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I coloni israeliani attaccano Taybeh, una città storica della Palestina

Da settimane è aumentato l’attivismo di matrice terroristica degli integralisti israeliani e soprattutto i coloni che vivono negli insediamenti illegali costruiti in Cisgiordania.

Attacchi notturni, incendi alle case, ai prodotti agricoli compresi gli uliveti secolari dei palestinesi.

I coloni accompagnati e protetti dai soldati dell’esercito dello Stato israeliano attaccano villaggi, città palestinesi in tutta la Cisgiordania senza risparmiare nessuno.

Nei giorni scorsi è toccato a varie città e villaggi vicino a Ramallah soprattutto Kufer Malik, Taybeh ed Ein Samia.

A Kufer Malik hanno incendiato case, auto e prodotti agricoli.

Qui si è sviluppato uno scontro con i giovani palestinesi del paese e a termine della giornata sono stati uccisi quattro ragazzi palestinesi.

La società civile e i movimenti politici palestinesi hanno dichiarato proclamato una giornata di sciopero in tutta la provincia di Ramallah.

Contemporaneamente i coloni hanno attaccato la sorgente di acqua chiamata Ein Samia che è situata nella valle della montagna di Ramallah (tra Taybeh e Kufer Malik) che si affaccia alla Valle del Giordano.

Questa sorgente prende il nome dell’antica località romana, si sviluppa su un sopraffaccio di oltre 4 km sul resto di una città romana che si chiamava Aram.

Questa sorgente è molto ricca di acqua di qualità e fornisce acqua potabile a Ramallah ed Al Bireh e a tutti i villaggi attorno.

Una zona ricca di mini-sorgenti dove i romani hanno costruito dei canali per la distribuzione dell’acqua e che sono in uso ancora a tutt’oggi.

I coloni di notte sotto la protezione dei soldati hanno attaccato la sorgente distruggendo tutti i cartelli, le telecamere di controllo indicazioni e rompendo l’acquedotto principale del pozzo numero 2 e 3 che fornisce acqua a centinaia di migliaia di cittadini palestinesi che vivono in decine e decine di città e villaggi della zona.

Qualche giorno fa è toccato alla città di Taybeh che è situata nel cuore della montagna di Ramallah (850 metri sul livello del mare) che è una delle più antiche città dei Cananei e che conserva tutt’oggi la sua eredità religiosa mescolata con la bellezza della sua natura e clima.

Nel suo centro storico si trova la chiesa di San Giorgio (Al Khader) che risale al periodo dei bizantini, considerato il luogo più sacro per la popolazione.

Sul punto più alto si trova un castello costruito ai tempi dei crociati che aveva un ruolo strategico, poi c’è il cimitero bizantino che testimonia la sacralità, importanza storia e strategica nei secoli di questa piccola ma molto importante città della Palestina.

La città è circondata dei campi di olivo e si affaccia alla valle del Giordano dove di notte si può godere una vista panoramica sia di Gerusalemme che della montagna di Al Salt in Giordania.

Oggi Taybeh è l’unica città della Palestina biblica che è rimasta cristiana.

Vivono al suo interno tre comunità e con la loro rispettive chiese e comunità (chiesa Latina – Cattolica, chiesa melchita e quella Ortodossa).

Taybeh è circondata da tanti villaggi musulmani con i quali c’è un rapporto di armonico e di fratellanza unico del suo genere.

Purtroppo, sui suoi terreni anni fa il governo israeliano ha confiscato decine di ettari di terra dove ha costruito un insediamento chiamato Rimunim dove all’inizio hanno vissuto dal 2018 circa 1000 persone.

In aggiunta decine e decine di ettari del territorio agricolo di Taybeh sono stati impiegati alla realizzazione di una strada che collega i vari insediamenti della zona fino a Nablus nel nord e fino a Gerico e la valle del Giordano.

Ultimamente non solo a Taybeh, ma in tutta la zona si è diffuso un altro tipo di insediamento da parte dei coloni chiamato “l’insediamenti pastorale” dove i pastori israeliani prendono possesso di tanti ettari di terra della zona C e liberano centinaia di mucche e tori e costruiscono una capanna dove i pastori vivono e gradualmente mettono le mani su questi terreni trasformandoli in un insediamento nuovo.

Alla periferia di Taybeh, distante circa 3 km dal centro della città verso Gerico, da diverse settimane si è insediato un pastore israeliano con centinaia di mucche.

Nei giorni scorsi i coloni hanno attaccato la periferia del paese dando fuoco ad una casa e alle macchine parcheggiate davanti causando dei danni economici alla cittadinanza oltre il terrore e la paura degli abitanti.

