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Meloni - Musk Se qualcuno aveva immaginato un cipiglio di autonomia politica nel viaggio lampo di Meloni da Trump rimarrà deluso, anche perché la sostanza profonda di quel viaggio non sembra essere stata […]

La presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, incontra a Palazzo Chigi Elon Musk foto Filippo Attili/Ansa La presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, incontra a Palazzo Chigi Elon Musk – foto Filippo Attili/Ansa

Se qualcuno aveva immaginato un cipiglio di autonomia politica nel viaggio lampo di Meloni da Trump rimarrà deluso, anche perché la sostanza profonda di quel viaggio non sembra essere stata la liberazione della giornalista Cecilia Sala sequestrata in Iran, tutt’al più l’occasione, nonostante la versione interessata arrivata da Mar-a- Lago di una presunta “aggressività” rappresentata dalla premier italiana sulla grave vicenda.

Del resto l’autonomia vera sulla questione Sala sarebbe quella non di correre alla corte imperiale e sfarzosa del re padrone (o dal principe Musk) ma di trattare direttamente in modo indipendente per la sua liberazione, legata a quella dell’ingegnere iraniano Abedini arrestato in Italia su esclusivo mandato Usa, fino alla possibilità di contraddire se necessario la Casa bianca, sia l’uscente Biden di fatto bypassato dall’improvviso viaggio meloniano, sia il presidente che arriva, il trionfante e sodale suprematista Trump, ammirato della premier italiana perché «ha fatto furore nel l’Ue» – lui di furore sulla democrazia se ne intende.

Siamo, al contrario, nel pieno della sudditanza del governo italiano, attitudine propria di chi ideologicamente prima si è fatta vanto del sovranismo nazionale per poi correre a cercare un comandante in capo oltreoceano, dilatando oltre ogni misura la fedeltà atlantica, visto che la guerra e l’industria delle armi sono l’asse strategico di questo governo di destra-estrema destra.

Con la faccia tosta e l’arroganza che le è propria Meloni aveva avuto modo perfino di accusare di “sovranismo” quella poca opposizione di sinistra che resta che l’aveva criticata per il suo rischioso sodalizio con Elon Musk. Stavolta la sovranista vera l’ha fatta grossa, mettendo a repentaglio nel rapporto con Trump e soprattutto con Musk, l’indipendenza dello Stato italiano, quanto a sicurezza della compagine governativa, delle strutture militari e dell’intelligence. Una prova della pesantezza di questa scelta è arrivata ieri non dai rumors ma dall’annuncio non smentito delle prossime dimissioni della responsabile dei nostri Servizi segreti, Elisabetta Belloni.

Se sono vere le informazioni che arrivano dal sito economico Bloomberg, anch’esse tutt’altro che smentite – Palazzo Chigi nega l’avvenuta firma del contratto ma non le trattative, Musk si dichiara «pronto» – il governo Meloni sta per firmare un contratto sulla sicurezza della durata quinquennale con SpaceX, la compagnia di Elon Musk specializzata nelle attività spaziali, dal costo di 1,5 miliardi di euro. Il contratto, che si aggiunge al progetto già discusso di utilizzare i satelliti Starlink per la connessione veloce a Internet su tutto il territorio nazionale, prevede non solo una vasta fornitura di «crittografia di alto livello per i servizi telefonici e Internet utilizzati dal governo» ma anche «servizi di comunicazione per l’esercito italiano nel Mediterraneo, nonché l’introduzione in Italia dei servizi satellitari direct-to-cell da utilizzare in emergenze come attacchi terroristici o catastrofi naturali». Già un anno fa abbiamo svenduto la rete fissa della Telecom, il monopolio telefonico del Paese, alla statunitense Kkr (tra l’altro presieduta dall’ex capo della Cia, il discusso generale Petraeus, dalla compromessa carriera per ii suoi fallimenti in tante guerre); e precedentemente, nel marzo 2023, con un accordo Meloni-Netanyahu abbiamo di fatto appaltato la nostra cybersicurezza militare a Israele – come ha denunciato inascoltato Alberto Negri. Ora con questo “contratto” il cerchio si chiuderebbe: saremmo infatti al pieno esautoramento delle istituzioni democratiche che presiedono alla nostra sicurezza sui temi più che delicati, esiziali, della sicurezza: dell’esecutivo, delle strutture militari operative in aree di crisi internazionali a partire dal Mediterraneo, e degli stessi Servizi segreti. Tutti passati sotto il controllo di una compagnia privata nelle mani del tecno-oligarca messianico Elon Musk, istigatore della destra estrema globale e mentore di Giorgia Meloni.

