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AUTONOMIA DIFFERENZIATA. Mentre va avanti lo scellerato progetto del governo sull’autonomia differenziata, interessa sapere che la sicurezza del lavoro è regionalizzabile

 Opera di Luciano Fabro

In Italia ogni giorno si muore sul lavoro. I tragici eventi di Suviana sono l’ultimo caso di tanti. Forse, mentre va avanti lo scellerato progetto del governo sull’autonomia differenziata, interessa sapere che la sicurezza del lavoro è regionalizzabile. Possiamo essere certi che non sia domani sacrificata sull’altare della competitività del territorio?

Anche l’energia è regionalizzabile, e sull’idroelettrico c’è stato già l’intervento di alcune regioni. Eppure l’energia è cruciale per la transizione ecologica ed è inserita in un contesto con ogni evidenza europeo e internazionale.

Infiniti i dubbi sulle riforme. Ma Lega e Fratelli d’Italia in parlamento forzano il passo, per avere la propria bandierina prima del voto europeo. Per l’autonomia approvazione in via definitiva, per il premierato prima deliberazione delle due richieste. Dopo le urne, però, i tempi si divaricano. Il premierato potrebbe vedere la luce nel 2025, giungendo al referendum (auspicabile) nel 2026. Invece, intese tra stato e regioni potrebbero essere stipulate e approvate con legge già ora, a partire dalla pubblicazione della legge Calderoli.

Il presidente Zaia ci dice che presenterà le richieste di autonomia del Veneto «il giorno dopo» il voto finale sul disegno di legge. Calderoli potrà gestire la formazione delle intese fino a portarle in Consiglio dei ministri. Se il suo progetto fosse approvato in tempi brevi, potrebbe riuscire a portare in Consiglio prima del voto europeo bozze di intesa con una o più regioni. Forse in poche settimane da oggi avremo occasione di vedere l’alba di un’Italia disarticolata in assemblaggio di staterelli, e magari avviata verso una riorganizzazione in macroregioni in base all’articolo 117.8 della Costituzione.

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Non si può rimanere inerti. Vanno evidenziati nel tempo parlamentare ancora disponibile, anche con il ricorso al question time, i punti potenzialmente rilevanti in specie per i ricorsi in Corte costituzionale da parte di una o più regioni entro i 60 giorni successivi alla pubblicazione. È la sola risposta che regga il passo di Zaia, perché un referendum abrogativo potrebbe essere inammissibile per il collegamento al bilancio, e sarebbe comunque assai più lento. Con ogni probabilità, infatti, giungerebbe al voto nel 2026.

Va anzitutto ribadito che il disegno di legge Calderoli è una legge sul procedimento per concedere la maggiore autonomia. Che viene invece attribuita con la legge approvata a maggioranza assoluta sulla base di intesa con la singola regione. La domanda è: può la legge Calderoli vincolare la successiva legge che approva l’intesa? No, in quanto legge ordinaria non sovraordinata alla legge successiva. La legge che approva l’intesa può modificare, derogare o comunque disattendere la legge Calderoli. A nulla vale il richiamo ai «principi generali» nell’art. 1.1, perché l’auto-qualificazione non cambia la natura della legge.

Ma allora a che serve? A poco. Sostanzialmente, può solo vincolare l’attività del governo nel negoziato con la regione. Sempre però considerando che laddove venisse disattesa ne verrebbe eventualmente solo una responsabilità politica del governo. Questo è il caso per l’articolo 2.2, che attribuisce al presidente del Consiglio il potere di limitare il negoziato con la regione per la tutela dell’unità giuridica ed economica e delle politiche prioritarie. Domandare a Giorgia Meloni se intende porre limiti e quali, a tutela di quali politiche, sarebbe peraltro opportuno. Soprattutto per capire se include tra le politiche da tutelare quelle nazionali e strategiche utili alla riduzione dei divari territoriali e delle diseguaglianze.

