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Mistero buffo Sarebbe stato incoraggiante se, per festeggiare il 2 giugno, gli uomini e le donne che hanno giurato fedeltà alla Costituzione (prima di assumere incarichi di governo) avessero ricordato a tutti i cittadini che la Repubblica è figlia di un voto

La presidente del consiglio Giorgia Meloni, LaPresse La presidente del consiglio Giorgia Meloni – Lapresse

Sarebbe stato incoraggiante se, per festeggiare il 2 giugno, gli uomini e le donne che hanno giurato fedeltà alla Costituzione (prima di assumere incarichi di governo) avessero ricordato a tutti i cittadini che la Repubblica è figlia di un voto.

E che il popolo italiano ha sconfitto una monarchia complice del fascismo grazie a un referendum. E soprattutto che, oggi come ieri, la democrazia e la Repubblica per vivere hanno bisogno del sostegno e dell’attiva partecipazione di tutti cittadini e delle cittadine.

Lo spettacolo che ieri si è consumato sotto i nostri occhi è, invece, stato di tutt’altro tenore: inviti a disertare le urne o ad assumere condotte acrobatiche ai seggi (ritirare per poi rifiutare le schede), letture di comodo dell’art. 48 (si è arrivati al punto di sostenere che l’adempimento del dovere civico riguardi solo le elezioni e non i referendum), denuncia del carattere mistificatorio della consultazione derivante dalla presunta complessità dei quesiti.

Sia ben chiaro, con ciò non si intende dire che astenersi o propagandare l’astensione in vista di una consultazione referendaria sia un comportamento costituzionalmente inopportuno o, addirittura, illegittimo. Se però ad assumere questa condotta sono le istituzioni di governo il discorso cambia. E ciò per una molteplicità di ragioni di sistema: a) indetta una consultazione (politica o referendaria), coloro che ricoprono incarichi di governo devono procedere con disciplina ed onore (art. 54 Cost.) per assicurarne il corretto svolgimento e il successo, favorendo il più possibile la partecipazione al voto; b) diversamente da un movimento e da gruppi di cittadini che propagandano l’astensione, le forze di governo dispongono di fatto del servizio pubblico radiotelevisivo e sono in grado di condizionare l’intero sistema mediatico; c) l’astensionismo elettorale ha raggiunto in questi anni livelli di guardia passando dal 90% degli anni Settanta a circa il 55% nelle ultime consultazioni.

Incentivare queste tendenze sospingendo i cittadini a non partecipare è oggi un atto di grave irresponsabilità politica e costituzionale. Ed eviterei di richiamare l’art. 98 del TU delle leggi elettorali che se preso alla lettera prevederebbe addirittura che «chiunque investito di un pubblico potere o funzione civile o militare, abusando delle proprie attribuzioni e nell’esercizio di esse, si adopera a costringere gli elettori a firmare una dichiarazione di presentazione di candidati od a vincolare i suffragi degli elettori a favore od in pregiudizio di determinate liste o di determinati candidati o ad indurli all’astensione» è penalmente perseguibile; d) astenendosi in un referendum, il cittadino intende esprimere un suo disinteresse verso la consultazione (condotta quanto mai sconveniente per chi ricopre incarichi istituzionali) oppure in termini positivi un suo dissenso e una sua protesta.

Ma dissentire e protestare sono diritti che la Costituzione riconosce e garantisce agli individui, in forma singola e associata (art. 2 Cost.): ai senza potere, eventualmente contro il potere, e non a chi dispone già del potere.

Ed è in quest’ottica che la pur farraginosa nota del Viminale (n. 19/2013), indirizzata a tutti i prefetti, dispone espressamente che gli elettori che, dopo aver ritirato la scheda, non si rechino in cabina e la riconsegnino, «non dovranno essere conteggiati tra i votanti della sezione». Ma ad una condizione: «dovranno essere annotati le generalità e il motivo della protesta e anche eventuali scritti che l’elettore voglia consegnare al seggio dovranno essere allegati al verbale». Ed è sulle forme e modalità di espletamento di questo passaggio che l’intenzione espressa ieri dalla Presidente del Consiglio rischia, fatalmente, di assumere i contorni di un enigma farsesco, di un “mistero buffo”.

Quali sono le ragioni della protesta che la carica politica oggi più forte e potente potrebbe mai opporre a un Presidente di seggio? Contro chi intenderà esprimere il suo dissenso e cosa potrà mai obiettare: la natura del procedimento referendario? La possibilità di ciascuno di noi di votare sui diritti dei cittadini e degli stranieri? Il fondamento democratico della Repubblica antifascista che ha fino a oggi consentito a donne e uomini di potersi liberamente esprimere con il voto?

