Medio oriente Il senso comune è inorridito e reattivo, ma gli anticorpi politici e culturali in grado di neutralizzare il feroce suprematismo ebraico si vanno sempre più indebolendo
Una coppia israeliana osserva gli edifici danneggiati in un villaggio nel Libano meridionale, vicino al confine tra Israele e Libano – Leo Correa /Ap
Ora che il regime siriano di Assad è stato spazzato via con sorprendente rapidità, da milizie fondamentaliste intrecciate con la storia di Al Qaeda e dello stato islamico e con progetti imprevedibili, Israele spinge oltre il confine siriano la sua presenza militare.
Soddisfatto per la caduta di un alleato di Teheran, Netanyahu (che però non ha motivo di fidarsi dei nuovi vicini) coglie l’occasione per muovere ancora un passo verso la grande Israele ed allargare i confini di fatto dello stato ebraico.
Intanto con il venir meno del retroterra siriano e il moltiplicarsi degli «incidenti» appare sempre più chiaro che il cessate il fuoco in Libano non è affatto un primo piccolo passo verso la pace, ma una tregua, una pausa tattica per ridare fiato e slancio alla guerra. Se non addirittura un espediente per allargarla e permettere a Israele di aggredire e invadere l’entità nazionale libanese in quanto tale e nel suo insieme, non facendo più distinzioni tra Hezbollah e il resto dei libanesi, per poi spingersi, nel caso, verso la Siria.
Questa più che probabile evoluzione è del tutto coerente con il fatto che la guerra israeliana non può e non intende finire. Basterebbe ascoltare e prendere sul serio come merita l’estrema destra messianica e spietata che tiene in piedi il governo di Netanyahu, che del resto non ne è così ideologicamente distante, per constatare che l’obiettivo minimo è l’annessione di Gaza, della Cisgiordania e di un pezzo di Libano meridionale. Con relativa espulsione della popolazione araba e palestinese. Quello massimo un’espansione territoriale ancora maggiore e un potere di controllo incontrastato sull’intera regione.
Non desta dunque alcuno stupore il fatto che anche i più blandi e patetici inviti alla prudenza e alla moderazione da parte degli alleati di Tel Aviv siano rimasti sempre inascoltati e che l’appoggio occidentale venga sistematicamente piegato di fatto a questo disegno espansionistico. Il movimento dei coloni e le forze politiche che li rappresentano lo hanno esplicitato ripetutamente senza peraltro nascondere l’estrema violenza prima bellica, poi persecutoria, che sono disposti a dispiegare per conseguirlo.
IN ISRAELE gli anticorpi politici e culturali in grado di neutralizzare questo feroce suprematismo ebraico si vanno sempre più indebolendo. Secondo quel classico schema che a partire dall’emergenza conduce alla riduzione e infine alla sospensione della democrazia. Qualcosa di simile all’istituto della «dittatura», che nell’antica Roma veniva attivato temporaneamente nel momento in cui la Repubblica era ritenuta in pericolo. E che, protraendo più o meno artificiosamente l’eccezione in uno stato di guerra permanente, può anche consolidarsi in una nuova forma di governo.
Innumerevoli sono stati i cambi di regime e le guerre di conquista motivate dalla sicurezza della nazione. Non è forse con l’argomento di una minaccia di ostile accerchiamento occidentale della Russia che Putin ha motivato l’invasione dell’Ucraina e consolidato il suo potere autocratico?
E così la sicurezza di Israele si è trasformata, molto aldilà delle sue effettive esigenze, nella motivazione di una guerra permanente che non aspira a una pace in qualche modo condivisa ma all’annichilimento dell’avversario e a un equilibrio fondato essenzialmente se non solo sulla forza militare.
Guerra permanente che non può più concedersi il lusso della democrazia e men che meno la messa in discussione del comando. E, infatti, le crepe non tardano a mostrarsi: dall’allargarsi dello stato di polizia e della repressione, all’impunità giudiziaria del premier, dagli attacchi alla libertà di stampa alla sospensione di tutti i normali dispositivi di verifica democratica.