È dunque in gioco la democrazia di questo Paese e il suo futuro che così si prefigura al seguito oscuro di ogni guerra possibile – come dimenticare che Trump nel primo mandato ha costituito la nuova branca della difesa Usa, la Space Force – e di ogni furore repressivo anti-democratico. Il passaggio in Europa e in Italia da un sistema di welfare alla warfare, come chiede esplicitamente il segretario della Nato Mark Rutte – quando ricorda che nell’Ue «c’è troppo welfare» e che è ora «di prepararsi ad una mentalità di guerra» -, comporta non solo l’incremento dell’industria delle armi sempre più sofisticate e di un più diretto e onnivoro potere del complesso militare-industriale, ma anche la privatizzazione dei sistemi della sicurezza (anche per una sua «seduttiva» percezione), dei presìdi di controllo democratici da stravolgere e consegnare nelle mani di un potere che, da forme immateriali e automatismi, si riproduce sotto il dominio delle sole ragion del mercato e della forza. Ma la nostra Costituzione non è un automatismo né una piattaforma startup.

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Il Papa su Netanyahu: ignora i diritti umani. Parole non nuove, suffragate da Onu e inchieste dei media. Ma gli Usa proteggono Israele

Le parole del Papa le ha riferite Abolhassan Navab, rettore dell’Università delle Religioni e delle Denominazioni dell’Iran, che ha incontrato Francesco, riferendo il colloquio con lui all’agenzia iraniana Irna. Netanyahu, secondo il Santo Padre, non rispetterebbe i diritti umani a Gaza. Un’affermazione molto dura, ma che, spiega Enzo Cannizzaro, ordinario di diritto internazionale nell’Università di Roma Sapienza, fa il paio con altre dello stesso Pontefice, suffragate comunque da dossier dell’ONU e inchieste giornalistiche. Il Papa aveva anche suggerito di verificare se nella Striscia si possa parlare di genocidio. Di fatto, però, resta l’estrema violenza distruttiva degli attacchi dell’IDF che fanno parlare da più parti di crimini di guerra, tanto che dalla giustizia internazionale potrebbero arrivare altri mandati di arresto contro le autorità di Israele.

Secondo un’agenzia iraniana, non smentita, il Papa, in un incontro con un accademico di Teheran, avrebbe detto che Netanyahu non rispetta le leggi internazionali e i diritti umani. È na posizione che ha basi solide?

Il Papa ha già più volte stigmatizzato le condotte di Israele a Gaza, qualificate come violazioni palesi del diritto umanitario. L’ultima volta, se ben ricordo, qualche giorno prima di Natale. Vi sono certamente basi solide per tale posizione. Pressoché tutti gli osservatori indipendenti, inclusi i Tribunali internazionali, ritengono che le condotte israeliane vadano qualificate come gravi e sistematiche violazioni del diritto umanitario. Persino gli Stati Uniti, che sostengono strenuamente Israele anche con forniture di armi, hanno criticato Israele per le condotte inaccettabili contro la popolazione civile di Gaza. Vari rapporti delle Nazioni Unite indicano che Israele utilizza l’affamamento della popolazione come metodo di guerra. Un recente dossier del New York Times del 26 dicembre dice che l’esercito israeliano ha drasticamente ridotto lo standard di protezione umanitaria, autorizzando azioni militari che comportino uccisione dei civili su larga scala.

Sono giudizi che si basano sulla constatazione di azioni militari particolarmente violente?

Tutto ciò fa seguito alla distruzione sistematica di ospedali, scuole, luoghi di culto, infrastrutture civili. Tali condotte sono qualificabili come crimini di guerra e crimini contro l’umanità. Siamo, quindi, ben al di là di un conflitto armato convenzionale, nell’ambito del quale possono anche esserci danni collaterali alle popolazioni che vivono nel territorio dove il conflitto si svolge. Sembra che per Israele tutto il territorio di Gaza sia un unico obiettivo militare. Ritengo che ormai si possa parlare di una guerra fra uno Stato, Israele, e l’intera popolazione di Gaza.