 
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Niente paura Un movimento che non si è fatto ingabbiare dagli schemi tossici della destra. E che ha capito che la cura collettiva e la difesa della democrazia sono precondizioni della politica nuova

Partecipanti alla manifestazione contro il Dl sicurezza a fianco al camion del corteo foto P.Cortellessa Corteo contro il dl sicurezza – Patrizia Cortellessa

Il corteo contro il dl sicurezza è stato un successo che ha sventato molti rischi. Una regola della militanza, che si impara per via empirica e ti resta attaccata alla pelle dice che quando un compagno o una compagna finisce alla sbarra del processo, recluso in casa o addirittura in galera, bisogna fare di tutto per tirarlo fuori dai guai.

Questa forma di solidarietà primaria è stata per anni un motore potente di costruzione di legami, fiducia e lealtà. Con dei rischi. Perché si sa che la semplice «lotta alla repressione» può restare invischiata nelle trappole del potere, nelle tossine che esso semina. In quel caso minaccia di produrre comunità minoritarie, basate solo sulla difesa e mai sull’attacco, a volte anche paranoiche perché afflitte dalla persecuzione.

Tutto ciò serve a dire che non è questo il caso della battaglia contro il disegno di legge poi divenuto decreto sicurezza. Di fronte alla stretta repressiva che introduce quattordici nuove fattispecie di reato e nove aggravanti, che scarica centinaia di anni di carcere su chi è povero e su chi si organizza e lotta, anche in forma nonviolenta, per non esserlo, si è dipanato in movimento che ha saputo adottare il metodo della convergenza e che ha sempre rilanciato in avanti, evidenziato i nessi sociali e la ricchezza delle relazioni produttive messe sotto attacco dal governo Meloni.

Nel corso di questi mesi ci siamo interrogati molte volte sui motivi che hanno spinto le destre a condurre questa ennesima forzatura contro lo stato di diritto. Queste cause sono emerse di volta in volta in maniera abbastanza nitida. C’è innanzitutto un motivo di carattere strutturale: la funzione storica del postfascismo è quella di mettere al servizio l’autoritarismo per assolutizzare la difesa della proprietà privata e delle mire particolari, contro ogni interesse collettivo e contro gli stessi principi costituzionali. Questa missione si accompagna alla campagna propagandistica sulla sicurezza in atto da anni in questo paese, da ben prima che il circoletto di Colle Oppio si insediasse a Palazzo Chigi. Adesso siamo di fronte al passaggio decisivo. Sarebbe sbagliato non vederne il salto di scala e l’intensità della ferocia che lo caratterizza, ma quanti anni sono che la goccia della paranoia securitaria e delle minacce «percepite» scava la roccia della realtà e dei problemi concreti delle persone?

La potente operazione ideologica costruita attorno al tema della sicurezza, tutta volta a disintegrare legami sociali e insinuare nei nostri quartieri dispositivi bellici (contro migranti, poveri, dissidenti, diversi), ha costruito le condizioni per questa torsione autoritaria.

Infine, dopo le notazioni strutturali e quelle culturali, è impossibile non notare un carico soggettivo particolare, uno specifico accanimento della destra contro i suoi nemici nella società. Possiamo sintetizzarla così: questo decreto sicurezza è anche una vendetta della destra estrema contro i suoi nemici di sempre, contro quelli che in maniera imperfetta ma incessante non hanno smesso di costruire gli anticorpi a egoismo, prevaricazioni, solitudine.

Le decine di migliaia di persone che ieri sono scese in piazza a Roma, e i molti altri che da tempo in tutto il paese si mobilitano contro questo governo sono la dimostrazione che esiste ancora un corpo sociale vivo e reattivo, nonostante anni di crisi della politica (a tutti i livelli, nei partiti e nei movimenti) e sfiducia verso l’azione collettiva. Della gente che ieri abbiamo incontrato per le strade di Roma, con tutte le differenze, sappiamo che possiamo almeno provare a fidarci. Di questo hanno paura i vecchi e nuovi reazionari: della costruzione dal basso di forme di protezione e cura collettiva. Perché questa è la condizione necessaria per la nascita di una nuova politica: l’antidoto al loro veleno.

