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Per il nostro mondo, il mondo in cui noi occidentali siamo cresciuti dal dopoguerra in poi, le cose non saranno più le stesse. Nessun avvenimento ha segnato in maniera così […]

Gaza. Una ragazza trasporta acqua nel campo profughi di Jabaliya. Mahmoud Zaki/Xinhua/ABACAPRESS.COM Gaza. Una ragazza trasporta acqua nel campo profughi di Jabaliya – Mahmoud Zaki/Xinhua/ABACAPRESS.COM

Per il nostro mondo, il mondo in cui noi occidentali siamo cresciuti dal dopoguerra in poi, le cose non saranno più le stesse. Nessun avvenimento ha segnato in maniera così drastica una linea di demarcazione nella nostra recente storia culturale. Nessun impegno bellico per quanto indiretto, nessuna tragedia e rivoluzione ha avuto lo stesso effetto, benché si fatichi ancora a prenderne atto. Perché mai prima, noi Paesi occidentali, avevamo sostenuto o avallato qualcosa di così dirompente.

IN EFFETTI, tutto era chiaro fin dall’inizio. Fin dalle prime battute di quella che molti si ostinano ancora a chiamare guerra, si era parlato di “suicidio di Israele” ma anche di “suicidio dell’Occidente” perché l’improvviso, manifesto, ostentato, superamento di certe linee rosse aveva messo in crisi certezze di civiltà sempre rivendicate, vissute con orgoglio, e ormai quasi date per scontate. L’infinito sacrificio di civili, e in particolare di bambini, paramedici, medici; l’uso della fame e della sete come armi; l’arresto, le torture, le umiliazioni indiscriminate; la distruzione completa di un mondo: scuole, università, anagrafe, catasto; l’uso sconvolgente di armi di ogni tipo, una forza sproporzionata per annichilire, travolgere, spazzar via: quasi fosse un sogno assurdo di oltre-umanità; tutto quello che abbiamo visto, quasi in diretta, in immagini che ci sono arrivate fin dai primi giorni di questo infinito eccidio potevano spingere all’immediata consapevolezza. Mentre intellettuali, studiosi, politici e commentatori si accapigliavano su una questione linguistica – la congruità della parola “genocidio” per la strage in atto (una miseria culturale che da sola dovrebbe aprire gli occhi sull’abisso in cui siamo caduti) – chi non smetteva di seguire gli avvenimenti affidandosi alle fonti dirette che questi nostri tempi ci consentono, aveva già ben chiaro il drammatico superamento di una linea da sempre ritenuta insuperabile.

E TUTTAVIA, oggi, dopo un anno e mezzo di morte, non si finisce di andare più in là. Il fondo non si tocca mai. Eventi paradigmatici di questa deriva di insensatezza si moltiplicano e a tratti si condensano in immagini definitive. È di ieri il video che ritrae le fiamme in cui sono avvolti i corpi di bambini colpiti nel sonno, nelle loro tende a Al Mawasi-Khan Younis. Di alcuni sappiamo anche i nomi, conosciamo le loro storie. Non le raccontiamo, certo, non dedichiamo loro programmi o riflessioni, e il motivo è chiaro: siamo noi tutti responsabili di quelle morti. Quel che dobbiamo sapere, però, è che in rete molti festeggiano. La notizia viene celebrata con bottiglie di champagne e tappi volanti, coriandoli che sprizzano da cappelli aperti, cuori pulsanti, like, braccia muscolose, e inevitabili fuocherelli, insomma tutto l’armamentario dell’approvazione social. Siamo arrivati oltre, insomma. Oltre qualunque punto di non ritorno. Come è possibile, infatti, festeggiare, ridere, esultare, approvare e stappare bottiglie davanti a bambini arsi vivi? Ragioniamo. Come si è arrivati a tanto? Si è partiti parlando dell’inevitabile prezzo da pagare. Poi si è ripetuto il ritornello degli scudi umani. E ogni volta, la voce ufficiale ripeteva che fra le vittime c’erano uomini di Hamas (una giustificazione quasi mai provata e anzi, spesso, come nel caso dei quindici paramedici giustiziati, tragicamente smentita dalle prove reali). Ogni volta, le voci che approvavano e giustificavano sono state numerose. «Stiamo combattendo questa guerra per voi» è stato il mantra, sbandierato da chi ha rivendicato, fra noi, la necessità di acconsentire, ossia di “sporcarsi le mani”. Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti: chi oggi continua a manifestare lo sdegno è sotto attacco. Deportazioni di giovani attivisti in due Paesi simbolo come Stati Uniti e Germania indicano la linea da seguire. In nome di una presunta superiorità democratica, tutto è diventato possibile, qualsiasi orrore, qualsiasi aberrazione.

