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Delusione referendum Il 70% di astenuti è una conferma di come in questo paese sia in via di sparizione l’elemento base della partecipazione

Riconoscere la sconfitta per ripartire Operazioni di spoglio delle schede – Ansa

La prima cosa da fare davanti a una sconfitta è riconoscerla come tale. Certo, ci sono anche dei segnali che, con qualche sforzo, possono essere interpretati positivamente, poco più di 14 milioni di elettori sono comunque andati a votare in condizioni difficili con l’ostilità e il boicottaggio del governo. Ma non si mettono in piedi cinque referendum per fare un sondaggio sulle intenzioni di voto degli italiani. Né è corretto interpretare i 12 milioni di sì al referendum (media dei quattro quesiti sul lavoro, estero escluso) come la prova dell’esistenza di una maggioranza alternativa rispetto ai 12 milioni e 300mila voti messi insieme dal centrodestra in una consultazione tutta diversa tre anni fa. Non è corretto numericamente e non lo è logicamente, visto che i promotori si erano appellati anche agli elettori di Meloni perché andassero a votare per i loro diritti di lavoratori, a prescindere dalle preferenze politiche.

L’appello agli elettori di destra potrebbe avere in parte funzionato, come proverebbero i dati di affluenza di certe periferie urbane, migliori dei centri storici malgrado la sinistra da anni non tocchi palla ai margini delle città. Anche il fatto che nel quinto referendum, quello sulla cittadinanza, la percentuale di no sia quasi il triplo rispetto agli altri quesiti consiglia di conteggiare tra i votanti effettivi anche un po’ di elettori di destra, per quanto sia soprattutto la (preoccupante) conferma che l’ostilità verso i migranti è penetrata anche tra quelli di sinistra.

Dunque è di una sconfitta che dobbiamo parlare. Perché i referendum abrogativi si tentano pensando di poterli vincere per rimediare a leggi sbagliate, non avendo il sindacato altro modo per ottenere il risultato e non potendo fare affidamento sui partiti di opposizione. Magari il fatto che questi partiti – tirati dentro una sfida che non avrebbero voluto – abbiano ripreso contatto con il mondo del lavoro e le assemblee sindacali durante la campagna elettorale possiamo esaltarlo come uno dei pochi lasciti positivi del referendum, ma più di tutto speriamo che duri.

Oggi è soprattutto la sconfitta, l’affluenza inferiore anche alla soglia psicologica del 35% sulla quale ufficiosamente si contava, che pesa. E peserà in favore del governo, quando nei tavoli sindacali potrà dire che su appalti e subappalti la soluzione prevista in caso di vittoria del referendum, la più utile e ragionevole, è stata bocciata dagli italiani. Nascondendosi così dietro la volontà popolare, ma volendo in realtà semplicemente continuare a non disturbare le imprese, per quanti morti sul lavoro ci siano. Peserà la sconfitta tutte le volte che si proverà a ribadire il legame stretto tra lavoro povero e precarietà: i referendum non parlavano d’altro rispetto al crollo dei salari. Peserà molto sull’approccio razzista che il governo ha e continuerà ad avere nell’affrontare migranti e migrazioni.

In definitiva dobbiamo ripartire ma non possiamo farlo di slancio.

Non la Cgil, che è una grande organizzazione anche nel confronto con gli altri sindacati europei: porterà il segno della sconfitta e avrà bisogno di sintonizzarsi da capo, nell’attività sindacale, con la grande maggioranza dei lavoratori che non ha più fiducia nelle indicazioni dei suoi rappresentanti e nemmeno nelle forme di democrazia diretta. E non il centrosinistra che ha davanti, come tutti noi, una gigantesca questione democratica.

Il 70% di astenuti è una conferma di come in questo paese sia in via di sparizione l’elemento base della partecipazione. Ed è anche peggio di una conferma, dal momento che in alcune zone, specie del sud, specie nelle aree interne, si arriva ormai a punte negative di un elettore o due ogni dieci aventi diritto.

Chiaro che adesso debba aprirsi anche una riflessione sullo strumento del referendum abrogativo. Probabilmente strumentale da parte delle destre ma impossibile da respingere in toto. Detto che il referendum si protegge innanzitutto pensandoci bene prima di convocarlo ed evitando azzardi, è vero che la soglia alta del quorum pensata nel 1948 quando votava il 92% degli aventi diritto e confermata venti anni dopo quando l’affluenza era rimasta la stessa, non ha più alcun senso. Ma non sarebbe possibile nemmeno abolire del tutto una soglia di validità. Mentre è possibile studiare un meccanismo per cui l’astensione, evidentemente sempre legittima, non parta così clamorosamente in vantaggio e non possa assorbire totalmente la campagna del no. Ragionamenti da fare, a partire da una sconfitta.