Segue dalla premessa che la classificazione delle materie-Lep e non Lep, il procedimento per la determinazione dei Lep, la condizione apposta della previa determinazione dei Lep ai fini del trasferimento sono scritti sulla sabbia. Del resto, anche a voler seguire il dettato legislativo, nelle materie non Lep immediatamente trasferibili troviamo ben 184 funzioni statali in materie di peso, cui si aggiungono le funzioni non-Lep nell’ambito di materie-Lep. Abbastanza per calare subito l’Italia nel vestito di Arlecchino.

Con la norma transitoria (articolo 11.1) che prefigura un percorso in qualche misura privilegiato per le regioni già in pista si conferma come pubblicità ingannevole la prospettazione di un’Italia più giusta e più uguale per l’autonomia. Anche su questo bisogna chiamare il governo a manifestare il suo indirizzo. Spesso a domanda il governo non risponde. Nel caso, bisogna insistere. In politica un assordante silenzio può dirci di più di molte parole

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LAVORO SOMMERSO. È necessario intervenire sulle ragioni strutturali che pregiudicano sicurezza e salute sul mercato del lavoro. E queste hanno due nomi principali: appalti e contratti precari.

La precarietà uccide, lo dicono i numeri 

La sicurezza sul lavoro si impone prepotentemente all’attenzione del paese, non solo per le tragedie, come da ultima quella della diga di Suviana, in cui sono coinvolti molti lavoratori, ma anche per lo stillicidio quotidiano con cui veniamo regolarmente informati di incidenti gravi e gravissimi.

È quindi importante che siano avanzate proposte, anche normative, finalizzate alla prevenzione – che richiede prioritariamente attività di formazione mirata e rafforzamento delle modalità di partecipazione dei lavoratori alla organizzazione del lavoro -, al potenziamento delle ispezioni, al disegno di sanzioni con capacità deterrente.

Ma è almeno altrettanto importante che si capisca che è necessario intervenire sulle ragioni strutturali che pregiudicano sicurezza e salute sul mercato del lavoro. E queste hanno due nomi principali: appalti e contratti precari.

Per quanto riguarda gli appalti, come ricordato da Massimo Franchi sul manifesto, sappiamo, da indagini sindacali, che il 70% degli incidenti mortali in edilizia interessa lavoratori in subappalto. E non è un caso: la catena degli appalti e subappalti viene largamente utilizzata per cercare una compressione dei costi che si ottiene pagando bassi salari e riducendo le tutele normative, fra cui, non certo secondarie, quelle che hanno a che fare con la salute dei lavoratori e la loro formazione per la sicurezza. L’applicazione di un contratto diverso da quello del committente o, giù per la catena, dello stesso appaltatore da parte di chi lavora in subappalto, va spezzata, se si vuole impostare seriamente il contrasto alle morti e agli incidenti sul lavoro.

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Per questo è importante la lotta che abbiamo condotto in parlamento – lotta che i sindacati hanno proposto con forza – per ottenere che anche nella catena degli appalti privati sia obbligatorio applicare il contratto siglato dalle associazioni nazionali più rappresentative.

Non è stata una battaglia facile: la risposta iniziale del governo non faceva riferimento ai contratti rappresentativi, ma a quelli più diffusi. Una scelta, che maggioranza e governo hanno già operato, negando il concetto stesso di rappresentanza e rappresentatività e lasciando i lavoratori in balia di contratti firmati da sindacati pirata, compiacenti, scelti dal datore di lavoro. Un concetto a cui si sono opposti, nelle audizioni in commissione alla Camera, anche i rappresentanti delle associazioni datoriali che ne sarebbero a loro volta sconfessate, e i giuristi e i consulenti del lavoro, che ne hanno evidenziato la non applicabilità in sede giurisprudenziale.

Una grande vittoria quella ottenuta con questa modifica, anche se la ministra Calderone non ha accettato di portarla fino in fondo, prevedendo in ogni caso l’obbligo per il subappaltatore di applicare il contratto nazionale del lavoro adottato dall’appaltatore, come è già previsto per gli appalti pubblici. Lasciando così aperta la possibilità di ricorso al subappalto alla ricerca di un contratto meno oneroso.

