Accedi Registrati

Login to your account

Username *
Password *
Remember Me

Create an account

Fields marked with an asterisk (*) are required.
Name *
Username *
Password *
Verify password *
Email *
Verify email *

Dall’Italia agli Stati Uniti Il rischio più che concreto è quello di abitare un mondo sconvolto dalla policrisi, con uno Stato del tutto incapace di proteggere i bisogni fondamentali delle persone e con “capi politici” sempre più isolati dal controllo democratico

La destra al potere: l’ingovernabilità come metodo

 

Il governo delle destre che, con tutte le sfumature possibili del nero, dall’Italia agli Stati Uniti segna questa fase politica, è una commistione tra pensiero reazionario, tecno-finanziarizzazione e chiusura dei già residuali spazi democratici. Una nuova configurazione di poteri tecno-economici, potremmo dire, alleati con la destra per rispondere alla diffusa richiesta politica di “protezione e controllo”. Certo le istituzioni sono ancora il luogo dove le regole del gioco vengono disegnate, il codice del capitale prende forma e si decidono ammontare e direzione degli investimenti pubblici. Dove si sceglie a chi prendere e a chi dare; chi punire e chi premiare, chi indebolire e chi rafforzare. Decenni di narrazione sull’iperglobalizzazione hanno messo in ombra il ruolo che le istituzioni, anche quelle nazionali, possono svolgere in questa o quella direzione. Le destre al governo non si sviluppano dunque nell’anti-politica del primo Trump o nella post-politica della terza via di Blair e Veltroni, ma nell’iper-politica del tempo attuale. Lo fanno tramite la politicizzazione del quotidiano, in assenza però di intermediazione organizzata (se non quella dei media) e senza un discorso ideologico (se non quello del senso comune). La politica è ovunque fuorché nelle istituzioni, che sono occupate dalla nuova configurazione dei poteri, per riprendere la bella tesi di Anton Jäger (Iperpolitica, Nero Edizioni, 2024).

Anche per questo, non va trascurata la nomina di Elon Musk e Vivek Ramaswamy a capo del nuovo DOGE (Department of Government Efficiency). L’idea alla base della nascita del DOGE riflette la critica di lunga data di Trump agli “sprechi burocratici”, una critica che lo accomuna al governo di Giorgia Meloni e ad altri governi di destra, che oggi – a differenza del passato – biasimano apertamente le strutture dello Stato, specie quelli più autonomi dal controllo diretto del potere politico. Qualcosa di molto lontano dalla concezione fascista, per la quale: “tutto è nello Stato, e nulla di umano o spirituale esiste, e tanto meno ha valore, fuori dello Stato”, come scritto alla voce Dottrina del fascismo dell’Enciclopedia Italiana, redatta per metà da Giovanni Gentile e per l’altra metà da Benito Mussolini.

In questo quadro, è del tutto plausibile attendersi che organismi come il National Institutes of Health (NIH) e la National Science Foundation (NSF) saranno sottoposti a un sempre maggiore controllo e definanziamento, magari in nome della necessità di privilegiare progetti “utili” e di “mobilitare i capitali privati”. La chiusura delle agenzie che si occupano di “regolazione” va nella stessa direzione: la messa in mora della capacità amministrativa e regolativa dell’apparato statale. La decostruzione intenzionale dello Stato è dunque la cifra delle destre al Governo. La produzione sistematica dell’ingovernabilità, l’uso politico dei codici di comportamento, il blocco del turn-over, il definanziamento, sono parte di un disegno volto a incapacitare l’azione pubblica.

La declinazione specifica di questo disegno politico – come del resto è già avvenuto per la diffusione del neoliberalismo – si adatta alle particolarità e alla storia dei singoli Paesi. Nel caso americano, il sogno reaganiano di uno Stato più piccolo è si è evoluto – attraverso il cospirazionismo dello “Stato profondo” – in una domanda di assenza dello Stato. In questa chiave, la scelta di affidare a persone palesemente inadeguate i ruoli chiave dell’azione dei ministeri è ciò che permette, nel contempo, di confermare l’inutilità dello Stato e invocare la forza della politica “che sa decidere”. Il rafforzamento del potere esecutivo e la fedeltà assoluta al “capo” previste dal “premierato” sono al servizio di questi scopi.

