue osservazioni e dei suoi studi. È il frutto del diritto internazionale. Il fatto che Albanese sia attaccata nel modo in cui è attaccata, e che non sia difesa nel modo in cui dovrebbe essere difesa, conferma che la questione del diritto internazionale – oggi sotto attacco – è in questo momento la più a rischio.
A Gaza si va verso la deportazione dei palestinesi proposta da Donald Trump, o è un piano non realizzabile?
Non so se sia realizzabile o meno. Intanto quelle cose sono state pronunciate di fronte a un silenzio – per fortuna non totale – che di per sé è assai preoccupante. È concreto il rischio di una guerra che non si fermi davanti a nulla, in cui non si trovi lo spazio nel quale possano inserirsi la trattativa e la diplomazia, con il diritto internazionale come leva fondamentale.
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