Medio Oriente «Come va a Stalingrado» chiedeva la Resistenza europea. Ora non vediamo chi vince, chi perde appesi a «tregue» esili mentre Netanyahu, che vuole l’incendio, massacra Gaza
Comandanti e generali iraniani a un incontro nel quartier generale di Zolfaghar, in Iran – AP
Due partigiani, un ucraino e un polacco, nell’inverno del 1943 escono dal loro rifugio e chiedono con apprensione a quelli che incontrano: «Come va la battaglia di Stalingrado dei russi contro i nazisti?».
Inizia così “Educazione europea”, romanzo di Romain Gary, grande scrittore ed eroe della resistenza francese. Come va oggi la battaglia del Golfo?
La nostra attuale educazione europea deve ancora cominciare, perché non conosciamo più le guerre. E neppure chi le vince e chi le perde. Soprattutto quando vengono proclamate tregue fragili e persino evanescenti. Basta pensare a Gaza dove i palestinesi affamati e torturati muoiono tutti i giorni.
Non è retorica: questa guerra del Golfo nasce nel momento in cui né gli Stati uniti né l’Europa si sono opposti al genocidio di un popolo. Se ammetti questo, tutto il resto è possibile.
Abbiamo lasciato mano libera a Netanyahu di incendiare il Medio Oriente.
Ma quando la casa del tuo vicino brucia anche la tua casa potrebbe bruciare: questo gli americani, a migliaia di chilometri da qui, non l’hanno mai capito. Tanto meno questo disperato che sta alla Casa Bianca, già pentito di quello che ha fatto in Iran. La guerra in Afghanistan nel 2001 è costata migliaia di morti e di profughi, per poi restituire il Paese ai talebani. In Iraq nel 2003 abbiamo gettato uno stato nel caos, nella guerra civile e nel jihadismo. Per non parlare della Libia, divisa, ferita e in mano a bande criminali che colpevolmente anche noi italiani accettiamo e foraggiamo.
Ma queste cose forse Trump non le sa o fa finta di ignorarle: lui non sa neppure che cosa è stata Stalingrado. E soprattutto ha persino sbeffeggiato i suoi servizi segreti dando credito a quelli israeliani che assegnavano già all’Iran una bomba atomica. Invece di continuare a negoziare con Teheran si è fatto imporre l’agenda di Netanyahu: Israele ha attaccato l’Iran quando, dopo due giorni, si dovevano tenere incontri in Oman tra Washington e Teheran.
Nonostante i suoi potenti cacciabombardieri, Trump ha dato dimostrazione di un’estrema debolezza. La tecnica è importante ma non è mai una politica. Questa è una guerra che lui poteva evitare e non l’ha fatto. Aveva promesso di portare la pace nel mondo e alla fine ha ceduto al premier israeliano.
Vanno incontro, Usa e Israele, a una sconfitta? Forse. L’obiettivo non era solo il nucleare iraniano ma il cambio di regime e soprattutto ridurre l’Iran come l’Iraq e la Siria. Ovvero senza un esercito, un’aviazione e una base industriale, spogliando popoli e paesi di qualunque sovranità.
Il piano strategico americano e israeliano non è certo la stabilizzazione del Medio oriente ma quello di condurre la regione nel caos, disgregando gli stati nati dalla dissoluzione dell’impero ottomano e del colonialismo anglo-francese. Se noi guardiamo la mappa della regione ci rendiamo conto che i confini degli stati attuali sono più una convenzione che una realtà.
In Medio Oriente secondo Netanyahu e soci deve esistere solo un colonialismo, quello israeliano che decide non soltanto la sorte dei palestinesi ma quella degli stati di tutta la regione. Per ora questo progetto resta in piedi e infatti nel Golfo e altrove la guerra è destinata a continuare.
L’Iran, pur con un regime inaccettabile secondo i nostri standard occidentali, si è opposto a questo destino. Ma oggi Trump annaspa perché non sa cosa fare e rischia di ripetere gli errori disastrosi fatti dalle altre amministrazioni americane.
