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INTERVISTA ALLO "SPITZENKANDIDAT" DEI SOCIALISTI EUROPEI. Von der Leyen e Meloni da Al Sisi? Un altro regime non democratico a cui si offrono soldi, come già in Tunisia. Ma nella strategia non sono inclusi i nostri valori europei e il rispetto dei diritti umani
Nicolas Schmit, foto Ap Nicolas Schmit - Ap

Incoronato il 2 marzo dal congresso del Partito socialista europeo (Pse) a Roma come Spitzenkandidat, ovvero candidato alla guida del prossimo esecutivo comunitario, Nicolas Schmit è esponente di lunga carriera del Partito socialista del Lussemburgo.

Classe 1953, già ministro del lavoro e poi degli Esteri nel Granducato, eurodeputato nel 2019 e da allora Commissario al Lavoro e agli affari sociali in carica.

A lui si devono due importanti provvedimenti dell’Europa sociale: la direttiva sul salario minimo del 2022 e la legge per la tutela dei lavoratori delle piattaforme (la cosiddetta “direttiva rider”), ora in via di approvazione finale.

Incontriamo Schmit nella sede del Parlamento europeo di Bruxelles a margine della due giorni “My Choice, My Voice” dei giovani socialisti europei a cui ha partecipato anche la segretaria Pd Elly Schlein.

Domenica scorsa la presidente della Commissione Ursula von der Leyen era in Egitto per stringere accordi con il presidente Al Sisi. Al suo fianco, come qualche mese fa in Tunisia, la premier Giorgia Meloni. Se l’esternalizzazione delle frontiere è la strategia migratoria messa in campo dall’Ue, è una buona scelta?

Non mi piace il modello: la presidente accompagnata da vari primi ministri, come era già accaduto in Tunisia. Di nuovo un regime non democratico a cui si offrono soldi. Eppure nella strategia non sono inclusi i nostri valori europei e il rispetto dei diritti umani, che dovrebbero essere garantiti a tutti i profughi.

L’Europa si sta precipitosamente armando per arginare la minaccia russa. Ci siamo proprio dimenticati delle possibili soluzioni diplomatiche?

Non penso che stia correndo verso il conflitto. Dobbiamo essere fermamente al fianco di Kiev, altrimenti il rischio di altre guerre si fa molto più alto. Lei parla di diplomazia, ma si può negoziare solo con chi vuole, e non è certo Putin. Il Cremlino vuole un’Ucraina fantoccio della Russia, non è accettabile. Dobbiamo sostenere Kiev anche per la nostra sicurezza, perché se Putin può vincere la guerra non si fermerà all’Ucraina e arriverà ai Balcani, alla Moldavia e non solo. La diplomazia arriverà quando sarà il momento.

Arrivare alla fine del conflitto a Gaza è una necessità. Come facciamo?

Dobbiamo aumentare la pressione su Israele. Questo governo è di estrema destra, anche gli Usa hanno problemi con loro. Netanyahu non ascolta nessuno ma quello che sta succedendo nella Striscia è – parola perfino debole – inaccettabile. Non parliamo più solo dei bombardamenti, ma di persone che muoiono di fame per colpa delle autorità israeliane che bloccano gli aiuti umanitari alla frontiera. Tel Aviv agisce oltre ogni regola internazionale e perfino contro l’interesse del popolo e dello Stato di Israele.

Il Consiglio europeo di questa settimana ha in agenda, anche su spinta del governo Meloni, il tema delle politiche agricole. Come si risolve il rebus: ascoltare le richieste del mondo rurale ma non buttare via il Green Deal?

Gli agricoltori sono le prime vittime del cambiamento climatico. La siccità in Catalogna o in Sicilia, le inondazioni che rovinano i raccolti, i roghi che mangiano ogni cosa sono esempi di come non possiamo contrapporre la transizione ecologica alla sopravvivenza della buona agricoltura europea. I problemi del mondo rurale non possono essere realmente legati al Green Deal, dato che non è ancora stato implementato. Il problema è nei loro guadagni troppo bassi e per superarlo dobbiamo certamente rivedere e mettere a punto alcune politiche europee in materia.

Lei è commissario in carica al lavoro della Commissione Von der Leyen e al tempo stesso candidato per i socialisti. Pensa di dimettersi in vista delle elezioni di giugno?