 

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Cittadinanza Cambiarla non significa fare un favore o elargire un privilegio, ma rimuovere un ostacolo inutile e ingiusto

Referendum Cittadinanza

 

Cambiarla non significa fare un favore o elargire un privilegio, ma rimuovere un ostacolo inutile e ingiusto che crea «italiani a metà» per richiamare il titolo del libro di Roberta Ricucci. Perché questo è il primo problema che una vittoria al sì contribuirebbe a risolvere. Un’anomalia italiana: siamo il Paese con una normativa tra le più restrittive in Europa. Francia e Germania richiedono 5 anni di residenza per la naturalizzazione, mentre l’Italia ne richiede 10.

Si smetterebbe così, almeno in parte, di penalizzare una fetta consistente di persone che vivono e lavorano in Italia e non – come la destra suggerisce – conferire un diritto «speciale», se non un vantaggio, riservato a pochi. Una normalizzazione che interesserebbe persone che hanno amici italiani, lavorano con noi o per noi, a volte sono ospiti a casa nostra, o con i quali condividiamo gioie e preoccupazioni per i figli che crescono. Persone, però, che non hanno la cittadinanza italiana, che non godono dei nostri stessi diritti e che non beneficiano dell’appartenenza piena alla comunità. Tra questi, anche molti giovani nati o cresciuti in Italia da genitori stranieri che si trovano in una sorta di limbo legale. Situazioni che possono trovare equilibri locali fortunati in relazione alle politiche locali, alla forza sana del tessuto civile e imprenditoriale, alla presenza di tradizioni sociali più o meno consolidate, come racconta nei suoi lavori Tiziana Caponio che ha studiato a lungo il tema.

Le persone che beneficerebbero di una vittoria del sì hanno costruito qui la loro vita quotidiana, relazioni, affetti e progetti per il futuro. Ci hanno dato fiducia, hanno modellato la loro identità in relazione alla nostra. Si sono adattate alle nostre istituzioni e leggi, ai nostri usi e costumi. Imparato la nostra lingua e studiato la nostra storia. Accettato le nostre idiosincrasie e pregiudizi. Apprezzato la nostra amicizia e collaborazione. La posta in gioco, dunque, è anche politica. Anche più dei quesiti referendari sul lavoro, questo referendum raccoglie consensi trasversali che tracciano una sorta di linea di «resistenza civile» che va dal mondo cattolico, a quello liberale agli elettori di sinistra. Dire sì significa anche riconoscersi in un minimo comune denominatore che non si accontenta di essere «non fascista», ma è apertamente ostile al nazionalismo becero e retrogrado che contraddistingue l’azione della destra al potere.

Con il sì al referendum possiamo rifiutare la malsana idea che la cittadinanza debba essere concessa solo a chi dimostra un «reale» legame con l’Italia Da noi, infatti, l’accesso alla cittadinanza resta subordinato a una logica paradossale: devi essere già «integrato» per diventare cittadino. E più lunga è l’attesa – «dopo dieci anni di residenza continuativa legale» – più si è degni di ricevere la cittadinanza. Una metrica bizzarra e priva di fondamento, che decenni di senso comune di destra hanno sedimentato nella narrazione pubblica, a prescindere dai governi e dai ministri. La ricerca scientifica dice l’opposto: è ottenere la cittadinanza a generare integrazione, non viceversa. E più velocemente si ottiene, prima inizia il percorso di integrazione. Non esiste un tempo giusto «che deve passare»: perché dieci anni e non otto? Oppure quindici? O tre? È una scelta politica, che lancia un segnale morale: «noi» siamo i buoni a cui gli «altri» devono dimostrare di assomigliare. Come per la povertà, devi essere «meritevole» per poter ricevere. Solo che porre un lungo apprendistato per diventare italiani come prerequisito per la concessione della cittadinanza (di questo si tratta, non di automatismi tipo ius soli), è in palese contraddizione con ciò che la ricerca ha ampiamente mostrato. Sono ormai numerosi gli studi a sostegno del fatto che chi ottiene la cittadinanza lavora di più, guadagna di più, ha maggiore fiducia nelle istituzioni e migliori risultati scolastici (su questo rimando a Camilla Borgna, Studiare da stranieri, Il Mulino). Non si tratta di un’opinione. Le ricerche sono solide e convergenti: l’accesso alla cittadinanza produce inclusione.