Ma l’altro aspetto, quello dei contratti precari, non è di minore importanza. E non lo è perché di precarietà si muore. Sono i dati forniti nei giorni scorsi dall’Inail alla commissione bilancio della camera a confermare in modo inequivocabile il legame che esiste fra precarietà e sicurezza sul mercato del lavoro. I dati riguardano il periodo 2018-2022, e non considerano ovviamente i casi imputabili al Covid. Ne emerge un dato impressionate: nel caso dei contratti a tempo indeterminato, gli incidenti mortali sul lavoro hanno una incidenza che è pari al doppio di quella che si registra nel caso di contratti a tempo indeterminato. 8,98 ogni 100mila lavoratori nel primo caso contro 4,49 nel secondo.

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Analoga sproporzione si registra guardando alla incidenza complessiva degli infortuni, che è stata del 3,28% per i contratti a tempo determinato contro il 2,08% per quelli a tempo indeterminato.

Dati drammatici che non stupiscono: i contratti a termine sono assai spesso di durata molto breve e il turn over è molto elevato. Coinvolgono quindi più facilmente lavoratori meno formati, meno addestrati alla prevenzione, meno esperti e quindi meno consapevoli dei rischi. Perché la prevenzione e la formazione sono cose molto serie, non generiche e valide per ogni circostanza, ma con una elevata componente specifica, mirata alle caratteristiche peculiari del lavoro che si deve svolgere e del dove lo si svolge.

La compresenza di lavoratori in appalto o subappalto di ditte diverse, e per giunta con contratti precari, che abbiamo visto in alcuni dei più gravi incidenti, testimonia quanto questa miscela possa diventare esplosiva.

Se parliamo della necessità di ridurre gli incidenti, dunque, non possiamo non parlare della necessità di bonificare il mercato del lavoro, riportando i contratti a termine, così come quelli in somministrazione, alle loro funzioni fisiologiche – la temporaneità di un bisogno o la specialità della manodopera richiesta – evitando che diventino invece strumenti di massima ricattabilità dei lavoratori.

*L’autrice, deputata, è responsabile lavoro del Pd

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SI POTREBBE.... Continuiamo a ignorare o ad alimentare le guerre. Ma saranno i nostri gesti e le nostre pratiche a rendere credibile e contagiosa la nostra proposta. A partire dal 25 aprile

pace

Non stiamo facendo abbastanza. Viviamo giorni straordinariamente violenti e pericolosi, l’orizzonte è sempre più spaventoso, ma noi non stiamo facendo abbastanza. La guerra vera si fa sempre più atroce e vicina e noi non stiamo facendo abbastanza. I crimini di guerra si moltiplicano di ora in ora nell’impunità generale e noi non stiamo facendo abbastanza. I “signori” della guerra si fanno sempre più prepotenti e noi non stiamo facendo abbastanza. Dobbiamo avere il coraggio di riconoscerlo: non stiamo facendo abbastanza per cambiare questa drammatica realtà. Non bastano i fotogrammi dell’orrore che filtrano dal muro della disinformazione innalzato dai grandi circuiti mediatici del potere. Non basta il crescendo delle follie belliciste dell’Unione europea, della Nato e dei suoi portavoce.

Ho l’impressione che molti non abbiano ancora capito cosa stia realmente succedendo, quanto grande sia il pericolo, quanto estese siano le minacce che ormai incombono direttamente anche su di noi. È come se, nonostante l’allarmante evidenza dei fatti e dei presagi, avessimo scelto di minimizzare e di tirare avanti con qualche ipocrita e sempre più irritante esercizio retorico. Ci comportiamo come sonnambuli, ha tuonato il Censis nel presentare il suo 57° Rapporto sulla situazione sociale dell’Italia. Ciechi davanti al dramma. Le guerre che continuiamo a ignorare o alimentare ci hanno già tolto quel po’ di serenità che lunghi anni di crisi economica non avevano ancora distrutto ed è fin troppo facile prevedere che, da qui in avanti, tutto si farà ancora più difficile.

