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Blindati La novità non la conosceranno i seicento che sono già affogati nel Mediterraneo nei primi tre mesi dell’anno. Avrà effetti invece sui migranti che sono stati respinti in mezzo al […]

Una bandiera europea davanti alla sede della Commissione europea a Bruxelles Una bandiera europea davanti alla sede della Commissione europea a Bruxelles – foto Virginia Mayo /Ap

La novità non la conosceranno i seicento che sono già affogati nel Mediterraneo nei primi tre mesi dell’anno. Avrà effetti invece sui migranti che sono stati respinti in mezzo al mare, in buona parte riportati nelle celle di tortura in Libia, e su tutti quelli che pur essendo sbarcati in Italia – in Europa – aspettano di sapere che ne sarà delle loro domande di asilo. In cifra assoluta nel 2024 sono diminuiti, ha fatto sapere la polizia di frontiera dell’Unione giusto ieri. E tutti sono stati contenti, potendo trascurare il fatto che se sono diminuiti gli arrivi è perché sono aumentati i morti in viaggio e i prigionieri nei campi che continuamente si aprono ai confini dell’Europa, con i soldi dell’Europa e con i torturatori riportati in servizio con volo di stato. Certamente non sono diminuite le ragioni per cui si emigra, sempre quelle: guerre, persecuzioni, sfruttamento, carestie, inondazioni.

La novità è di glaciale chiarezza: sarà sempre più facile per gli stati dell’Unione rispondere di no alle domande di asilo e protezione umanitaria. Diritti un tempo sacri, ormai destinati a valere solo per una minoranza di migranti. Carta straccia per coloro che più ne avrebbero bisogno. Ora la Commissione europea propone di estendere la finzione (non nuova) di considerare «sicuri» anche i paesi che in tutta evidenza non lo sono, e di velocizzare al massimo la procedura per respingere le richieste. Nulla lascia pensare che il parlamento europeo o gli stati membri si vorranno discostare da questa linea. L’Italia di Giorgia Meloni già la rivendica come propria, orgogliosa nel giorno in cui ottiene udienza alla Casa bianca di aver tracciato il solco della nuova politica migratoria continentale. Disgraziatamente ha ragione.

Eppure non è cambiata la Costituzione italiana, non è cambiata la Convenzione sui rifugiati solennemente firmata a Ginevra nel dopoguerra né è cambiata la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea: ovunque resta scolpito il diritto d’Asilo come principio cardine del diritto internazionale e della stessa vita civile. Non è cambiata, a voler essere pignoli, nemmeno la maggioranza nel parlamento europeo che ha confermato la Commissione di Ursula von der Leyen. Ma la politica sui migranti – cioè contro i migranti – un pezzo alla volta viene rovesciata. Così va adesso il mondo, e se Trump mette le manette e carica i deportati sugli aerei noi mettiamo le fascette e preferiamo le navi. La nostra prigione d’oltremare l’abbiamo costruita e la riempiremo. Va contro l’umanità, le leggi e persino la logica, ma serve alla propaganda e quindi si farà.

E si farà, d’ora in poi, in perfetta armonia con l’Unione europea. Peccato che Meloni non faccia più a tempo a unirsi alle piazze dove sventolavano la bandiere blu con le stelle. Ma ci saranno altre occasioni e la Commissione von der Leyen non mancherà di confermarsi la porta di accesso per le destre e le peggiori politiche reazionarie. Non vorremo illuderci ma magari, a un certo punto, piano piano, persino il Pd si accorgerà dell’errore che ha fatto a votarla. Sarebbe anche questa una novità.

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Usa Accademia o business?

Manifestanti pro Palestina ad Harvard a Cambridge foto Anibal Martel/Getty Images Manifestanti pro Palestina ad Harvard a Cambridge – Anibal Martel/Getty Images

Possiamo immaginare che Garber abbia pesato le parole scelte per riassumere la propria posizione e quella dell’istituzione che rappresenta. Proprio per questo, vale la pena di leggerle con attenzione: «Nessun governo, indipendentemente dal partito al potere, dovrebbe dettare cosa le università private possono insegnare, chi possono ammettere e assumere e quali aree di studio e ricerca possono perseguire».