INTANTO A GAZA, all’escalation delle parole, che evocano l’apocalisse e tutti i gironi dell’inferno, rispondono l’inazione, l’impotenza e infine la rassegnazione piagnucolosa della comunità internazionale. Nessuno ormai se la sentirebbe di approvare o anche solo di mostrare comprensione per la mostruosa sproporzione della rappresaglia israeliana e la strategia di massacro attuata dall’Idf. Ma non è difficile ravvisare tutti i segni di una crescente assuefazione nella contabilità ritualmente indignata delle vittime indifese e, infine, un atteggiamento di sconsolata rinuncia. Nei media non sono molte le immagini che provengono da Gaza, ancor meno i filmati che abbiamo potuto vedere. Ma quelle che ci vengono mostrate assomigliano assai più alle immagini di un terremoto che a quelle di una guerra. Persone disperate che si aggirano sopra cumuli di macerie, carovane di fuggiaschi e carretti carchi di masserizie che si spostano tra due ali di palazzi interamente crollati, sacchi bianchi o grigi di cadaveri allineati nella polvere ai piedi degli infermieri, soccorritori che scavano tra le macerie. Spariscono invece, o compaiono solo raramente e in miniatura all’ombra di un carro armato, gli autori di questa distruzione. Che ci si mostra piuttosto come una catastrofe naturale o, per chi ci vuole credere, come una nemesi divina. Lo specifico, inconfondibile, feroce volto della guerra, della violenza esercitata con determinazione da esseri umani, che così nitidamente ci trasmettevano gli scatti e i filmati del Vietnam non varcano invece i confini assediati di Gaza.
Eppure è forse solo, fuori dalle letture storiche, su queste infinite tragedie quotidiane, sulla sofferenza subita e su chi la infligge nel momento stesso in cui questo accade, sulle singole vittime e sui singoli carnefici, sulla base di un’etica materiale della contingenza, di un senso comune inorridito e reattivo, che si può giudicare questa guerra, vederne e determinarne la finitezza, combatterne i fautori.
Del resto la traduzione dello scempio di Gaza nelle categorie del diritto da parte della Corte penale internazionale, con l’incriminazione di Netanyahu e Gallant, si è subito infranta contro il muro dei rapporti di forze e il gioco degli interessi sovranazionali. Diversi paesi, che pur aderiscono alla Cpi e si ritengono irreprensibili difensori dei diritti umani, si sono esibiti in grottesche contorsioni pur di disapplicare, nel caso di Israele, le norme sottoscritte, mostrando al tempo stesso di non volerle abiurare. Infine è stata ventilata l’ipotesi di offrire a Israele una via d’uscita, incaricandosi di indagare in proprio sui crimini che il suo esercito avrebbe commesso e su chi li avesse ordinati.
Come concedere alla mafia di procedere a un’indagine imparziale sui suoi interessi e i suoi delitti.
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Autonomia differenziata Aggirata la Consulta. Salvato il lavoro istruttorio svolto fino al 5 dicembre sulla base di norme illegittime
Roberto Calderoli in Senato – foto Ansa
Il governo dà una prima risposta alla sentenza della Corte costituzionale che ha demolito la legge sull’autonomia differenziata, e lo fa con una nuova “calderolata”, una furbizia normativa pensata dal ministro Roberto Calderoli. Nel decreto Milleproroghe approvato ieri sera dal consiglio dei ministri, un articolo mira a salvare il lavoro del Comitato Cassese per la definizione dei Lep, con un nuovo trucco puramente normativo, dopo che la Corte lo aveva privato delle sue basi legali.
La sentenza della Consulta aveva dichiarato illegittime le procedure legislative alla base della macchina voluta dalle destre per definire i Livelli essenziali delle prestazioni. Per aggirare il parlamento, il governo Meloni aveva inserito nella legge di bilancio del 2023 una serie di commi con i quali si attribuiva a una Cabina di regia istituita presso la Presidenza del consiglio il compito di definire i Lep. Questi poi sarebbero stati promulgati attraverso una serie di decreti del presidente del consiglio (Dpcm), vale a dire puri atti amministrativi, sui quali il parlamento non può nemmeno dare un parere. Nel marzo 2023 il governo, sempre con un Dpcm, aveva istituito un Comitato di 61 esperti, guidato dal professore Sabino Cassese: il suo incarico era di fornire una relazione sui Lep sulla base della quale il governo avrebbe emanato i Dpcm. Quindi non solo per la definizione dei livelli che qualificano i diritti sociali, veniva espropriato il parlamento, ma addirittura ci si affidava ai tecnici, con una delegittimazione della politica stessa: anzi una autodelegittimazione del governo delle destre.
Il Comitato Cassese (Clep), come il nostro giornale ha puntualmente raccontato, è stato attraversato da numerose polemiche, cominciate dalle dimissioni di autorevoli membri, fino alle critiche a Cassese allorché nell’autunno dello scorso anno rifiutò di presentarsi in Senato in audizione per riferire il lavoro del Clep. Dulcis in fundo, l’accelerazione per concludere i lavori entro l’anno, nonostante il 14 novembre la Consulta avesse preannunciato la sentenza di bocciatura della legge Calderoli in un comunicato molto chiaro.