SI FATICA a immaginare un futuro. Eppure il futuro è proprio la democrazia, che non è semplice meccanismo elettorale di voto, bensì rispetto delle minoranze. E che alcune linee di demarcazione ben precise continua a segnarle da sempre. Alle origini, per esempio, c’è chi la democrazia la mette in crisi, soprattutto quando essa diventa strumento di terrore. C’è Tucidide, tanto per fare un esempio, che il delirio di onnipotenza in cui cade la “sua” città lo racconta e lo denuncia. Devono esserci dunque anche oggi storici, intellettuali e giornalisti pronti a denunciare. Su di loro, ossia su di noi, sta il grande dovere morale. Perché è vero che non si tornerà più indietro. Ma avanti si può andare in molti modi. E l’unica nostra strada è quella indicata innanzitutto da chi a Gaza continua a raccontare la verità. Sono almeno duecentodieci i giornalisti uccisi, un numero spropositato, mai raggiunto prima. È questo ennesimo orrore a dire a noi il nostro dovere.

 

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Centrosinistra La costruzione di un campo alternativo alla destra fa passi avanti, ma alcuni commentatori insistono a leggere il rapporto tra Pd e M5S in chiave di mera concorrenzialità e rivalità

La sala stampa del Partito democratico foto LaPresse La sala stampa del Partito democratico – foto LaPresse

A distanza di alcuni giorni dalla manifestazione del M5S, si può dire che la costruzione del campo alternativo alla destra abbia fatto un passo avanti. Merito dei toni e delle parole usate, e dell’atteggiamento dei vari interlocutori.

Trova conferma la lettura che, anche su queste pagine, era stata data negli scorsi mesi, circa l’inevitabile prudenza (che a lungo è sembrata ritrosia o ambiguità) con cui Conte stava portando gradualmente il M5S, e soprattutto il suo potenziale (e diffidente) elettorato, ad accettare l’idea di una possibile alleanza con il Pd.

ALCUNI commentatori insistono tuttavia imperterriti a leggere il rapporto tra Pd e M5S in chiave di mera concorrenzialità e rivalità. Ma dovrebbe esser chiaro oramai che il M5S non può dare al proprio elettorato un’immagine appiattita sul Pd: di più, non sarebbe utile nemmeno al Pd! Il segmento di elettorato a cui si rivolge il M5S solo in una piccola quota può essere recuperato dal Pd, fatto com’è, in gran parte, da ex-elettori di sinistra che proprio da questo partito sono fuggiti – spesso con grande rancore – nel corso dell’ultimo decennio. Piuttosto, dopo i discorsi di alcuni mesi fa, un punto fermo sembra oramai largamente acquisito: si possono e si devono cercare le più ampie convergenze programmatiche, e lo si può fare ora anche sulla politica estera, che rimane pur sempre il terreno più spinoso; ma anche se alcune differenze non potranno essere colmate, ciò non potrà e non dovrà impedire un ampio accordo elettorale il più ampio possibile.

DENTRO il Pd la strategia unitaria di Elly Schlein non sembra avere reali alternative, anche se non mancano voci dissonanti e manovre sospette.

Andrea Orlando, in un’intervista ha detto: «Vedo un insistente boicottaggio del cosiddetto campo largo anche da pezzi del Pd. Nel 2022 abbiamo visto la rottura con il M5S come è andata a finire. C’è un altro schema di gioco?