E noi qui, in Europa e nel Mediterraneo, cosa abbiano da dire? Poco o nulla: il presidente Usa non ci considera degni interlocutori, a Israele, governata da un ricercato della corte penale internazionale, non imponiamo neppure una sanzione. Dovremmo ribellarci ma per farlo ci vuole una dignità che forse non abbiamo. E non siamo degni neppure della memoria di Stalingrado.
Commenta (0 Commenti)Medio Oriente Trump è un irresponsabile e un burattino nelle mani di Netanyahu. Le ultime decisioni belliche porteranno altro caos nella regione, nel Mediterraneo e alle porte di casa nostra
Manifesti di ringraziamento a Trump comparsi in Israele poche ore dopo l'attacco all'Iran – Ohad Zwigenberg /Ap
Come previsto gli europei umiliati e sbeffeggiati. Dormivano tutti, i nostri governanti europei, italiani compresi. Ieri in un breve post su Facebook mi domandavo se Trump potesse dire di no a Israele e chi comandasse nel mondo. Ecco la risposta in meno di 24 ore.
Il maggiordomo di Israele, Trump, ha ceduto alle richieste di un criminale di guerra sanzionato come Putin dalla corte penale internazionale. Ma qui si ostinano a fare inutili distinzioni e, incredibilmente, nessun governo europeo condanna, adesso siamo coinvolti in una guerra perché gli iraniani potrebbero mettere nel mirino, se ne avranno la forza, le basi americane non solo in Medio Oriente ma anche in Europa e in Italia. E Trump non ha avvisato nessuno perché è un irresponsabile che considera gli europei dei camerieri come del resto abbiamo notato prima al G 7, abbandonato senza neppure salutare, e poi ieri quando a Ginevra Francia, Germania e Gran Bretagna hanno incontrato inutilmente il ministro degli Esteri iraniano Aragchi.
Quanto a Netanyahu non ci considera degni neppure di un whatsapp mentre qui, soprattutto in Italia, ripetiamo come imbecilli la formuletta che “Israele deve difendersi”. Come no, anche a rischio di mettere in pericolo i nostri cittadini oltre che quelli iraniani e migliaia di palestinesi che Israele continua a uccidere nella Striscia di Gaza. Solo quello sciocco del cancelliere tedesco Merz può pensare che “Israele fa il la lavoro sporco per noi”. Israele fa le sue guerre violando sistematicamente il diritto internazionale e umanitario, fa i suoi interessi che sono contrapposti ai nostri e ora con l’attacco all’Iran appoggiato dagli Stati uniti ha scatenato una guerra che noi non abbiamo dichiarato. Netanyahu non ha nessuna considerazione per gli europei e l’Italia, anzi umilia sistematicamente la nostra diplomazia che chiede con toni infantili la “de-escalation”.
Del resto è quello che ci meritiamo con i nostri governanti e un apparato mediatico e propagandistico che non riesce mai a
Leggi tutto: Siamo entrati in guerra senza saperlo - di Alberto Negri
Commenta (0 Commenti) Un edificio danneggiato durante gli attacchi missilistici vicino a Tel Aviv – Ansa
Dei riflessi nella regione mediorientale della guerra scatenata da Benyamin Netanyahu contro l’Iran e dei possibili sviluppi futuri nel mondo arabo abbiamo parlato con Yusef Mansour, analista, docente di economia ed ex ministro del governo giordano. Ci ha ricevuto ieri nel suo ufficio ad Amman.
Come descrive il quadro regionale a dieci giorni dall’attacco lanciato da Israele?