Il 5 dicembre è arrivato il dispositivo della sentenza della Corte costituzionale, che ha sbianchettato la maggior parte della legge Calderoli. Tra le parti dichiarate illegittime vi erano tutti i riferimenti normativi che riguardavano la definizione dei Lep, necessari per la devoluzione di una serie di materie e funzioni delicate, come scuola, sanità, ecc. L’illegittimità, spiegavano i giudici della Consulta, dipendevano esattamente dal fatto che il parlamento veniva esautorato su una materia centrale come i diritti sociali, e i relativi Livelli essenziali delle prestazioni. Insomma il lavoro del Clep da quella sentenza non ha più le basi normative per andare avanti. È solo un club di illustri studiosi che fanno accademia.
La “calderolata” del Milleproroghe è allora una “sanatoria” normativa che dà una base giuridica al lavoro del Comitato Cassese a partire dal 5 dicembre, giorno della sentenza della Consulta.
L’articolo del decreto prevede che sia «fatto salvo il lavoro istruttorio e ricognitivo» svolto sulla base delle norme dichiarate illegittime dalla Corte; inoltre «l’attività istruttoria per la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni (Lep) e dei relativi costi e fabbisogni standard, a decorrere dal 5 dicembre 2024 e fino al 31 dicembre 2025, è svolta presso il Dipartimento per gli affari regionali e le autonomie». Insomma Il Comitato potrà concludere i propri lavori, sotto l’ala protettiva di Calderoli. Viene ridata una legittimità normativa, ma quella politica è impossibile.
Commenta (0 Commenti)Siria Il cambio di regime implica la ricostruzione dello stato, della società civile e di quella politica in un Paese ridotto a condominio militare di grandi potenze e di mille fazioni
Unuomo con la bandiera dell'opposizione siriana passa accanto a un poster rimosso del deposto presidente Bashar Assad
Nessuno può uscire indenne da una guerra civile che in Siria ha frantumato il Paese in mille pezzi, con milioni di profughi: oltre 12 milioni di siriani in questi anni hanno dovuto lasciare le loro case, la metà fuggendo fuori dai confini.
PAESI TRA I PIÙ FORTI E RICCHI del mondo arabo in una generazione si sono disintegrati e in Siria il regime è evaporato senza opporre resistenza: un segnale positivo – non ci sono state troppe vittime – ma anche negativo perché significa che lo stato si è dissolto quando lo hanno abbandonato i suoi sponsor principali, Russia, Iran e Hezbollah. Questo significa che il suo esercito non ha combattuto perché sapeva di battersi per un clan, quello degli Assad, e non più per una nazione e uno stato. L’esercito si è liquefatto, come quello iracheno nel 2014 davanti all’Isis, anche prima dell’offensiva dell’Hts e dei suoi alleati filo-turchi: aveva perso motivazione, è stato umiliato da servizi segreti che trattavano i generali come camerieri al servizio del clan al potere.
La Siria è stata ridotta a una scatola vuota, desertificata come i corridoi abbandonati del palazzo di Assad, svalutata come le banconote razziate alla Banca centrale di Damasco.
Un finale triste perché con il regime è stato archiviato per sempre il partito Baath. Fondato in Siria nel dopoguerra da un greco ortodosso, Michel Aflaq, e da un sunnita, Salah Bitar, il partito Baath era nelle mani insanguinate degli Assad mentre quello iracheno di Saddam Hussein era stato sciolto, con l’esercito, dagli Usa. Non restava quasi nulla dell’ideologia socialista e panaraba originaria – che aveva segnato negli anni Sessanta il riscatto dei più poveri di fronte alle strutture feudali – se non il principio della laicità dello stato. Un giorno qualcuno lo ricorderà.
SI PONE QUINDI IL PROBLEMA urgente che abbiamo visto altre volte: il cambio di regime implica la ricostruzione dello stato, della società civile e di quella politica in un Paese già ridotto a una sorta di condominio militare di grandi potenze e di mille fazioni. In realtà è già iniziata una nuova spartizione, perché quella precedente non ha retto.
Israele vuole la sua “fascia di sicurezza” e ha cominciato a prendersi a sud il versante siriano del Golan – non accadeva dal 1973 – e a bombardare ogni bersaglio “utile”: prima erano pasdaran iraniani e Hezbollah, adesso caserme, basi aeree e depositi di armi, affermando che non devono cadere in mano a gruppi «ostili». Tra gli ostili non ha nominato Hts, il movimento salafita di Al Julani sponsorizzato dalla Turchia, ma è chiaro cosa pensa lo stato ebraico: la Siria, come l’Iraq, come la Libia – e un giorno forse l’Iran – non deve avere un apparato bellico che possa minimamente minacciarlo.