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Israele al bivio L ’esperienza dimostra che pressioni, prediche e appelli, peraltro assi blandi durante questi due anni di guerra, non hanno spostato di un centimetro la volontà del governo israeliano di far fare a Gaza la fine di Cartagine

Netanyahu in tv con una mappa che cancella la Cisgiordania palestinese foto Ap Netanyahu in tv con una mappa che cancella la Cisgiordania palestinese – Ap

Sull’orrore e i massacri di cui l’Idf e le bande armate dei coloni si sono resi responsabili a Gaza e in Cisgiordania non c’è più molto da aggiungere a quanto è quotidianamente sotto gli occhi di tutti. Neanche i più stretti alleati di Israele, come la Germania, riescono più a giustificare una conduzione della guerra come quella praticata dal governo Netanyahu e dai suoi generali, né ravvisare più alcuna relazione proporzionata alla sanguinosa aggressione subita il 7 ottobre. Tanto che si inizia a parlare di eventuale sospensione delle forniture militari tedesche a Israele. Ma intanto il tardivo coro che invoca una tregua e chiede al premier israeliano di fermarsi si infoltisce, mentre numerosi paesi europei sostengono la necessità di rivedere gli accordi tra Israele e Ue.

Tuttavia l’esperienza dimostra che pressioni, prediche e appelli, peraltro assi blandi durante questi due anni di guerra, non hanno spostato di un centimetro la volontà del governo israeliano di far fare a Gaza la fine di Cartagine e alla Cisgiordania quella del far west americano a spese degli indiani.

Allora una semplice domanda si impone: Netanyahu e il suo governo, tenuto in piedi da fanatici estremisti di destra, possono essere fermati? La risposta è inequivocabilmente no. Ce lo hanno fatto capire in tutti i modi a partire da quando hanno dichiarato le Nazioni unite un covo di antisemiti, fino a quando Netanyahu ha minacciato di annettere la Cisgiordania se i paesi europei avessero riconosciuto lo stato palestinese.

E ieri il ministro della Difesa israeliano, Israel Katz, è stato esplicito e duro come non mai: in visita a un avamposto di coloni ebrei nel nord della Cisgiordania, ha annunciato l’intenzione di «costruire lo Stato ebraico israeliano» su quel territorio palestinese; «è un messaggio chiaro» al presidente francese «Macron e ai suoi amici: riconosceranno uno Stato palestinese sulla carta, noi costruiremo qui lo Stato ebraico israeliano sul campo», ha detto Katz.

Che qualcuno possa ancora sperare nella soluzione dei due popoli e dei due stati è oramai un incredibile atto di fede o una nenia consolatoria. Così come credere che il governo di Tel Aviv possa desistere dalla conquista di Gaza, dalla deportazione della popolazione palestinese e dalla colonizzazione definitiva della Cisgiordania solo per evitare quella riprovazione del mondo di cui ostentatamente se ne infischia. Perché Netanyahu e i fascisti religiosi che lo sostengono non fanno la guerra, ma la incarnano. Questo e nessun altro è il loro orizzonte esistenziale, la loro assicurazione sul potere e sull’impunità.

Dunque Netanyahu non può essere fermato, ma potrebbe solo cadere. Non è insomma immaginabile né la pace in Medio oriente né la sicurezza e la prosperità dello stato di Israele con questi protagonisti politici. O qualcuno è in grado di immaginare uno stato di diritto democratico e inclusivo, rispettoso dei diritti umani e del diritto internazionale governato dagli Smotrich e dai Ben Gvir? Da invasati che farneticano della supremazia del “popolo eletto”?

Non è ovviamente facile che il governo bellicista israeliano cada, mentre l’altro fanatico protagonista di questa storia, cioè Hamas, sembra invece prossimo alla disfatta. Tel Aviv può contare su un alleato storico come gli Usa, oggi rappresentati da Trump, un cinico che dello stato di diritto si fa beffe, nonché di possibili interlocutori arabi come l’Arabia saudita che sono agli antipodi di qualunque idea di democrazia.

Inoltre, nonostante tutta la corruzione, l’inefficienza e la ferocia dimostrate, la destra israeliana gode di un consenso non indifferente, incattivito, incline al razzismo e alla pulizia etnica, inebriato dal mito della propria superiorità. Ce ne danno testimonianza quotidiana le bande dei coloni armati dediti a uccidere e incendiare coltivazioni e villaggi e infine i giovani squadristi che hanno seminato il terrore tra i commercianti arabi della città vecchia di Gerusalemme con aggressioni minacce e slogan truculenti. Un segnale di pericolo evidente ed estremo.