Lo si dica». Si può aggiungere altro: fa riflettere il pervicace atteggiamento di una parte della stampa, anche progressista, che continua ad usare toni di dileggio, o argomenti sprezzanti, verso i «grillini» e verso «l’avvocato»: evidentemente, non hanno imparato nulla dal passato, perché questo modo di guardare al M5S, da anni, si è rivelato del tutto inefficace (anzi!).

NON CREDO però che si tratti solo di pigrizia intellettuale: comincia ad intuirsi qualcosa di più, ossia una sorta di apprensione (per usare un eufemismo) verso il profilo programmatico di una possibile alternativa di governo fondata sull’asse Pd-M5S. L’accoppiata Schlein-Conte (con Bonelli e Fratoianni) appare quanto meno inquietante, «inaffidabile», agli occhi di tutti quei gruppi di potere che si erano abituati ad un Pd «partito-establishment», un partito garante delle compatibilità sistemiche, o ligio ai vincoli di una collocazione internazionale dell’Italia che sembrava intoccabile. Ma il mondo sta cambiando sotto i nostri occhi: cosa significa oggi «fedeltà atlantica»?

Bisogna essere fortemente europeisti, certo: ma questo significa forse allinearsi alla signora von der Leyen?

Eh sì, ci sono proprio molte anime inquiete, dentro e attorno al Pd. Ma che alternative hanno? L’unica via sarebbe quella di una riforma elettorale, ma – si badi – una riforma davvero e integralmente proporzionale (senza pastrocchi simil-Porcellum), che potrebbe rimescolare le carte degli attuali schieramenti. Ma, qualcuno, nel centrodestra, è in grado di fare una scelta di questo tipo? E gli opinionisti pensosi che lamentano il nostro bipolarismo malsano, se ne rendono conto? O sperano pur sempre, e ancora, nei famigerati governi “tecnici”?

E ALLORA, a questo punto, se non bastassero i buoni argomenti politici, possono essere convincenti anche solo i numeri. Non occorrono sofisticate simulazioni per mostrare gli effetti che potrebbe produrre una coalizione “larga”, o meglio ancora larghissima (un “fronte repubblicano”), nell’impedire la replica dello scenario del 2022. E non solo sulla base dei sondaggi disponibili oggi, ma sulla stessa base del voto delle elezioni europee (da cui questi sondaggi, peraltro, non si discostano molto). I dati sono chiari, ora la parola spetta alla politica.

 

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Blindati La novità non la conosceranno i seicento che sono già affogati nel Mediterraneo nei primi tre mesi dell’anno. Avrà effetti invece sui migranti che sono stati respinti in mezzo al […]

Una bandiera europea davanti alla sede della Commissione europea a Bruxelles Una bandiera europea davanti alla sede della Commissione europea a Bruxelles – foto Virginia Mayo /Ap

La novità non la conosceranno i seicento che sono già affogati nel Mediterraneo nei primi tre mesi dell’anno. Avrà effetti invece sui migranti che sono stati respinti in mezzo al mare, in buona parte riportati nelle celle di tortura in Libia, e su tutti quelli che pur essendo sbarcati in Italia – in Europa – aspettano di sapere che ne sarà delle loro domande di asilo. In cifra assoluta nel 2024 sono diminuiti, ha fatto sapere la polizia di frontiera dell’Unione giusto ieri. E tutti sono stati contenti, potendo trascurare il fatto che se sono diminuiti gli arrivi è perché sono aumentati i morti in viaggio e i prigionieri nei campi che continuamente si aprono ai confini dell’Europa, con i soldi dell’Europa e con i torturatori riportati in servizio con volo di stato. Certamente non sono diminuite le ragioni per cui si emigra, sempre quelle: guerre, persecuzioni, sfruttamento, carestie, inondazioni.

