Trump-Netanyahu Sarebbe una proposta di pace se tenesse conto del ruolo politico dei palestinesi, ma è accaduto che il piano sia stato elaborato con Netanyahu per settimane da Trump e dai suoi inviati escludendo proprio i palestinesi
Manifestanti con cartelli raffigurante Trump e Netanyahu durante una protesta a Ny – foto AP
Rabbiosa e in difficoltà per la Flotilla di fronte all’opinione pubblica interna che scende in piazza a tutte le ore in solidarietà, e dei sindacati che scioperano bloccando i porti, Giorgia Meloni è passata alle spicce contro l’iniziativa non-violenta, per la quale «forse la sofferenza dei palestinesi non era l’obiettivo» e che «ora che c’è un piano di pace per Gaza» avrebbe rischiato di comprometterlo in modo «irresponsabile» – ma Mattarella invece ne ha riconosciuto il valore – per essersi «inoltrata in un scenario di guerra».
Scenario che non c’è, visto che lì non c’è una guerra simmetrica, non si vedono cannoni, carri armati, cacciabombardieri palestinesi fronteggiare l’esercito israeliano tra i più potenti e da noi riarmati della terra. A Gaza c’è solo un tiro a segno sui civili, una coazione a ripetere stragi e devastazioni quotidiane di strutture civili giudicate dalla Corte penale internazionale e dall’inchiesta dell’Onu come genocidio, parola che ormai «così fan tutti» dopo un colpevole silenzio, perfino con leggerezza come se questo non comportasse una presa di consapevolezza sul futuro del criminale Netanyahu salvato invece dal «piano» di Trump.
SAREBBE DUNQUE la Flotilla che svela tra l’altro l’illegalità del blocco navale delle acque palestinesi a Gaza, a compromettere la pace di Trump, Blair e Netanyahu, con il consenso di petromonarchie assassine come il saudita Bin Salman, più Egitto e Giordania in mano all’Amministrazione Usa? Ma se fosse avviata davvero la pace perché Netanyahu non ha accolto a braccia aperte i pacifisti disarmati della Flotilla invece di assaltarne le imbarcazioni con le armi spianate ed arrestarne centinaia? Perché Meloni, Crosetto e Tajani non la sostengono, invece di giustificare l’aggressione in acque internazionali dell’Idf, come fosse un evento naturale e non una sopraffazione?
Ma c’è davvero una proposta di pace in campo e non piuttosto un ultimatum, per la quale siamo arrivati addirittura alla richiesta di una mozione unitaria nel parlamento italiano? E da chi, con quale credibilità, viene proposto il piano «da premio Nobel»? Arriva da un ondivago palazzinaro dalla configurazione di gangster internazionale, che guida un paese al default, isolazionista della «guerra altrove ma eterodiretta da casa mia» convocando generali all’uopo sbarbati, che reprime i «nemici interni» inviando nelle città degli Stati uniti sull’orlo più che concreto di una guerra civile, forze militari contro proteste e migranti da cacciare; che coinvolge Tony Blair, reduce dai disastri provocati in Medio Oriente come in Iraq e sponsor di trame finanziarie e della British Petroleum con un occhio al gas di Gaza.
SAREBBE UNA PROPOSTA di pace se tenesse conto del ruolo politico dei palestinesi, ma è accaduto che il piano sia stato elaborato con Netanyahu per settimane da Trump e dai suoi inviati escludendo proprio i palestinesi: alla tribuna dell’Onu – ora ripescata, ed è un bene, ma solo per gli aiuti e comunque ai margini – ha parlato proprio Netanyahu anche se rincorso da un mandato di arresto della Corte penale internazionale, mentre ad Abu Mazen la Casa bianca ha vietato l’ingresso negli Usa. C’è dunque nel piano una prospettiva per lo Stato di Palestina e una soluzione della questione palestinese, vale a dire per 7 milioni di esseri umani, più gli altri della diaspora mediorientale? Non c’è: l’Idf resterà nella maggior parte della Striscia come ribadito da Netanyahu «anche dopo il rilascio degli ostaggi» e niente Stato palestinese, Gerusalemme est resta capitale di Israele come già deciso da Trump – e confermato da Biden – e della chiacchiera «la Cisgiordania non sarà annessa» non c’è più traccia, vuol dire che resta l’occupazione militare israeliana e il protagonismo messianico e razzista dei coloni. L’annessione vera la fanno l’affarista Trump con la sua famiglia.