Chi ha veramente a cuore la sicurezza di Israele, il senso storico della sua esistenza, le promesse e le aspirazioni che lo hanno attraversato, lo spessore della sua cultura e delle esperienze che vi sono confluite, non può che avversare un governo che ha tacitato tutto e tutti in nome di una guerra senza quartiere e condotto il paese a un crescente isolamento internazionale, che ha adottato il linguaggio del ricatto e della più cinica disumanità e condotto una raccapricciante campagna di sterminio.

Dunque Netanyahu non si può fermare e non si fermerà. Porre fine alla guerra significherebbe porre fine al suo governo e al suo potere attraverso una materiale e radicale sottrazione di sostegno interno ed esterno. A questo dovrebbero applicarsi i governi che si dicono amici di Israele e le opinioni pubbliche che hanno a cuore i diritti dei palestinesi come quelli degli israeliani.

Ma le cose non stanno purtroppo così. Poiché in gran parte d’Europa, per non parlare degli Stati uniti, il nazionalismo aggressivo, l’islamofobia e il suprematismo bianco, (in paradossale compagnia dell’antisemitismo più autentico), sono in piena espansione e in sintonia con la teoria e la pratica dell’attuale governo israeliano, difficilmente quest’ultimo potrà essere preso seriamente di mira. E dunque la guerra non si fermerà né dismetterà le forme spietate in cui si è espressa fino ad ora. E che ad ogni occasione Netanyahu e i suoi sostenitori orgogliosamente rivendicano. Ad oggi il limite di questo orrore non si vede, ma non possiamo accettare l’idea che non esista né smettere di denunciare le molte complicità che lo differiscono o lo nascondono.

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Editoriale La doppia ordinanza della Cassazione è stata letta e diffusa alle parti: era un atto pubblico, non un segreto

A Bignami non si può nascondere niente Galeazzo Bignami – LaPresse

Ci fa piacere che Galeazzo Bignami, non sappiamo se nel suo costume da gerarca nazista o in borghese, sia rimasto «inquieto e sconcertato» dalla lettura del manifesto di ieri. Dovrebbe leggerci più spesso. Ha buone ragioni per essere turbato. Ha capito adesso che le deportazioni dei migranti in Albania non funzionano, malgrado Giorgia Meloni abbia giurato e scandito il contrario.

Dal manifesto il capogruppo di Fratelli d’Italia alla camera ha saputo che la Cassazione ha rinviato altre due volte alla Corte di giustizia europea il decreto con cui il governo ha aggiunto una toppa al suo «modello Albania». Il dubbio che sia incompatibile con le norme europee è più che fondato. Nel frattempo tutti i trasferimenti dai Cpr italiani dovranno fermarsi di nuovo. Ma Bignami ha scoperto e denunciato un complotto di magistrati e giornalisti, così dimostrando che talvolta l’acume politico si può giudicare dall’abito.

Chi ha dato la notizia al manifesto? – ha alzato la voce il finto gerarca – e come ha fatto quel giornale ribaldo ad anticipare che la Cassazione avrebbe fatto un comunicato per dare la notizia «il che si è puntualmente verificato?». Sicuro di averne detta una giusta, il nostro ha preannunciato un’interrogazione a Nordio, che poi sarebbe il loro ministro della giustizia. Uno notoriamente capace di sbagliare anche senza l’aiuto degli alleati.

Ma ecco che possiamo intervenire ancora noi, per dare una mano al politico mascherato, anticipare un paio di risposte e lasciare Nordio a riposare. La doppia ordinanza della Cassazione è stata letta e diffusa alle parti: era un atto pubblico, non un segreto. A un bravo giornalista tanto basta per riconoscere una notizia. Anche se non possiamo negare che dando le notizie che dispiacciono a tipi come Bignami talvolta uniamo dovere e piacere. Quanto poi alla previsione che ci sarebbe stato un comunicato della Cassazione, sveliamo un segreto: accade sempre per decisioni di tale rilievo. Ma stavolta invece no, non è successo, e così Bignami è riuscito a sbagliare ancora. Fino a ieri sera, sono arrivate le polemiche della destra, le contro polemiche dell’opposizione, ma il comunicato della Cassazione sulle ordinanze – che comunque tutti possono ora leggere – non è arrivato, chissà perché. Già, perché?

