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Squilibri Il diritto internazionale è affetto da una serie di debolezze: l’assenza di un «terzo» superiore, la vaghezza dei principi, l’origine europea e discriminatoria. Perché non si riduca a mera esortazione occorre che si ricostruisca un qualche equilibrio tra comunità regionali in competizione non distruttiva. Ed è necessaria anche la pressione dei popoli e dei movimenti

Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu all'Onu foto Ap/Andrea Renault Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu all'Onu – Ap/Andrea Renault

Diritto e uguaglianza sono stati associati in tutta la tradizione giuridica occidentale, ma il diritto internazionale sembra falsificare questa idea. La disuguaglianza è intrinseca alla struttura delle Nazioni unite, con il diritto di veto attribuito ai membri permanenti del Consiglio di Sicurezza che neutralizza il divieto della guerra di aggressione.

La pratica dei doppi standard è stata la regola nell’applicazione del diritto internazionale umanitario, che dovrebbe regolare i conflitti armati. E nonostante il principio di uguaglianza degli Stati, Israele è più uguale degli altri.

Fino dalla sua fondazione ha attuato la pulizia etnica e l’occupazione di spazi non previsti dal piano di spartizione della Palestina. Da allora, ha sistematicamente violato decine di risoluzioni delle Nazioni unite, fino a quella del 18 settembre 2024 che intima il ritiro dai territori palestinesi. Ha imposto nella Cisgiordania un regime di apartheid, condotto ripetute operazioni di aggressione, dal Libano, alla Siria, all’Iran, assassinato leader avversari, praticato il terrorismo.

MA LO SCACCO del diritto internazionale è evidente a Gaza. Dopo il 7 ottobre 2023 il governo israeliano ha invocato il diritto di autodifesa previsto dall’art. 51 della Carta delle Nazioni unite. È contestato che sia applicabile per un attacco proveniente da un territorio illegalmente occupato, ma comunque i principi del diritto internazionale umanitario valgono a prescindere dalla legittimità dell’azione bellica.

E Israele li ha violati tutti, dagli attacchi evidentemente intenzionali sulla popolazione civile, a cominciare dai bambini, alla starvation: la riduzione alla fame praticata con modalità particolarmente sadiche, fino al tiro al bersaglio sui civili in coda per un po’ di farina. Non ci si è fatta mancare neppure la pirateria, il crimine dei «nemici del genere umano». Contro Israele è in corso un procedimento per genocidio e il suo primo ministro è ricercato dalla Corte penale internazionale. Ma nel nord del mondo gli è garantita l’immunità.

Il diritto internazionale è affetto da una serie di debolezze: l’assenza di un «terzo» superiore, la vaghezza dei principi, l’origine europea e discriminatoria. È in affanno nell’inseguire il «progresso» della tecnologia militare. Del resto oggi si sostiene che il ritorno della competizione tra «imperi» lo rende del tutto impotente, o che la guerra è un’acquisizione evolutiva della nostra specie e la sua logica «incoercibile» include genocidio e armi atomiche.

Ma se il diritto internazionale rivelasse qualcosa del diritto in generale? Se ogni diritto fosse incapace di garantire l’uguaglianza? Dopo la seconda guerra mondiale, almeno in Europa, il diritto ha contribuito a «rimuovere gli ostacoli» all’uguaglianza sostanziale.

Ma le disuguaglianze sono riesplose dalla fine degli anni Settanta e sono stati leggi, decreti, sentenze e trattati che hanno definito il quadro giuridico della deregolamentazione e della globalizzazione neoliberale. Né la situazione sembra migliorare con la riaffermazione delle sovranità, l’apparente rivincita della geopolitica sull’economia e del protezionismo sul mercato globale. Anzi, la disuguaglianza si afferma in modo scoperto e brutale, mentre il diritto è ancora chiamato a favorire questi processi.