L’etica dell’ingovernabilità – cioè l’azione del Governo contro l’architettura dello Stato – diventa anche il terreno di competizione dell’arena politica. Per questo, essere di sinistra, oggi, significa anzitutto opporsi al tentativo della “politica decidente” e plebiscitaria di erodere lo Stato, di scarnificarne le funzioni e di cancellarne le leve operative. Significa combattere il definanziamento del SSN, opporsi ai tagli all’Università, sostenere una massiccia politica di assunzioni di giovani nella Pubblica Amministrazione, proporre un ruolo per la regolazione pubblica nella lotta al cambiamento climatico, mettere in prima piano la giustizia fiscale, rinforzare il rapporto tra Stato, territori e diritti di cittadinanza. L’attacco alla separazione dei poteri e il rifiuto del diritto come orizzonte comune della dialettica politica vanno letti in questo quadro. Il rischio più che concreto è quello di abitare un mondo sconvolto dalla policrisi, con uno Stato del tutto incapace di proteggere i bisogni fondamentali delle persone e con “capi politici” sempre più isolati dal controllo democratico. Non un orizzonte che si possa guardare con serenità.

@FilBarbera

Commenta (0 Commenti)

Siria in fiamme I jihadisti, rinobilitati sui nostri media come “i ribelli”, avanzano in modo fulmineo sostenuti dalla Turchia di Erdogan, da Israele e dagli Usa che hanno qui la base militare

Un gruppo di jihadisti calpestano il ritratto del presidente siriano Bashar al-Assad ad Aleppo foto Ansa Un gruppo di jihadisti calpestano il ritratto del presidente siriano Bashar al-Assad ad Aleppo – foto Ansa

Aleppo, come l’irachena Mosul, è una delle «città martiri» del Medio Oriente e forse era destino della Siria che da qui tutto dovesse ricominciare, da quella qalat, la millenaria cittadella fortificata, che non l’ha mai salvata da nessuna guerra, dove anni fa raccolsi sui gradoni uno degli ultimi chiodi rimasti conficcati per secoli nel grande portale di legno frantumato dalle battaglie brutali tra l’esercito siriano e i jihadisti. Per anni la città, fino al 2016, è stata sotto le bombe dei ribelli, dei barili esplosivi del regime di Damasco, dei raid dei jet russi, sgretolata, lacerata, affamata e con migliaia di cadaveri sepolti in fretta nelle fosse comuni.

La tregua in Libano non era ancora cominciata che il primo ministro israeliano Netanyahu aveva già annunciato il suo piano di destabilizzazione della regione: lo stato ebraico vuole avere la possibilità di concentrarsi sull’Iran e la battaglia contro la sua influenza coinvolge inevitabilmente la Siria di Assad dove Israele occupa dal 1967 le alture del Golan e tiene nel mirino da anni i suoi rivali. E così da Idlib i demoni del jihadismo, si sono risvegliati con un’avanzata fulminea sostenuti dalla Turchia di Erdogan, da Israele, dagli Stati uniti, che hanno qui la base militare a guardia ai pozzi petroliferi, contrastati dalle deboli forze di Assad, dai pasdaran iraniani, dagli ultimi Hezbollah rimasti e dall’aviazione russa, intervenuta con ritardo e forse con poca convinzione. E così i tagliagole jihadisti sono tornati a nobilitarsi sui nostri media come “i ribelli”.

Tra Putin e Netanyahu, che negli ultimi giorni sono tornati in contatto, intercorre un vecchio patto non scritto: Mosca, intervenuta direttamente a sostegno di Assad nel 2015 _ quattro anni dopo la rivolta cominciata nel marzo del 2011 _ ha sempre debolmente protestato contro i centinaia di raid dello stato ebraico in Siria e questo nonostante Assad sia un alleato di Mosca come pure lo sono l’Iran, fornitore di droni a Mosca, e gli Hezbollah. Bisogna ricordare che senza la regia del generale iraniano Qassem Soleimani, ucciso a Baghdad nel 2020 dagli americani, lo stato islamico (Isis) e i gruppi jihadisti affiliati di Al Qaida avrebbero conquistato dopo Mosul in Iraq anche Aleppo e forse Damasco.

Ma il patto Putin-Netanyahu ha resistito al punto che Israele ha persino bombardato, senza concrete reazioni di Mosca, un edificio dell’ambasciata iraniana a Damasco. Ci sono 1,5 milioni di cittadini israeliani di lingua russa e 80-100mila israeliani in Russia, mentre gli oligarchi russi fanno affari tra Tel Aviv a Dubai e il ben noto miliardario russo Abramovic da qualche tempo è diventato il più ricco cittadino di Israele. Per tutti questi legami redditizi dal punto di vista economico il dittatore russo e il premier israeliano – che al Cremlino è stato sei volte – cercano di non pestarsi i piedi, al punto che Netanyahu non sopporta il leader ucraino Zelenski pur di origine ebraica. Sul Libano e la Siria l’ambiguità russa è palpabile.