Il Papa aveva chiesto anche che si indagasse sulla possibilità di considerare come genocidio l’azione israeliana a Gaza. Come sono cambiati i rapporti tra Vaticano e Tel Aviv?

Come ho detto, le condotte israeliane contro la popolazione civile di Gaza sono ben al di là del diritto e dell’etica internazionale. Nulla, neanche l’efferata azione di Hamas del 7 ottobre, può giustificare crimini di guerra e crimini contro l’umanità. Ma, se mi chiede se tali condotte vadano qualificate come genocidio, la mia risposta è problematica ed è fondata su una questione tecnica. La qualificazione di genocidio richiede due elementi: la prima è la commissione di crimini di guerra e di crimini contro l’umanità. Ritengo che tali crimini possano essere facilmente accertati sulla base delle prove raccolte da osservatori internazionali.

Cosa occorre dimostrare d’altro?

Per la qualifica di genocidio occorre un elemento ulteriore, e cioè l’intenzione di distruggere un popolo o una parte significativa di esso. Io non ho gli elementi per affermare o negare che questa intenzione guidi l’azione di Israele. Credo che nessuno, in questo momento, li abbia. Ma penso che l’insistenza sul crimine del genocidio sia fuorviante. Nella Striscia di Gaza sono stati commessi certamente gravissimi crimini di guerra e crimini contro l’umanità. Ciò è sufficiente per punire i colpevoli. Insomma, se pur non vi fossero elementi probativi per dimostrare l’esistenza di un genocidio, le condotte israeliane non sarebbero meno illecite. E, di questo, Israele, la sua dirigenza politica e il proprio esercito dovrebbero essere consapevoli.

La presidente dell’Unione delle comunità ebraiche italiane, Noemi Di Segni, ha detto che dopo alcune prese di posizione del Papa sarà difficile invitarlo in sinagoga. I rapporti con la Santa Sede si sono deteriorati non solo con il governo israeliano ma anche con la comunità ebraica?

Io non ho letto le dichiarazioni della Presidente delle comunità ebraiche italiane. Ma, se avesse pronunciato queste parole, sarebbe molto grave. Ritengo che la posizione del Papa non sia incompatibile con l’ingresso in una sinagoga. Al contrario, sono le condotte israeliane a Gaza ad essere incompatibili con qualsiasi etica religiosa. Questo appoggio acritico fa male a Israele. Spero che la popolazione israeliana e i sostenitori di Israele in tutto il mondo percepiscano la gravissima situazione creata da questa guerra. I migliori amici di Israele dovrebbero capire che il mondo intero osserva queste condotte e le giudica. L’uccisione di oltre 45mila persone, la distruzione sistematica di tutte le infrastrutture civili, il trasferimento forzato della popolazione, i bambini che muoiono di freddo, tutto ciò non ha alcuna giustificazione. Chi giustifica tali crimini dovrebbe sentirsi a disagio con la propria coscienza.

La presa di posizione del Papa può influire sugli organismi internazionali che si occupano delle vicende palestinesi e mediorientali?

Gli organismi internazionali, in particolare le Nazioni Unite, sono in una posizione di stallo. L’Assemblea generale ha molte volte condannato le condotte di Israele, ma l’Assemblea non ha i mezzi per un’azione coercitiva. Il sostegno degli Stati Uniti, i soli a porre il veto al Consiglio di sicurezza, rende impossibile un’azione della comunità internazionale.

A che punto sono le iniziative giudiziarie internazionali relative a Netanyahu e alla qualificazione di genocidio dell’azione militare a Gaza? Hanno influito sulle strategie di Israele?

La Corte Internazionale di Giustizia ha fatto quel che poteva. In due ordinanze cautelari ha indicato che vi sono elementi plausibili per ritenere che Israele possa aver commesso atti genocidiari e ha ordinato a Israele di prendere misure per tutelare la popolazione civile di Gaza, in particolare consentendo l’accesso nella Striscia di cibo, acqua, elettricità, medicine e equipaggiamenti medici. Non sembra che Israele abbia dato seguito alle due ordinanze. La prosecuzione della procedura sarà lunga e complessa, anche in relazione alla difficoltà di provare l’elemento intenzionale al quale ho accennato. Nel frattempo, hanno chiesto di intervenire nel procedimento una nutrita serie di Stati, fra cui due membri dell’Unione Europea, e cioè la Spagna e l’Irlanda. La Corte Penale Internazionale, la quale ha spiccato un mandato di arresto per Netanyahu e Gallant, non può aprire una procedura in contumacia. La Procura continua a investigare e potrebbe chiedere alla Corte altri mandati di arresto.