In questi casi si usano spesso espressioni o parole come destabilizzante, insidioso o pericoloso. Io dico che siamo di fronte a qualcosa di epocale, devastante per il Medio Oriente e il mondo intero. Israele ha messo in atto un’aggressione militare di cui abbiamo visto solo i primi passi. Dubito che vedremo una guerra di logoramento nel prossimo periodo. Sarà una guerra sempre più distruttiva. Considerando anche il possibile ruolo degli attori esterni, in particolare degli Stati Uniti che, peraltro, sono a dir poco instabili quando si tratta di definire la loro politica estera. La leggiamo su Twitter, quando Trump dice una cosa e poi cambia subito idea. L’ingresso in campo degli Stati Uniti avrebbe effetti catastrofici per il Medio Oriente.
Israele sostiene di aver attaccato per eliminare la minaccia rappresentata dal programma nucleare iraniano. Da più parti si sottolinea che ci sono motivazioni ben diverse dietro la guerra.
Penso che abbiano giocato un ruolo anche l’economia e gli interessi di alcuni alleati di Israele. L’Iran è uno dei principali fornitori di petrolio a basso costo per la Cina e contenere l’espansione economica di Pechino è un interesse ben noto dei paesi occidentali. In questi giorni Israele ha concentrato parte dei suoi attacchi sulle infrastrutture economiche di Teheran per metterla in ginocchio. Ciò potrebbe spingere altri paesi a intervenire in qualche modo nel conflitto. La Cina sta già sostenendo l’Iran e anche il Pakistan è dalla parte di Teheran. La Russia in apparenza è più neutrale, ma in realtà ha bisogno dell’alleanza con l’Iran.
Israele punta al cosiddetto cambio di regime a Teheran. Ci riuscirà?
L’Iran è un paese grande e ricco di risorse, un paese con una lunga storia e una tradizione di cui va molto fiero. Perfino l’opposizione, o almeno una parte di essa, si è unita al governo nella difesa del paese dall’attacco esterno. Dire che si realizzerà un cambio di regime è una stupidaggine. L’Iran non è l’Iraq del 2003, gode di sostegni esterni dettati da interessi economici e geopolitici di eccezionale importanza che Baghdad invece non aveva. Il potere, malgrado le affermazioni israeliane, è stabile.
Dalle capitali arabe intanto giunge solo silenzio.
Questo descrive bene l’atteggiamento dei leader arabi. Esiste da sempre una distanza enorme tra le loro affermazioni pubbliche e le azioni che compiono dietro le quinte. Certi paesi arabi non hanno mai smesso di considerare l’Iran come un nemico strategico. Eppure, Teheran non ha mai aggredito per primo gli Stati arabi da quando è avvenuta la rivoluzione khomeinista. La guerra tra Iraq e Iran fu avviata dal presidente iracheno Saddam Hussein. Convinto che l’Iran fosse indebolito dalla rivoluzione islamica, Saddam Hussein sottovalutò la capacità di resistenza iraniana, dando il via a un conflitto che avrebbe segnato l’intera regione. Dietro le dichiarazioni di facciata, le monarchie del Golfo continuano a giocare la carta dell’Iran come nemico numero uno. Se però ci si allontana dalle stanze del potere e si ascoltano le voci della gente comune, emerge una verità ben diversa. Qualunque arabo, direi il 90%, se non di più, ti dirà che il vero nemico non è l’Iran, ma Israele. I regimi arabi vedono al contrario in Israele un prezioso lasciapassare per ottenere il sostegno degli Stati Uniti. Appoggiare Israele per loro vuol dire avere una legittimazione internazionale.
Gli Accordi di Abramo per la normalizzazione dei rapporti tra leader arabi e israeliani saranno il percorso futuro più ovvio nonostante la distruzione di Gaza e gli attacchi al Libano e all’Iran?
Hanno già accettato quegli accordi. Se guardi all’Arabia Saudita, l’infiltrazione, la presenza e l’influenza degli israeliani è già enorme. E lo stesso vale per altri paesi.
Quanto è stata fondamentale la caduta di Bashar Assad per la realizzazione del piano di attacco israeliano all’Iran?