Trasformando la Striscia in un nuovo board «apolitico»: un protettorato coloniale. Ma si dirà che l’Anp da tempo fuori gioco, residua e al limite d’esistenza – e anch’essa divisa -, vede nel piano una proposta a cui attaccarsi almeno per fermare il massacro in corso, fare entrare gli aiuti, soccorrere la popolazione gazawi ed esautorare Hamas per un redde rationem sulle sue gravi responsabilità.
Crescono variegate adesioni a questa interpretazione, fa riflettere quella speculare di Putin, poi di Guterres e del Brasile. E anche a sinistra. Del resto chi siamo noi con la nostra critica di verità per contraddire l’arrivo dei soccorsi, perché finalmente uomini e donne possano sfamare i loro figli, i bambini feriti possano essere almeno curati e amputati con gli anestetici, perché arrivi l’acqua e tanto cibo? La Flotilla, disarmata e senza condizioni a questo pensava e pensa.
MA LA PENSANO davvero così Trump e Netanyahu che il genocidio in corso – «sproporzionato» dice Meloni tacendo sulla sua proporzione per una massacro – dopo l’eccidio del 7 ottobre hanno gestito e permesso? Qualcuno ricorda la sospensione scellerata di aiuti all’Unrwa-Onu mentre era bombardata dall’Idf decisa dalla Casa bianca, alla quale si è associato anche il governo Meloni? Che, senza avere mai proposto con l’Ue sanzioni a Israele e senza riconoscere lo Stato di Palestina, adesso corre ai ripari a soccorrere ad usum di tv e sondaggi decine di fortunati palestinesi – meno male, ma lì sono milioni – e li porta in Italia pronto a chiedere la spartizione di utili, forze di sicurezza e stability, “concessioni” coloniali per l’affare lucroso della ricostruzione.
Lo ripetiamo: Netanyahu, Trump, buona parte dell’Europa e molti Paesi arabi e islamici vogliono i palestinesi non come soggetti aventi diritti, alla vita e alla terra, alla dignità e alle sue istituzioni, ma come ombre elemosinanti, affamati in lamento, feriti e mutilati, i nuovi paria ridotti ad una condizione di subalternità così profonda che l’indigenza e la fame cancellino le aspirazioni politiche. Che alla Autorità si sostituisca, come richiesto, la Subalternità «deradicalizzata» delle leadership palestinesi costrette – dopo essere state abbandonate dal mondo perché i territori occupati palestinesi non sarebbero una violazione del diritto internazionale come quelli in Ucraina – ad accettare tutto e in silenzio. Senza più diritto alla loro storia, nemmeno a narrare quest’ultima e più feroce Nakba nei libri di testo ora da controllare e censurare. C’è da dubitare infine che l’umiliato in carcere Marwan Barghuti, speranza dei palestinesi, venga finalmente liberato; se dovesse davvero accadere il timore è che sarà subito esiliato, senza potere essere acclamato in patria come Mandela.
SE TUTTO QUESTO accadrà, è bene sapere che, anche se tra le macerie e i sudari delle vittime, la questione della liberazione dei palestinesi non solo non è finita ma comincia adesso. Sta scritta negli occhi di centinaia di migliaia di bambini e di giovani donne e uomini testimoni del massacro che abbiamo permesso complici. Noi, certo, non siamo più palestinesi dei palestinesi, ma nel privilegio comunque della nostra condizione e della apparente distanza politica che la Flotilla ha provato a ridurre, possiamo e dobbiamo dirlo e ad alta voce.