Molti contadini del paese oramai da circa tre anni non riescono a recarsi ai loro campi per raccogliere le olive per paura di essere presi di mira dai coloni.

Infatti, l’anno scorso una coppia di anziani palestinesi di Taybeh è stata aggredita dai coloni causandoli traumi fisici e psicologici.

Centinaia di ettari di terra di Taybeh sono minacciati di essere confiscati da questi coloni sotto la protezione e la complicità dei soldati israeliani.

La paura si mescola con la preoccupazione degli abitanti soprattutto questa paura si intensifica a causa del silenzio internazionale.

La cosa più eclatante è proprio il silenzio da parte dei mass media occidentali in quanto Taybeh ha oltre 10.000 anni di storia e che ospita la più antica comunità cristiana in tutto il mondo rischia di essere un facile obiettivo sia dei coloni che dello stesso Governo israeliano.

Coloro che hanno riportato la questione di Taybeh al mondo esterno sono stati gli attivisti de “La voce ebraica per la pace”.

Non è di meno importanza la questione di Ein Samia che fornisce acqua potabile a decine e decine di città e villaggi palestinesi in tutta la Provincia di Ramallah.

Nessun intervento, nessuna denuncia e nessun interesse nonostante l’attivismo della chiesa e gli enti locali e i vari solleciti del Cardinale di Gerusalemme l’italiano Pierbattista Pizzaballa.

Il mondo civile, religioso, cristiano, laico, musulmano e anche ebraico non deve permettere il rischio di fare scomparire la più antica comunità del mondo cristiano che vive a Taybeh perché rappresenta la testimonianza del punto di vista storico e religioso di tutti.

L’appello è rivolto a tutti ed in primis alla Chiesa cattolica, al Vaticano perché non serve avere le mura e le chiese vuote nel cuore della cristiana Taybeh .

La Palestina, senza fedeli, come diceva don Giuseppe Dossetti “in certi contesti il silenzio può essere interpretato come complicità”.

Taybeh-Efraim è citata anche nei Vangeli, posta su una collina a cono, guarda la valle del Giordano e il Mar Morto, a 16 miglia al nord-est di Gerusalemme e 5 miglia ad est di Bethel.

Taybeh – Efraim – è un villaggio antico citato varie volte nel Vangelo di Giovanni . Gesù andò nel villaggio di Efraim, dopo aver risuscitato Lazzaro, fino alla settimana di Pasqua”. ( Vangelo di Giovanni 11- 54)

Milad Jubran Basir
Laureato in Economia e Commercio presso l'Università degli Studi di Bologna, ha lavorato presso l'Unrwa negli anni ottanta, ha fatto il sindacalista per tanti anni. Si occupa da tanto tempo del tema dell'immigrazione, della vera integrazione e si considera esperto in materia. Ha pubblicato diverse guide/opuscoli anche in diverse lingue tra cui Le Istituzioni e i cittadini e Il Sistema Sanitario Nazionale ai tempi del Covid 19. Si è occupato per tanti anni dei diritti dei lavoratori elaborando materiale informativo. Ha fondato assieme ad altre persone decine di anni fa il periodico Segni e Sogni che veniva pubblicato in cinque lingue. Il rapporto tra l'Occidente e l'Oriente è sempre presente nei suoi pensieri ed articoli; in quest'ottica la questione palestinese occupa un spazio rilevante della sua attività così come il mondo arabo, essendo di origine palestinese. Per circa 10 anni oltre ad essere il presidente ha fatto l'addetto stampa di Federconsumatori di Forlì-Cesena. Svolge anche il ruolo di interprete e traduttore a vari livelli dalla lingua araba alla lingua italiana e viceversa. Da anni iscritto all'ordine dei giornalisti palestinesi, pubblica quasi settimanalmente sui giornali cartacei e on line in lingua araba sui temi sopra citati. Dal 2023 è iscritto all'ordine dei giornalisti dell'Emilia Romagna nell'elenco dei giornalisti stranieri. Dal 2024 è iscritto all'ordine dei giornalisti dell'Emilia Romagna in qualità di giornalista pubblicista.