(Paolo Rossetti)

*Enzo Cannizzaro si è laureato in giurisprudenza nel 1983 all'Università di Firenze. Ha poi frequentato l'Istituto universitario europeo di Fiesole e conseguito il dottorato nel 1987. Dal 1993 professore associato, poi ordinario, di diritto internazionale nell'Università di Macerata. Ha insegnato diritto dell’Unione Europea all'Università di Firenze dal 1990 al 1998 e diritto internazionale dell'economia nella LUISS di Roma. Dal 2007 è professore ordinario di diritto dell’Unione Europea nell'Università di Roma La Sapienza. Visiting professor nel 2005 presso la University of Michigan Law School, Ann Arbor, ha tenuto un corso presso l'Academy of European Law, European University Institute, Firenze; nel 2006 ha insegnato in qualità di Professeur invité nell'Institut des Hautes Etudes Internationales della Université Panthéon - Assas (Paris II). (sito web)

 

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Scenari Se l’“ordine neoliberale” sembra al tramonto, non è altrettanto per vari elementi del neoliberismo che hanno una particolare resilienza ibridandosi con molti aspetti dei populismi

Donald Trump e Elon Musk - Ap Donald Trump e Elon Musk

L’anno che arriva ci porta speranze di pace, anche se persistono guerre, rivalità commerciali, drammatici cambiamenti ambientali. Se l’“ordine neoliberale” sembra al tramonto, non altrettanto può dirsi di vari elementi del neoliberismo che mostrano una particolare resilienza ibridandosi con molti aspetti dei populismi. Si profila la ridefinizione congiunta del neoliberismo, della globalizzazione e dello stesso capitalismo, che è sempre meno animato da deterministiche «leggi di movimento».

Wolfgang Streeck rilegge il “tardo neoliberismo” concentrandosi sulle conseguenze dell’iperglobalizzazione sulla democrazia, squassata da movimenti populisti e lacerazioni sociali. L’unico rimedio potrebbero essere, secondo lui, una deglobalizzazione marcata, una deconcentrazione

del potere dalle mani di un’élite globalizzata, un ritorno allo Stato nazionale nella forma della microstatualità. Ma è davvero questa una strada alternativa? L’impiego che fa Streeck del pensiero di Keynes a sostegno della propria tesi “nazionalistica” è capzioso, poiché la ricchezza di Keynes consiste anche nella sua multiformità, tale che da essa possono essere tratte tesi divergenti, e correttezza vorrebbe che ci si attenga ai testi e agli atti più impegnativi e più impegnati, anche politicamente, come la Teoria Generale del 1936 – che tratta la contraddittorietà del capitalismo come un sistema mondiale – e il contributo dato agli accordi di Bretton Woods del 1944, anche nelle parti che non vi furono recepite, come la proposta internazionalista del Bancor per garantire la pace e gli equilibri commerciali ed economici mondiali.

Inoltre, anche coloro che hanno sottoposto a forti critiche la globalizzazione non hanno mai sostenuto una “deglobalizzazione drastica”. Dani Rodrik, che definì il “trilemma” della globalizzazione (secondo cui è impossibile la coesistenza di “iperglobalizzazione/Stato nazionale/democrazia” e per questo bisogna ridurre l’”iperglobalizzazione” in modo da rendere compatibile la democrazia e lo Stato nazionale con un maggior ruolo regolativo di quest’ultimo), chiama «globalizzazione intelligente» quella che scaturirebbe da un tale processo di contrazione.

Delle difficoltà e insieme del furore odierno del capitalismo è testimonianza il ricorrere della parola disruption nei discorsi del duo Donald Trump/Elon Musk. La volontà di “rottura” degli equilibri e delle regole attuali è sempre all’insegna del liberismo economico e dell’iniziativa individuale. Ma, mentre Trump persegue, assieme alla deregolamentazione ambientale e della finanza, un rovesciamento delle strategie globaliste in contraddizione con i principi neoliberisti e annuncia dazi e tariffe a protezione dell’economia nazionale, Musk sposa una visione dell’innovazione demolitrice delle idee sulla concorrenza e della responsabilità verso il pubblico e un’immagine della tecnologia come surrogato dell’umano.