ANCHE IL DIRITTO costituzionale sembra destinato a finire nel «cestino dei rifiuti concettuale» della «moralità positiva» Ma almeno il diritto può garantire l’uguaglianza «formale» di fronte alla legge? Pensiamo ai più classici dei diritti liberali, la tutela dall’arresto arbitrario e le garanzie processuali. Non c’è dubbio che chi è ricco e si può permettere buoni e costosi avvocati è più uguale degli altri. Per non dire del carcere e delle altre zone di extraterritorialità del diritto che punteggiano le nostre società liberali.

Dunque aveva ragione Karl Marx quando scriveva che ogni diritto è diritto della disuguaglianza? Una possibile risposta negativa non può che focalizzare i processi economici e i conflitti sociali soggiacenti all’ordinamento giuridico, che il diritto può contribuite a mettere in forma. Entro gli Stati il diritto ha promosso l’uguaglianza sotto la spinta della lotta di classe. E perché il diritto internazionale non si riduca a mera esortazione occorre che si ricostruisca un qualche equilibrio tra comunità regionali in competizione non distruttiva.

Ma è necessaria anche la pressione dei popoli e dei movimenti, il «quarto assente», come lo chiama Federico Oliveri. L’uguaglianza è irrealizzabile senza la mobilitazione. Ma la storia dei processi di autodeterminazione dei popoli e dei movimenti pacifisti non è solo una storia di sconfitte.

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Tono scatenato Quello che interessa la presidente del Consiglio è alzare uno scudo retorico contro ogni critica al suo governo

La presidente del Consiglio Giorgia Meloni al la Festa Nazionale UdC foto LaPresse La presidente del Consiglio Giorgia Meloni alla Festa Nazionale UdC – LaPresse

C’è un brutto clima e nessuno può negarlo. Non nel giorno in cui centomila persone sfilano feroci a Londra urlando minacce contro i migranti. Centomila razzisti orgogliosi in strada non sono un folle su un tetto. Ma un folle su un tetto può fare più danni come abbiamo visto nello stato dello Utah, che sia un folle di destra, di sinistra o un rimbecillito gamer nel paese dove è più facile comprare un fucile vero che uno di plastica di quelli che si attaccano ai videogiochi.

Un folle armato fa più danni innanzitutto perché produce lutti e poi perché trova sempre qualcuno pronto a utilizzare la sua follia per squallide e pericolose operazioni politiche. Ieri è stato il turno di Giorgia Meloni.

Dicendo in un comizio che «la sinistra», generico, giustifica o addirittura gioisce per l’omicidio di Charlie Kirk, che «la sinistra» incoraggia l’uso della violenza contro «chi non la pensa come loro», Meloni ha fatto una mossa molto facile, secondo lei molto furba. Ma soprattutto molto in linea con il suo tipico vittimismo. E l’ha fatta attraverso una menzogna bella e buona, perché ovviamente tutti «a sinistra» hanno facilmente condannato l’omicidio di Kirk. Talvolta aggiungendo che bisogna limitare la circolazione delle armi.

Ma quello che interessa la presidente del Consiglio è alzare uno scudo retorico contro ogni critica al suo governo. Costi quel che costi, perché identificare qualsiasi opinione contraria e qualsiasi avversario di questa maggioranza come un violento, per tentare di ridurli al silenzio, porta verso lo strapiombo in cui chi dissente è per ciò stesso un criminale.
Lo scudo è retorico ma tradisce il desiderio di un manganello corporeo.

Comincia così ufficialmente, con un’immediata discesa in picchiata al grado zero del dibattito, imposta da palazzo Chigi, la lunghissima stagione in cui la destra italiana avrà ancora più interesse a nascondere i suoi fallimenti reali dietro campagne «identitarie» o dentro la scia della montante destra mondiale.

Comincia la campagna elettorale.

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L'occasione di Trump L’omicidio di Kirk segna una svolta in direzione di un possibile, vicino, precipizio verso forme diffuse di conflitto sanguinoso in un paese armato fino ai denti

Illustrazione Ikon Illustrazione – Ikon

Tyler Robinson, 22 anni, è uno dei centosette milioni di americani che possiedono almeno un’arma da fuoco. Charlie Kirk, 31 anni, è una delle quarantamila vittime di sparatorie che ogni anno insanguinano l’America. L’omicidio, nella Utah Valley University, è il quarantottesimo fatto di sangue accaduto in una scuola o in un ateneo americano nel corso di quest’anno, con un bilancio di 19 morti e 77 feriti.