Come pure avevano resistito, tra mille difficoltà, fino a questa offensiva jihadista i patti scaturiti dal cosiddetto “processo di Astana” con il quale Russia, Iran e Turchia si erano accordati per stabilire le zone di de- escalation che includevano il governatorato di Idlib e i distretti adiacenti di Hama, Aleppo e Latakia. Ma con la guerra del Libano e i durissimi colpi assestati da Israele a Hezbollah e agli alleati di Teheran il fronte siriano si è clamorosamente indebolito. In poche parole l’Iran non è più in grado con i suoi pasdaran – nel mirino costante di Israele – di tenere in piedi pezzi strategici della Siria – porti e autostrade – che erano serviti finora come anelli decisivi nella catena di rifornimento militare.

Erdogan ha quindi deciso di approfittarne dando il via libera ai jihadisti con l’obiettivo di impadronirsi di altri pezzi della Siria del Nord, tenere sotto controllo i curdi e poi magari usare questi territori per liberarsi di milioni di profughi siriani, forse il suo obiettivo più stringente. Assad è assai debole, l’Iran è in crisi, Hezbollah deve ripiegare e Putin è sempre più assorbito dall’offensiva in Ucraina. Così ora il leader turco – che strepita assai sul destino dei palestinesi senza fare nulla di concreto – ha nuove carte in mano per negoziare con Putin e Assad, con gli americani e anche con Israele.

Quanto a Netanyahu il suo obiettivo immediato è impedire a Hezbollah di ricostruire il proprio arsenale militare, in parte distrutto con i bombardamenti a tappeto in Libano. Le filiere del transito di armi e dei componenti dei missili assemblati nelle strutture clandestine di Hezbollah passano dalla Siria. Israele bombarda regolarmente obiettivi in territorio siriano legati all’Iran e a Hezbollah: poche ore prima dell’entrata in vigore del cessate il fuoco libanese l’aviazione israeliana ha distrutto tre varchi tra la Siria e il Libano, lanciando un messaggio chiaro. Poi Netanyahu ha chiesto a Putin di bloccare i traffici di Hezbollah nel porto siriano di Latakia dove c’è la base navale russa.

La destabilizzazione della Siria serve a Netanyahu per colpire il bersaglio grosso del premier, ovvero l’Iran: questa è la parte più importante del suo piano che sottoporrà Trump una volta insediato alla Casa Bianca. Piegati gli Hezbollah, decimati i palestinesi, frantumata la Siria, pronti a colpire l’Iran, l’asse israelo-americano vede più vicino il progetto “imperiale” di fare dello stato ebraico l’incontrastata superpotenza della regione.

Commenta (0 Commenti)

Rapporti di classe Tre documenti, letti in successione, possono aiutarci a mettere a fuoco i rapporti di classe oggi in Italia. Il 29 settembre l’area studi di Mediobanca ha pubblicato il rapporto annuale […]

Un momento dal palco dello sciopero generale del 9 novembre in piazza maggiore a Bologna foto Michele Nucci/LaPresse Un momento dal palco dello sciopero generale del 9 novembre in piazza maggiore a Bologna foto Michele Nucci/LaPresse

Tre documenti, letti in successione, possono aiutarci a mettere a fuoco i rapporti di classe oggi in Italia. Il 29 settembre l’area studi di Mediobanca ha pubblicato il rapporto annuale sui dati cumulativi di 1900 società italiane.

E lo ha presentato in questi termini: «Nel 2023 margini record per le imprese italiane», che vuol dire in concreto «un Ebit medio del 6,6%, il miglior livello dal 2008». Per crescita del fatturato sono in testa le costruzioni, grazie alla droga del superbonus.

Poche settimane dopo un gruppo di ricerca della Facoltà di Ingegneria della Sapienza di Roma pubblicava i risultati di una ricerca intitolata: Dinamica dei redditi, recenti squilibri nell’industria italiana. Il direttore della ricerca prof. Riccardo Gallo, nel presentarla su Il Sole 24 Ore del 22 ottobre, ha usato questi termini: «Il travaso di ricchezza dal lavoro al capitale è stato pazzesco. I soci hanno prelevato come dividendi l’80% degli utili netti e hanno lasciato il 20% come autofinanziamento di nuovi investimenti (…) Oltretutto gli avari investimenti delle imprese sono stati solo per il 40% materiali nelle fabbriche e per il 60% finanziari in partecipazioni».

Il 29 ottobre l’Istat ha pubblicato la notizia flash Contratti collettivi e retribuzioni contrattuali, luglio-settembre 2024, dove si legge: «I 46 contratti collettivi nazionali in vigore per la parte economica riguardano il 47,5% dei dipendenti (…) i contratti che a fine settembre 2024 sono in attesa di rinnovo ammontano a 29 e coinvolgono circa 6,9 milioni di dipendenti (il 52,5% del totale)».

La maggioranza dei dipendenti dunque lavora con contratti scaduti. Ciò significa diminuzione del salario perché i rinnovi ritardati in genere non riequilibrano mai il perduto, al massimo concedono qualche spicciolo di risarcimento per la vacatio. E in più c’è l’inflazione. Inoltre gli aumenti in genere sono premi di risultato incorporati nel Welfare aziendale, non finiscono in paga base.