In apparenza ineccepibili. Eppure c’è un particolare che disturba, e che spinge a farsi qualche domanda. Perché precisare che il principio di autonomia rivendicato da Harvard vale per le università «private»? Garber sta forse suggerendo che i controlli – giustamente – rifiutati a nome della propria università, sarebbero perfettamente accettabili se imposti a università che invece private non sono?

La risposta a questa domanda ci porta al cuore del problema di quella che gli studiosi di queste cose chiamano università corporate, ovvero un’università che, come Harvard e le altre grandi università private degli Stati uniti, è diventata di fatto una grande corporation, con un budget che farebbe impallidire quello dedicato all’intero sistema di formazione di diversi paesi, anche europei. Un’impresa, che produce risultati straordinari dal punto di vista del progresso della conoscenza in vari campi – come messo in evidenza, sempre sul sito dell’università, subito dopo la dichiarazione di Garber – ma che rivendica questi risultati come un buon investimento piuttosto che come una missione con un valore intrinseco.

La libertà accademica, in tale prospettiva, è strumentale rispetto al prodotto che è in grado di generare, non ha una giustificazione autonoma.

Perdere le esenzioni fiscali garantite ai donatori è un danno considerevole per un’università concepita in questo modo, ma è proprio quel regime fiscale di favore che ha dato ai finanziatori privati di alcune università un potere di influenza sempre maggiore sulle scelte fatte da queste istituzioni (come abbiamo visto in maniera lampante negli scorsi mesi per via delle pesanti pressioni del multimiliardario Bill Ackman su diverse università statunitensi). Se sono inaccettabili le pretese di controllo di Trump, perché non lo sono quelle di un privato cittadino? Viene il sospetto che il tema di fondo non sia la libertà accademica, ma la difesa del bilancio.

Questo carattere privato dell’università corporate si è rivelato compatibile con un clima di repressione del dissenso e di intimidazione del movimento di solidarietà con i palestinesi che sta raggiungendo livelli paragonabili a quelli del maccartismo. Poco importa che a protestare sono in molti casi anche studenti ebrei. Le proteste non piacciono ai donatori, e a diverse associazioni il cui scopo principale sembra essere difendere Netanyahu e i suoi sodali, piuttosto che i cittadini di Israele o gli ebrei della diaspora.

In ossequio a questo tipo di pressioni sono state prese misure restrittive (come la chiusura del campus) e in qualche caso si è arrivati a chiedere persino l’intervento delle forze dell’ordine per disperdere gli accampamenti degli studenti.

Se l’università è un’impresa, l’accampamento non è un gesto politico cui riconoscere un valore di manifestazione legittima di dissenso, ma la violazione di un diritto di proprietà. Infine, vale la pena di ricordare che, poco meno di un anno fa, lo stesso Adam Garber che oggi difende in modo così eloquente la libertà accademica non ha esitato negare il diploma a alcuni studenti che avevano partecipato alle proteste per la Palestina, andando incontro alle critiche di molti docenti e ricercatori della sua stessa università.

Se andiamo oltre le belle parole, stiamo assistendo a un’altra sconfitta del liberalismo di cui i principali responsabili sono proprio i liberali come Obama, che oggi protesta contro le pretese di Trump, invitando le università alla resistenza, ma che non ha mosso un dito per mettere la libertà accademica di tutte le università – pubbliche e private – su una base più sicura, illudendosi che i meccanismi reputazionali fossero sufficienti a garantirla. E che il peso crescente dei finanziatori privati nel definire l’agenda di insegnamento e ricerca non fosse destinato a erodere gli stessi presupposti etici della missione delle università in una società democratica.

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Opinioni È urgente una prospettiva di riscatto complessiva attorno a valori condivisi. Ma come si unisce una moltitudine scomposta senza cadere nel populismo o nella vuota retorica? L’unica possibilità per raggiungere il quorum è far comprendere che i quesiti rappresentano due tessere di un progetto costituzionale per la salvaguardia dei diritti

Illustrazione Ikon Images Illustrazione Ikon Images

Se vogliamo tessere la nostra tela è necessario partire dalla consapevolezza che la crisi della democrazia ha ormai investito il piano nobile della costituzione. Messa sotto pressione da un articolato progetto.