Un presidente beniamino della lobby dei produttori e venditori di armi da fuoco, questi dati non lo turbano certo. Nella convinzione che più aumentano le vittime delle sparatorie più crescono vendita e diffusione di pistole e fucili. D’altronde, come affermava lo stesso Kirk, cosa vuoi che siano tutte queste vittime al confronto con le cinquantamila persone che ogni anno muoiono on the road? «Avere una cittadinanza armata ha un prezzo, ma è parte della libertà», predicava lo sventurato che il popolo di Maga piange promettendo vendetta.

Banalizzare gli episodi di sangue in una nazione in cui quattro famiglie su dieci tengono in casa un fucile o perfino un mitragliatore, è stata una costante della politica conservatrice, ma anche democratica, con pochi deboli tentativi di regolamentare davvero il possesso delle armi da fuoco.
Se i repubblicani sono i paladini dell’intoccabilità del Secondo emendamento costituzionale – anche Kirk lo era – che garantisce il diritto dei cittadini di possedere e portare armi, i democratici hanno sì affrontato il tema, ma con timidezza politica, e soprattutto senza mai ipotizzare e cercare in qualche modo di prevenire quello che sta avvenendo, cioè la tracimazione del problema da questione di salvaguardia della convivenza civile a questione di guerra civile. Non metaforica. Reale.

L’omicidio di Kirk segna una svolta in direzione di un possibile, vicino, precipizio verso forme diffuse di conflitto sanguinoso in un paese armato fino ai denti. Ingenue, per non dire altro, certe reazioni di mal celato, o perfino ostentato giubilo per la fine di Kirk, in ambienti della sinistra americana, non necessariamente radicale. «L’assassinio di Charlie Kirk è una tragedia – ammoniscono su Jacobin Ben Burgis e Meagan Day – minaccia di imbaldanzire l’estrema destra e di offrire un pretesto a Donald Trump per schiacciare il dissenso. Una spirale di violenza politica più ampia sarebbe una catastrofe per la sinistra».

Naturalmente i due autori si aspettano «una strenua controargomentazione» a quest’invito a tenere i nervi saldi, a non finire nel gorgo dell’occhio per occhio, come vorrebbe la destra e come sta già accadendo da parte del mondo Maga.

Fatto sta, come osserva giustamente l’americanista Arnaldo Testi, l’America «ha attraversato almeno un’altra drammatica stagione di assassinii politici, con una differenza: non c’era uno così alla Casa bianca». E quell’uno così, l’artefice della rivolta del 6 gennaio, il sovversivo, «The insurgent» della famosa copertina dell’Economist, sta adesso meditando se, come e quando far montare il caso, dando la caccia non solo «ai pazzi dell’estrema sinistra», ma ai democratici stessi – come chiede la sua base, che intanto ha dato un assaggio delle sue intenzioni con un ordigno collocato nei pressi della residenza del vicegovernatore del Michigan, Garlin Gilchrist (il Michigan della governatrice Gretchen Whitmer è tra gli stati che più contrastano Trump).

Come dopo il fallito tentativo di farlo fuori nel comizio elettorale a Butler, un anno fa, Trump pigia alternativamente sui tasti del vittimismo e della minaccia, della vendetta e del volemose bene. È un gioco sul filo perché un exploit della violenza da parte della sua base, istigata da lui stesso, potrebbe uscire dalla sua capacità di controllo.

Certo è che l’attentato di Butler l’aiutò nella sua corsa verso la Casa Bianca, in un momento in cui Kamala Harris sembrava aver preso il sopravvento. Adesso la vicenda di Kirk può rivelarsi provvidenziale in una fase di sondaggi molto bassi e di difficoltà su più fronti, non ultimo quello dello scandalo Epstein, che non è ancora andato giù alle frange estreme di Maga.