La cittadinanza non è un premio, ma un diritto frenato da sbloccare. Nelle ore che mancano al referendum, a ogni potenziale non votante bisogna chiedere: perché vuoi che persone che parlano la tua stessa lingua, a volte il tuo dialetto, e hanno le tue stesse aspirazioni, non si sentano italiani a pieno titolo?

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Palestina A Gaza è in corso la più feroce, organizzata, duratura operazione di sterminio di una popolazione a cui sia mai stato possibile assistere in diretta quotidiana. E un esperimento per l’Occidente che da venti mesi lascia che Israele proceda. Non c’è altro che valga la pena raccontare, se non la voglia di vita e la capacità di resistenza dei palestinesi

Bambini palestinesi tra le rovine di Jabalia Bambini palestinesi tra le rovine di Jabalia

La più feroce, organizzata, duratura operazione di sterminio di una popolazione a cui sia mai stato possibile assistere in diretta quotidiana. Per questo è anche un esperimento per tutto l’Occidente che da venti mesi lascia che Israele proceda nella distruzione delle vite umane e insieme di ogni regola del diritto internazionale.

Irrecuperabili le prime, dopo Gaza è inservibile anche il secondo. E le deboli parole di condanna verso il governo Netanyahu, che solo adesso arrivano, troppo spesso sono smentite da un sostegno materiale alla sua guerra che non si interrompe.

Non c’è altro che valga la pena raccontare più della tragedia quotidiana di questa pulizia etnica predatoria che sta rendendo Israele odioso alle opinioni pubbliche del mondo, anche in ragione della connivenza dei suoi alleati, rinfocolando il male dell’antisemitismo.

Niente altro se non la voglia di vita e la capacità di resistenza dei palestinesi, a Gaza come in Cisgiordania, cinicamente messe in gioco da Hamas e scientificamente prese di mira dal governo israeliano.

Una sciagura cominciata assai prima del brutale attacco terroristico del 7 ottobre ma che da quel giorno si è aperta come una voragine nella storia, un abisso della civiltà che non si può smettere di guardare e raccontare.


LEGGI L’EDIZIONE SPECIALE DEL 6 GIUGNO 2025

***Quello di oggi è un numero speciale, nato dal dibattito nel nostro collettivo. Da 20 mesi, e 54 anni, il manifesto racconta la Palestina. Oggi, 6 giugno 2025, trovate una sola notizia nelle nostre pagine: il genocidio in corso a Gaza ma anche la lunga resistenza, politica, sociale e culturale, del popolo palestinese al colonialismo. Ogni sezione della redazione si è dedicata, secondo la propria grammatica, a questo unico tema e ha accolto tra le pagine i contributi di altre e altri compagni di viaggio, palestinesi e israeliani.

Il guadagno delle vendite sarà destinato ai progetti della campagna «Emergenza Gaza» di Aoi, l’Associazione delle organizzazioni italiane di cooperazione e solidarietà internazionale

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Testimonianza «Sono un’architetta che non costruisce più nulla se non la memoria che rischia di essere cancellata, l’architetta condannata a scrivere nella polvere della sua casa diventata cenere»

Una ragazza palestinese ispeziona la devastazione causata da un attacco israeliano foto Abed Rahim Khatib/Ap Una ragazza palestinese ispeziona la devastazione causata da un attacco israeliano – foto Abed Rahim Khatib/Ap

Dall’apocalisse di Gaza, in presenza di una lunga morte, in un Paese dove la vita è diventata un atto quotidiano di sopravvivenza, vi scrivo la mia testimonianza sanguinante – io, Alia Shamlakh. L’architetta che non costruisce più nulla se non la memoria che rischia di essere cancellata, l’architetta condannata a vivere tra le mappe distrutte e a scrivere nella polvere della sua casa diventata cenere. Eppure, io continuo a stare sopra le macerie e a cercare di portare a termine la mia missione, anche se tutto intorno a me distoglie lo sguardo. Scrivo la mia testimonianza con la speranza che sia un grido udibile di fronte a un mondo che è diventato sordo al crimine.