Il connubio Trump/Musk – oltre a riproporre l’enfasi sull’identità autoctona, il suprematismo bianco, l’ossessione fallica ipermaschilista, la deumanizzazione degli avversari descritti come carogne, parassiti, fecce – incarna la scesa in campo di una nuova “oligarchia tecnologica” al fianco dei fondamentalisti evangelici, di cui Emmanuel Todd, che è un antropologo e storico hegeliano e weberiano, dice che non hanno nulla a che fare con il protestantesimo classico perché il loro boom, oltre ad aver consentito ai suoi ispiratori di fare molti soldi, ha fatto emergere una mentalità genericamente antiscientifica e un narcisismo patologico.

«Apocalittici» e «tecno-utopisti» stringono una sorta di alleanza tecno-integralista, i primi in nome della «dottrina del ‘domininionism’» che considera dovere cristiano uniformare le istituzioni laiche all’‘ordine biblico’, i secondi in nome dello spostamento della Silicon Valley – la serpe, «ebbra di denaro e di potere», cresciuta nel seno dai democratici – su una generazione di disruptor che assieme alle fortune vertiginose hanno accumulato un senso di «onnipotenza» infinito.

Todd attribuisce un decadimento democratico, culturale, industriale all’intero Occidente, non tanto minacciato da aggressori esterni quanto afflitto da una crisi endogena, determinata dalla «completa scomparsa del substrato cristiano protestante». Come il protestantesimo aveva generato la forza economica dell’Occidente – attraverso l’alfabetizzazione delle popolazioni indotte alla lettura diretta delle Sacre Scritture e allo spirito critico e rese capaci di progredire tanto a livello tecnologico che economico – la sua scomparsa genera un nichilismo distruttivo.

La “iperglobalizzazione”, gli andamenti dell’inflazione, la finanziarizzazione sono stati per il capitalismo un modo fondamentale per contrastare la stagnazione e cercare fonti alternative di profitto mediante la repressione della forza lavoro, che era stata la promotrice delle straordinarie conquiste dei “trent’anni gloriosi” del secondo dopoguerra ispirati dalla riflessione keynesiana. Ora, di fronte alle distruzioni e al sangue della guerra, il capitalismo cerca strade diverse.

Invece che accettarne la spinta in atto verso gli armamenti, si deve tentare di agire sulle “finestre di opportunità” che si sono aperte, anche grazie a un’evoluzione tecnologica che andrebbe guidata politicamente e istituzionalmente.

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Conflitto ucraìno Gazprom chiude le forniture dopo che Zelensky ha detto basta all’accordo di transito per bloccare le entrate russe che finanziano la guerra. Il vantaggio Usa all’ombra dell’attentato al Nord Stream

Una vista del Lakhta Centre, la sede centrale del colosso energetico russo Gazprom, a San Pietroburgo foto Anatoly Maltsev/Ansa Una vista del Lakhta Centre, la sede centrale del colosso energetico russo Gazprom, a San Pietroburgo foto Anatoly Maltsev/Ansa

L’Europa è entrata nella seconda guerra del gas con la Russia. All’alba di ieri nella pianura gelata di Sudzha,
al confine fra l’Ucraina e l’oblast russo di Kursk, la Gazprom russa ha chiuso le forniture attraverso l’Ucraina. La prima guerra del gas si è consumata nel 2022.

Nei mesi immediatamente seguenti all’aggressione dell’Ucraina da parte di Mosca. Allora Putin fece interrompere i flussi ponendo condizioni inaccettabili ai suoi clienti europei e in seguito fu sabotato nel Baltico anche il gasdotto Nord Stream, una sorta di cordone ombelicale dell’energia che legava Berlino a Mosca e rappresentava da anni per gli Stati uniti il vero nodo geopolitico tra l’Europa e la Russia.

PER WASHINGTON la guerra è stata l’opportunità di troncare questo legame e vendere agli europei il suo gas liquido (più costoso di quello russo), operazione che sicuramente non dispiacerà anche al presidente entrante Donald Trump che sulle vulnerabilità degli europei intende fare cassa. Tra l’altro l’aumento dei costi energetici incide sulla competitività delle industrie europee.