Il progetto prevede lo stravolgimento della forma di governo mediante uno sgangherato premierato; dalla caparbia volontà – nonostante le smentite della Consulta – di imporre un rapporto tra territori fondato sulla diseguaglianza e sull’abbandono del regionalismo solidale; dalla pretesa di rimodulare la divisione dei poteri in favore di quello politico, mostrando insofferenza al controllo dei giudici nazionali e al rispetto del diritto internazionale; dalla risposta esclusivamente securitaria al disagio sociale; dalle politiche del lavoro conformate – da tempo in verità – da un assolutismo neoliberista a scapito dei diritti inviolabili e della dignità delle persone.

Un disegno perseguito con tenacia, però non ancora compiuto: viviamo una fase d’interregno dove si manifestano fenomeni mostruosi. In questa fase di lotta tra vecchio che non muore e nuovo che non è ancora nato si diffonde un disagio ampio che attraversa le diverse culture politiche, ma che non riesce a tradursi in nuova egemonia. Viviamo in una società di «insoddisfatti», che in maggioranza votano a destra in mancanza di meglio. Molti sono i «delusi»: un esercito di astenuti, non solo dal voto ma da ogni impegno o credo politico. La sinistra è perduta, esausta dei perenni cambiamenti tattici che hanno prodotto continue delusioni. Un pensiero un tempo legato a chiari valori di civiltà (libertà, eguaglianza e fraternità, per dirla con le sue ancestrali parole fondative) si è reso sempre più leggero e si è alla fine smarrito, rischiando di rimanere afono di fronte agli urli degli altri, agli orrori del mondo. Persino la destra tradizionale non è in gran forma.

Magari è unita perché vincente, ma qualche costo lo paga: non ci dovrebbe essere granché a spartire tra nazionalisti e secessionisti; tra garantisti e giustizialisti; tra liberali e neofascisti. È allora legittimo chiedersi quanto potrà durare l’accordo per il potere? Non può essere data per scontata la direzione del cambiamento in atto. Quel che emerge è una società di minoranze scontente.

In questa situazione il compito più urgente è quello di tornare a fornire una prospettiva di riscatto complessiva attorno a dei valori comuni condivisi. Ma come si fa ad unire una moltitudine scomposta senza cadere nel populismo, nell’opportunismo o nella vuota retorica? La storia una indicazione chiara l’ha data. Nei momenti di crisi democratica la lotta per la costituzione può svolgere un decisivo ruolo di unità tra forze diverse. In fondo, se per dare vita alla Repubblica democratica e antifascista sono riusciti a combattere assieme dai monarchici ai comunisti, perché oggi non potrebbero trovare un accordo, nel rispetto della diversità di ciascuno, i liberali critici e i centri sociali irrequieti? Non bisogna avere paura delle alleanze in nome della costituzione, sarà questa a segnare il discrimine, a definire il campo largo. Semmai il rischio da evitare è un altro: utilizzare la costituzione come schermo puramente retorico, magari limitandosi ad affermare che è «la più bella del mondo», e così ci salviamo l’anima. Oggi la costituzione deve essere presa sul serio.

Che vuol dire in concreto? Principalmente due cose: passare dalla difesa all’attacco, collegare i diversi frammenti di lotta entro un quadro costituzionale. In primo luogo, far valere la costituzione oggi rende necessario ribaltare le narrazioni correnti. Contrapporre ai vizi del premierato le virtù del parlamentarismo (ad esempio, proponendo di rivoltare i regolamenti parlamentari; limitare la potestà normativa dei governi; ripensare le funzioni legislativa, di indirizzo e di controllo del parlamento); a fronte della cultura carcerogena e di scontro frontale con la magistratura si dovrebbe ridiscutere il valore delle garanzie giurisdizionali (pensando a come attuare il principio del giusto processo, garantire la funzione rieducativa della pena, limitare la carcerazione preventiva ed estendere le misure alternative al carcere); non fermarsi a criticare il regionalismo di natura competitiva, ma definire un regionalismo solidale che sia costituzionalmente orientato (pretendendo la redistribuzione delle risorse al fine di promuovere lo sviluppo economico e la solidarietà sociale tra le regioni, assicurare la garanzia dei diritti fondamentali – non solo quelli essenziali – su tutto il territorio nazionale, rimuovere gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona umana ovunque si risieda); alla cultura della sicurezza si dovrebbe opporre quella della solidarietà; all’attenzione per i poteri quella per i diritti….