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Per terra e per mare Non si può star fermi di fronte alle atrocità che commette Israele, non senza perdere l’umanità. E ora saranno in tanti a non stare più fermi
La folla di attivisti proPal durante la partenza dello Flotilla da Barcellona
Le immagini vanno e vengono. Prima di interrompersi definitivamente mostrano donne e uomini seduti in cerchio sul ponte della barca. Giubbotti di salvataggio indossati, aspettano l’abbordaggio. Che arriva. Un atto di pirateria violenta sotto gli occhi del mondo. Preceduto da un messaggio radio che è un’altra conferma di come Israele debba stravolgere la realtà per mantenere l’impunità: «State violando la legge». Loro.
La Flotilla che è arrivata pacificamente e nel pieno rispetto del diritto internazionale vicina alle coste di Gaza. Cioè vicina a una striscia di terra dove da due anni va avanti un genocidio senza che la comunità internazionale faccia nulla di concreto per fermarlo. Non potevano fermarlo queste donne e questi uomini in ginocchio e con le mani alzate. Ma hanno fatto più loro di tanti, quasi tutti i governi, a cominciare dal nostro.
La Flotilla è entrata in profondità, nel mare che Israele considera sua proprietà, dove sequestra, affonda e ammazza. Si sapeva che avrebbe abbordato anche questa volta, che lo avrebbe fatto col buio. Non si sapeva a quante miglia marine dalla costa avrebbe agito perché Israele si prende la libertà di decidere fin dove estendere le sue proprietà. In mare come in terra. Nel frattempo però la missione umanitaria è entrata in profondità anche nei sentimenti dell’opinione pubblica che con crescente attenzione e ammirazione l’ha seguita da lontano. Fino all’ultimo, fino a che il collegamento internet a bordo ha retto, gli equipaggi hanno continuato non solo a informare su quanto stava accadendo, ma anche a ricevere telefonate e messaggi di solidarietà, di gratitudine, di incoraggiamento.
La vergogna del governo italiano che ha lasciato aggredire i suoi cittadini, tirando via addirittura con un giorno di anticipo la nave militare per non intralciare Israele, spicca per contrasto con la nobiltà degli attivisti della Flotilla. Ma mentre siamo in apprensione per la loro sorte, il loro messaggio è arrivato forte. Non si può star fermi di fronte alle atrocità che commette Israele, non senza perdere l’umanità. E ora saranno in tanti a non stare più fermi.
Commenta (0 Commenti)Il piano L’interrogativo principale è se quello di Trump è un piano di pace o per proseguire la guerra. Il dubbio ci assale per una frase inquietante pronunciata dal presidente americano in sintonia con Benjamin Netanyahu che stava al suo fianco: se Hamas rifiuterà il piano, Trump ha promesso che Israele avrà «il sostegno totale degli Stati Uniti» per proseguire la sua guerra
L'emiro del Qatar Sheikh Tamim bin Hamad Al Thani e il presidente Donald Trump a Doha – AP Photo/Alex Brandon
L’interrogativo principale è se quello di Trump è un piano di pace o per proseguire la guerra. Il dubbio ci assale per una frase inquietante pronunciata dal presidente americano in sintonia con Benjamin Netanyahu che stava al suo fianco: se Hamas rifiuterà il piano, Trump ha promesso che Israele avrà «il sostegno totale degli Stati Uniti» per proseguire la sua guerra. Tradotto significa che Netanyahu in ogni momento ha la facoltà di far saltare il piano e riprendere il genocidio.
Se è vero che Israele ha dovuto fare qualche concessione come la rinuncia – temporanea – all’annessione dei Territori palestinesi e all’espulsione dei palestinesi (anche se l’autorità di transizione avrà il diritto di assegnare i “permessi di uscita”), è evidente che nel piano non c’è una data per l’uscita dell’esercito israeliano da Gaza. In poche parole l’occupazione di fatto continua. Ma la cosa più difficile da immaginare è che i palestinesi (e non solo Hamas) possano accettare un piano che prevede di affidare la gestione della Striscia a Trump e all’ex primo ministro britannico Tony Blair.
Il ritorno dell’Autorità palestinese a Gaza, previsto nel piano franco-saudita votato all’assemblea dell’Onu, è invece rinviato a un futuro lontano e imprevedibile. In sintesi i palestinesi, come scriveva ieri Chiara Cruciati, rimangono prigionieri e colonizzati.