Risultato? La diminuzione progressiva dei redditi da lavoro, in atto da decenni, continua alla grande. Gli utili, come abbiamo visto, vanno per l’80% agli azionisti, di quel magro 20% rimasto solo il 40% viene reinvestito in fabbrica. Questo avviene quando i profitti sono alle stelle, figuriamoci che succede quando c’è aria di rallentamento o addirittura di crisi. Infatti, le trattative del contratto dei metalmeccanici e del contratto trasporti e logistica, tanto per citare due esempi significativi, sono, al momento in cui scrivo, interrotte. Alle richieste dei sindacati i padroni hanno risposto picche.

Sono decenni che in tutte le business school s’insegna che compito del management non è far crescere l’impresa ma remunerare gli azionisti.

Questa non è finanziarizzazione, è guerra di classe. Ma è la guerra «pulita». Qual è la guerra «sporca»? È quella del sistema di appalti e di subcontracting, dove regnano illegalità ed evasione fiscale. L’illegalità che i giuristi chiamano «intermediazione illecita di mano d’opera» noi la chiamiamo «caporalato», vecchia conoscenza che oggi, dove la base di reclutamento è costituita da forza lavoro immigrata più ricattabile, si è rifatta il trucco. Nella cosiddetta logistica rappresenta il 90% della forza lavoro, il che non significa che al 90% è illegale ma che una notevole componente è fatta di imprese che sotto le finte vesti del contratto d’appalto nascondono la vera natura di serbatoi di mano d’opera.

Il Tribunale del Lavoro di Milano, grazie a un paio di magistrati – guardati con sospetto – ha cercato di mettere un argine ponendo sotto amministrazione giudiziaria diverse aziende. Non pesci piccoli ma multinazionali del calibro di Dhl, Geodis, Amazon, specialisti della home delivery. Hanno recuperato in tal modo più di mezzo miliardo di evasione fiscale (soprattutto Iva non pagata, contributi previdenziali non versati) e regolarizzato 14 mila lavoratori.

Ma poi c’è un terzo livello, un ulteriore girone di questo inferno, quello della schiavitù. Forse la nostra incapacità di coglierne la dimensione specifica oggi è proprio dovuta al fatto che essa si è talmente integrata nel modello economico-produttivo, ne è diventata un elemento talmente essenziale e imprescindibile, da far abituare il nostro occhio a guardarla senza battere ciglio.

È difficile immaginare in una situazione come questa una reazione diversa dal conflitto. Perché non ci sono i margini. 80% dei profitti agli azionisti, più del 50% dei dipendenti con contratto scaduto. Solo il conflitto può frenare l’ulteriore degrado. Se è questo che Maurizio Landini intendeva con «rivolta sociale», è il minimo che si possa dire. E se il Pd ogni tanto guardasse a questi numeri e ne facesse argomento di propaganda, piglierebbe il doppio dei voti. Ma quelli pensano alle «politiche industriali», roba che in Italia non si vede dai tempi di Mattei. E allora, piuttosto di votarli, me ne sto a casa. Non s’è ancora capito che l’astensione è «rossa»?

Commenta (0 Commenti)

Intervista Omar Yaghi, insignito nei giorni scorsi al Colle del Premio Balzan 2024 per la chimica: le sue «molecole trasformano l’umidità in risorsa idrica potabile»

I residenti trasportano l'acqua potabile lungo il fiume Madeira in secca in Brasile foto Edmar Barros/Ap I residenti trasportano l'acqua potabile lungo il fiume Madeira in secca in Brasile – foto Edmar Barros/Ap

Catturano l’umidità dell’aria per trasformarla in acqua. Intrappolano le molecole di anidride carbonica (CO2) presenti nell’atmosfera. A creare e sviluppare questa nuova classe di prodigiosi materiali nanoporosi a partire dagli anni Novanta è stato il chimico Omar Yaghi, professore dell’Università di Berkeley in California, che nei giorni scorsi è stato insignito al Quirinale del premio Balzan, prestigioso riconoscimento a scienziati e studiosi che si siano distinti per le loro scoperte, in questo caso nel campo della chimica reticolare.

Professor Yaghi, ci può descrivere in modo elementare cosa sono questi materiali, denominati MOF (strutture metallo-organiche) e COF (strutture organiche covalenti) e come funzionano?
MOF e COF possiamo immaginarceli come mattoncini Lego da combinare per creare nuove forme. Queste forme hanno superfici estremamente porose. All’interno dei pori noi possiamo catturare gas come idrogeno, metano, anidride carbonica, e acqua. Un’altra caratteristica straordinaria di questi materiali è quella di avere una superficie estremamente elevata: in 1 grammo è contenuta una superficie grande come un campo da football. Questo è lo spazio nel quale è possibile immagazzinare i gas.