Già questo appare un impegnativo programma, ma non basterebbe. Necessario è anche riuscire a collegare i bisogni di ciascuno al disegno complessivo. Se, infatti, viviamo al tempo delle minoranze divise e isolate, solo la somma di più minoranze può aspirare a rappresentare una maggioranza alternativa all’attuale.

In questa situazione il caso dei referendum appare esemplare. La maggior parte del popolo italiano risulta distratta rispetto ai problemi del lavoro, così come non sembra sufficientemente recettiva rispetto alle questioni della cittadinanza. L’unica possibilità per raggiungere il consenso necessario è allora quello di riuscire a far comprendere che i quesiti proposti non riguardano solo le categorie direttamente interessate – lavoratori o migranti – ma rappresentano due tessere di un mosaico che è necessario comporre per definire un più ampio progetto costituzionale per la salvaguardia dei diritti di tutti. Solo così si potrà affermare una maggioranza disposta a cambiare. Poi chi ha più filo tesserà.

 

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Diritti Ogni giorno nelle carceri italiane ci sono in media cinque episodi di protesta collettiva. Il reato di rivolta penitenziaria, introdotto dal decreto legge «sicurezza», punisce con pene elevatissime anche chi […]

Nel carcere di Milano San Vittore Nel carcere di Milano San Vittore

Ogni giorno nelle carceri italiane ci sono in media cinque episodi di protesta collettiva. Il reato di rivolta penitenziaria, introdotto dal decreto legge «sicurezza», punisce con pene elevatissime anche chi protesta senza violenza e con forme di resistenza passiva a ordini dati per generiche ragioni di sicurezza. Il carcere è pieno di tali eventi, ogni operatore lo sa.

Nel solo 2024 si sono verificati circa 1.500 episodi di protesta collettiva nonviolenta, quali la battitura delle sbarre o il rifiuto di rientrare in cella. Episodi che un bravo direttore o comandante di reparto risolveva con il dialogo, ascoltando le ragioni della protesta.

La pedagogia premoderna e punitiva di chi ci governa ha deciso di criminalizzare la disobbedienza nonviolenta. Se il 2025 sarà come l’anno passato, supponendo che in media quattro detenuti partecipino a ogni episodio di disobbedienza a un ordine, arriveremo a seimila detenuti coinvolti. Il reato di rivolta penitenziaria prevede pene altissime, superiori nel massimo ai maltrattamenti in famiglia. Supponiamo che i seimila detenuti siano condannati a una media di quattro anni di carcere ciascuno. Sono dunque in arrivo circa ventiquattromila anni aggiuntivi di carcere contro persone, già detenute, alle quali sarà peraltro escluso l’accesso a misure alternative. Una ricetta perfetta per far definitivamente esplodere il nostro sistema penitenziario e seppellire in carcere migliaia di persone, selezionate ovviamente tra le più vulnerabili: minori stranieri non accompagnati, persone con problemi psichici, tossicodipendenti.

A ciò vanno aggiunti gli effetti devastanti di tutti gli altri delitti presenti nel decreto. Il sistema collasserà, nei numeri e per la sua disumanità.

Una delle misure del decreto legge sulle quali maggiormente si concentravano i dubbi del presidente Mattarella era, come reso noto dai media, l’abolizione dell’obbligo di differimento della pena per le donne incinte o con prole fino a un anno di età. Nella trasformazione del testo in decreto, tale abolizione non è mutata. Da oggi sarà il giudice a decidere se la donna in gravidanza o appena divenuta madre dovrà andare in carcere. Se decide di sì, la donna sarà inviata in un Icam (istituto a custodia attenuata per madri), che è comunque un carcere a tutti gli effetti. Se tuttavia la donna in custodia cautelare in Icam non si comporta a dovere, allora accadrà qualcosa senza precedenti: la donna potrà essere trasferita in un carcere ordinario senza suo figlio, per il quale verranno allertati i servizi sociali. In questo modo si istituzionalizza la sottrazione del figlio alla madre detenuta.