Basti pensare, come sottolineava qualche tempo fa Davide Tabarelli, presidente di Nomisma-Energia, che l’Italia qualche mese fa pagava il gas 40 euro al megawattora, gli Usa 7. Un divario destinato ora ad ampliarsi.

L’elemento che cambia i dati generali sulle importazioni di gas dalla Russia(e non solo) rispetto al passato è la crisi europea e italiana. Nel 2021, prima dell’inizio della guerra, l’Italia, per esempio, importava 29 miliardi di metri cubi di gas da Mosca su una domanda di 76. Lo scorso anno, invece, ne abbiamo consumati 63 e importati appena 3 dalla Russia: la domanda si è ridotta in modo pesante a causa del processo massiccio di de-industrializzazione che sta colpendo soprattutto Italia e Germania.

LA VICENDA del Nord Stream 1 e 2 ha è stata una svolta epocale nei rapporti tra Mosca e gli europei. Merita un flashback per capire come la pensano a Washington. Un’inchiesta della magistratura tedesca aveva indicato un gruppo di ucraini come responsabili del sabotaggio nel settembre 2022 del gasdotto Nord Stream. Secondo una ricostruzione del Wall Street Journal il presidente ucraino Zelensky era al corrente del piano ma aveva ritirato il suo consenso per pressioni della Cia.
La verità forse era meno fantasiosa e stava sotto gli occhi di tutti. All’indomani del sabotaggio, in un’audizione al senato americano il sottosegretario Victoria Nuland aveva affermato: «Penso che l’amministrazione Biden sia molto soddisfatta di sapere che il Nord Stream 2 sia ora un pezzo di metallo in fondo al mare».

La prima guerra del gas ebbe come risultato un aumento in Europa da un prezzo minimo di 20 euro a megawattora a oltre 300 euro durante il primo anno di combattimenti in Ucraina. L’Italia, come vari altri Paesi, rischiò di restare a corto della materia prima e normalizzò la situazione solo grazie a nuovi rigassificatori mobili di gas liquido, in gran parte dal Qatar, e a un nuovo accordo per ampliare le forniture con l’Algeria.

QUESTA VOLTA i prezzi europei del gas hanno toccato i 50 euro al megawattora, spinti anche dalle temperature in ribasso. Ma quali sono i possibili effetti dello stop del gas? L’Europa dipende ancora al 19% dall’energia russa. Alcuni stati europei, in particolare Slovacchia e Austria, accusano una dipendenza dalla forniture di Mosca che è rispettivamente al 70% e 60 per cento. Non è un caso che il primo ministro slovacco Robert Fico abbia dichiarato che «l’interruzione del transito del gas attraverso l’Ucraina avrà un impatto drastico su tutti noi nell’Ue, non solo sulla Federazione Russa».

E c’è subito chi sta peggio di tutti. La regione separatista moldava della Transnistria ha interrotto la fornitura di riscaldamento e acqua calda alle famiglie dopo che la Russia ha bloccato il flusso di gas attraverso l’Ucraina.

Ma c’è chi la vede in modo nettamente diverso da Fico e dall’ungherese Orbán, che con le loro recenti visite al Cremlino hanno entrambi cercato di acquistare il gas direttamente dai russi. Zelensky, rinunciando a 800 milioni di dollari di royalties, si è rifiutato di rinnovare l’accordo quinquennale per il transito di gas russo, perché dice che non intende facilitare ulteriormente nuove entrate del bilancio di Mosca che poi servono a finanziare la distruzione dell’Ucraina.

Secondo il centro studi Crea di Helsinki, grazie al gasdotto in Ucraina, Gazprom continuava a fatturare in Europa circa 350 milioni di euro alla settimana (più altri 200 milioni con il gas liquefatto). Da quanto incassa da Gazprom il governo di Mosca spende circa quattro rubli ogni dieci nello sforzo di guerra.

COME HA REAGITO l’Europa allo stop del gas russo dall’ucraina? Secondo la Commissione europea «l’impatto sulla sicurezza dell’approvvigionamento sarà limitato» indicando le rotte alternative di approvvigionamento per portare i volumi necessari in Europa attraverso quattro principali percorsi di diversificazione, con volumi provenienti principalmente dai terminali di gas liquefatto in Germania, Grecia, Italia, Polonia e forse anche dalla Turchia (il cui principale fornitore di gas è comunque la Russia).