La novità è di glaciale chiarezza: sarà sempre più facile per gli stati dell’Unione rispondere di no alle domande di asilo e protezione umanitaria. Diritti un tempo sacri, ormai destinati a valere solo per una minoranza di migranti. Carta straccia per coloro che più ne avrebbero bisogno. Ora la Commissione europea propone di estendere la finzione (non nuova) di considerare «sicuri» anche i paesi che in tutta evidenza non lo sono, e di velocizzare al massimo la procedura per respingere le richieste. Nulla lascia pensare che il parlamento europeo o gli stati membri si vorranno discostare da questa linea. L’Italia di Giorgia Meloni già la rivendica come propria, orgogliosa nel giorno in cui ottiene udienza alla Casa bianca di aver tracciato il solco della nuova politica migratoria continentale. Disgraziatamente ha ragione.

Eppure non è cambiata la Costituzione italiana, non è cambiata la Convenzione sui rifugiati solennemente firmata a Ginevra nel dopoguerra né è cambiata la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea: ovunque resta scolpito il diritto d’Asilo come principio cardine del diritto internazionale e della stessa vita civile. Non è cambiata, a voler essere pignoli, nemmeno la maggioranza nel parlamento europeo che ha confermato la Commissione di Ursula von der Leyen. Ma la politica sui migranti – cioè contro i migranti – un pezzo alla volta viene rovesciata. Così va adesso il mondo, e se Trump mette le manette e carica i deportati sugli aerei noi mettiamo le fascette e preferiamo le navi. La nostra prigione d’oltremare l’abbiamo costruita e la riempiremo. Va contro l’umanità, le leggi e persino la logica, ma serve alla propaganda e quindi si farà.

E si farà, d’ora in poi, in perfetta armonia con l’Unione europea. Peccato che Meloni non faccia più a tempo a unirsi alle piazze dove sventolavano la bandiere blu con le stelle. Ma ci saranno altre occasioni e la Commissione von der Leyen non mancherà di confermarsi la porta di accesso per le destre e le peggiori politiche reazionarie. Non vorremo illuderci ma magari, a un certo punto, piano piano, persino il Pd si accorgerà dell’errore che ha fatto a votarla. Sarebbe anche questa una novità.

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Usa Accademia o business?

Manifestanti pro Palestina ad Harvard a Cambridge foto Anibal Martel/Getty Images Manifestanti pro Palestina ad Harvard a Cambridge – Anibal Martel/Getty Images

Possiamo immaginare che Garber abbia pesato le parole scelte per riassumere la propria posizione e quella dell’istituzione che rappresenta. Proprio per questo, vale la pena di leggerle con attenzione: «Nessun governo, indipendentemente dal partito al potere, dovrebbe dettare cosa le università private possono insegnare, chi possono ammettere e assumere e quali aree di studio e ricerca possono perseguire».

In apparenza ineccepibili. Eppure c’è un particolare che disturba, e che spinge a farsi qualche domanda. Perché precisare che il principio di autonomia rivendicato da Harvard vale per le università «private»? Garber sta forse suggerendo che i controlli – giustamente – rifiutati a nome della propria università, sarebbero perfettamente accettabili se imposti a università che invece private non sono?

La risposta a questa domanda ci porta al cuore del problema di quella che gli studiosi di queste cose chiamano università corporate, ovvero un’università che, come Harvard e le altre grandi università private degli Stati uniti, è diventata di fatto una grande corporation, con un budget che farebbe impallidire quello dedicato all’intero sistema di formazione di diversi paesi, anche europei. Un’impresa, che produce risultati straordinari dal punto di vista del progresso della conoscenza in vari campi – come messo in evidenza, sempre sul sito dell’università, subito dopo la dichiarazione di Garber – ma che rivendica questi risultati come un buon investimento piuttosto che come una missione con un valore intrinseco.

La libertà accademica, in tale prospettiva, è strumentale rispetto al prodotto che è in grado di generare, non ha una giustificazione autonoma.

Perdere le esenzioni fiscali garantite ai donatori è un danno considerevole per un’università concepita in questo modo, ma è proprio quel regime fiscale di favore che ha dato ai finanziatori privati di alcune università un potere di influenza sempre maggiore sulle scelte fatte da queste istituzioni (come abbiamo visto in maniera lampante negli scorsi mesi per via delle pesanti pressioni del multimiliardario Bill Ackman su diverse università statunitensi). Se sono inaccettabili le pretese di controllo di Trump, perché non lo sono quelle di un privato cittadino? Viene il sospetto che il tema di fondo non sia la libertà accademica, ma la difesa del bilancio.