Israele sta massimizzando la guerra lanciata dopo il 7 ottobre: ha steso al tappeto la mezzaluna sciita, gli Hezbollah vengono martellati ogni giorno nel Sud del Libano, ha sbriciolato con l’attacco del 26 ottobre le difese aeree iraniane. Assad è caduto anche per questo e gli effetti si sentiranno a breve in Libano.
LA CADUTA DI ASSAD ha suscitato reazioni forti in un Paese con una lunga storia di interazioni complesse con il vicino siriano. Politici e leader religiosi libanesi hanno commentato l’evento con dichiarazioni che riflettono non solo i sentimenti legati alla fine del regime siriano ma anche le implicazioni che potrà avere sul futuro. Il Libano con una fragile tregua non è uscito ancora dalla guerra e come in passato può entrare nella centrifuga dei conflitti interni.
La spartizione della Siria coinvolge in pieno la Turchia sponsor dei ribelli jihadisti e non da oggi. Erdogan, come Israele, vuole ampliare la sua “fascia di sicurezza” di almeno 40 km fino alla periferia di Aleppo e puntare verso i curdi che secondo i suoi piani non devono avere uno stato e neppure un’autonomia nel Rojava. Intensi scontri armati sono in corso nel nord della Siria al confine con la Turchia tra le fazioni filo-turche e i rivali curdi. Questi erano anche alleati degli Usa nella lotta al Califfato ma Trump – che già in passato li aveva lasciati alla mercé dei turchi – dice di non volere essere coinvolto. Ma gli Usa, che hanno un contingente in Siria, sono sempre attori di primo piano in Medio Oriente e la Turchia è un Paese Nato mentre Israele è il maggiore alleato degli Usa. Solo uno sprovveduto può pensare di stare in Medio Oriente affacciato a un balcone a guardare gli eventi.
COSA CONTROLLA OGGI Al Julani che ha nominato il nuovo premier Mohammed al Bashir promettendo che le donne non dovranno portare il velo e l’amnistia per i soldati? Una parte importante della Siria, ma lo attendono milizie alauite, druse e quelle dell’Isis, oltre ai curdi. E soprattutto dovrà pagare la cambiale con Erdogan. La Siria ha di fronte sfide proibitive, dal rapporto con le potenze straniere al rientro dei profughi in un Paese dove l’80% vive sotto la soglia di povertà. Il rischio è che i nuovi governanti saranno a capo di una mini-Siria sempre sotto l’incubo di rivalità e spartizioni.
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Sulla via di Damasco Israele, che ha frantumato Hamas e Hezbollah, con l’atomizzazione del mondo arabo vede un traguardo all’orizzonte: il suo affermarsi come unica superpotenza regionale
Un combattente dell'opposizione siriana strappa un dipinto raffigurante il presidente siriano Bashar Assad e il suo defunto padre Hazef Assad all'aeroporto internazionale di Aleppo foto Ghaith Alsayed/Ap
Per i jihadisti anti-Assad, lanciati all’attacco dal loro padrino Erdogan, l’assedio di Damasco è sempre più vicino e si specula già sulla spartizione della Siria tra le milizie e le potenze coinvolte, Turchia, Israele (che occupa il Golan dal 1967), Iran, Russia (tre basi militari), Stati Uniti.
Come se la Siria – dove l’esercito si sta dissolvendo come quello iracheno davanti all’Isis – fosse solo un campo di battaglia e non anche un popolo.
La tragedia dei siriani non si ferma: 300mila profughi in una settimana di avanzata dei jihadisti e di raid aerei russi. La Siria è un Paese di profughi: su 24 milioni 7,2 sono rifugiati interni, 5,5 in altri Paesi (la maggior parte in Turchia, Libano, Giordania e Germania). Il 90% dei siriani vive sotto il livello di povertà, il 47% dei rifugiati è sotto i 18 anni e un terzo non va a scuola. Tutte le cifre sono dell’Unhcr che teme altre ondate di profughi sia nei Paesi vicini che verso l’Europa.
La Siria è una partita geopolitica fondamentale ma si compie sulla pelle di un popolo, come si è già verificato con i destini di altri della regione, dai palestinesi ai curdi agli iracheni. In realtà la Siria come nazione unita e indipendente deve scomparire nella disgregazione del Medio Oriente esplosa con la fine dell’Iraq di Saddam Hussein dovuta all’invasione americana nel 2003, proseguita con al Qaeda e l’Isis, la colonizzazione israeliana della Palestina e ora con la fulminea ascesa dei jihadisti di Hay’at Tahrir al Sham (Hts), teleguidati con droni e satelliti dalla Turchia di Erdogan.