L’Europa e l’Italia non rischiano di restare senza materia prima, ma è quasi scontata una nuova stangata sulle bollette di luce e gas. La seconda guerra del gas, le perdite umane e civili, la crisi politica ed economica nel cuore dell’Europa, ci dicono soprattutto una cosa: la tregua, qui come in Medio Oriente, sta diventando urgente.

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Ordine pubblico Le piazze italiane di Capodanno non saranno popolate soltanto da musiche e danze. Due vecchie conoscenze si aggireranno tra le persone in festa: «Sicurezza» e «Decoro»

Matteo Piantedosi Matteo Piantedosi

Le piazze italiane di Capodanno non saranno popolate soltanto da musiche e danze. Due vecchie conoscenze si aggireranno tra le persone in festa: «Sicurezza» e «Decoro». Chiamate da una direttiva del ministro Piantedosi, destinata a tutti i prefetti, per garantire il libero e pieno godimento «di determinate aree pubbliche, caratterizzate dal persistente afflusso di un notevole numero di persone».

L’idea è chiara: «Aree verdi, parchi e zone pedonali ben illuminate e curate creano un ambiente sicuro, come pure l’installazione di impianti di videosorveglianza». Necessaria «una sempre maggiore presenza delle forze dell’ordine in tutti i luoghi nevralgici e ad alta frequentazione per il benessere della popolazione». Accanto a queste misure, per le feste natalizie, si concentra l’attenzione sui dispositivi per eccellenza: i «daspo urbani», ossia l’ordine di allontanamento e il divieto di accesso.

Disposizioni – prosegue la direttiva – «interessate da modifiche di segno ampliativo, contenute anche nel disegno di legge in materia di sicurezza pubblica all’esame del parlamento, che reca un’ulteriore estensione del divieto di accesso a coloro che risultino denunciati o condannati, anche con sentenza non definitiva».

Nella confusione del Capodanno, tra un fuoco d’artificio, un brindisi e, soprattutto, la distrazione delle persone, i prefetti sono chiamati a consolidare l’idea di sicurezza in corso di sperimentazione (a Milano dopo Firenze e Bologna): rendere invisibili, ricacciandoli in periferia, i soggetti presunti pericolosi; limitare la libertà di movimento sulla base di presupposti generici senza ricorrere al giudice; trasformare la sicurezza in pura incolumità e «ordinato vivere».

Si potrebbe dire – lo si sente ripetere anche sinistra – che in fondo si va incontro ai bisogni reali delle persone, soprattutto delle più deboli. Che almeno i poveri cristi trascorrano feste tranquille. Siamo sicuri che, mettendo da parte la riserva di legge e l’intervento del giudice, a essere allontanati siano proprio i soggetti pericolosi? Chi e come li individua? Le garanzie non sono formalismi, ma risposte precise a queste domande.

Stanotte, presi dall’allegria un po’ etilica della fine dell’anno, potremmo non guardare in faccia coloro che saranno allontanati, non capire chi sono e dove vengono mandati. C’è da scommettere, tuttavia, che quando nel corso dell’anno riprenderemo lucidità, potremmo vedere i loro volti: saranno i più poveri, le vittime della crescita diseguale della città; e verranno rispediti in quelle periferie da dove vengono. I centri luccicanti saranno protetti.

Quanto ci metteremo a elaborare una diversa idea di sicurezza, anche dei luoghi simbolo? Senza toccare qui i temi dello spazio urbano quale teatro del conflitto sociale, questa stretta di Capodanno mette in luce l’ennesima rinuncia a un’idea sicurezza vera, “autogestita” dalle persone che riescono a mischiarsi tra loro. Vengono in mente le parole di Renato Nicolini su Massenzio, durante le proiezioni dell’Estate Romana, come il manifesto di un’idea diversa della città: «Accanto a me, a destra un gruppo di ragazzi si passavano uno spinello e, a sinistra, una di quelle tipiche famiglie romane che si pensa non esistano più, arrivata con plaid, nonni, ragazzini, pentole di pasta, sfilatini con la frittata e fiaschi di vino. I due gruppi convivevano tranquillamente, senza troppa curiosità».

 

 

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