È triste e doloroso doverlo dire ma ignorare la realtà non ci aiuterà a sfuggire alle sue conseguenze. I responsabili di questo disastro non si fermano. Chi ci governa in Italia e in Europa ci ha già impoverito e pretende di togliere altre decine di miliardi di euro dalla cura della nostra salute e dei nostri giovani per riempire le casse dei costruttori di armi e dei mercanti di morte. Gli ideologi e i propagandisti della guerra necessaria e inevitabile, che se ne stanno comodamente seduti sul divano di casa loro, continuano, imperterriti e indisturbati, a manipolare fatti, parole e cervelli. Cos’altro potremmo fare se non ritrovarci, in tanti, il 25 aprile a Milano? L’appello della redazione del manifesto è provvidenziale. Indica una data inequivocabile e una piazza inclusiva. Questo è il tempo in cui tutte le donne e gli uomini che resistono al disumanesimo incalzante si devono ritrovare assieme in un luogo aperto e dunque inclusivo.

Non possiamo più sopportare da soli il peso di tutte le crudeltà e le ingiustizie che sentiamo e vediamo. Come Aldo Capitini il 24 settembre 1961 pensò di riunire i costruttori di pace in un giorno di festa, così la festa del prossimo 25 aprile è l’occasione per riunire tutte le donne e gli uomini che sentono l’urgenza umana e politica di alzare il volume delle sirene d’allarme e suscitare un’opposizione lucida e determinata. Non si tratta solo di dire un altro forte «no alla guerra» ma di ricostruire la capacità nostra e delle nostre istituzioni di «fare la pace». In un mondo fuori controllo, mentre tutto ci appare difficile, dobbiamo ridare valore alla pace che possiamo fare, in ogni momento, in ogni luogo, in ogni situazione. «Fare la pace». Saranno i nostri “gesti” e le nostre pratiche quotidiane di pace a rendere credibile e dunque contagiosa la nostra proposta e la nostra volontà di ricostruire una vera, autentica, politica di pace fondata sul ripudio attivo della guerra.

La Festa della Liberazione segnerà anche il culmine della IV «Settimana Civica» che il prossimo 19 aprile inaugureremo, nell’Aula Paolo VI della Città del Vaticano, insieme con Papa Francesco e seimila studenti, insegnanti, docenti universitari, sindaci, assessori all’insegna del motto «Trasformiamo il futuro. Per la pace. Con la cura». Investiamo sui giovani, diamogli l’opportunità di essere protagonisti. Il 25 aprile continuiamo a camminare per la pace. Camminando s’apre cammino.

*L’autore è il presidente della Fondazione PerugiAssisi per la Cultura della Pace

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Centri di detenzione ai confini, più rimpatri e meno diritti umani. Con qualche divisione a destra e a sinistra l’europarlamento vara il Patto migrazione. Ursula von der Leyen tira un sospiro di sollievo in vista delle urne. In rivolta le Ong: «Ci sarà solo più sofferenza»

UE-MIGRANTI. La destra si spacca, il Pd ci ripensa. Il voto sul patto migranti, a ridosso delle elezioni europee, mette a nudo la confusione e l’opportunismo di quasi tutte le forze […]

La destra si spacca, il Pd ci ripensa. Il voto sul patto migranti, a ridosso delle elezioni europee, mette a nudo la confusione e l’opportunismo di quasi tutte le forze politiche, non solo per il voto in sé ma anche per le dichiarazioni che lo hanno accompagnato ieri. È una vittoria politica e culturale della destra, in Italia e in Europa, non solo per il testo in sé ma perché lo scontro è tutto sbilanciato sull’efficacia delle norme adottate nel fermare, espellere, controllare, respingere.

Le voci favorevoli all’accoglienza sono ridotte a un sussurro quasi irrilevante. FdI sino alla vigilia del voto era a favore del Patto, lo aveva rivendicato e sbandierato. Poi si è trovata messa all’angolo, incalzata dall’offensiva dei duri non solo del gruppo Identità e Democrazia ma anche di una parte rilevante dei Conservatori da un lato, nell’impossibilità di rimangiarsi del tutto i precedenti entusiasmi e di entrare in conflitto con la sua sponda privilegiata nel Ppe, quella di von der Leyen, Weber e Metsola dall’altro.

Se l’è cavata votando a favore 7 punti su 10 e apertamente contraria solo al passaggio sul ricollocamento obbligatorio, pena una multa di 20mila euro per migrante rifiutato da uno Stato membro.