Questo carattere privato dell’università corporate si è rivelato compatibile con un clima di repressione del dissenso e di intimidazione del movimento di solidarietà con i palestinesi che sta raggiungendo livelli paragonabili a quelli del maccartismo. Poco importa che a protestare sono in molti casi anche studenti ebrei. Le proteste non piacciono ai donatori, e a diverse associazioni il cui scopo principale sembra essere difendere Netanyahu e i suoi sodali, piuttosto che i cittadini di Israele o gli ebrei della diaspora.

In ossequio a questo tipo di pressioni sono state prese misure restrittive (come la chiusura del campus) e in qualche caso si è arrivati a chiedere persino l’intervento delle forze dell’ordine per disperdere gli accampamenti degli studenti.

Se l’università è un’impresa, l’accampamento non è un gesto politico cui riconoscere un valore di manifestazione legittima di dissenso, ma la violazione di un diritto di proprietà. Infine, vale la pena di ricordare che, poco meno di un anno fa, lo stesso Adam Garber che oggi difende in modo così eloquente la libertà accademica non ha esitato negare il diploma a alcuni studenti che avevano partecipato alle proteste per la Palestina, andando incontro alle critiche di molti docenti e ricercatori della sua stessa università.

Se andiamo oltre le belle parole, stiamo assistendo a un’altra sconfitta del liberalismo di cui i principali responsabili sono proprio i liberali come Obama, che oggi protesta contro le pretese di Trump, invitando le università alla resistenza, ma che non ha mosso un dito per mettere la libertà accademica di tutte le università – pubbliche e private – su una base più sicura, illudendosi che i meccanismi reputazionali fossero sufficienti a garantirla. E che il peso crescente dei finanziatori privati nel definire l’agenda di insegnamento e ricerca non fosse destinato a erodere gli stessi presupposti etici della missione delle università in una società democratica.

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Opinioni È urgente una prospettiva di riscatto complessiva attorno a valori condivisi. Ma come si unisce una moltitudine scomposta senza cadere nel populismo o nella vuota retorica? L’unica possibilità per raggiungere il quorum è far comprendere che i quesiti rappresentano due tessere di un progetto costituzionale per la salvaguardia dei diritti

Illustrazione Ikon Images Illustrazione Ikon Images

Se vogliamo tessere la nostra tela è necessario partire dalla consapevolezza che la crisi della democrazia ha ormai investito il piano nobile della costituzione. Messa sotto pressione da un articolato progetto.

Il progetto prevede lo stravolgimento della forma di governo mediante uno sgangherato premierato; dalla caparbia volontà – nonostante le smentite della Consulta – di imporre un rapporto tra territori fondato sulla diseguaglianza e sull’abbandono del regionalismo solidale; dalla pretesa di rimodulare la divisione dei poteri in favore di quello politico, mostrando insofferenza al controllo dei giudici nazionali e al rispetto del diritto internazionale; dalla risposta esclusivamente securitaria al disagio sociale; dalle politiche del lavoro conformate – da tempo in verità – da un assolutismo neoliberista a scapito dei diritti inviolabili e della dignità delle persone.

Un disegno perseguito con tenacia, però non ancora compiuto: viviamo una fase d’interregno dove si manifestano fenomeni mostruosi. In questa fase di lotta tra vecchio che non muore e nuovo che non è ancora nato si diffonde un disagio ampio che attraversa le diverse culture politiche, ma che non riesce a tradursi in nuova egemonia. Viviamo in una società di «insoddisfatti», che in maggioranza votano a destra in mancanza di meglio. Molti sono i «delusi»: un esercito di astenuti, non solo dal voto ma da ogni impegno o credo politico. La sinistra è perduta, esausta dei perenni cambiamenti tattici che hanno prodotto continue delusioni. Un pensiero un tempo legato a chiari valori di civiltà (libertà, eguaglianza e fraternità, per dirla con le sue ancestrali parole fondative) si è reso sempre più leggero e si è alla fine smarrito, rischiando di rimanere afono di fronte agli urli degli altri, agli orrori del mondo. Persino la destra tradizionale non è in gran forma.