Di fronte a tutto ciò chiediamo ai giuristi e agli operatori penitenziari e del diritto di assecondare la loro missione, di essere culturalmente e giuridicamente resistenti rispetto alle tendenze neo-autoritarie di un decreto legge che nella forma e nella sostanza fa carta straccia dello Stato di diritto.

Il grosso rischio è quello della cooptazione istituzionale degli operatori sociali e del diritto, che invece devono esercitare il loro spirito critico per non essere i manovali del declino del sistema.

Chiediamo ai giudici, agli avvocati, agli operatori tutti di moltiplicare le forme del dissenso chiamando la Corte costituzionale e la Corte europea dei diritti umani di Strasburgo a decidere se cancellare le norme presenti nel decreto legge.

Chiediamo a tutti gli operatori penitenziari di usare ragionevolezza e dialogo per non trasformare le carceri in fosse comuni dove i detenuti sono seppelliti da valanghe di anni di prigione.

 

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Alla Davos asiatica è recentemente emersa una riflessione su quel che sarà il nuovo mondo. Ora serve che le migliori menti del Paese si mettano insieme per decidere l'agenda delle vere priorità

Lo schiaffo al Nord globale e dove vogliamo essere noi domani

«Il Nord Globale non esiste più, ha deciso di autodistruggersi. È una straordinaria opportunità per noi, i Brics, l’Asia e il Sud Globale per conquistare il posto che ci spetta nel mondo». Così si è espresso un alto funzionario della Federazione russa nel corso del Forum di Boao, una sorta di Davos asiatica, svoltosi qualche settimana fa in Cina. Vi assicuro che non è stato semplice per gli occidentali presenti prendersi uno schiaffone (politico) in pieno viso, ma come dargli torto? Ciò a cui stiamo assistendo, al di là della guerra commerciale scatenata da Trump, è la frattura di quel Nord Globale che ha dominato gli ultimi decenni e che è stato, proprio per questo, apertamente avversato dal resto del mondo nelle sedi multilaterali, a partire dalle Nazioni Unite, negli ultimi due anni. Peraltro, la “dottrina Trump” è espressa in modo sprezzante contro gli storici alleati, a partire dai Paesi europei, accusati di essere dei “ladri” impegnati a depredare gli Stati Uniti.

Se poi a tutto ciò si accompagna l’intento di azzerare i 40 miliardi di dollari destinati dagli Stati Uniti ai Paesi in via di sviluppo, il messaggio di frantumazione dell’attuale assetto delle relazioni politiche globali risuona ancora più “forte e chiaro” e, almeno a giudicare da quanto sentito a Boao, è stato perfettamente capito dal continente asiatico.
Nel corso del Forum, però, abbiamo anche sentito il Vice primo ministro cinese richiamare l’impegno della Cina a realizzare l’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile, adottata dalle Nazioni Unite nel 2015, e il Patto sul Futuro approvato dall’Assemblea Generale dell’Onu a settembre scorso. Al di là della distanza tra dichiarazioni e realtà (basti pensare al rispetto dei diritti umani) i due richiami appaiono perfettamente in linea sia con lo sforzo cinese per realizzare la transizione ecologica (in primo luogo per conseguire l’autonomia energetica), sia con l’obiettivo di ridiscutere la governance delle grandi istituzioni internazionali (a partire dalla Banca Mondiale e dal Fmi), come previsto dal Patto sul Futuro per dare più potere ai paesi emergenti e in via di sviluppo, temi poi ripresi in vari discorsi nei giorni del Forum.