La retorica del «santo subito» già rimbomba. Sedici parlamentari repubblicani hanno scritto allo speaker della camera, Mike Johnson, proponendo l’erezione di una statua in onore di Kirk. E chi si azzarderà a mettere in discussione idee lunatiche come questa, o a dubitare della santità di Kirk, passerà i guai. Tanto per cominciare s’inizierà dagli stranieri puniti come si deve se «elogeranno» la morte di Charlie Kirk, o «ne daranno una spiegazione» o vorranno «sminuirla».

Un avvertimento trasversale ai media liberal, che presentano Kirk nei loro ritratti non proprio come un santo. Fanatico evangelista, non si faceva mancare nessun tipo di odio, contro lgtbq, neri, musulmani. Ed ebrei. Antisemita, come scrive il Nyt, era un sostenitore d’Israele, tanto che la leadership governativa di Tel Aviv lo piange come «un amico cuor di leone d’Israele» – parole di Netanyahu – impegnato nella lotta contro «le bugie» e a sostegno granitico della «civiltà giudaico-cristiana».

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Il limite ignoto Non siamo di fronte a un caso isolato. Quale sia stato il grado effettivo di minaccia è materia di comunicazione strategica fra le parti e sfugge a un dibattito trasparente

Il Presidente polacco Karol Nawrocki, Ansa Il Presidente polacco Karol Nawrocki

«Here we go» (eccoci al punto) ha commentato ambiguamente Donald Trump, dodici ore dopo i droni russi in Polonia e a ventiquattro anni esatti dagli attacchi dell’11 settembre a New York che provocarono la prima invocazione dell’articolo 5 fra i membri del Patto atlantico. Sono trascorsi 1.296 giorni dall’inizio dell’offensiva russa in Ucraina, e tutto sembra scivolare lungo il piano inclinato della guerra.

Mentre Trump, sentendosi evaporare addosso l’aura da augusto pacificatore, esalta le proprie virtù guerriere e muove (para)militari sulle città, mettendo nel mirino i soliti nemici: il crimine, gli immigrati e la sinistra.

Gli ucraini, che vantano un’intercettazione dell’85-90% sugli sciami di droni, si ergono a baluardo della sicurezza europea, e Varsavia invia i propri militari a Kyiv per l’addestramento. Dall’elezione di Trump gli attacchi non fanno che intensificarsi: nei cieli ucraini si contano ormai quattromila droni al mese. Solo tre droni russi sui 19 che sarebbero penetrati per decine di chilometri dentro il confine polacco sarebbero stati abbattuti, mentre un quarto sarebbe precipitato da solo. Un tasso di intercettazione del 21% non è una prova di risposta pronta del blocco atlantico nel «difendere ogni palmo del proprio territorio». Il Cremlino gongola, mentre il Comando supremo alleato in Europa spiega che la risposta è stata proporzionata alle risorse disponibili in un caso di mera incursione, aggiungendo che la reazione sarebbe ben diversa nel caso di un vero sciame.

LA GUERRA ELETTRONICA e i droni confondono i confini tra difesa e offesa e offuscano i calcoli. Un drone Gerbera russo, armato o meno, è assemblato con diverse componenti low cost (made in China) e costa qualche migliaio di euro. I droni abbattuti sono stati colpiti dagli F-35 olandesi, dispiegati il 1 settembre. Un missile aria-aria Aim-120 o Aim-9X ha un costo stimato fra 1 e 3 milioni di euro. In altre parole, la Russia vede la possibilità di un’escalation a basso costo e con un alto impatto politico.

Nessun ragionamento in buona fede può ignorare la direzione di questi eventi. Non siamo davanti a un caso isolato, ma a una serie di episodi e incidenti sempre più frequenti lungo il confine, sia in Polonia che in Romania. Si va oltre il concetto di guerra ibrida, basato sulla stessa deniability di un’azione ostile in corso – come nel caso di segnali elettronici o sabotaggio di cavi. Ora il problema è capire se c’è stata intenzione e qual è il grado effettivo di minaccia (erano droni armati? Come hanno evitato di essere intercettati?). Gran parte di questa materia è comunicazione strategica fra le parti, messaging in codice che sfugge a un dibattito pubblico trasparente.