Sotto tanti aspetti. Tra questi anche la possibilità per gli aerei israeliani di poter sorvolare la Siria senza pericoli prima di attaccare l’Iran. (Il presidente autoproclamato siriano) Ahmad Sharaa resta in silenzio. Afferma che il suo intento al momento è stabilizzare e unificare la Siria, ma di fatto sta sostenendo Israele con cui ha anche avviato un negoziato.
Le monarchie del Golfo, a parte le condanne ufficiali, non respingono il dominio di Israele
E la Giordania? Amman ufficialmente sostiene i diritti dei palestinesi, condanna con forza la distruzione di Gaza, ma le sue forze aiutano Israele ad abbattere droni e missili iraniani. Di recente ha usato il pugno di ferro contro chi manifesta in strada per i palestinesi.
Non è affatto strano. La leadership giordana usa la protesta popolare a seconda delle situazioni, che sia Gaza o l’Iran, non fa differenza. Nel caso dell’abbattimento dei missili iraniani da parte dell’esercito giordano o dei militari americani presenti in Giordania, la posizione ufficiale è che “nessuno userà il nostro spazio aereo”. Di fatto è un appoggio indiretto a Israele. Questo è contro i sentimenti del popolo giordano. Israele è ancora uno Stato nemico dei giordani. È vero, il governo ha firmato la pace, ma per la gente comune quella pace non esiste. L’abbattimento di quei missili genera malcontento e frustrazione.
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Giallorossi Proposta unitaria per chiedere al governo lo stop al memorandum militare con Israele: «Il massacro di Gaza non continuerà in nostro nome». La benedizione del cardinale Parolin alla manifestazione "no riarmo" fa risaltare l'ingiustificata assenza dei dem (per paura delle frange pro pal più radicali). Che domani alla Camera diranno no al 5% del pil in spese militari voluto dalla Nato
Schlein con l'ex commissario Ue Frans Timmermans e l'ex premier neozelandese Jacinda Ardern – da Instagram
Una mozione provvidenziale e unitaria, per chiedere al governo di stracciare il memorandum con Israele. Pd, M5S e Avs riappaiono insieme contro Netanyahu nel giorno in cui sono divisi nella piazza sul riarmo. Conte, Fratoianni e Bonelli a Roma, Schlein in Olanda.
La leader Pd era ospite di Frans Timmermans al congresso dei rossoverdi, solo quattro sparuti parlamentari si sono uniti al corteo «no riarmo», partito senza una delegazione ufficiale dem. L’annuncio della mozione arriva a mezzogiorno, due ore prima dell’inizio della manifestazione. Chiede al governo di revocare il memorandum di cooperazione militare con Israele, che è in vigore dal 2005 (relatore della legge fu l’allora deputato Sergio Mattarella), e di sospendere tutti gli accordi attuativi del medesimo e qualsiasi altra forma di cooperazione militare.
L’avviso di revoca deve partire sei mesi prima della scadenza e del tacito rinnovo, che scatterà ad aprile 2026, e dunque i tempi ci sono se il governo (ma non è così) volesse procedere a stracciare l’accordo. Netti i toni del documento: «Non lasceremo che l’Italia venga macchiata dalla pavidità di Meloni, questo massacro non continuerà in nostro nome».
I tempi in questa vicenda contano. L’annuncio di una mozione parlamentare di sabato mattina è inusuale, ed è un segnale politico che venga fatto (con l’intesa dei tre partiti) due ore prima di una manifestazione che li vede divisi. Serve a coprire l’assenza dei dem e a confermare che l’asse giallorosso in politica estera è ancora vivo. Non a caso Conte non affonda il colpo sull’assenza Pd: «Non entro nel campo altrui, sottolineo anche i passi congiunti e positivamente compiuti insieme».