Quel no la mette al riparo dalla rottura aperta con polacchi e ungheresi, che proprio su quel capitolo hanno già dichiarato guerra ma la lascia esposta agli attacchi corsari della Lega. Salvini non intende certo perdere l’occasione per mettere in difficoltà l’amica sul fronte più identitario che ci sia per la destra. «E’ un patto deludente che non risolve il problema dei flussi irregolari e clandestini, lasciando ancora una volta sola l’Italia», azzanna sui social.

Se la Lega tuona e disprezza, il ministro degli Interni in quota Carroccio Piantedosi brinda e applaude: «Il patto tiene conto delle esigenze dell’Italia. Dopo anni di stallo Dublino è finalmente superata». Vicino a via Bellerio, più vicino al governo.

Opposta e allineata alla posizione tripudiante del Ppe è Forza Italia: «E’ un passo importante che supera Dublino», assicura Tajani anche se non è affatto vero. In soccorso dell’amica Giorgia corrono sia la presidente della Commissione von der Leyen che quella dell’Europarlamento Metsola. Si sbracciano per assicurare che l’Italia non sarà mai più sola e i controlli impediranno ai trafficanti di decidere loro chi entra e chi no. La durezza, fanno capire nemmeno troppo tra le righe, ci sta tutta. Hanno tutti torto e tutti ragione, a destra. Il Patto naviga vigorosamente nella direzione che auspicano. Rende tutto più duro e difficile per i migranti. Mette concettualmente al bando l’accoglienza. Poi, complici l’interesse elettorale e il posizionamento propagandistico qualcuno esalta il passo avanti, altri fanno l’opposto. Ma nessuno intende accontentarsi e fermarsi qui.

Sull’altra sponda il Pd ha votato a favore solo della norma bocciata da FdI. Decisione encomiabile e lo sarebbe ancora di più se in Commissione la posizione non fosse stata opposta.

Con la sola eccezione di Pietro Bartolo, il medico di Lampedusa contrario dall’inizio al Patto: caso più unico che raro tra i socialisti europei. Ora, per fortuna, il Pd si è accorto che quel testo presenta «gravi e inaccettabili manchevolezze sui diritti umani» e non va oltre Dublino.

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Il Pd almeno ci prova a tenere in equilibrio le due motivazioni del pollice verso, quella umanitaria e quella rigorista. I 5S no: «Meloni ha condannato l’Italia a diventare l’hotspot d’Europa». Si commenta da sé.

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CLIMA. Svizzera, Portogallo e Francia: tre verdetti della Corte europea dei diritti dell’uomo sanciscono l’indifferibilità delle azioni statali per contrastare il riscaldamento globale

Clima, la rivoluzione di Strasburgo ikon - ap

La decisione della Corte europea dei diritti dell’uomo di riconoscere all’associazione elvetica «Anziane per il clima» il diritto di presentare un reclamo in merito alle minacce derivanti dal cambiamento climatico nel caso Verein KlimaSeniorinnen Schweiz e altri contro Svizzera è estremamente rilevante. Anche perché va ricordato che la Convenzione europea dei diritti dell’uomo (Cedu) non ammette reclami in astratto contro norme di legge o prassi amministrative che non incidano, in modo diretto o indiretto, o anche potenziale, sui diritti del soggetto che presenta il ricorso (actio popularis).

Nel caso specifico, la Corte ha ritenuto che il cambiamento climatico sia una questione di interesse comune per l’umanità e che la necessità di promuovere la condivisione degli oneri intergenerazionali porti a considerare il ricorso a organismi collettivi quale unico mezzo accessibile per difendere efficacemente interessi particolari. La Corte di Strasburgo ha dunque stabilito che la Svizzera non ha adempiuto agli obblighi («positivi») sanciti nell’articolo 8 Cedu, norma che deve essere considerata come comprendente il diritto degli individui a un’effettiva protezione da parte delle autorità statali dai gravi effetti negativi del cambiamento climatico sulla loro vita.