È dunque necessario mantenere lucidità nell’analisi dei fatti, senza sottostimare la cornice escalatoria nella quale vanno inquadrati. Fin dal primo giorno di guerra, sul manifesto abbiamo scritto che, secondo la letteratura sui conflitti armati, le guerre che durano e si intensificano (escalation verticale) tendono ad allargarsi e a coinvolgere i paesi vicini (escalation orizzontale).

NON C’È DUBBIO che la posizione della Casa bianca, che segnala la propria intenzione di normalizzare i rapporti persino con la Bielorussia di Lukashenko, abbia favorito l’espansionismo russo, tanto prima, quanto durante e dopo il vertice in Alaska. Il massacro di 24 pensionati ucraini in fila per ricevere il sussidio dal furgone delle poste, avvenuto questa settimana, è un messaggio inequivocabile: l’artiglieria russa è pronta a fare terra bruciata di qualunque presenza sgradita sul terreno. Le parole di Putin, secondo cui le truppe occidentali inviate in Ucraina nell’ambito delle garanzie di sicurezza costituirebbero comunque obiettivi legittimi, mirano ad impaurire le opinioni pubbliche dei regimi democratici. Esse ci aiutano a capire anche come il dibattito (il «muro di droni» evocato da von der Leyen) si sposti lontano dai boots on the ground, verso l’aerospazio e la guerra elettronica.

L’Unione europea si appresta ad annunciare il proprio diciannovesimo pacchetto di sanzioni contro Mosca, mentre per Israele non è stato adottato alcun provvedimento, anche a causa della posizione tedesca e italiana. Questa vistosa sproporzione, di fronte ai crimini di guerra perpetrati nel pieno della deriva genocida in atto, e in assenza di risultati sul fronte ucraino, alimenta diffuse forme di insofferenza verso gli appelli ucraini e diventa un serio problema per leader europei sempre più soli. I funzionari del Pentagono li hanno informati che non finanzieranno più i programmi di addestramento e di equipaggiamento delle forze armate dei paesi dell’Europa orientale, la prima linea in caso di guerra con la Russia. L’onere dello sforzo militare ucraino ricade ora principalmente sui paesi europei, che hanno avviato un programma di riarmo e hanno ormai superato gli Usa, fornendo a Kyiv circa 95 miliardi di dollari in aiuti militari (spesso provenienti dall’industria della difesa statunitense).

Il fattore tempo non può essere sottovalutato. Qualche giorno fa, il grande conglomerato europeo Mbda ha presentato il progetto di un nuovo missile da crociera, il Crossbow. Il leader indiscusso nel settore missilistico europeo impiega più di tre anni e mezzo di guerra per presentare un concept (non un prodotto) che riprende le lezioni dell’esperienza dell’Ucraina. Quest’ultima ha iniziato ad adattare i caccia Mig-29 per trasportare bombe a guida di precisione sviluppate internamente. Da 10 bombe al giorno, si aumenterebbe la produzione a 100, e questo sviluppo è stato presentato come significativo per il corso della guerra. Una guerra che illustra, oltre ogni ragionevole dubbio, il processo infinito di adattamento strategico e tattico: eppure resiste il mito dell’arma decisiva che romperà lo stallo, ribalterà le sorti e porterà alla vittoria.

Sfruttando le incertezze proiettate dalla presidenza Trump, la Russia sta mettendo alla prova la coesione e la prontezza degli assetti europei post-Guerra Fredda. Mosca cerca di evidenziare crepe e incongruenze, e si prodiga, al pari di Washington, nel dare corda alle estreme destre nazionaliste del vecchio continente, ormai giunte a condizionare i governi, quando non ad esprimerli. In questo quadro di riarmo nazionale e doppi standard, peggio di un Trump che siede accanto a Putin c’è solo un Trump che decide di dimostrare a Putin la propria capacità bellica, sulla pelle dell’Europa.