Israele, che ha frantumato Hamas e più che dimezzato Hezbollah, vede un traguardo all’orizzonte: l’atomizzazione del Medio Oriente arabo e il suo affermarsi come unica superpotenza regionale. I colpi assestati a Hezbollah e pasdaran iraniani in Siria e Libano hanno sguarnito le deboli difese di Assad che ora vede un appoggio sempre meno convinto della Russia di Putin, pronto a trattare per le sue basi militari nel Mediterraneo sia con la Turchia che con Israele e gli Stati uniti, come del resto il Cremlino ha fatto sempre in questi anni con Erdogan e Netanyahu. E ovviamente la partita russa è assai condizionata alla guerra in Ucraina.
Al disegno egemonico israeliano manca solo l’Iran, l’ossessione di Netanyahu da vent’anni, che con Trump alla presidenza dal 20 gennaio dovrà affrontare la già sperimentata strategia della «massima pressione». La repubblica islamica, del resto, promette di sostenere Assad ma anch’essa come la Russia non è troppo convincente: in questi anni si è dissanguata spendendo 20 miliardi di dollari per tenere in piedi il regime alauita, la minoranza di Bashar Assad – il cui padre Hafez nel 1979 fu l’unico leader arabo a sostenere la rivoluzione islamica sciita di Khomeini – salita al potere nel 1971.
Teheran, che sta negoziando con Ankara e Mosca, è in grado di tenere le posizioni della Mezzaluna sciita, dall’Iraq alla Siria, dal Libano allo Yemen? L’operazione è complicata e gli iraniani hanno già evacuato dalla Siria in Libano i capi dei pasdaran. L’ammiraglio Tony Radakin, capo delle forze armate britanniche, in un discorso al Royal United Services Institute di Londra, ha rivelato questa settimana che Israele ha usato i suoi F-35 per effettuare gli attacchi del 26 ottobre contro siti militari in tutto l’Iran. «Israele – ha detto – ha usato più di cento aerei e nessuno di questi si è dovuto avvicinare a meno di cento miglia dal bersaglio nella prima ondata, distruggendo quasi l’intero sistema di difesa aerea iraniano e la capacità dell’Iran di produrre missili balistici per almeno un anno».
Gli inglesi se ne intendono perché sono stati i loro aerei da ricognizione dal 7 ottobre a individuare con gli Usa oltre il 70% dei bersagli da colpire a Gaza e in Libano. Questa è una “grande guerra” del Medio Oriente dove per la prima volta si usano in battaglia caccia come gli F-35 con sistemi di bombardamento e intelligence di ultimissima generazione, non disponibili da nessun altro. Un avvertimento non solo agli stati della regione ma anche a Russia e Cina. «Tutto questo non avviene certo per caso, come non è casuale il coinvolgimento di Israele negli eventi in Siria», afferma Alastair Crooke, ex diplomatico britannico e agente del servizio di intelligence all’estero MI6.
La Turchia, come Israele, vede anch’essa vicino il traguardo di abbattere il regime di Assad. Erdogan è stato in passato il principale sostenitore della rivolta armata contro il leader siriano, al punto di usare anche il capo di Hamas a Damasco Khaled Meshal, che arrivò a scatenare una guerra civile tra palestinesi a Yarmouk, nella capitale siriana. Passati 13 anni da quella ribellione, esplosa dopo le proteste antigovernative del 2011 e degenerate in un sanguinoso conflitto, l’escalation può materializzare tre degli obiettivi di Erdogan: ampliare la presenza militare al Nord, spezzando l’unità della Siria, spingere al ritiro le forze curde siriane, in particolare quelle legate al Pkk, alleate degli Usa contro l’Isis, rimpatriare dalla Turchia in Siria oltre tre milioni di profughi siriani.
Cosa aspetta i siriani in caso di caduta del regime? Al Jolani, ex qaidista capo di Hts, con una taglia Usa sulla testa, in un’intervista alla Cnn (con una giornalista velata) ha dichiarato che «il popolo non deve avere paura di un governo islamico» e che le truppe straniere dovranno ritirarsi, senza per altro mai nominare Israele. I siriani – mentre persino l’Isis ha rialzato la testa – sono divisi tra i filo-islamisti che vedono la possibile vittoria della rivoluzione e i laici e le minoranze che temono di finire in un emirato islamico come a Idlib. Il finale, come avrebbe detto il poeta siriano Adonis, è che di questo popolo travolto dal caos rischieremo di raccogliere le ceneri.