Di quali materie prime sono composti?
I MOF sono fatti a partire da unità organiche legate a metalli. Si possono usare anche metalli molto comuni come zinco, ferro, rame, potassio, calcio. Per la parte organica possiamo utilizzare, per esempio, l’acido lattico, che è un componente del latte, e legarlo al calcio per ottenere un MOF. Questa chimica permette di utilizzare materie prime molto diffuse e comuni per creare materiali poco costosi ed estremamente utili. Questo è l’avanzamento che abbiamo ottenuto: usare i componenti della vita e della natura per realizzare materiali in grado di risolvere alcuni problemi ambientali. Invece i COF sono fatti interamente da unità organiche, senza metalli.

Grazie ai MOF è possibile catturare l’acqua dall’atmosfera, anche nel deserto, usando soltanto l’energia solare come unica fonte energetica. Ci spiega come?
A occhio nudo, MOF e COF hanno l’aspetto del borotalco o dello zucchero semolato. Per utilizzarli è necessario un rivestimento, oppure modellarli in forme diverse, come pellets, o cubi, o qualsiasi forma che possa essere contenuta in un apparecchio. Questo apparecchio deve avere delle ventole per far sì che vi entri dell’aria: quando l’aria entra in contatto con il MOF, questo estrae l’acqua dall’aria. L’apparecchio funziona in modo che solo acqua venga estratta dall’atmosfera, e nient’altro. Una volta che i pori si sono riempiti d’acqua, si può scaldare il materiale a 50° o 60°C e l’acqua viene rilasciata, condensata e si può bere. Lo stesso principio vale per la cattura della CO2: la CO2 si lega ai pori e, una volta scaldato il materiale a 60°C viene rilasciato e il ciclo può continuare.

Esistono già dei prototipi di apparecchiature per la «cattura» dell’acqua?
Diversi prototipi sono stati testati nel deserto. Ma vorrei sottolineare che questa tecnologia è utile non solo nelle zone aride, ma può funzionare ovunque nel mondo, per esempio dove non è disponibile acqua potabile, come può succedere in una zona interessata da una catastrofe. Oppure in agricoltura.

Il chimico Omar Yaghi
Il chimico Omar Yaghi

Sono brevettati? E sono accessibili?
Si, certo. Se non lo fossero, nessuno sarebbe interessato al loro impiego. Quando esiste una tecnologia di cui le persone hanno bisogno, si trova il modo di finanziarla da parte dei governi o delle Ong.

Quanto potranno costare queste apparecchiature?
Sono fatte di alluminio, il metallo più economico. E anche i MOF sono a basso costo. Non costeranno più di un microonde o di una macchina per fare il caffè.
Quindi sarà possibile staccarsi dalla rete idrica? Senza pagare più oneri per la distribuzione e quant’altro?
Troveranno il modo di farceli pagare… ma in linea principio, sì, si può avere il controllo sulla propria acqua.

Quando saranno disponibili? Tra 3 anni, 10 anni…
Prima. Le start up con le quali lavoro sono pronte a commercializzare queste apparecchiature tra 6-12 mesi. Tutti gli aspetti tecnici sono stati risolti. Un apparecchio per uso domestico può produrre 100-200 litri di acqua al giorno per vari anni. In generale, con una tonnellata di MOF si possono produrre 3 mila litri di acqua al giorno per 6-7 anni. Se si usa un’apparecchiatura un po’ più grande ed elettrificata, si possono produrre fino a 60 mila litri al giorno per 7 anni. Poi l’apparecchiatura può essere completamente disassemblata e riciclata.

Sembra magia.
Quando si libera la creatività umana non ci sono limiti all’immaginazione. Sembra magia, ma è realtà.

I materiali che lei ha sintetizzato rendono più efficiente la cattura della CO2 dall’atmosfera. Ma resta il problema di dove e come stoccare la CO2. Secondo i geologi si può stoccare nel sottosuolo in modo sicuro. Si può mineralizzare e trasformare in roccia, per millenni. Posso farle io una domanda? Abbiamo altre soluzioni? Cosa risponde a chi teme che la cattura e lo stoccaggio della CO2 possa servire per continuare ad utilizzare i combustibili fossili?
Secondo il mio punto di vista è una pessima analisi, anche perché potrebbe essere applicata a qualunque altra soluzione si possa trovare. Quello che voglio dire è che anche se è disponibile una soluzione come questa, i governi responsabili devono mettere comunque limiti alle emissioni. Come in altri campi dove servono dei limiti, perché i processi non sfuggano al controllo. Inoltre, quando la soluzione verrà introdotta, la società comincerà a pensare in modo diverso, perché si sarà creata una nuova economia basata sulla sostenibilità.