Se dunque si rilevano azioni statali inadeguate per combattere il cambiamento climatico che aggravano i rischi di conseguenze dannose (e le conseguenti minacce per il godimento dei diritti umani) si pone in essere un illecito omissivo, ben più difficile da accertare: è un gran successo quindi che la Corte lo faccia individuando il rapporto di causalità fra l’inazione dello Stato relativa al cambiamento climatico e i danni, o il rischio di danni.

Stabilito un ruolo centrale per i tribunali: dovranno verificare che i governi stiano facendo abbastanza per tutelare anche in questo campo i diritti fondamentali dei cittadini

Sulla nozione di vittima si basa invece il rigetto nel caso Carême contro la Francia in cui l’ex sindaco di Grande Synthe accusava la Francia di non aver adottato misure sufficienti per scongiurare il rischio che la cittadina venga sommersa dalle acque del Mare del Nord. La Corte ha ritenuto che il ricorrente non ne avesse lo status, perché non è più residente in quel comune, né ha legami sufficientemente rilevanti con la città, non vivendo attualmente neppure in Francia.

Infine, nel caso dei ragazzi portoghesi, forse il più noto, anche per la numerosità degli Stati convenuti, fra i quali il nostro, la Corte non è entrata nel merito della posizione rivendicata dai ricorrenti in quanto ha ritenuto il ricorso irricevibile perché i sei giovani non avevano utilizzato le vie giudiziarie e amministrative disponibili in Portogallo per presentare le loro denunce e non avevano quindi esaurito i mezzi di ricorso interni. Va infatti ricordato che il meccanismo di salvaguardia instaurato dalla Convenzione assume un carattere sussidiario rispetto ai sistemi nazionali di tutela dei diritti dell’uomo.

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I tre verdetti vanno quindi in un’unica direzione: quella della rilevanza delle cause climatiche e della indifferibilità delle azioni statali volte a contrastarne gli esiziali esiti. In modo plateale nel caso contro la Svizzera, dato l’accoglimento del ricorso, ma anche in quello dell’ex sindaco di Grande Synthe, perché va ricordato che il Consiglio di Stato francese aveva accolto il ricorso del piccolo comune costiero, accordandogli un risarcimento oltre a ingiungere allo Stato di adottare ulteriori misure volte al contrasto del cambiamento climatico, nonché nel caso dei ragazzi portoghesi perché aver detto che il ricorso è – oggi – irricevibile per motivi procedurali, rappresenta solamente una sorta di rinvio a quando, adite le competenti autorità giudiziarie lusitane, queste si pronunceranno.

E sarà comunque una vittoria: perché o queste ultime si parametreranno a quanto stabilito dalla Corte di Strasburgo nella sentenza in cui si condanna per inazione la Svizzera, oppure negheranno la bontà di questo approccio ma, in tal caso, i giovani ricorrenti potranno nuovamente rivolgersi alla Corte europea dei diritti dell’uomo che, ça va sans dire, si esprimerà presumibilmente a sfavore del Portogallo.

L’impatto a cascata, quasi un effetto domino, di queste sentenze, che enfatizzano il ruolo cruciale dei tribunali (nazionali, regionali e internazionali) nell’esaminare se i governi stiano facendo abbastanza per ridurre le emissioni di gas serra e quindi per salvaguardare i diritti fondamentali dei loro cittadini, lo vedremo nelle capacità dei legislatori dei 46 Paesi membri del Consiglio d’Europa, per i quali le sentenze della Corte di Strasburgo costituiscono un precedente, di prenderne atto e di intervenire di conseguenza in modo efficace per far fronte ai propri impegni climatici. Rispettando la traiettoria di riduzione delle emissioni di gas climalteranti, necessaria per raggiungere gli obiettivi fissati per il 2030

 

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MORTI IN APPALTO. A Suviana come a Brandizzo è il sistema ad aver ucciso i lavoratori. La manutenzione è la prima ad essere esternalizzata a ditte dove lo sfruttamento e la poca formazione sono la regola

Non c’è diga che tenga alla precarietà Una immagine dei soccorsi alla diga di Suviana - Foto Ansa

 

Morti atroci di operai, schiacciati, divelti, sommersi. Il copione «in appalto» è sempre lo stesso da decenni. Le aziende, anche quelle grandi come Enel, riducono i lavoratori non rimpiazzando quelli che vanno (faticosamente) in pensione. E tagliano fortemente sul costo del lavoro: la voce più grande di questo risparmio è quella sulla manutenzione. Per farla serve personale qualificato, sono lavorazioni complicate e saltuarie. Dunque vengono tutte esternalizzate a ditte in appalto o in sub appalto. Il guadagno – per i grandi – è duplice: riduzione dei costi e deresponsabilizzazione totale degli esiti.