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Il re solo Nel suo seguitissimo discorso televisivo il presidente francese Emmanuel Macron ha parlato come un orleanista, cioè come il punto di equilibrio che esclude l’estrema destra e la sinistra. Questo vecchio […]
Nel suo seguitissimo discorso televisivo il presidente francese Emmanuel Macron ha parlato come un orleanista, cioè come il punto di equilibrio che esclude l’estrema destra e la sinistra. Questo vecchio sogno francese può essere compreso da un lettore italiano con Antonio Gramsci il quale, nei Quaderni del carcere, ha parlato di un «cesarismo senza Cesare», cioè di quel regime che non dispone di una grande personalità «eroica» (è difficile, in Francia, che Macron sia giudicato tale), ma capace di trovare una soluzione a una crisi caratterizzata da un equilibrio tra forze politiche in cui non è esclusa una conclusione catastrofica.
Nel suo discorso Macron ha detto che lui pensa all’«interesse generale». Questa categoria ha una storia.
François Guizot, pensatore di riferimento della Monarchia di Luglio (1830-48), oltre che presidente del consiglio per pochi mesi, l’ha usata spesso. Guizot mise in discussione sia il concetto di sovranità affidata a Dio sia quello di sovranità affidata al popolo, opponendosi sia ai sostenitori dell’Ancien Régime che ai repubblicani e ai democratici che vedevano nel 1789 un punto di partenza e non le colonne d’Ercole della politica.
Filosofo piuttosto modesto, lontano dal genio di Hegel, Guizot pensava che il governo fosse l’organo che consegnava la verità alla società. La sua idea di governo, espressione di un sistema elettorale ultra-censuale in cui solo i più ricchi avevano diritto di voto, presupponeva che il potere fosse detenuto da una piccola élite di notabili, gli unici in grado di comprendere l’interesse generale riducendolo così alla difesa dei loro privilegi. Sordo alla volontà del paese di vedere ampliata la base del suffragio elettorale Guizot fu rovesciato dalla rivoluzione del febbraio 1848.
Certo, non siamo più ai tempi di Guizot. Ma la sua idea-guida – quella per cui il popolo è sempre in minoranza – è il cuore del messaggio presidenziale oggi. Macron è l’erede di un liberalismo che pone la ragione dalla parte del potere e mai dalla parte del popolo. Questa spiegazione mi sembra più pertinente di quella psicologizzante che lo presenta come un individuo orgoglioso che si paragona a un Dio dell’Olimpo. Macron è responsabile della crisi attuale e il suo discorso all’indomani del voto di sfiducia del governo Barnier ha dimostrato che si assume questa responsabilità rifiutando qualsiasi mea culpa.
Questa crisi presenta tre aspetti. È strettamente politica. Non è la prima volta nella storia francese che l’Assemblea nazionale si divide in tre gruppi. È già accaduto tra il 1848 e il 1910. Lo hanno ricordato Julia Cagé e Thomas Piketty in Una storia dei conflitti politici (La Nave di Teseo). Oggi la possibilità di trovare una maggioranza di compromesso su alcune questioni importanti è bloccata. Da un lato, l’estrema destra (Rassemblement National) è per la prima volta una «creatrice di Re»; dall’altro lato, la destra e la sinistra sono più divise che mai. Una parte della destra guarda a Le Pen, mentre un’altra guarda al macronismo che ha raccolto l’eredità della destra liberale giscardiana. A sinistra la spaccatura tra la famiglia socialista e la France Insoumise è molto più profonda di quella che esisteva un tempo tra socialisti e comunisti.
La crisi è anche istituzionale: la Quinta Repubblica sembra si stia esaurendo. Macron si sta dimostrando incapace di ergersi al ruolo di arbitro e rimane leader di uno schieramento ormai in minoranza. Le forze politiche pensano, volenti o nolenti, solo alle elezioni presidenziali, chiave di volta dell’architettura istituzionale della Quinta Repubblica, mentre l’urgenza è quella di dare potere al parlamento, almeno per i trenta mesi che ci separano dalla prossima elezione del Capo dello Stato.
Infine, la crisi è sociale. La cosa più grave dell’attuale situazione francese è che questa dimensione fondamentale della crisi passa in secondo piano, assorbita dalla cronaca che a volte si trasforma in una tragicommedia: 51 giorni per trovare un primo ministro a capo di un governo composto da persone totalmente sconosciute al grande pubblico, ad eccezione di pochi. La posta in gioco in questo momento è la direzione che si vuole dare al paese.
Si stanno delineando tre opzioni principali. La prima, guidata da Macron, è quella di un liberalismo duro ed europeista, pronto a fare concessioni sulle questioni sociali all’ideologia lepenista. La scelta di Bruno Retailleau come ministro degli interni e come unico «peso massimo» politico nell’ultimo governo Barnier ne è stata una chiara dimostrazione. La seconda opzione, quella della sinistra, propone misure di giustizia sociale senza abbandonare l’Unione europea e senza cedere ai richiami di Le Pen. La terza opzione è quella di Le Pen di cui si capisce ancora poco perché il suo partito, pur cercando di darsi un’aria di rispettabilità, mantiene una concezione tribunizia della politica, facendosi portavoce di una parte dell’opinione pubblica che teme il declassamento sociale e la perdita di identità della Francia e che vede nell’immigrazione il capro espiatorio da sacrificare per riscattare il paese.