Magari è unita perché vincente, ma qualche costo lo paga: non ci dovrebbe essere granché a spartire tra nazionalisti e secessionisti; tra garantisti e giustizialisti; tra liberali e neofascisti. È allora legittimo chiedersi quanto potrà durare l’accordo per il potere? Non può essere data per scontata la direzione del cambiamento in atto. Quel che emerge è una società di minoranze scontente.

In questa situazione il compito più urgente è quello di tornare a fornire una prospettiva di riscatto complessiva attorno a dei valori comuni condivisi. Ma come si fa ad unire una moltitudine scomposta senza cadere nel populismo, nell’opportunismo o nella vuota retorica? La storia una indicazione chiara l’ha data. Nei momenti di crisi democratica la lotta per la costituzione può svolgere un decisivo ruolo di unità tra forze diverse. In fondo, se per dare vita alla Repubblica democratica e antifascista sono riusciti a combattere assieme dai monarchici ai comunisti, perché oggi non potrebbero trovare un accordo, nel rispetto della diversità di ciascuno, i liberali critici e i centri sociali irrequieti? Non bisogna avere paura delle alleanze in nome della costituzione, sarà questa a segnare il discrimine, a definire il campo largo. Semmai il rischio da evitare è un altro: utilizzare la costituzione come schermo puramente retorico, magari limitandosi ad affermare che è «la più bella del mondo», e così ci salviamo l’anima. Oggi la costituzione deve essere presa sul serio.

Che vuol dire in concreto? Principalmente due cose: passare dalla difesa all’attacco, collegare i diversi frammenti di lotta entro un quadro costituzionale. In primo luogo, far valere la costituzione oggi rende necessario ribaltare le narrazioni correnti. Contrapporre ai vizi del premierato le virtù del parlamentarismo (ad esempio, proponendo di rivoltare i regolamenti parlamentari; limitare la potestà normativa dei governi; ripensare le funzioni legislativa, di indirizzo e di controllo del parlamento); a fronte della cultura carcerogena e di scontro frontale con la magistratura si dovrebbe ridiscutere il valore delle garanzie giurisdizionali (pensando a come attuare il principio del giusto processo, garantire la funzione rieducativa della pena, limitare la carcerazione preventiva ed estendere le misure alternative al carcere); non fermarsi a criticare il regionalismo di natura competitiva, ma definire un regionalismo solidale che sia costituzionalmente orientato (pretendendo la redistribuzione delle risorse al fine di promuovere lo sviluppo economico e la solidarietà sociale tra le regioni, assicurare la garanzia dei diritti fondamentali – non solo quelli essenziali – su tutto il territorio nazionale, rimuovere gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona umana ovunque si risieda); alla cultura della sicurezza si dovrebbe opporre quella della solidarietà; all’attenzione per i poteri quella per i diritti….

Già questo appare un impegnativo programma, ma non basterebbe. Necessario è anche riuscire a collegare i bisogni di ciascuno al disegno complessivo. Se, infatti, viviamo al tempo delle minoranze divise e isolate, solo la somma di più minoranze può aspirare a rappresentare una maggioranza alternativa all’attuale.

In questa situazione il caso dei referendum appare esemplare. La maggior parte del popolo italiano risulta distratta rispetto ai problemi del lavoro, così come non sembra sufficientemente recettiva rispetto alle questioni della cittadinanza. L’unica possibilità per raggiungere il consenso necessario è allora quello di riuscire a far comprendere che i quesiti proposti non riguardano solo le categorie direttamente interessate – lavoratori o migranti – ma rappresentano due tessere di un mosaico che è necessario comporre per definire un più ampio progetto costituzionale per la salvaguardia dei diritti di tutti. Solo così si potrà affermare una maggioranza disposta a cambiare. Poi chi ha più filo tesserà.