HO 37 ANNI, di cui due trascorsi nel cuore del massacro. Nei giorni del genocidio e della feroce carestia. Due anni di spostamenti ripetuti e continui, di tentativi di sopravvivenza, di danze sul filo del rasoio tra la vita e la morte. Qui la sopravvivenza è un evento eccezionale, non perché sappiamo come sopravvivere, ma perché schiviamo la morte per caso, è una questione di pochi minuti o di coincidenza. La nostra casa è stata bombardata mentre eravamo dentro. Noi, i nostri figli e i miei genitori anziani. Non siamo stati feriti, nessuno è morto in quel momento, ma la morte ci ha circondato e accompagnato, in tutti i luoghi che pensavamo «sicuri». Ci siamo rifugiati in un ospedale per sicurezza, ma abbiamo scoperto che ci stavamo rifugiando in una trappola. Piovevano proiettili ed eravamo intrappolati con centinaia di sfollati, affamati, assetati, terrorizzati. Le pareti tremavano, dal soffitto si respirava fumo, i nostri cuori morivano ogni volta e non venivano seppelliti.

Siamo fuggiti a sud di Gaza, a casa di un parente a Khan Younis, poi siamo fuggiti di nuovo all’estremo sud, a Rafah, poi a Deir al-Balah e poi di nuovo, speriamo per l’ultima volta, a Gaza City. Qui, all’inferno, non c’è spazio per pianificare. Bisogna improvvisare, tanto anche le aree «di sopravvivenza» vengono bombardate. Ricominciamo ogni volta, non perché siamo «forti», come alcuni amano dire, ma perché fermarsi è un lusso che non possiamo concederci. Stiamo solo salvando i nostri figli dall’orrore del momento, in attesa dell’orrore successivo.

IN 20 MESI di sfollamento e di fuga dalla morte, abbiamo costruito temporaneamente la nostra vita in una tenda. Una piccola tenda sulla strada che a malapena riesce a contenere il nostro respiro, figuriamoci tredici corpi. Nessuna sicurezza. Nessuna privacy. Nessun bene essenziale per vivere. Nel nostro sfollamento i nostri figli hanno dormito sulle piastrelle, sulla terra, all’aperto. Hanno sofferto la fame.

ABBIAMO STIPENDI e soldi, ma non servono a nulla quando non c’è più nulla. Stiamo ancora vivendo una carestia feroce che ci ha fatto rimpiangere quel poco cibo in scatola che potevamo trovare qualche mese fa. I nostri corpi si sono indeboliti, il peso è sceso, la memoria si è offuscata, la concentrazione si è affievolita. Tutti noi abbiamo contratto epatiti, malattie della pelle, infezioni e la nostra psiche è danneggiata come se ci stessimo lentamente consumando fino a esaurirci.

TUTTO NELLA NOSTRA VITA è tornato a un livello primitivo. Cuciniamo con la legna da ardere. Facciamo il bagno ai nostri figli con l’acqua che portiamo da lontano e che riscaldiamo sul fuoco. Facciamo lunghe code per un litro d’acqua. Viaggiamo su carri distrutti, logori, a volte trainati da animali. Sopravvivo per continuare a lavorare. Sì, anche se non sarei nelle condizioni, vado a lavorare perché la missione che ho scelto, o che ha scelto me, non può essere abbandonata. Lavoro per un’organizzazione internazionale per persone con disabilità, cerco di rimanere al lavoro per proteggere l’essere umano, fatto a pezzi davanti ai nostri occhi. Mi chiedo ogni giorno come possa una persona a cui è stato tolto il diritto al riparo, all’acqua e alla dignità, continuare a difendere i diritti degli altri. E ogni volta mi rispondo: vengo da Gaza, da un luogo dove la tenacia non muore, anche se diventa una maledizione. Una maledizione perché stiamo cercando di salvare il salvabile dei nostri diritti, vivendo in una realtà che non rispecchia alcun documento o convenzione sui diritti.

Siamo stati delusi dal mondo intero, non per un motivo complicato, ma perché sceglie di non vedere. Non stiamo morendo in segreto. Tutto è documentato, proprio davanti agli occhi di tutti. Convenzioni, leggi, diritti umani? Foglie al vento o combustibile per il fuoco. Il mondo ha dichiarato la morte della propria coscienza in un freddo silenzio. Ormai ridiamo con nera ironia quando il mondo parla di «dignità umana» e «sicurezza dei civili».