La gran parte delle ditte in appalto che effettuano manutenzione sono quanto di più precario esiste nel già disastrato mondo del lavoro odierno. Lo abbiamo imparato a Brandizzo, lo scopriremo ora per Suviana.

Ancora non sappiamo quanti dei morti dell’incendio nel trasformatore a 40 metri sotto terra nella diga dell’appennino bolognese fossero in appalto. Di certo la colpa di quanto accaduto sarà fatta ricadere su di loro.

Se a Brandizzo abbiamo scoperto che si lavorava senza bloccare la circolazione dei treni facendo affidamento sull’urlo del responsabile della squadra che avvertiva quando la locomotiva stava arrivando sui binari in rifacimento, per Suviana probabilmente scopriremo che il personale della ditta in appalto non era formato, utilizzava attrezzature obsolete, aveva cambiato la squadra in corsa, aveva la pressione di dover concludere i lavori nei tempi stabiliti anche se era in ritardo.

Cambiano le categorie – in Piemonte erano edili o ferrovieri, in Emilia elettrici – non cambiano le condizioni, comuni oramai a tutti i settori.

Il sistema lo impone e solo cambiandolo totalmente si potrà migliorare il nefasto computo dei morti giornalieri sul lavoro. L’inarrestabile striscia di sangue è figlia della trentennale deregulation liberista: è facile trovare qualcuno che sia disposto a tutto pur di lavorare, lo si sfrutta senza rispettare alcun diritto con una paga da fame. Magari promettendogli soldi fuori busta in cambio di straordinari pesantissimi.

Se la colpa di una situazione ormai incancrenita è anche dei governi di centrosinistra, dalla riforma Treu al Jobsact renziano, il governo Meloni sta indubbiamente peggiorando la situazione. La modifica al codice degli appalti di Matteo Salvini ha fatto tornare il settore edile (privato) alla giungla più totale: il sub appalto è il teorema, lo sfruttamento il corollario. La ministra Calderone – che non dimentichiamo è una consulente del lavoro: categoria alla quale le aziende si affidano per trovare il modo di risparmiare sul costo del lavoro – dopo la strage di Firenze si è inventata una norma spot senza alcun effetto deterrente. La «patente a crediti» è un’espressione tanto scontata quanto falsa. Il filone delle «patenti» applicato al lavoro ha poco senso e ancor meno costrutto: nessuna azienda verrà bloccata, tutto andrà avanti come ora.

Non va infine dimenticato quanto sta succedendo a Enel, colosso globale dell’energia a maggioranza pubblica. Dopo la svolta green di Francesco Starace, il governo Meloni ha deciso di cambiare affidando al boiardo per tutte le stagioni Flavio Cattaneo un compito molto semplice: tagliare su tutto, «anche sulla sicurezza», denunciano i sindacati che unitariamente – dunque anche compresa la Cisl – hanno scioperato contro il suo piano non più di un mese fa. Rilette oggi le motivazioni della protesta risultano profetiche: «Vogliamo un’azienda che guidi la transizione energetica, che investa sulle persone e la loro professionalità, che faccia assunzioni e che crei valore per il paese. Di un’Enel che pensa solo alla finanza, dismettendo parti importanti delle proprie attività e delle proprie competenze peggiorando le condizioni di lavoro ad operai e impiegati, il paese non sa che farsene».

E domani Cgil e Uil chiamano allo sciopero generale – seppur di sole 4 ore, otto per il settore edili – tutti i lavoratori proprio sul tema della sicurezza sul lavoro. I morti di Suviana non potranno farlo, il sistema «in appalto» li ha uccisi prima che potessero farsi sentire. Bisogna scendere in piazza anche per loro

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