 

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Diritti Ogni giorno nelle carceri italiane ci sono in media cinque episodi di protesta collettiva. Il reato di rivolta penitenziaria, introdotto dal decreto legge «sicurezza», punisce con pene elevatissime anche chi […]

Nel carcere di Milano San Vittore Nel carcere di Milano San Vittore

Ogni giorno nelle carceri italiane ci sono in media cinque episodi di protesta collettiva. Il reato di rivolta penitenziaria, introdotto dal decreto legge «sicurezza», punisce con pene elevatissime anche chi protesta senza violenza e con forme di resistenza passiva a ordini dati per generiche ragioni di sicurezza. Il carcere è pieno di tali eventi, ogni operatore lo sa.

Nel solo 2024 si sono verificati circa 1.500 episodi di protesta collettiva nonviolenta, quali la battitura delle sbarre o il rifiuto di rientrare in cella. Episodi che un bravo direttore o comandante di reparto risolveva con il dialogo, ascoltando le ragioni della protesta.

La pedagogia premoderna e punitiva di chi ci governa ha deciso di criminalizzare la disobbedienza nonviolenta. Se il 2025 sarà come l’anno passato, supponendo che in media quattro detenuti partecipino a ogni episodio di disobbedienza a un ordine, arriveremo a seimila detenuti coinvolti. Il reato di rivolta penitenziaria prevede pene altissime, superiori nel massimo ai maltrattamenti in famiglia. Supponiamo che i seimila detenuti siano condannati a una media di quattro anni di carcere ciascuno. Sono dunque in arrivo circa ventiquattromila anni aggiuntivi di carcere contro persone, già detenute, alle quali sarà peraltro escluso l’accesso a misure alternative. Una ricetta perfetta per far definitivamente esplodere il nostro sistema penitenziario e seppellire in carcere migliaia di persone, selezionate ovviamente tra le più vulnerabili: minori stranieri non accompagnati, persone con problemi psichici, tossicodipendenti.

A ciò vanno aggiunti gli effetti devastanti di tutti gli altri delitti presenti nel decreto. Il sistema collasserà, nei numeri e per la sua disumanità.

Una delle misure del decreto legge sulle quali maggiormente si concentravano i dubbi del presidente Mattarella era, come reso noto dai media, l’abolizione dell’obbligo di differimento della pena per le donne incinte o con prole fino a un anno di età. Nella trasformazione del testo in decreto, tale abolizione non è mutata. Da oggi sarà il giudice a decidere se la donna in gravidanza o appena divenuta madre dovrà andare in carcere. Se decide di sì, la donna sarà inviata in un Icam (istituto a custodia attenuata per madri), che è comunque un carcere a tutti gli effetti. Se tuttavia la donna in custodia cautelare in Icam non si comporta a dovere, allora accadrà qualcosa senza precedenti: la donna potrà essere trasferita in un carcere ordinario senza suo figlio, per il quale verranno allertati i servizi sociali. In questo modo si istituzionalizza la sottrazione del figlio alla madre detenuta.

Di fronte a tutto ciò chiediamo ai giuristi e agli operatori penitenziari e del diritto di assecondare la loro missione, di essere culturalmente e giuridicamente resistenti rispetto alle tendenze neo-autoritarie di un decreto legge che nella forma e nella sostanza fa carta straccia dello Stato di diritto.

Il grosso rischio è quello della cooptazione istituzionale degli operatori sociali e del diritto, che invece devono esercitare il loro spirito critico per non essere i manovali del declino del sistema.

Chiediamo ai giudici, agli avvocati, agli operatori tutti di moltiplicare le forme del dissenso chiamando la Corte costituzionale e la Corte europea dei diritti umani di Strasburgo a decidere se cancellare le norme presenti nel decreto legge.

Chiediamo a tutti gli operatori penitenziari di usare ragionevolezza e dialogo per non trasformare le carceri in fosse comuni dove i detenuti sono seppelliti da valanghe di anni di prigione.

 

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