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Scusate la brutta notizia di domenica, ma devo aggiornarvi sull’ennesimo fatto grave del governo.
La guerra tra Meloni e Crosetto sui nuovi vertici di Leonardo
 
Vogliono eliminare ogni forma di controllo preventivo per le spese militari.
Né la Corte dei Conti, né la Ragioneria dello Stato potranno intervenire e sapere quali spese e con quali tempi vengono fatte, in armi e infrastrutture giudicate strategiche.
A controllare sarà una commissione di magistrati contabili, ma di nomina del ministro della difesa, a composizione segreta.
Quindi non solo butteremo 100 miliardi l’anno, ma non sapremo nemmeno cosa, come e da chi acquisteremo.
Meloni lo dica chiaro: ci stanno portando in guerra?
Fa rabbia se pensiamo a tutti i no ricevuti per aumentare i finanziamenti ai servizi essenziali.
Fa rabbia se pensiamo alle lungaggini per gli aiuti ai agli alluvionati e ai terremotati, o per gli investimenti in sanità.
Stanno distruggendo il futuro.
Daremo battaglia.
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Editoriale Il governo interverrà, non per riportare il sistema nella Costituzione ma per dare una cornice legale alla violazione dei suoi principi

Roma, il Cpr di Ponte Galeria, Ansa Roma, il Cpr di Ponte Galeria – Ansa

Sul trattamento dei migranti e più in generale sulla condizione dello straniero si gioca la resistenza della nostra democrazia.

Partita fondamentale che riguarda tutti nel nostro paese, non alcune centinaia di migliaia di “irregolari”. Ma non c’è consapevolezza della sua importanza, dunque ci avviamo a perderla. Il fatto che la destra usi i “clandestini” come carne da propaganda confonde: un programma illiberale di fondo pare una poco pericolosa incontinenza comunicativa. Il fatto che alla costruzione di un sistema discriminatorio per lo straniero abbiano contribuito diversi governi “democratici” ha narcotizzato le capacità di reazione della sinistra. Troppo poco abbiamo riflettuto sul risultato del quinto referendum.

L’ultima decisione della Corte costituzionale invece di sanare il “vulnus” che pure ha individuato, ha scaricato il compito sui giudici ordinari. Che talvolta possono decidere in un senso – benissimo ieri la giudice di Cagliari – talvolta nel senso opposto.

Ma quello che ha detto la Corte basta a chiarire una volta e per sempre la situazione dei migranti nel nostro paese. “Irregolari” per legge, sono vittime di un sistema di detenzione e trattamento dichiaratamente illegittimo che non rispetta i diritti umani.

Né ci si può fermare all’aspetto formale della censura della Corte: le “regole” che valgono all’interno dei Centri di permanenza per il rimpatrio andrebbero sì stabilite per legge e non lasciate alla discrezione degli apparati di polizia, ma quelle “regole” le conosciamo e le vediamo all’opera: torture, psicofarmaci, suicidi. Dunque il governo interverrà, non per riportare il sistema nella Costituzione ma per dare una cornice legale alla violazione dei suoi principi.

In parlamento Meloni ha detto chiaro e tondo che «non ci possono essere tabù» nemmeno nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Se la difesa dei confini – la manipolatoria missione identitaria della destra – trova ostacolo nelle Carte fondamentali, saranno queste a soccombere. Si sta parlando dei principi superiori, come il divieto di trattamenti inumani e il diritto alla libertà e alla sicurezza – di tutti non “solo” dei migranti. Tanto superiori da essere scolpiti come inattaccabili anche nella nostra Costituzione, argine che però non starà in piedi a lungo una volta accettato che venga messo in discussione e abbattuto per alcuni. Dopo sarà tardi per accorgersene.

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Vanno accolte le suggestioni della lettera di Nadia Urbinati e Carlo Trigilia a Elly Schlein, pubblicata su questo giornale, con l’obiettivo di «riattivare il circuito tra politica e cultura», per costruire un progetto alternativo alle destre. Ma insieme occorre una larga, forte partecipazione

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Stati uniti Per molti americani, forse la maggioranza, il 249mo anniversario passerà invece alla storia come il più infausto dei “4th of July”

La firma del disegno di legge per la finanziaria Usa foto Ap La firma del disegno di legge per la finanziaria Usa – AP

Alla chiusura di questo giornale mancava qualche ora alla cerimonia progettata da Trump per firmare la mega-finanziaria che renderà il paese a sua immagine e somiglianza. E proprio nell’Independence Day, ha disposto il sorvolo della Casa bianca da “splendidi” cacciabombardieri.

Per molti americani, forse la maggioranza, il 249mo anniversario passerà invece alla storia come il più infausto dei “4th of July”.