Dietro le palinodie del Capo dello Stato, che ha deplorato con discutibile indignazione il fatto che i deputati socialisti abbiano votato per la censura, dimenticando il ritiro degli elettori di sinistra a favore del suo schieramento nel giugno scorso, sorge una domanda seria: la crisi sarà risolta in parlamento, come dovrebbe essere la norma in una vecchia democrazia come la Francia, o nelle strade, con il rischio di una risposta con la forza da parte di un governo ormai privo di egemonia? In questi casi la miopia e la sordità sono nemici pericolosi in politica.
* Maitre de conférences chez universite de Rouen - Traduzione di Roberto Ciccarelli
Commenta (0 Commenti)Palestina L’elemento cardine è il dolo specifico: la distruzione di un gruppo in tutto o in parte e in quanto tale, indipendentemente da ciò che i membri individuali abbiano fatto
Gaza City, la distruzione lasciata dall’offensiva aerea e terrestre israeliana nella zona di Al Shifa – Ap
A Gaza, il bilancio degli ultimi 14 mesi è catastrofico. Oltre 44mila palestinesi uccisi, tra cui 11mila donne, 17mila bambini, oltre 700 neonati. Più di 900 famiglie cancellate. Oltre 100mila feriti. 10mila sotto le macerie. Migliaia, inclusi adolescenti e bambini, amputati, spesso senza anestesia. Uomini, donne, bambini incarcerati, torturati, a volte vittime di stupro. Una popolazione intera traumatizzata, sfollata molteplici volte. Case, quartieri, città, tutte le università, centinaia tra scuole, chiese, moschee, biblioteche, archivi, campi agricoli, la rete idrica e fognaria: tutto raso al suolo. Nessun bambino a Gaza va a scuola da più di un anno e non vi tornerà presto. Dei 36 ospedali solo 17 rimangono parzialmente funzionanti, sebbene come scheletri nel deserto di macerie, dopo essere stati bombardati, assediati, saccheggiati, i pazienti bruciati vivi al loro interno o nelle tende in cui si erano assiepati in cerca di rifugio.
Una terra straziata, dove non rimane nulla che possa sostenere la vita. Questa è Gaza, dopo oltre un anno di “guerra” in nome di un presunto “diritto all’autodifesa” che Israele continua a rivendicare contro il parere negativo della Corte internazionale di Giustizia, che nel 2004 ha detto e nel 2024 ha ribadito che Israele non può esercitare il diritto all’autodifesa all’interno del territorio che occupa, per altro contro la Carta delle Nazioni unite e il diritto internazionale.
Per 14 mesi, nel mio ruolo di Relatrice Speciale Onu mi sono ritrovata a fare da testimone del genocidio in corso. La distruzione e la sofferenza inflitte al popolo palestinese non risalgono all’ottobre 2023, ma a decenni di occupazione in cui Israele ha sottratto impunemente terra e abitazioni, uccidendo adulti e bambini, arrestando quasi un milione di palestinesi (inclusi 10mila minorenni, una media di 600 all’anno) sulla base di ordini militari persecutori. L’occupazione, che la Corte internazionale ha dichiarato illegale e da smantellare incondizionatamente, è ciò che fa da contesto al genocidio, che genocidio è, nonostante il negazionismo di una parte consistente dei media e della politica occidentale.
Cos’è il genocidio, e perché dobbiamo affermare che Israele ne è responsabile? Come ho concluso nel mio quarto rapporto presentato al Consiglio dei Diritti umani dell’Onu nel marzo scorso, Israele si è macchiato di tre degli atti che costituiscono genocidio come descritti nella Convenzione del 1948: l’uccisione di membri del gruppo, l’inflizione di gravi danni fisici o mentali a membri del gruppo e la deliberata imposizione di condizioni di vita volte a provocare la distruzione fisica del gruppo, in tutto o in parte, in quanto tale. L’elemento cardine è il cosiddetto dolo specifico (mens rea): il perseguimento della distruzione, in tutto o in parte, di un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, in quanto tale (indipendentemente da ciò che i membri individuali del gruppo abbiano fatto o facciano).