Quando si cominceranno ad utilizzare su scala industriale questi materiali?
La tecnologia per la cattura della CO2 dai cementifici, per esempio, viene già commercializzata. Invece, per quanto riguarda la cattura della CO2 dall’aria, la cosiddetta Direct air capture (DAC) è ancora necessario incrementare la produzione a quantità dell’ordine di tonnellate. Nel giro di pochi anni ci arriviamo. Ci sono molti progetti sperimentali.

Dove verrà utilizzata?
Nei grandi complessi industriali. Alcuni si sono già dotati di impianti di cattura della CO2 che però utilizzano materiali tossici, corrosivi, che non sono così resistenti e quindi efficienti. I MOF invece durano anni e migliorano l’efficienza.

Dunque, lei crede che ce la faremo a rispettare l’Accordo di Parigi?
Credo che la società debba porsi di fronte ai cambiamenti climatici come ad una crisi, non come a un problema. Come è successo per la crisi dei mutui negli Usa o per la pandemia. Queste sono crisi. Fino ad ora, con la riduzione volontaria delle emissioni non è successo nulla. Serve essere uniti e investire in un’unica direzione, altrimenti non si trovano soluzioni. Come è successo per la pandemia, se ci fossimo posti il problema dei costi, non ne saremmo usciti.

Cosa ha reso possibile queste sue scoperte? L’avanzamento della ricerca pura? La potenza di calcolo dei computer? Adeguati finanziamenti? Visioni…
È stato possibile perché qualcuno ha deciso di fare qualcosa che tutti dicevano fosse impossibile. C’era un dogma in questo campo di studi che negava la possibilità di fare quello che abbiamo fatto. Più che i finanziamenti, ad essere determinante è stata la volontà umana di cambiare un dogma. Sono gli scettici, quelli che dicono «non è possibile» i veri nemici della scienza, che ne impediscono il progresso. Ce ne sono ovunque, dentro e fuori il mondo scientifico.

Lei è nato in Giordania, in un campo profughi palestinese. La sua esperienza di vita è in qualche modo legata alle sue scoperte scientifiche?
Direi di no. Quello che è successo è che da bambino, avrò avuto 10 anni, mi sono innamorato delle molecole: ho visto dei disegni di molecole in un libro trovato in biblioteca. Non sapevo cosa fossero, naturalmente, ma sono stato catturato dalla loro bellezza. E da allora ho voluto saperne sempre di più. E anche quando abbiamo scoperto questi nuovi materiali a catturarmi, all’inizio almeno, è stata la loro bellezza, più che le implicazioni d’uso

 

Commenta (0 Commenti)

Dopo Trump Le sinistre occidentali, che stanno perdendo il proprio radicamento operaio già dagli anni Settanta (come aveva lucidamente riconosciuto Eric Hobsbawm) si tuffano sulle nuove opportunità economiche che si stanno aprendo, assecondando il processo in corso, e facendosene in certi casi garante

Il neo eletto presidente degli Stati uniti Donald Trump foto di Alex Brandon/Ap Il neo eletto presidentedegli Stati uniti Donald Trump – foto di Alex Brandon/Ap

Quali lezioni dovremmo trarre dalla vittoria di Donald Trump? Secondo alcuni, i Democratici sono stati sconfitti perché hanno progressivamente perso il carattere di partito della working class.

Per diventare la forza di riferimento dei ceti professionali, delle persone più istruite, e tendenzialmente benestanti. Altri hanno posto l’accento, invece, sulla frattura tra certe aree del paese – prevalentemente urbane e tendenzialmente più sviluppate – e quelle che invece non riescono e riprendersi dallo shock delle delocalizzazioni. Le prime vedono i Democratici meno in difficoltà, le seconde spesso favoriscono Trump. Tutte le spiegazioni devono tener conto dell’appartenenza, ma con sfumature diverse, che possono essere legate al «ruolo nel processo di produzione» (per riprendere un’espressione marxista ancora utile) oppure a elementi di carattere identitario (nazione, gruppo etnico, religione). Qui la faccenda si complica ulteriormente, perché il carattere di terra di emigrazione degli Stati uniti rende il tema dell’identità ineludibile ma sfuggente.

Non c’è dubbio che la prima ipotesi cui abbiamo accennato appare confermata dai dati elettorali, e in qualche misura si armonizza con una tendenza che si sta manifestando in tutti i paesi nei quali il partito principale della sinistra (sia esso di tradizione socialista o meno) si è collocato, dopo la «rivoluzione recuperante» del 1989, al centro. A partire dagli anni Novanta, la restaurazione della democrazia nei paesi dell’ex blocco sovietico si rivela come il momento decisivo per l’instaurazione di un diverso modo di concepire i rapporti tra economia e politica, che esalta gli effetti benefici del mercato e svilisce quelli dell’intervento pubblico.