 

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Il saluto Domani alla Camera del lavoro di Bologna l’addio. Se una leva di quadri sindacali ha trovato in Cgil la «casa» fino a dirigerne importanti strutture, lo si deve anche a lui

Paolo Nerozzi Paolo Nerozzi – Imagoeconomica

Domani, giovedì 11 alle ore 11 alla Camera del lavoro di Bologna saluteremo Paolo Nerozzi, scomparso venerdì scorso. Con lui se ne va un dirigente di primo piano della Cgil e della sinistra degli anni Novanta e 2000. All’impegno di Paolo sarà sempre associata la più intensa stagione di riforme del lavoro pubblico che questo Paese abbia conosciuto.

Una stagione di cui fu protagonista (insieme a Grandi, D’Antona, Bassanini) con i primi accordi quadro, la privatizzazione del rapporto di lavoro, la legge sulla rappresentanza (ad oggi l’unica in essere e che garantisce a milioni di lavorarori pubblici una vera democrazia sindacale). Ma quella fu anche una stagione, più o meno riuscita, di modernizzazione dello Stato e della finanza pubblica. Paolo Nerozzi fu un importante Segretario Generale della Funzione Pubblica e poi uno dei dirigenti più autorevoli delle segreterie di Cofferati e Epifani. In particolare da Segretario Cgil si occupò di Mezzogiorno, di lotta alla criminalità, di giovani.

Ma Paolo fu anche e soprattutto un militante della sinistra, cresciuto nel Psiup e poi in quell’area bolognese vicina a “il manifesto” a cui è stato sempre legato. Del resto fu sempre fortemente convinto dell’esistenza di un unico campo da gioco dove, pur con funzioni diverse e autonomia, erano impegnate le forze sindacali e dei partiti progressisti, contro ogni teoria delle “due sinistre”.

Per Paolo la funzione del sindacato e della sinistra politica doveva essere sempre quella di governare i processi, di accompagnare le trasformazioni senza rinunciare mai, però, al proprio radicamento sociale fatto di lavoratori in carne ed ossa. In anni di forte sbandamento, di “rivoluzione passive” tra entusiasti della terza via di Blair e della globalizzazione finanziaria, Nerozzi non si rassegnò – come tutto quel gruppo dirigente intorno al “cinese” – a farsi confinare nel recinto dei “conservatori minoritari”. Nerozzi fu tante cose, ma mai un conservatore. Per Paolo l’autonomia del sindacato non fu mai indipendenza o separazione dai partiti.

Anzi, Paolo fu tra i protagonisti del tentativo di contrastare fino in fondo, nel principale partito di sinistra dell’epoca (i Ds), una deriva neo moderata. Fu (fummo) animatori di una battaglia politica importante “per tornare a vincere” come recitava la mozione di quel “correntone” che animò il dibattito politico ma anche la stagione dei girotondi, del grande movimento pacifista, del Social forum di Genova e del Circo Massimo. Infine un tratto specifico di Paolo, politicamente rilevante: la sua costante promozione di nuove leve, nuove generazioni, nella vita politica e sindacale. In particolare in Cgil. Se una leva diffusa di quadri sindacali ha trovato in Cgil la propria casa fino a dirigerne importanti strutture, lo si deve anche a lui. Il rinnovamento fu sempre una sua “ossessione”. E quando, dopo la Cgil, continuò a dare il proprio contributo da Senatore, occupandosi in particolare di salute e sicurezza, non smise mai di essere “uomo di parte”.

Sono certo che ci saranno sicuramente altre sedi per approfondire l’azione di Paolo Nerozzi (e anche i suoi errori, le errate valutazioni) ma oggi, a chi rimane, il compito di onorarne gli insegnamenti. Continuare a mettere ancora più curiosità, voglia di sperimentare e coraggio al centro delle nostre azioni e pratiche. Per un sindacato e una sinistra “senza aggettivi” (questo il titolo di un libello scritto insieme con Paolo e con Pietro Folena anni fa). Una Cgil e una sinistra che dicono “chi sono” con “quello che fanno”, con le battaglie che portano avanti, con i risultati concreti che ottengono, sempre al centro delle trasformazioni e mai ai margini.