Dietro le quinte si apprende che, con questa mossa, Conte e Fratoianni hanno risposto alla cortesia di Schlein che il 7 giugno disse no alle richieste di Calenda e Renzi di annacquare la piattaforma della piazza per Gaza. Un no che spinse i due centristi a farsi una manifestazione da soli in un teatro di Milano.
Per Schlein è un bel favore, quello di ieri, anche se dal M5S spiegano che la tempistica dell’annuncio è casuale: la mozione è stata chiusa dagli sherpa venerdì sera. Le consente di mostrare un profilo di radicalità contro Netanyahu nel giorno in cui il Pd ha disertato la piazza che diceva no ai piani di riarmo, della Nato e dell’Ue, e allargava la piattaforma del 7 giugno: non solo per Gaza ma contro la logica della guerra che permea l’Occidente, tout court.
La benedizione alla piazza arrivata nel pomeriggio dal segretario di Stato Vaticano Pietro Parolin («È bene che ci sia una mobilitazione per evitare la corsa al riarmo») suona come una beffa per i dem, anche quelli, come Schlein, che non erano in disaccordo con le parole d’ordine ma temevano che alcune frange pro pal più radicali potessero portare la piazza troppo lontano dal loro sentire, magari bruciando bandiere di Israele.
Forse confondendo le due manifestazioni di ieri, quella di Potere al popolo e giovani palestinesi (più radicale) a Piazza Vittorio e quella indetta da 400 associazioni, tra cui le Acli e altre sigle del pacifismo cattolico. Timori infondati, quelli del Pd, ma ancora più stonate, dopo le frasi di Parolin, appaiono le frasi liquidatorie degli esponenti della destra dem (molti sono cattolici) che avevano definito il corteo di ieri «sbagliato, strumentale e mistificatorio (Filippo Sensi) o sospettabile di «minare la nostra credibilità» (Pina Picierno).
Ancora una volta tocca alla Chiesa dire qualcosa più di sinistra del Pd, dalla guerra alla povertà, ormai non è più una notizia. Ma tant’è. E del resto, oltre alle presenze delle frange pro pal più radicali, a preoccupare Schlein c’era e c’è anche il rapporto con l’Ue e con la Nato, due partner inevitabili per chi si sta preparando ad andare a palazzo Chigi. Nel Pd pensano che il piano di riarmo targato von der Leyen sia ormai carta straccia: nessuno dei paesi principali, tranne la Germania, ha deciso di fare debito per nuove armi e dunque degli 800 miliardi previsti sulla carta resta ben poco.
C’è poi il delicato capitolo del 5% di pil da destinare alle spese militari che sarà deciso la prossima settimana a L’Aia nel vertice Nato. Una previsione di spesa definita «impensabile» anche dal ministro della Difesa Crosetto. Il Pd, che finora, è stato prudente, ha deciso di dire no, sulle orme del premier spagnolo Pedro Sanchez. «È diritto legittimo di ogni governo decidere se è disposto o meno a fare questi sacrifici, noi abbiamo scelto di non farlo», ha scritto Sanchez al segretario generale della Nato Rutte.
Il Pd inserirà un paragrafo su questo punto nella risoluzione che presenterà in Parlamento domani, in occasione delle comunicazioni di Meloni in vista del Consiglio Ue del 27 giugno. Un’altra mossa che la sinistra del partito giudica fondamentale, come il no al memorandum Italia-Israele. «Un passo alla volta stiamo postando la linea del Pd», spiegano. Ma sul no al riarmo, prima o poi, Schlein dovrà dire parole ed esprimere voti chiari, non potrà più limitarsi alle astensioni e alle frasi di circostanza. Anche a costo di perdere pezzi della destra Pd.