Le sinistre occidentali, che stanno perdendo il proprio radicamento operaio già dagli anni Settanta (come aveva lucidamente riconosciuto Eric Hobsbawm) si tuffano sulle nuove opportunità economiche che si stanno aprendo, assecondando il processo in corso, e facendosene in certi casi garante. Sono gli anni di Clinton, di Blair, e dei loro epigoni continentali. Sono loro a portare alle estreme conseguenze l’idea che i vecchi partiti socialisti o liberal progressisti dovessero diventare i partiti dello sviluppo economico, puntando sulla scommessa che una volta ampliata la torta sarebbero aumentate le porzioni per ciascuno. In realtà le cose vanno in modo diverso dal previsto. Mano a mano che accettano le premesse e gli obiettivi della nuova visione «neoliberale» della politica, questi partiti vengono di fatto «catturati» da una nuova classe dirigente, fatta non più di militanti con un solido radicamento nel movimento operaio e nelle battaglie antifasciste della prima metà del Novecento, ma di consulenti e «tecnici» di varia estrazione, che non hanno alcun interesse a distribuire in modo più equo la torta. Chi è più «meritevole», ha diritto a tagliare la fetta che gli spetta prima degli altri, e pazienza se poi non rimane molto da spartire.

Nel nuovo secolo i nodi vengono al pettine. La promozione di politiche di austerità dopo la crisi del 2008 colloca i partiti della nuova sinistra neoliberale in una pozione insostenibile, non solo rispetto a quel che rimaneva – dopo le delocalizzazioni – della classe operaia intesa in senso stretto, ma anche rispetto all’area, dai confini meno netti, dei diversi tipi di lavoratori subordinati. Le politiche di flessibilità del lavoro, difese da queste forza politiche, a partire dagli anni Novanta, come un’opportunità per i lavoratori, si sono rivelate in molti casi una trappola fatta di precarietà, redditi bassi, e subordinazione al debito.

Quindi, in un certo senso, è vero che la sinistra dovrebbe darsi da fare per recuperare il voto della working class intesa in senso ampio, non solo gli operai, ma anche la vasta platea di chi lavora in posizione subordinata (di diritto o di fatto). Si tratta, tuttavia, di una verità parziale. Uno degli effetti più profondi, e più difficili da invertire, della rivoluzione neoliberale, è infatti un mutamento sul piano della visione dell’essere umano, e del suo ruolo nella società.

Ciò che gli attivisti della sinistra più critica nei confronti del neoliberalismo chiamano working class è un’astrazione priva di concretezza, perché le classificazioni sociali che guardano al ruolo nel processo di produzione, o al livello di reddito, non sono allineate con quelle identitarie. In una società dove la solidarietà di classe si è affievolita fino a scomparire, ciascuno solidarizza, nella misura in cui ne sente il bisogno, soltanto con i suoi, con quelli del proprio gruppo. Tutti gli altri sono concorrenti, potenzialmente nemici in una società che sta diventando a «somma zero».

Recuperare il voto della working class in queste condizioni potrebbe rivelarsi impossibile, se non si mette in campo uno straordinario impegno sul piano della «visione del mondo», per erodere le basi su cui ancora si sostiene l’egemonia neoliberale. La sinistra dovrebbe, in questo, seguire la lezione di Stuart Hall. L’intellettuale caraibico che negli anni Settanta indicò alla sinistra britannica sconfitta da Margaret Thatcher la strada di una rilettura del Gramsci studioso dell’egemonia come premessa per comprendere i fattori ideologici del nuovo liberalismo emergente.

 * Mario Ricciardi insegna Filosofia del diritto presso l’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano e Teoria generale del diritto presso l’Università Statale di Milano. Collabora regolarmente all’inserto culturale della domenica del Sole 24 Ore, a la Rivista dei Libri e al quotidiano Il Riformista. Google Books

Commenta (0 Commenti)

Intervista L’europarlamentare Pd: «Sull’Ucraina nessuna svolta e un silenzio inaccettabile su Gaza». «Con Schlein ci siamo sentite, io rispetto la sua posizione e lei la mia: non era una scelta facile. Ma sono molto preoccupata per le posizioni del titolare dell’immigrazione»

Strada: «No a un governo Ue che vuole più armi e meno diritti» Cecilia Strada – Ansa

Cecilia Strada, europarlamentare indipendente eletta nel Pd. Nelle ore prima del voto sulla commissione Ue non si era espressa. Come mai?

Ho preso tempo per riflettere.

Il discorso in aula di von der Leyen non l’ha convinta?

No, pensavo da giorni di votare contro e non ho cambiato idea.

Perché?