Per dirne una, non c’era bisogno di esibire l’armamentario per sottolineare la trasformazione degli Stati uniti in regime militare. Quel passaggio è sancito dalla legge che oltre al mastodontico trasferimento di ricchezza dal basso vero l’alto, dota la famigerata Ice, agenzia preposta alla grande deportazione, di un bilancio smisurato (45 miliardi di dollari).

IL NUOVO BUDGET pone l’agenzia migratoria al 16mo posto nella graduatoria degli eserciti mondiali (dopo Canada e prima dell’Italia), risorse decuplicate che permetteranno di dilagare agli scherani mascherati che da un mese seminano il panico sulle strade, e al riparo da giudici e tribunali di porsi ormai come una polizia segreta a disposizione del presidente. Parallelamente viene finanziato (via appalti a privati) un gulag di campi di prigionia progettati all’insegna della crudeltà, secondo il modello dell’alleato salvadoregno.

Preventivamente esentato da responsabilità un Trump plenipotenziario riassume caratteri tipici dello stato totalitario: il culto della personalità che lo sostiene, l’identificazione del sovrano con lo stato e l’immunità dallo stato di diritto.

La “grande meravigliosa” legge finanziaria infatti sancisce infatti anche la fine effettiva della giurisdizione dei tribunali, soprattutto abbinata alla sentenza della Corte suprema che alla vigilia ha sostanzialmente abdicato a ogni controllo del ramo giudiziario sul potere esecutivo (tanto per puntualizzare, ieri i togati hanno dato a Trump facoltà di deportare il primo contingente multinazionale di espulsi nel Sudan del sud).

IL PACCHETTO promette ora di sprigionare davvero a piena forza la carica di violenza a fior di pelle nel paese dopo dieci anni di incitamento trumpiano, e impone una domanda ineludibile sullo stato del diritto costituzionale in una nazione in cui – pur con tutte le lacune – la costituzione ha costituito un pilastro dello stato. Le forze fanatiche e integraliste che animano la coalizione Trump non hanno fatto segreto dell’intenzione di «decostruire lo stato» e questa settimana sono stati assestati colpi forse fatali allo stato sociale e, con un’altra sentenza rivelatrice, quella contro lo ius soli, al cuore dei diritti garantiti dal 14mo emendamento.

Quell’articolo della costituzione estendeva la cittadinanza agli schiavi emancipati dopo la guerra civile e quindi a chiunque nascesse sul suolo nazionale, ma enunciava soprattutto la “equal protection under the law” – la dottrina primaria dei diritti che proteggono il cittadino dai soprusi arbitrari dello Stato. L’emendamento è stato alla base di tutto il moderno progresso civile del paese, dall’emancipazione promulgata da Lincoln alle riforme sindacali e al welfare state di Roosevelt, ai diritti civili sotto Kennedy e Johnson (e Martin Luther King) e a quelli successivi. Anche la caduta di Nixon è stata un esempio paradigmatico del concetto di uguaglianza di fronte alla legge contenuto nell’emendamento.

IL TRIONFO di Trump è di negare ora definitivamente quel teorema e porsi come sovrano incontestato in grado di minacciare di arresto o deportazione avversari, giornalisti e semplici cittadini, di estendere la deportazione ai cittadini naturalizzati (eventualmente anche se candidati a sindaco di New York, come il socialista Zohran Mamdani). La sua trasformazione in autocrate è compiuta e nei mesi a venire, mentre alla sociopatia narcisista si somma la perdita di lucidità, si prefigura un ulteriore deriva verso un “American Mobutu”, tiranno senile più simile a un re, in opposizione al quale la nazione era nata.

Per molti, forse la maggioranza degli americani, si è quindi trattato di un 4 di luglio infausto, celebrato in un America irriconoscibile. E per quei molti si impone ormai ineludibile la domanda di cosa stia producendo questa mutazione genetica fatta di lager coi coccodrilli e polizia segreta in cui lo stato torna a porsi come protettore e persecutore temuto da cittadini alla sua mercé.

AL 250MO ANNO dalla fondazione si affaccia un’America integralista, apocalittica e feroce, che ha un progetto chiaro per l’esportazione attraverso un’internazionale populista, di un modello che adotta prevaricazione e prepotenza come lingua franca di nuovi nazionalismi sovranisti. Lo scorso mese, per dire, ha visto conferenze Cpac (gli stati generali del sovranismo trumpista) in Polonia ed Ungheria.

Agli americani la mutazione è ben chiara. Sembrerebbe esserlo meno per la processione di politici e cariche istituzionali accorse all’ambasciata americana di Roma per dire – nel giorno in cui si inaugurava la “Alcatraz dei coccodrilli” – che questi Usa sono “nazione sorella” che vede il mondo allo stesso modo.