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Piazze Pensavate che la stretta riguardasse solo giovani infervorati, attivisti appassionati e militanti accaniti? Invece i primi a farne le spese sono gli operai, già denunciati dalla polizia
Non avendo ancora imparato a volare, i metalmeccanici che nel giorno dello sciopero per il contratto manifestavano a Bologna, fatalmente hanno ostruito «con il proprio corpo» (altri non ne avevano) la «libera circolazione su strade ordinarie». Succede da diversi secoli, a questo in fondo servono i cortei di protesta; succede da prima che in Italia fosse reato il blocco stradale e ferroviario e cioè dal 1948. Punito allora in maniera più mite da come lo è oggi dal governo Meloni e dalla creatura che meglio lo rappresenta, il decreto «sicurezza». Prima si rischiava un multa (male anche quello) adesso due anni di carcere. Pensavate che la stretta riguardasse solo giovani infervorati, attivisti appassionati e militanti accaniti? Invece i primi a farne le spese sono gli operai, già denunciati dalla polizia.
Così tra chi vorrebbe lavorare con un contratto aggiornato e chi preferisce continuare a pagare gli stipendi di quattro anni fa, i fuorilegge sono i primi. E la destra naturalmente schiera se stessa e i tutori dell’ordine a difesa degli interessi padronali, anche qui siamo sul classico. Ma tanto basta per comprendere quanto alta sia diventata la posta in gioco di ogni manifestazione di dissenso, al tempo dell’autoritarismo. Non si tratta solo delle ragioni, pur così evidenti, dei lavoratori, si tratta ormai dei diritti di tutti.
Qualche ostacolo alla «libera circolazione» e qualche resistenza passiva è prevedibile anche oggi, che finalmente è il giorno della manifestazione nazionale contro il riarmo e per Gaza. C’è un filo nero molto spesso ed evidente che unisce la copertura che viene offerta a Israele nella sua quotidiana carneficina a Gaza e più recente aggressione all’Iran, la riduzione in brandelli del diritto internazionale, la strada senza uscita del riarmo imboccata con decisione e l’esigenza di reprimere il dissenso interno. C’è anche una conseguenza molto prevedibile dei tagli allo stato sociale per le enormi spese di riarmo, in Italia come in altri paesi europei.
Ed è un’ulteriore impoverimento, una spinta verso la marginalità di strati più larghi delle popolazioni. Destre sempre più estreme, razziste e guerrafondaie si preparano a incassarne i dividendi di consenso elettorale. Il precipizio è davanti ai nostri occhi.
L’ex presidente degli Stati uniti George W. Bush disse una volta che non sarebbero stati i pacifisti a fermare la guerra. Lo disse al tempo in cui il movimento per la pace era enormemente più forte di oggi, per il New York Times addirittura una «superpotenza». Le guerre in effetti continuarono. Per arrivare però dove quei pacifisti prevedevano, cioè a nient’altro che ad altre dittature, fame, fanatismo, migrazioni forzate, oppressioni. Il tutto al prezzo di devastazioni e centinaia di migliaia di morti.
Vent’anni e più dopo l’Afghanistan e l’Iraq, la vecchia idea di esportare con le armi la democrazia è tornata di moda. In Iran con lo schema già visto delle armi di distruzione di massa da disinnescare e di un regime da cambiare. Nel frattempo però la democrazia è diventata merce assai più scarsa proprio nel nostro Occidente che dovrebbe esportarla. L’Europa in armi si fa caserma e il nostro paese è tra le baracche più rigide e «sicure». Rimettere insieme i pezzi del pacifismo e del dissenso è tanto più urgente.
Commenta (0 Commenti)Riarmo Intervista a Emiliano Manfredonia, presidente delle Acli
Emiliano Manfredonia, presidente delle Acli
«Pensare che l’Europa debba misurarsi in base alle armi che ha e che riesce a produrre è un passo indietro nella storia». Emiliano Manfredonia, presidente delle Acli, è convinto che la febbre del riarmo rischi di portare il vecchio continente a un punto di non ritorno.
Avete parlato della necessità di una politica estera comune e di difesa comune, e che la sicurezza si fonda su welfare e lotta alle diseguaglianze. Welfare e riarmo sono alternativi?