Questa commissione non mette al centro del suo agire le vere priorità: giustizia sociale, diritti, lavoro. Parole che sono addirittura scomparsa dai titoli che indicano le competenze dei vari commissari. La delega a scuola, cultura e diritti sociali è stata chiamata «Persone e preparazione». C’è una involuzione anche semantica. Von der Leyen ha parlato per 40 minuti in aula e il termine che ha usato più spesso è stato «competitività», senza mai dire a cosa serve. E poi continua a mettere al centro il tema della guerra, cui intende reagire armandoci sempre di più. Io mi sono candidata per cambiare questo stato di cose, vorrei un’Europa di pace e diplomazia, che investe più su come proteggere i lavoratori nella transizione ecologica che in spese militari.

Anche la scelta del titolare dell’Immigrazione pare non l’abbia entusiasmata.
Ho ascoltato in audizione Magnus Brunner, mi è parso aperto all’ipotesi di esternalizzazione delle frontiere, persino alla costruzione di nuovi muri contro i migranti. Non lo nascondo: è una commissione lontanissima dai miei valori. Compresa la scelta di Raffaele Fitto come vicepresidente: non per una questione personale, ma per la sua appartenenza al gruppo Ecr, la cui presenza nel perimetro della maggioranza non era nei patti che abbiamo sottoscritto a luglio con Popolari, Liberali e Verdi. I numeri del voto in aula confermano che questa strategia ha indebolito la presidente, che ha raggiunto il minimo storico di voti, 370. E tuttavia non sono felice di aver votato no, perché non mi sfugge quanto sia importante dare all’Europa un governo pienamente operativo, soprattutto dopo l’elezione di Trump.

Una commissione spostata a destra che trascura i vostri obiettivi è un problema per tutto il Pd.

Capisco il ragionamento che ha fatto Schlein, e cioè che se questa commissione non fosse partita ne sarebbe potuta arrivare una anche peggiore, più spostata a destra. È legittimo ritenere che in questa fase bisognasse prendere quello che c’è, pur con molti mal di pancia. Non è stata una scelta facile.

Vi siete sentite con la segretaria?

Sì, come sempre ci siamo parlate con franchezza e serenità. Io capisco la sua posizione e lei la mia, e nel Pd ho trovato grande rispetto per le posizioni indipendenti.

Oggi ci sarà l’ennesimo voto sull’Ucraina, lei come si comporterà?

Il mio voto sarà ancora negativo: dopo 1000 giorni di guerra sono sempre più convinta che la soluzione non sia fornire all’Ucraina armi sempre più potenti e togliere le restrizioni all’uso contro la Russia. Anche nel popolo ucraino cresce il desiderio di un negoziato, che non vuol dire una resa. E a chi dice che non si tratta con un criminale rispondo che la pace si fa con un nemico.

A Bruxelles sta nascendo la consapevolezza che è necessaria una svolta diplomatica?

No, non mi pare. Continua a dominare l’idea di armare Zelensky fino alla vittoria finale, un’ipotesi che non esiste davanti a una potenza nucleare, una frase retorica e poco responsabile visto che a morire sono gli ucraini. Anche Kiev dovrà mettere qualcosa sul tavolo del negoziato, io penso al congelamento della procedura di adesione alla Nato.

Nel voto sull’Ursula bis il Pd si è diviso da M5S e Avs. Avrà ripercussioni sulla costruzione di un fronte alternativo in Italia?

Credo di no, se tutti siamo d’accordo che è necessario costruire un’alternativa alla disastrosa situazione italiana. Capisco l’esigenza di ciascuno di tirare l’acqua al proprio mulino, ma è il momento di unirsi per provare a portare più diritti alle persone. La destra ormai è più spaccata di noi, come si è visto anche oggi nel Parlamento italiano, eppure riescono sempre a unirsi quando è il momento di togliere diritti alle persone.

Fdi canta vittoria dopo il voto sulla commissione.

Una totale contraddizione. Per anni gridano no all’Europa, a luglio votano no a von der Leyen e ora esultano perché hanno un vicepresidente. Vigileremo su Fitto, ora il suo compito è portare avanti il progetto europeista. Non dovrà più rispondere a Meloni ma alle istituzioni Ue. Le contraddizioni sono tutte in casa loro.

Resta un assordante silenzio dell’europarlamento sul Medio Oriente.

Si fanno dibattiti, ma a Strasburgo non si riesce a produrre uno straccio di risoluzione, neppure dopo il mandato di arresto per Netanyahu: una cosa vergognosa. Con che faccia condanniamo Putin e utilizziamo un doppio standard verso Israele? Faccio parte di un intergruppo che da tempo chiede di sospendere gli accordi di cooperazione con Israele e di fermare l’export di armi. Ma sia in Parlamento che nel Consiglio europeo c’è un muro, nonostante il grande lavoro di Borrell. Così l’Ue perde la faccia davanti al mondo.

 

Commenta (0 Commenti)