 

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Donald e Bibi Che si tratti di dazi inflitti e poi ritirati in allegra e imprevedibile sequenza, media intimiditi o giudici arrestati, minacce contro banchieri centrali o contro ex “dogi” usurati, criptovalute da spacciare per sé o minerali ucraini da intascare per la patria, ogni singola parola di Trump è uno stress test del perimetro del proprio dominio

Illustrazione Ikon Images Illustrazione Ikon Images

La chiamano bomba a caduta libera leggera, ma di leggero la Mk-82 non ha niente. Pesa 500 libbre (circa 230 chili), è più americana della torta di mele – prodotto orgogliosamente esclusivo di una fabbrica della General Dynamics in Texas – ed è in circolazione dai tempi del Vietnam. E poi le guerre del Golfo, fino ad arrivare a Gaza. Un evergreen di tutte le guerre da quando abbiamo smesso di numerarle, e non per questo sono diminuite.

È questa bomba leggera americana che ha fatto strage sull’internet café del lungomare di Gaza, lanciata dall’esercito israeliano che ne è il più generoso utilizzatore finale mondiale. Migliaia di Mk-82 sono già state consegnate a Tel Aviv, altre migliaia lo saranno dopo un ulteriore approvvigionamento deciso pochi giorni fa. Ogni amministrazione di Washington le ha spedite a Israele, qualche presidente di più e qualche altro di meno. Joe Biden le fermò nel maggio scorso dopo un massacro più efferato della media a Rafah, ma durò un paio di mesi. Donald Trump oggi le invia con impareggiato entusiasmo. Pretende il Nobel per la pace e si candida a broker di un accordo ma gioca per una delle squadre e non potrebbe essere altrimenti.

Trump e Netanyahu sono due facce di un’unica medaglia. L’Onu chiede a paesi e aziende di smettere di essere complici di un genocidio ma se c’è un complice questo è a Washington. La “più potente democrazia mondiale” e la “sola democrazia del Medio oriente” sono saldamente guidate da animali politici simili e complementari, e nessuno dei due sembra annettere grande significato al termine democrazia, che pure era il terreno comune su cui venne costruita una sinergia tra Stati con pochi precedenti nella storia – anche quella militare: dal ’46 a oggi Israele è di gran lunga il principale recipiente dell’assistenza bellica americana, il secondo storicamente è il Vietnam e con tutta la guerra è costato la metà. Trump e Netanyahu fanno dell’erosione delle norme democratiche il proprio codice di esercizio del potere.

Quanto meno le norme democratiche come credevamo di conoscerle, i canoni scritti e non scritti che chiamavamo democrazia liberale – ma dopo questi anni terrificanti dovremo inventare altri termini, aggiornare il vocabolario e forse anche le pratiche, dare significato a questa democrazia o assistere alla sua metamorfosi. Lo faremo, ma non sarà un bel momento. Se c’è un filo conduttore nel comportamento erratico e sfacciatamente irrazionale di Donald Trump è la costante pressione sui limiti che dovrebbero circoscriverne il potere.

Che si tratti di dazi inflitti e poi ritirati in allegra e imprevedibile sequenza, media intimiditi o giudici arrestati, minacce contro banchieri centrali o contro ex “dogi” usurati, criptovalute da spacciare per sé o minerali ucraini da intascare per la patria, ogni singola parola di Trump è uno stress test del perimetro del proprio dominio. Dopo ogni stress test il perimetro cede un po’, il dominio è un po’ più largo, il gioco può ricominciare. Netanyahu fa lo stesso da più tempo, con la stessa base ideologica nazionalista-populista, con identica tensione verso la riproduzione di sé stesso come unico scopo. Uno sfida la sua Corte suprema tutti i giorni e l’altro se ne è nominata una su misura ma lo slancio è il medesimo.

L’indipendenza del potere giudiziario e dei media, le attività dei gruppi della società civile, la libertà delle università e degli artisti, i diritti delle minoranze, le procedure elettorali e quelle legislative, ogni aspetto dei meccanismi della convivenza umana che possa contrastare le scelte di chi usa come una clava l’essere stato eletto dal popolo viene sottoposto a torsioni brutali. Sul sangue di decine di migliaia di palestinesi come sulle vite di decine di migliaia di deportati latinoamericani, fenomeni certamente diversi ma accomunati dall’indicazione del nemico comune. Trump e Netanyahu sono lo spirito del tempo. Ma il tempo è pessimo.

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