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Destra autoritaria Approvato con la fiducia, il decreto «sicurezza» è adesso con tutti i suoi orrori saldamente nel nostro ordinamento

Risultato del voto per. la conversione in legge del DL sicurezza Risultato del voto per. la conversione in legge del DL sicurezza – LaPresse

Approvato con la fiducia, il decreto «sicurezza» è adesso con tutti i suoi orrori saldamente nel nostro ordinamento. Dobbiamo considerarlo la carta di identità della destra al governo. Non casualmente i senatori che lo hanno difeso in parlamento apparivano per una volta soddisfatti. Non si trattava di far passare le solite mancette o di rimediare a qualche decreto scritto male ingoiandone in silenzio uno nuovo né di aggiungere un altro mattone al castello già pericolante delle norme anti migranti. Stavolta il melonismo ha potuto disegnare il suo mondo.

Ascoltando i senatori della destra, abbiamo scoperto che le nostre città sono sull’orlo del collasso criminale. Insicurezza diffusa, furti e scippi da parte di donne armate di figli, rivolte agli angoli delle strade e negozianti in preda al terrore, sparatorie, migranti sbarcati a legioni con l’unico scopo di commettere reati, case espropriate, anziani derubati, sfrattati e infine anche truffati.

Inutile mettere i responsabili in galera perché le galere sono alberghi e poi i magistrati fanno uscire tutti subito. La polizia, insomma, ha le mani legate. Come nel famoso poliziottesco anni Settanta (che però parlava di stragi di Stato, vecchia abitudine dei servizi segreti che il decreto adesso legalizza). La destra non solo le slega, quelle mani, ma le correda di una seconda arma che gli agenti potranno portare a casa per il tempo libero, sperando che non litighino agli incroci.

Nel paese reale, fuori dal parlamento dove la destra disegna il suo mondo e lo impone a colpi di fiducia, furti e rapine restano sostanzialmente stabili, gli omicidi crollano, le carceri scoppiano, le imprese cercano lavoratori migranti e non ne trovano abbastanza.

Ma la costruzione di emergenze non è un tic paranoico, o almeno non solo: è soprattutto un preciso metodo di governo. I lavori preparatori del decreto sicurezza li abbiamo visti nei servizi della tv del pomeriggio. La svolta repressiva che la Gotham city nazionale giustifica e introduce scatterà non sul piccolo crimine che dell’inasprimento delle pene non si è mai curato (il grande crimine continui pure tranquillo e condonato) ma sui poveri, le vite al margine e sulle proteste e le lotte sociali. Non per niente le nuove norme sono disegnate come tante camicie di forza per lavoratori precari, attivisti di ogni genere e movimenti che denunciano la crisi climatica.

Per cui la carta d’identità della destra è semplicemente reazione allo stato puro, persino reazione preventiva di fronte alle lotte che ancora si organizzano. E che per confrontare questo livello di repressione e autoritarismo dovranno prima o poi necessariamente saldarsi.

Un segnale di speranza è venuto dalla manifestazione di sabato scorso che più di tutto ha dimostrato che si può sfidare a viso aperto l’illogicità e l’evidente incostituzionalità della legge. Altri poteri di controllo, la magistratura e la Corte costituzionale, dovranno intervenire, dopo che la destra ha potuto superare senza intoppi il filtro del Quirinale e del parlamento.

Le opposizioni faranno bene a non distrarsi, ora che l’iter parlamentare è concluso. Un po’ di scena in aula ci sta, ma qualche riflessione sulla parte di responsabilità che portano nell’aver fatto della sicurezza un idolo andrà pur fatta. Insieme a una promessa, facile: quella di cancellare tutto il decreto come primo atto in caso di vittoria alle elezioni.

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Gaza Le sinistre, le forze progressiste giungono in ritardo a riconoscere la guerra come elemento ordinatore della politica, dell’economia e del senso comune e i suoi effetti sulle opinioni pubbliche e le élite

La manifestazione per la pace a Gaza davanti alla Camera dei deputati Manifestazione per la pace a Gaza davanti alla Camera dei deputati

L’Italia è l’unico paese europeo a non aver visto una grande manifestazione per Gaza. Lo ricordava Andrea Fabozzi giorni fa su il manifesto. Finalmente il 7 giugno il centro sinistra invita a manifestare a Roma e il 21 giugno sempre a Roma la mobilitazione della campagna europea contro la guerra e il riarmo mette al centro lo sterminio di Gaza.
Perché questo ritardo in un paese con una solida storia pacifista e una forte relazione politica col movimento di liberazione palestinese?

Da settembre a oggi si sono susseguite petizioni e appelli di cittadini e cittadine, intellettuali che chiedevano alle grandi organizzazioni una manifestazione nazionale “contro la guerra e contro tutte le guerre”. La manifestazione del 7 aprile, convocata dal mov 5 stelle e divenuta occasione larga, di popolo, contro la guerra, ha mostrato lo scarto tra le grandi organizzazioni che tradizionalmente rappresentano l’ossatura della mobilitazione per la pace e la domanda della società.