 

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Italia e Usa Nella retorica di Meloni contro i «dazi interni» il messaggio di Draghi viene ribaltato ed evocato per indurre l’Europa ad arrendersi nella disputa commerciale con gli Usa

Italia contro la Ue per non mettere ostacoli a Trump Meloni tra gli invitati all’assemblea di Confindustria – LaPresse

Ogni finzione rapidamente cade, come un fiore che appassisce. Al detto ciceroniano Giorgia Meloni evidentemente crede poco. Tali e tante sono state le maschere indossate dalla premier da suggerire, piuttosto, una tattica politica fondata su un continuo gioco di mistificazioni al rialzo. All’assemblea di Confindustria la presidente ha dato ennesima prova di abile camuffamento, quando ha esortato l’Unione Europea a rimuovere quei «dazi interni» che ancora ostacolano il completamento del mercato comune.

La premier ha titillato gli imprenditori invocando un radioso futuro di libertà: rimuovere i lacci e i lacciuoli della normativa europea, per lasciare ai capitalisti tutto lo spazio di manovra che reclamano. Quindi, Meloni ha ricordato uno studio del Fondo monetario internazionale, secondo il quale una burocrazia asfissiante e non armonizzata tra i paesi europei crea costi aggiuntivi che impediscono lo sviluppo dei commerci all’interno dell’Unione.

L’idea della premier, tutt’altro che sottintesa, è che invece di proseguire la guerra commerciale con gli Stati uniti, l’Ue farebbe meglio a mettere ordine nel giardino di casa, cancellando il garbuglio di regole che ostacola lo sviluppo degli scambi all’interno dei confini europei.

Meloni non lo cita espressamente, ma è ben studiato l’implicito richiamo a Mario Draghi e al suo rapporto, che per primo aveva posto il problema politico della rimozione dei «dazi interni» all’Unione europea. In verità, Draghi aveva insistito sul punto per rimarcare la sopraggiunta esigenza di rendersi un po’ più forti e autonomi, anche rispetto al vecchio e ormai poco affidabile alleato atlantico.

Ma nella retorica di Meloni il messaggio di fondo viene ribaltato. La ricetta draghiana viene evocata per indurre l’Europa ad abbassare le armi nella disputa commerciale con gli Stati uniti. L’esortazione è chiara: restiamo vassalli, aderiamo al verbo trumpiano del buy American e pensiamo piuttosto a lavare i panni sporchi in casa. Usare persino Draghi pur di compiacere Trump. Il gioco di maschere meloniano si fa ardimentoso.

Ma è nella politica economica che la mistificazione di Meloni raggiunge forse il suo massimo fulgore. La premier, come è noto, deve il suo successo politico all’esaltazione del capitalismo pulviscolare delle piccole e piccolissime imprese nazionali.

Bottegai, commercianti, partite iva e padroncini hanno sempre rappresentato, per la destra di governo, una irrinunciabile base di consenso. Il guaio è che questo italianissimo capitalismo “dei piccoli” è alquanto inefficiente. La sua sopravvivenza è garantita proprio da quelli che ora si usa definire «dazi interni». Vale a dire, una complicata miscela di sussidi, prebende, aiuti e ostacoli alla concorrenza. Se non fosse per questo coacervo di protezioni statali, larga parte dei piccoli padroni italiani sarebbe già stata spazzata via dall’assalto di imprese più grandi e più solide, molte delle quali provenienti da altri paesi dell’Ue.

In effetti, Draghi e gli altri nemici dei «dazi interni» non hanno mai nascosto questa implicazione. Togliere le barriere legali ai commerci e creare finalmente un vero mercato unico significa favorire una più ferrea competizione tra capitali in Europa.

Con la conseguenza che i pesci più grossi e più forti mangiano i pesci più piccoli e più deboli. In sostanza: pura centralizzazione del capitale nel senso di Marx. Con buona pace della vecchia ideologia italiota del «piccolo è bello».

Quando Meloni gioca a fare la draghiana, si guarda bene dal rivelare che togliere i «dazi interni» significa suonare la campana a morto per buona parte del suo elettorato di riferimento. Non la si può biasimare. In fondo, la platea confindustriale ha plaudito la premier con entusiasmo. I grossi proprietari avranno correttamente pensato: la presidente è finalmente diventata dei nostri. Eppure, lì in mezzo ci sono ancora un bel po’ di rappresentanti del piccolo capitale nazionale.

Nell’accodarsi al giubilo generale non devono aver capito che si invocava il loro funerale.

A quanto pare, le mascherate di Meloni funzionano non soltanto con le classi subalterne ma anche coi piccoli padroni che la osannano. Finché il gioco di finzioni dura, non c’è motivo di smettere.

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