Il riarmo peggiora totalmente la vita delle persone: il contrario di guerra non è solo pace, ma welfare, giustizia sociale, costruzione della democrazia, partecipazione. Non ci può essere pace senza giustizia: non è la guerra che deve essere preventiva, è la giustizia a essere preventiva. L’idea dell’Europa di riarmarsi è contro la sua storia, fatta di memoria, incontro, dialogo, riconciliazione tra Paesi che litigavano per le risorse della terra. La condivisione ha fatto sì che l’Europa diventasse quello che è oggi, l’affermazione dello stato sociale.
Anche le Acli saranno in piazza sabato contro il riarmo: hanno aderito 440 sigle. Sulla pace è diventata urgente una convergenza trasversale?
La pace spero che sia un’urgenza, tutti quelli che hanno a cuore l’umanità sanno che la pace è la prima cosa da mettere al centro. Ci si sta avvitando sempre di più in questo mondo che è dentro la terza guerra, è inutile nasconderselo. È necessaria la convergenza di tutte le persone di buona volontà: la prima enciclica scritta non solo per chi credeva ma per tutti è la Pacem in terris di Giovanni XXIII. Dobbiamo tornare alla pace delle parole di papa Leone XIV: «Disarmata, disarmante, umile e perseverante». Noi saremo perseveranti e staremo sempre sul fronte della pace.
Nell’ultima legge di bilancio le spese militari hanno toccato la quota record di 32 miliardi, poche settimane fa è arrivata la stretta autoritaria del dl sicurezza: il riarmo è già qui?
Il riarmo è già nella società: bisogna promuovere percorsi di educazione alla nonviolenza, iniziative di mediazione, progetti di accoglienza, trasformare la paura verso l’altro nell’opportunità di starsi vicino, di incontrarsi. È nelle comunità che bisogna cercare la pace, combattere il disimpegno morale delle persone, che vedono la guerra lontana e considerano i morti palestinesi diversi dagli altri morti. Ci si autogiustifica e invece bisogna continuare a indignarsi. Bisogna fare qualcosa: ognuno di noi può essere il colibrì che porta una goccia d’acqua sulla foresta in fiamme. Siamo allibiti dalla mancata presa di posizione del governo nei confronti di Netanyahu, e siamo allibiti anche di come ci si sta scordando di quello che fa la Russia con l’Ucraina. In un mondo così la diplomazia italiana, che è sempre stata al centro con la sua capacità di dialogo, ora è rimasta al palo. Armi e decreto sicurezza non possono essere la risposta, così come non può essere una risposta andare in giro portandosi dietro le grandi aziende belliche come Leonardo.
In favore del riarmo viene portato l’argomento della ripresa industriale: i lavoratori hanno veramente da guadagnare dalla riconversione bellica?
Abbiamo tutto da perdere: i soldi vengono distratti da altre spese più produttive, non c’è cosa più inutile delle armi. Serve spendere su sanità e istruzione e continuare a investire sulla transizione ecologica, lì c’è una traccia di futuro. Bisogna fare a attenzione a parlare di riconversione industriale perché poi tornare indietro è difficile.
Dal palco del 7 giugno ha criticato l’uso bellico delle religioni: c’è bisogno oggi di disarmare le coscienze?
Abbiamo bisogno di smettere di usare le religioni come luogo di differenze, perché sono quelle che uniscono, che tirano fuori l’umanità più profonda, la spiritualità di ognuno di noi. Non siamo al tempo delle crociate. Inviterei a leggere il messaggio alla fratellanza umana di papa Francesco sulla scritto ad Abu Dabi. Quando siamo scesi in piazza il 5 novembre 2022 ci davano dei putiniani, non si capiva l’urgenza dello scenario della terza guerra mondiale a pezzi di papa Francesco. Stiamo scegliendo la guerra al posto della diplomazia, stiamo distruggendo le istituzioni multilaterali, stiamo distruggendo la convivenza civile nel pianeta.
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