Siamo tornati indietro di ottant’anni, anzi ancora peggio. Altro che stato palestinese. Questo piano affossa ogni embrione di stato. Dove eravamo rimasti? Nell’anno 1947 la risoluzione Onu 181 decideva la partizione tra Israele e Palestina. Nessuno chiese ai palestinesi di accettare o rifiutare alcunché e se glielo avessero chiesto avrebbero sicuramente rifiutato perché attribuiva gran parte della loro patria storica a degli stranieri. I governi arabi allora rifiutarono la spartizione ma certamente non rappresentavano i palestinesi che si trovavano ancora (come gli ebrei) sotto il dominio britannico.
Oggi come in un film dell’orrore rispuntano persino gli inglesi nella persona di Tony Blair, un mentitore seriale come stabilito dagli stessi parlamentari britannici della commissione Chilcot: Blair volle fare la guerra all’Iraq nel 2003 a ogni costo, costruendo un montagna di bugie sulle armi di distruzione di massa di Saddam Hussein.
Oggi questo squalificato personaggio, un massacratore, da tempo a libro paga dei ricchi arabi del Golfo dovrebbe essere il supervisore del governo della Striscia di Gaza? Sono tornati i colonialisti che fanno quel che vogliono con il loro piano elaborato da due vecchi malvissuti come Trump e Netanyahu. E se non vi piace questo piano come tutti i colonialisti minacciano di distruggere quel che rimane di Gaza e delle vite dei palestinesi.
Non lo faranno completamente perché sono lì a preservare non i palestinesi ma gli interessi di Trump nel Patto di Abramo con gli arabi. Qualcuno deve avere sussurrato al presidente Usa che il suo amico Netanyahu gli stava alienando i favori e i soldi delle monarchie del Golfo. Così Trump ha chiesto a Netanyahu di telefonare a Doha per «esprimere il suo profondo rammarico» per il raid israeliano del 9 ottobre. Questa sì è la gente che conta: ma nessuno osa chiedere al premier israeliano di scusarsi per il genocidio di oltre 65mila palestinesi.
In questo quadro di disarmante bassezza, il piano per Gaza contiene anche della macabra ironia. Al punto 18, voluto a quanto pare proprio da Israele, si dice: «Sarà avviato un processo di dialogo interreligioso basato sui valori della tolleranza e della coesistenza pacifica per cercare di cambiare la mentalità e le narrazioni di palestinesi e israeliani». Ecco come liquidare in modo felpato un genocidio senza neppure fare riferimento ai responsabili di questo governo israeliano con un primo ministro inseguito da un mandato di cattura per crimini di guerra della corte penale internazionale.
Questo documento è un insulto a ogni principio del diritto internazionale. Non si cita l’occupazione militare israeliana, non vengono menzionate le condizioni di vita dei palestinesi, non si fa alcun riferimento al loro diritto di vivere in uno stato. Non solo. Si lascia a Israele mano libera di continuare la sua occupazione in una Gaza che non può possedere uno sbocco al mare se non controllato dagli occupanti, che non può avere alcuna libertà di circolazione per i suoi cittadini. Un diktat coloniale che ci riporta al peggio mai elaborato dall’Occidente.
Questo mostro giuridico venuto fuori dalla Casa Bianca ha una sola efficacia. La pistola puntata da Netanyahu e da Trump contro Hamas e i palestinesi. O accettate o verrete sterminati. E tutto questo avviene mentre le vele della Flotilla si dirigono verso Gaza. Queste acque non sono di Israele e infatti nessuno le riconosce in quanto tali. Lo fa però il nostro governo di sprovveduti, ignaro che persino l’Eni ha dovuto rinunciare a prendere il gas dei giacimenti offshore di Gaza, appaltati da Israele in spregio a ogni regolamento internazionale. Ma chissà che con questo rigurgito di colonialismo tutto diventi possibile.