Queste posizioni appaiono opposte a quelle espresse dagli Stati Uniti, il cui rappresentante all’Assemblea Generale dell’Onu ha recentemente affermato il rifiuto dell’Agenda 2030 in quanto troppo orientata alla transizione ecologica, alla tutela della diversità e al contrasto dell’esclusione sociale, obiettivi contrari a quelli dell’Amministrazione Trump, la quale ha fatto anche sapere per vie informali che non ha nessuna intenzione di discutere della governance delle istituzioni internazionali nel corso del Summit Onu di Siviglia della prossima estate. Se poi aggiungiamo la guerra avviata da Trump alle organizzazioni internazionali (tutte soggette a tre mesi di intenso scrutinio della coerenza dei loro programmi di lavoro con le priorità americane) e alle sedi multilaterali di discussione, anche scientifica, di tematiche globali (salute, educazione, clima, ecc.) il contrasto tra i discorsi (e sottolineo i discorsi) che si sentono fare ad est e ad ovest dell’Europa non potrebbero essere più diversi.
Dunque, noi cosa vogliamo fare? Non si tratta di schierarsi a favore di uno o dell’altro, ma di elaborare una chiara idea di cosa l’Unione europea vuole essere tra cinque o dieci anni, del ruolo che essa vuole assumere a livello globale, di come conseguire quell’autonomia strategica “aperta” (energetica, tecnologica, di difesa, ecc.) di cui tanto si parla, che consenta di assumere posizioni chiare senza essere ricattati con la chiusura del rubinetto del gas, la sospensione della copertura militare, lo spegnimento della rete satellitare esistente, ecc. E quanto appena detto vale anche per l’Italia.

La famosa preghiera “Dio aiutami a cambiare le cose che posso cambiare, accettare quelle che non posso cambiare e a distinguere le prime dalle seconde” dovrebbe diventare il nostro mantra culturale e politico nonostante ciò che ci circonda, anzi proprio a causa di esso. Se la Cina ha dimostrato storicamente di guardare al lungo periodo e gli Stati Uniti intendono fare lo stesso per creare un nuovo ordine internazionale, allora non possiamo discutere di cosa vogliamo fare noi “da grandi”. Faccio un solo esempio: l’Italia vuole correre seriamente e a più non posso per trasformare il nostro sistema energetico, puntando sulle rinnovabili, così da poter abbassare i costi dell’energia ed essere autonomi il prima possibile o vogliamo sottostare alla pressione di Trump per acquistare nei prossimi anni petrolio e gas dagli stati Uniti? Se la risposta è la seconda allora continuiamo a fare quello che stiamo facendo; se è la prima, allora dichiariamo la sicurezza energetica una questione d’interesse nazionale, centralizziamo le decisioni e superiamo le resistenze all’istallazione di rinnovabili.

Anni fa Bill Clinton spiegò all’allora aspirante primo ministro inglese Tony Blair la differenza tra questioni “urgenti” e questioni “importanti”, condividendo il più grande segreto che aveva scoperto da quando era in carica, cioè che «se un politico si fa schiacciare dalle prime e non dedica tempo alle seconde, le cose importanti non le farà mai». Come ha detto qualcuno, se non ci occupiamo del futuro sarà il futuro ad occuparci di noi e quest neanche provarci?o, nell’attuale mondo conflittuale, non mi sembra una prospettiva tranquillizzante. Per questo, e qui ripeto la stessa proposta che feci pubblicamente nel febbraio del 2020, all’inizio della pandemia, e che poi portò alla costituzione del cosiddetto “Comitato Colao”, è il caso di mettere le migliori menti del Paese a lavorare insieme per predisporre un “Rapporto sull’Italia, l’Unione europea e il mondo che vogliamo”, così che anche le risposte di breve termine siano inquadrate in un’ottica di medio-lungo periodo. Invece che accettare l’alternativa tra morire trumpiani o cinesi, dovremmo, con coraggio, scegliere di vivere da europei, fieri dei nostri valori, scritti nella Costituzione e nel Trattato dell’Unione, e impegnarci al massimo per realizzarli. Se provano a farlo (a modo loro) gli Stati Uniti e la Cina perché noi dovremmo rinunciare senza neanche provarci?

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Oltre i dazi Moriremo liberisti o protezionisti? Stando all’agenda politica, sono queste le uniche corde alle quali possiamo oggi scegliere di impiccarci

Donald Trump Donald Trump

Moriremo liberisti o protezionisti? Stando all’agenda politica, sono queste le uniche corde alle quali possiamo oggi scegliere di impiccarci. Dilemma lugubre quanto beffardo: liberismo e protezionismo sono infatti due estremi del medesimo laccio capitalista, inestricabilmente annodati l’uno all’altro.