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E’ morto il Lupo. E’ così che si presentava agli amici: “Piacere, il Lupo”. Stefano Benni era davvero il “comico spaventato guerriero”, una delle fantastiche creature figlie del suo ingegno. Nel Bar Sport si confondeva con i suoi strampalati personaggi, persino con la Luisona che era la decana delle paste d’annata esposte in bacheca; nel Bar sotto il mare non scendeva personalmente, restava a galla e osservava i pesci con la maschera, tanto poi a portarli in tavola ci pensava uno dei suoi, dei nostri, compagni: Gianni Usai il pescatore d’aragoste forgiato alla scuola di Mirafiori e della Fiom.

Al Lupo Benni piaceva cazzeggiare e i giochi li inventava lui. Un’estate, insieme a Pietro Perotti, un altro dei migliori prodotti della creatività operaia e all’immancabile Usai, costruì il Camullo, a cavallo tra la mitologia celtica e un’indomabile fantasia, un improbabile essere enorme in gommapiuma più tenero che minaccioso. Con un mini corteo che via via si infoltiva aveva attraversato le baracche dei pescatori di Su Pallosu e l’unica strada quasi asfaltata del porticciolo del Sinis. Stefano costruiva comunità, rubava paesaggi e saperi, mestieri e passioni, li metteva in scena nei libri, nelle poesie, nelle pagine dei giornali, nei teatri, nei disegni sui muri degli amici.

Il Camullo al mare

Il Lupo non era amico solo degli operai o di qualche sporadico giornalista squinternato come lui: tra i suoi riferimenti e sodali compaiono nomi importanti di scrittori, come il francese Daniel Pennac o il finlandese Arto Paasilinna. A Beppe Grillo, quando si limitava a fare l’attore fustigatore, scriveva testi e battute. Ha costruito cultura insieme alle migliori icone italiane, come Fabrizio De Andrè. Ha conversato con Goffedo Fofi, collaborato con Altan, scritto su Cuore, Linus, Espresso, Panorama e numerose riviste.

Benni è stato giornalista, ha fatto sbellicare di risate i lettori del manifesto con racconti, poesie, libri come Il Benni furioso e Il ritorno del Benni furioso, ha sostenuto il quotidiano comunista nei tanti momenti difficili della sua vita precedente il 2012. Ma ha anche scritto “cose serie” come il reportage sulle bombe nel rapido 906 a San Benedetto Val di Sambro. Ha scritto e recitato per il teatro, talvolta affidando la colonna sonora al figlio Niclas. E ha scritto tanti libri, montando storie, paradossi e battute, assemblando con arte le parole come se stesse costruendo una casa con il Lego. Molti Lego sono nati prima nella baracca e poi nella casa sul mare sardo di Usai. Terra, Stranalandia, Baol, Lcompagnia dei Celestini, Elianto, Saltatempo, Prendiluna, i già citati Comici spaventati guerrieri, Bar sport e Il bar sotto il mare. E altri ancora. In Non siamo stato noi è contenutauna raccolta di corsivi e racconti per Savelli, ma il grosso della produzione di Stefano è targata Feltrinelli, con alcune rapide incursioni in Mondadori e Sellerio. Negli ultimi anni in cui è riuscito a tenere in mano la penna e la sua stessa vita ha scritto su Repubblica.

La satira struggente di Benni ci ha costretto a ridere – mai sorridere – di eventi e soggetti tragici, di una realtà sempre più lontana dai sogni e dalle speranze. Era un gigante buono e fragile, gli sono riconoscente per avermi insegnato a ridere del male, un modo diverso per combatterlo. Nelle lunghe estati sarde è stato maestro di ironia, sdoganando il cazzeggio, costrigendomi ad agirlo, almeno nella relazione con lui. Adesso che se n’è andato non riesco a cazzeggiare, come lui avrebbe preferito, vuol dire che non sono riuscito a imparare la lezione. Ciao Lupo, che la tua fantasia possa continuare a correre all’infinito sui pendii dell’Appennino bolognese. Come suggerisce il figlio Niclas, per ricordarlo leggiamo insieme a voce alta i suoi libri e le sue poesie. Un abbraccio a Niclas e a Monica che gli è stata sempre vicino.

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