Commenta (0 Commenti)Resistenze Per dare continuità alle ondate di mobilitazione in corso vanno incalzati governi e partiti, immaginate e praticate alternative concrete, come gli aiuti portati dalla Flotilla
Genova, il presidio organizzato per impedire il passaggio dei mezzi pesanti verso il porto, in occasione dello sciopero generale per Gaza – Ansa
Un’ondata di mobilitazioni per la pace a Gaza è partita, guidata dalle imbarcazioni della Global Flotilla. Il 22 settembre ci sono state ovunque piazze piene di giovani con lo sciopero dei sindacati di base. La Cgil di Maurizio Landini preannuncia lo sciopero generale se la Flotilla sarà attaccata da Israele e perfino il ministro della difesa Crosetto deve muovere una nave militare per seguire i pacifisti. L’inizio di ottobre è pieno di manifestazioni e il 12 ottobre ci sarà la marcia Perugia-Assisi. In Germania e in altri paesi c’è un simile risveglio di proteste contro lo sterminio dei palestinesi da parte di Israele.
Che cosa ha mosso quest’onda di protesta? La prima reazione è stata il rifiuto della guerra, di una guerra senza alcun freno – né umanitario, né diplomatico – come quella di Israele a Gaza, nei Territori occupati, in Libano, in Iran, nel resto del Medio Oriente. La seconda spinta alla protesta è la difesa dei diritti umani, l’aiuto alle vittime di un genocidio. La terza sono state le mobilitazioni palestinesi, con diverse sfumature, la solidarietà internazionalista e la denuncia del potere imperiale degli Stati Uniti. In questi due anni, le diverse spinte hanno fatto fatica a unirsi, a trovare un linguaggio e un’agenda comune. Ora ciascuna di esse si deve misurare con la sfida di costruire soluzioni al conflitto.
Il rifiuto della guerra ha bisogno di mettere la politica al posto delle armi. Un’impresa quasi disperata nella Palestina di oggi, con l’estremismo feroce di Israele, l’inconsistenza dell’Autorità Nazionale Palestinese, la sopravvivenza di Hamas, il tragico silenzio dei paesi arabi e dell’Europa. Eppure, la società civile palestinese è ricca di soggetti, resistenze, proposte; a partire da un cessate il fuoco, iniziative e dialoghi potrebbero ripartire. Abbiamo dimenticato l’esperienza del 1990 di Time for peace: mille pacifisti italiani e decine di migliaia di palestinesi e israeliani erano insieme a manifestare sotto le mura di Gerusalemme. Non è possibile che la “riviera di Gaza”, il paradiso immobiliare che piace a Trump – magari con Tony Blair a guidarla – sia l’unico futuro immaginato su quella terra.
A veder bene, il vuoto di politica è lo stesso che impedisce di metter fine alla guerra tra Russia e Ucraina, con l’Europa incapace di offrire – al posto delle armi a Kiev – una prospettiva di sicurezza comune, di cooperazione politica e integrazione economica alla sua frontiera orientale.
La seconda spinta, la difesa dei diritti umani a Gaza, ha bisogno di trovare un braccio operativo; caschi blu dell’Onu che fermino Israele, o una forza internazionale che porti tregua e aiuti. Non basta il mandato d’arresto per Netanyahu, ci vuole qualcuno che lo trascini davvero in tribunale all’Aia, com’è avvenuto per i criminali di guerra dell’ex Jugoslavia.
La terza spinta, le rivendicazioni dei palestinesi – autodeterminazione, diritti e ritorno – ha bisogno di una prospettiva di realizzazione, sostenuta da alleanze internazionali e dalle risorse per una ricostruzione politica, economica e sociale. Non basta il tardivo riconoscimento dello Stato di Palestina da parte degli europei, serve una visione politica che permetta ai palestinesi di essere protagonisti del loro futuro.
Per dare continuità alle ondate di mobilitazione e ottenere risultati per Gaza, i pacifisti dovranno approfondire – e tenere insieme – queste tre dimensioni. E invadere il terreno della politica: incalzare governi e partiti, immaginare soluzioni, praticare alternative concrete, come gli aiuti portati dalla Flotilla.