Da ottobre 2023, a seguito dell’attacco inflitto da Hamas, Israele ha intensificato la distorsione dei principi cardine del diritto internazionale umanitario, quali i principi di distinzione tra combattenti e civili, di proporzionalità e precauzione in ogni parte dell’azione militare. I palestinesi sono stati sussunti nell’astrazione di categorie quali «scudi umani» (concetto impropriamente applicato all’intera popolazione per giustificare attacchi indiscriminati), espulsioni di massa mascherate come «ordini di evacuazione», gli sfollati concentrati in «zone sicure» (trappole di morte dove sono stati ferocemente bombardati). Strumenti di diritto volti a prevenire il riproporsi delle peggiori ferite della storia sono stati completamente svuotati di significato e, da strumenti atti a proteggere la popolazione civile, sono diventati il mezzo per giustificarne la distruzione. Bisogna smettere di trattare quella a Gaza come una guerra. L’obiettivo di una guerra è sconfiggere militarmente il nemico. Distruggere è l’obiettivo del genocidio le cui vittime sono, diffusamente e precisamente, i civili.
A ottobre, nel mio quinto rapporto, ho mostrato all’Assemblea Generale dell’Onu, la volontà israeliana di distruggere il popolo palestinese, come gruppo in quanto tale. Tramite una triplice lente che guardi olisticamente alla totalità della condotta israeliana in tutto il territorio palestinese occupato (anche la Cisgiordania) e rispetto alla totalità del popolo palestinese in quanto tale, è possibile individuare la volontà di distruzione totale: lo svuotamento del territorio dagli “amalechiti”, evocata per 14 mesi da leader, ufficiali e soldati israeliani coinvolti nell’assalto, per permettere la colonizzazione definitiva della terra di Palestina, che i ministri del gabinetto Netanyahu chiamano eufemisticamente «incoraggiamento alla migrazione».
Negare o invisibilizzare questo obiettivo di lungo periodo significa perdere di vista la matrice di sostituzione coloniale del progetto israeliano sin dal 1948. «Il genocidio come distruzione coloniale» è il titolo del mio ultimo rapporto: ogni processo di colonialismo di insediamento porta con sé un intento genocidario, un seme distruttivo piantato in Palestina dai primi insediamenti israeliani attraverso massacri ed espulsioni, e attualmente in corso a Gaza.
Il genocidio è un crimine diverso dallo sterminio. Si può avere genocidio anche senza uccidere nessuno: quattro su cinque atti di genocidio previsti dalla Convenzione sul Genocidio non prevedono l’uccisione dei membri del gruppo. Ce lo insegnano 500 anni di storia coloniale europea, che l’occidente ha convenientemente rimosso dalla memoria collettiva, ma il sud del mondo e i suoi popoli no. Ed è per questo che Gaza oggi è la cartina di tornasole della giustizia internazionale globale. Se la violenza genocida di Israele non verrà fermata, il futuro del popolo palestinese sarà simile a quello di altri popoli indigeni dove il colonialismo di insediamento ha quasi spazzato via interi gruppi umani: negli Stati uniti, in Canada, in Australia, in Nuova Zelanda.
A riconoscere il genocidio palestinese non sono solo esperti in materia – tra cui William Schabas, il principale accademico mondiale sul tema – e organizzazioni quali Forensic Architecture e Amnesty International, ma la Corte internazionale di Giustizia, che già a gennaio, sulla base di un riconoscimento prima facie del rischio di genocidio a Gaza, ha richiesto a tutti gli stati di porre in essere misure che portassero Israele a fermare una condotta presumibilmente genocidaria. La Convenzione sul Genocidio è chiara: gli Stati sono chiamati non solo a punire il crimine, ma a prevenirlo. In questo tutto l’occidente, e non solo, ha fallito.
L’Italia ha fallito. La nostra Costituzione afferma che l’Italia «si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute». Nel continuare a sostenere Israele, fornendo appoggio economico, politico o militare, l’Italia viene meno non solo ai suoi obblighi internazionali, ma alla Costituzione stessa.
Negare il genocidio – come fatto recentemente dal ministro degli esteri Tajani – considerarlo un argomento di dibattito, oggetto d’opinione personale e non una definizione legale, è il sintomo di un paese che ha sacrificato il popolo palestinese sull’altare della convenienza politica. Quanto meno come misura precauzionale, l’Italia ha l’obbligo di sospendere tutti i suoi rapporti con Israele sino a che non termineranno le indagini sulle violazioni della Convenzione.
La società civile italiana ha dimostrato nell’ultimo anno di condannare ad alta voce il genocidio, l’apartheid e l’occupazione di Israele in Palestina. Tocca ora al nostro governo fare lo stesso, nell’interesse di palestinesi e israeliani, di tutti quelli che quella bellissima e oggi martoriata terra «tra la riva e il mare» chiamano casa. Il momento per agire è ora, il tribunale della storia ci giudicherà.
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