Finalmente il 7 giugno il centro sinistra in piazza a Roma e il 21/6 protesta (a Roma) della campagna europea contro guerra e riarmo con al centro lo sterminio dei palestinesi

L’abdicazione al proprio ruolo da parte di chi avrebbe dovuto offrire un riferimento alla mobilitazione non è stata indolore: le manifestazioni, costruite da culture minoritarie che ne hanno segnato le parole d’ordine, hanno offerto il fianco a chi voleva liquidarle come contigue ad Hamas o “antisemite”.

Le sinistre, le forze progressiste giungono in ritardo a riconoscere la guerra come elemento ordinatore della politica, dell’economia e del senso comune e i suoi effetti sulle opinioni pubbliche e le élite.

Nel congresso di Sinistra Italiana dicemmo che la guerra non era “un tema tra gli altri” ma l’elemento che riorganizza l’assetto politico istituzionale, ridefinisce le priorità, determina ciò che è dicibile o no. La guerra determina l’involuzione delle democrazie che segna la subalternità delle leadership europee al pensiero unico di un Occidente che si rappresenta come assediato, che chiude i propri confini e i propri spazi democratici.

Chi, anche a sinistra, votò Ursula von Der Leyen come argine alle destre la ritrova a guidare la politica europea che accantona diritti sociali e riconversione ecologica per sposare la riconversione bellica di economia e politica estera europea.

Il sostegno dell’Europa alla politica di Israele e la repressione delle manifestazioni pro Palestina in molti paesi europei e Usa sono segno di questa involuzione “occidentalista” che considera Israele il proprio avamposto in un mondo ostile. L’Europa fortezza si chiude ai migranti, si riduce ad articolazione della Nato, rinuncia alla propria peculiarità fondata sullo stato sociale e una politica estera di dialogo.

Questa deriva ha le sue contraddizioni: il neoatlantismo che ieri portava a sovrapporre Nato, e Unione Europea nella logica dello scontro tra blocchi, oggi fa i conti con la svolta trumpiana e imbraccia l’oltranzismo bellico, l’escalation militare fino all’uso di armi capaci di colpire in profondità il territorio russo.

La marginalizzazione del diritto internazionale in nome dello scontro tra (nuovi) blocchi, la paranoia di una “minaccia esistenziale” a cui rispondere con la disumanizzazione dell’altro, il lasciapassare alla carneficina israeliana e l’involuzione sciovinista della società, sono parte dello stesso processo. In questa involuzione c’è anche la nuova retorica virilista dei quotidiani mainstream che riscoprono Onore, Patria e coraggio.

La manifestazione del 21 giugno tiene insieme il no al riarmo con la denuncia della politica genocida di Israele e l’involuzione autoritaria delle nostre società.

L’impegno contro la cultura della guerra è anche contro vecchi e nuovi razzismi che ne sono il portato velenoso: non possiamo chiudere gli occhi di fronte al montante razzismo anti arabo e alla paranoia islamofoba che avvelena la nostra società.

No alla pulizia etnica nella Striscia, in memoria della Shoah e del monito di Primo Levi: «Ciò che è accaduto può ritornare, le coscienze possono di nuovo essere sedotte ed oscurate: anche le nostre».

«Prima di tutto vennero a prendere gli zingari… Poi vennero a prendere gli ebrei, … Poi vennero a prendere gli omosessuali… Un giorno vennero a prendere me, e non c’era rimasto nessuno a protestare». Parole riprese giorni fa per la manifestazione per i diritti delle persone trans.

Inorridiamo di fronte alla pulizia etnica a Gaza non perché abbiamo dimenticato lo sterminio degli ebrei che la nostra Europa generò 80 anni fa, ma per il monito di Primo Levi: “ciò che è accaduto può ritornare, le coscienze possono nuovamente essere sedotte ed oscurate: anche le nostre».

La tentazione genocidaria non è un unicum congelato nel passato. Ci siamo detti “mai più” e per questo oggi non possiamo tacere di fronte alla disumanizzazione del popolo palestinese, all’attribuzione di una colpa e di una punizione collettive.

Il 7 e il 21 giugno sono due passi per ricostruire una lettura della realtà. È necessario che l’opposizione alla guerra e alla sua logica torni ad essere l’architrave di un’alternativa di società.

 

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