È stata questa anche la lezione delle ondate precedenti del pacifismo europeo, con gli euromissili e le ‘guerre stellari’ degli anni ’80 che sono stati sconfitti non solo dalle inedite, enormi mobilitazioni di piazza, ma dal convergere su una prospettiva di disarmo del senso comune in Europa, di buona parte delle forze di sinistra e di Gorbaciov a Mosca.
Un’occasione per riflettere su questi nodi di fondo – sul ritorno delle guerre e sul ruolo dei movimenti per la pace – è la Scuola estiva su “Guerre, pace e ordine mondiale” organizzata dalla Scuola Normale Superiore a Firenze da ieri 29 settembre al 3 ottobre (https://indico.sns.it/event/125/).
Della Palestina parlerà Francesca Albanese (online) martedi 30 settembre, seguita da Paola Caridi e Anna Foa, con contributi delle ricercatrici palestinesi. Di Ucraina, Russia e degli altri conflitti parleranno esperti di tutta Europa. E venerdi 3 ottobre sono di scena i movimenti per la pace, con un dialogo tra Donatella della Porta e Luciana Castellina, insieme a molte voci del pacifismo e alle storie delle mobilitazioni in Italia raccontate dal sito ‘Paceinmovimento.it’.
Commenta (0 Commenti)La flotta continua Più che appelli, serve protezione a chi è in mare
Il porto di Roccella Jonica per la Sumud – Zuma Press
La Global Sumud Flotilla non è una spedizione italiana ma di oltre quaranta paesi. Solo il presidente della Repubblica italiana si è però rivolto agli attivisti. Il motivo? Le piazze di lunedì scorso. Nel nostro paese sono cresciuti solidarietà e appoggio alla causa dei palestinesi e adesso sono fortissimi. Sembrano destinati a durare. Anche grazie al coraggioso esempio della Flotilla, si è diffuso un movimento ampio, senza leadership riconoscibile, che preoccupa molto il nostro governo. Meloni, lo ha dimostrato anche l’altro giorno all’Onu, è tra le più schierate a copertura di Netanyahu.
Lo è talmente, schierata e preoccupata, da aver accusato una spedizione mondiale di essersi messa in mare solo per farle dispetto e crearle problemi. La risposta tanto netta e irrituale a questo delirio l’ha data proprio Mattarella, quando ieri ha elogiato il valore dell’iniziativa. A poche ore di distanza, la pesante smentita del Quirinale a palazzo Chigi va incassata come un (altro) successo politico del movimento. Altro che scampagnata di irresponsabili estremisti, come la racconta la destra.
Ma i pericoli sono reali. Il governo Netanyahu colpisce persino militari alleati e negoziatori, fa strage di innocenti da due anni, figurarsi se può avere scrupoli nel puntare imbarcazioni considerate nemiche. La minaccia dunque ha un nome, Israele, e va denunciata come tale: l’attacco a un’imbarcazione in acque internazionali sarebbe un (altro) atto di pirateria. Mentre la missione agisce nella piena legalità internazionale, Israele ne è già abbondantemente fuori. È a Israele che bisogna appellarsi, è Israele che bisogna fermare.
Da sempre e tanto più stavolta l’obiettivo della Flotilla va oltre la consegna di aiuti. È quello di denunciare il blocco e l’isolamento della Striscia di Gaza. Da vent’anni almeno è un blocco criminale che affama, adesso è un blocco genocida. A spezzarlo prova la Flotilla da sola, mentre i governi come il nostro collaborano con Israele. È per questo che le piazze riconoscono e sostengono la Global Sumud. Ed è per questo che quel consenso e quell’appoggio sono così importanti per tutto il movimento e vanno preservati. Più che appelli, serve protezione a chi è in mare. La decisione su come proseguire tocca a loro ma riguarda tutti noi.