Le recenti mosse di Donald Trump lo dimostrano. Il presidente americano agita l’arma dei dazi, poi la rimette in tasca, quindi la punta di nuovo sul mondo. E in questa giostra di annunci e smentite, al limite dell’aggiotaggio, offre magnifiche occasioni di guadagno per i suoi grandi elettori, gli speculatori di Wall Street, che in pochi giorni hanno potuto comprare a poco e vendere a tanto.

Barriere sempre più alte all’esterno e mercato di liberi filibustieri all’interno: due espressioni della medesima frenesia capitalista.

Ma anche dalle nostre parti non mancano prove di un analogo intreccio. Basti notare il modo in cui il governo sta preparando la visita di Giorgia Meloni a Washington. A quanto pare, la premier si presenterà al tavolo trumpiano con due punti in agenda. Da un lato, plaudire ai dazi americani contro il comune nemico cinese. Dall’altro lato, convincere l’Unione europea a rinunciare alle già risibili tasse pagate dalle multinazionali Usa nel continente, e a cancellare le norme che frenano l’importazione di merci americane di scarsa qualità, spesso dannose per la salute e per l’ambiente.

Protezionismo e liberismo, ancora una volta annodati nel medesimo fazzoletto.

Ma il modo più chiaro per comprendere che la disputa tra protezionismo e liberismo è fuorviante, consiste nel notare che in realtà l’uno è storicamente concatenato all’altro. Il globalismo senza regole degli anni passati ha generato enormi squilibri commerciali, che sono oggi ben visibili nel debito record degli Stati uniti verso il resto del mondo.

La svolta protezionista dell’America non è altro che l’estremo tentativo di rimediare a questa sua crisi debitoria. L’implicazione è chiara: il liberismo non può essere la soluzione contro il protezionismo poiché è parte del problema che lo ha generato.

Diventa a questo punto evidente l’inconsistenza del dibattito tra alfieri delle barriere agli scambi e paladini della libertà dei commerci. Protezionismo e liberismo sono solo due facce del capitale, disperate e feroci, alle prese con la grande crisi dell’ordine mondiale a guida americana.

Per chi intenda rappresentare le istanze del lavoro, dell’ambiente e della salute collettiva, il problema che allora si pone è cercare una bussola alternativa di navigazione nella tremenda tempesta globale in atto.

Una possibile soluzione consiste nel rilancio del cosiddetto social standard per la regolazione dei movimenti internazionali di merci e di capitali. L’idea non è nuova. Si tratta di una sintesi aggiornata di proposte avanzate dall’Ilo (l’agenzia dell’Onu per lavoro e politiche sociali), regole presenti nei Trattati Ue e clausole contenute nello statuto del Fondo monetario internazionale, che già in passato ha ricevuto l’attenzione del parlamento europeo.

Il nucleo dello standard consiste in una limitazione dei commerci con quei paesi che attuino politiche di competizione al ribasso sui salari, sulle condizioni di lavoro, sui regimi di tutela ambientale e sanitaria, rispetto a un comune obiettivo di riferimento e alla posizione da cui partono. Così congegnato, il meccanismo può sanzionare non solo la Cina che reprime i sindacati indipendenti o la Romania che taglia il welfare per sussidiare gli investimenti delle multinazionali, ma anche la Germania che comprime il salario per unità prodotta, gli Stati uniti che abbattono i vincoli ambientali alla produzione o l’Italia che demolisce il diritto del lavoro.

A ben vedere, il social standard rappresenta una soluzione esattamente opposta all’agenda con cui Meloni e gli altri esponenti delle destre di governo in Europa vorrebbero inaugurare la trattativa con Trump. Per questi, lo squilibrio internazionale va affrontato con una sciagurata miscela di protezionismo liberista: un dumping a tutto campo che non risolverà la crisi mondiale e aggraverà le condizioni del lavoro, della salute e dell’ambiente.

Il mix Trump-Meloni è già sul tavolo. Sarebbe ora di unire le forze intorno a una proposta alternativa.

 

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