Commenta (0 Commenti)Sono una Donald Con Giorgia Meloni all’Onu va forte il tragicomico. Si strappa le vesti sui troppi conflitti armati e sulla «pace, il dialogo e la diplomazia che non riescono più a convincere e a vincere», ma intanto in Italia allestisce un sistema di governo fondato sull’economia di guerra e sul riarmo
Giorgia Meloni davanti all'assemblea plenaria dell'Onu – Ap
Con Giorgia Meloni all’Onu va forte il tragicomico. Si strappa le vesti sui troppi conflitti armati (perfino citando papa Francesco) e sulla «pace, il dialogo e la diplomazia che non riescono più a convincere e a vincere», ma intanto in Italia allestisce un sistema di governo fondato sull’economia di guerra e sul riarmo foriero di altri conflitti e odi, a danno dei deboli e delle classi subalterne; se la prende con l’incapacità delle Nazioni unite ma dimentica che i governi occidentali e le alleanze militari come la Nato che surroga l’inesistente politica estera europea, hanno devastato l’Onu negli ultimi trenta anni con imprese belliche in Iraq, Jugoslavia, Afghanistan, Libia, Siria e in altre tragedie “minori” per i nostri interessi – senza dimenticare gli allargamenti provocatori a Est nonostante la fine della Guerra fredda – con relativi massacri di civili e crimini di guerra impuniti, che hanno violato la Carta delle Nazioni unite infliggendole una “ferita profonda”.
Mandando così un messaggio inequivocabile sull’uso della forza al posto della diplomazia: a quale scuola pensiamo sia andato Putin quando ha deciso la criminale aggressione all’Ucraina?
E poi il colmo, fedele al sodale Trump la cui inattendibilità comincia a disorientare anche a lei: il nodo non sono le diseguaglianze globali e le guerre che producono una strutturale migrazione di esseri umani, ma quello dei “giudici ideologici” che impediscono i respingimenti. Dulcis in fundo annuncia le condizioni per il riconoscimento della Palestina e l’adesione a non ben chiare sanzioni Ue a Tel Aviv, intanto ripete la bestemmia che Israele «ha superato il limite del principio di proporzionalità» nella reazione ad Hamas.
Siamo a oltre 75mila morti, secondo la rivista scientifica Lancet a più di 180mila e per lo stesso Idf israeliano a più di 200mila vittime tra morti e feriti la maggior parte civili. Nei due anni di genocidio – conferma l’Onu dal cui pulpito la “madre cristiana” parla – dov’era Giorgia Meloni quando Israele bombardava le sedi Unrwa-Onu? A che numero di vittime corrisponde il «proporzionale»? O siamo oltre la decimazione d’infausta memoria nazista-fascista e alla legge del taglione?
Così la decisione di Francia e Gran Bretagna di riconoscere lo Stato di Palestina è, come l’ambigua “mozione parlamentare” annunciata da Meloni, solo una costrizione tattica di esecutivi messi in difficoltà, esautorati di credibilità, dalla protesta ormai incontrollabile e generale delle opinioni pubbliche mondiali di fronte al genocidio in corso a Gaza che Netanyahu continua, nell’annientamento di un intero popolo, fino all’ultimo bambino. Pesano, come fu per il Vietnam, le immagini quotidiane e domestiche delle stragi tra le macerie; pesa l’evidente rischio di corresponsabilità penalmente perseguibile per il crimine di genocidio e ora il coraggio dei giovani della Flotilla. Riconoscere è un atto tardivo: 157 Paesi dell’Onu hanno già fatto proprio il diritto del popolo palestinese ad una terra e ad uno Stato.
Un atto simbolico dalla doppia faccia della medaglia: sostiene una causa nella quale l’umanità – ricordava Nelson Mandela – vede il proprio destino politico e morale contro vecchi e nuovi colonialismi; dall’altra se è intenzione strumentale lascia davvero il tempo che trova. Come la formula-litania “Due popoli e due Stati” senza interrogarsi sull’evidenza che uno Stato c’è, quello israeliano, armato fino ai denti e che opprime e occupa militarmente i Territori palestinesi, e l’altro che non esiste. Su questa condizione ecco il “Comma 22” di Giorgia Meloni: «Il riconoscimento della Palestina in assenza di uno Stato che abbia i requisiti della sovranità non risolve il problema».
Non sono dunque bastati l’annuncio storico di Arafat del 1988, che i due Stati riconosceva di fatto, e gli accordi di Oslo del 1993. Definiti “accordi falliti”, dimenticando che sono stati cancellati via via dai governi israeliani, da Sharon ai tanti a guida Netanyahu, i due premier non a caso indicati dalla moglie di Itzhak Rabin come mandanti morali dell’assassinio del premier israeliano nel ’95 che quegli accordi aveva firmato.
Da quei giorni in poi sia con il “ritiro” orchestrato da Gaza – in realtà prigione a cielo aperto controllata militarmente da terra, mare e cielo testimoniava per il manifesto Vittorio Arrigoni -, poi con la ricolonizzazione di centinaia di nuovi insediamenti e la costruzione del Muro di divisione si è impedita proprio la costituzione di uno dei “requisiti” cari a Meloni fondanti la configurazione di uno Stato: la continuità territoriale, persa da almeno due decenni, ma Meloni la scopre adesso, dentro un alveare di piccole patrie di coloni integralisti, fascisti e messianici. Con quale risultato? La delegittimazione dell’Autorità nazionale palestinese, dell’Olp e della sua principale formazione politica Al Fatah.
Così ha assunto ruolo e credibilità il movimento islamista Hamas che, nutrito dalle offese israeliane, nel 2006 vinse le elezioni politiche in tutta la Palestina, a Gaza, In Cisgiordania e a Gerusalemme est, nonostante la sua nascita ambigua, sostenuta da Israele contro la laica al-Fatah e poi, fino all’ultimo, tenuto in vita quando ormai era regime e non più movimento, attraverso il Qatar dallo stesso Netanyahu. Che non ha mai lesinato, come nel 2009 e nel 2014, ai gazawi raid, massacri di civili e tanto “piombo fuso”.
Dimenticare questo contesto che precede il crimine di Hamas del 7 ottobre 2023 è altrettanto criminale. Così come è menzognero esigere in cambio del “riconoscimento” della Palestina come Stato la cacciata di Hamas e la liberazione degli ostaggi israeliani, nascondendo il misfatto che a Gaza si è consumato un genocidio, confermato dalla Commissione d’inchiesta Onu, e certificato dal fatto che l’alleato Netanyahu per questo è incriminato dalla Corte penale internazionale – sanzionata da Trump – e va arrestato ma intanto ribatte tranquillo: «Lo Stato palestinese non ci sarà mai». Un misfatto del quale siamo complici mantenendo con Tel Aviv trattati militari, forniture, transiti di armi e memorandum politici, commerciali e scientifici dual use.
La condizione del riconoscimento della Palestina è riconoscere questo contesto, e deve voler dire che si avviano subito sanzioni concrete come quella alla Russia e embargo sulle armi a Tel Aviv. Altrimenti sono finzioni di un governo all’angolo. Perché il primo diritto di un popolo è alla sua storia. Negata dal rex Trump e dalla pastarellara Meloni – necessitata ad essere filo-israeliana e filo-Netanyahu, non a caso con la Germania dalla memoria corta e con tutte le destre razziste europee, per ripulire i panni sporchi della sua sempre rivendicata origine fascista almirantiana, l’Almirante segretario di redazione della “Difesa della Razza”, la rivista mussoliniana che dal 1938 elaborò l’ideologia antisemita delle leggi razziali del Duce.
Netanyahu, Stati uniti, Europa, Occidente tutto e molti Paesi arabi vogliono i palestinesi non come soggetti aventi diritti, alla vita e alla terra, alla dignità e alle sue istituzioni, ma come ombre elemosinanti, affamati in lamento, feriti e mutilati, i nuovi paria ridotti ad una condizione di subalternità così profonda che l’indigenza e la fame cancellino le aspirazioni politiche. Il “riconoscimento” solo a queste condizioni di verità può arrivare come un soffio di speranza. Ma non basta.
Noi, per cui l’Internazionale non è solo un canto o un tomo di storia, vogliamo per i due popoli, palestinese e israeliano, un futuro prossimo non più legato alla presunta identità di sangue e di terra, ma congiunto, meticciato e integrato socialmente per una democrazia dei larghi spazi del Medio Oriente disegnata dal basso, non da nuovi colonizzatori e fabbricanti di armi.
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