La decisione è già presa: non lascerò il mio posto ma separerò nettamente l’attività istituzionale da quella elettorale. D’altronde lo stesso vale anche per la presidente della Commissione, che resta in carica anche per evitare che si crei un vuoto di potere a Bruxelles

 
 
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MACRON E VON DER LEYEN. Democrazia corre il rischio di diventare il nome delle buone intenzioni che i governanti vogliono farci credere di avere. Guardo l’espressione compiaciuta di Ursula von der Leyen affiancata dal presidente […]
L’Europa tra bullismo e tiranni Ursula von der Leyen e il presidente egiziano Abdel Fattah El-Sisi

Democrazia corre il rischio di diventare il nome delle buone intenzioni che i governanti vogliono farci credere di avere. Guardo l’espressione compiaciuta di Ursula von der Leyen affiancata dal presidente egiziano Abdel Fattah El-Sisi, soddisfatto come se avesse vinto la lotteria, e mi torna in mente questo avvertimento, letto in un libro di John Dunn dei primi anni Novanta, quando sembrava che tutti fossero destinati, prima o poi, a vivere in un paese la cui forma di governo poteva dirsi democratica. Oggi il trionfalismo di quegli anni sembra appartenere a un’epoca lontana, ma fa rabbia pensare, almeno per chi già c’era a quei tempi, quanto avremmo fatto meglio a prendere sul serio gli avvertimenti di Dunn.

Invocare la democrazia per i nemici e condonare l’autoritarismo degli amici non è certo una novità, come hanno scoperto a proprie spese tanti paesi di quello che oggi chiamiamo «il sud del mondo» nel corso della guerra fredda. L’attuale presidente egiziano non è che l’ultimo di una lunga serie di autocrati che esemplificano quello che un presidente Usa che aveva il dono della sintesi chiamava our son of a bitch. Franklin D. Roosevelt era Democratico, non Repubblicano, ma ragionava come il capo dello Stato di una potenza imperiale.

In questo la sua posizione non era diversa da quella di tanti capi di Stato europei che prima di lui avevano tentato di far quadrare il bilancio morale di un regime democratico che difende una posizione di dominio o di egemonia sul piano internazionale.

Colpisce che oggi a avere lo stesso atteggiamento sia la responsabile dell’Unione europea, un’entità politica che ha costruito la propria legittimità sull’idea che i valori democratici fossero una conquista di civiltà. Un’idea su cui si è basata la promessa di un continente che si sarebbe lasciato definitivamente alle spalle l’imperialismo e la politica di potenza che avevano condotto a due guerre sanguinosissime e allo sterminio degli ebrei in nome della «purezza razziale».

Domenica al Cairo quella promessa è stata tradita, e non per la prima volta, in nome della difesa dei confini del «giardino» europeo.
Mi rendo conto che questo giudizio appare ingenuo agli occhi dei tanti realisti che oggi si danno da fare per difendere la tesi che l’Europa unita è, di fatto, una potenza che non può sottrarsi alla dura logica del conflitto che deriva da interessi incompatibili. L’Europa deve armarsi, ci dicono questi realisti, e prepararsi alla guerra, se necessario, per proteggere la propria sicurezza da altre potenze come la Russia, o domani la Cina, che hanno mire espansioniste. Questo imperativo strategico ci impone di non guardare tanto per il sottile, anche perché sappiamo di non poter contare più come un tempo sulla protezione degli Stati uniti, che da anni, e non solo durante la presidenza Trump, guardano al fronte del Pacifico come quello cruciale per i propri interessi nazionali.

Sono sufficientemente realista da prendere queste preoccupazioni sul serio, ma è proprio il mio realismo a alimentare il dubbio che non sia una realpolitik maldestra e venata di arroganza a metterci al sicuro dalle minacce.
Un esempio di come una postura bellicosa sia del tutto insufficiente a tutelare la sicurezza europea lo abbiamo avuto nei giorni scorsi nelle dichiarazioni di Emmanuel Macron che, da un lato ha lasciato intendere che la Francia potrebbe intervenire, in una qualche forma in verità poco chiara, nel conflitto tra Russia e Ucraina, e poi ha aggiunto che la sua dichiarazione era un esercizio di «ambiguità strategica» necessario per scopi di deterrenza.

Una situazione che ricorda quelle baruffe di paese in cui uno dei litiganti strepita e minaccia sfracelli contro l’avversario urlando «tenetemi» agli astanti. Un gioco pericolosissimo se, come accade talvolta, nessuno ti trattiene.
L’Europa a guida centrista di questi anni trasmette a chi la osserva, a Mosca o a Pechino, la stessa impressione. Un ometto spaventato da un bullo che sa bene di non essere in grado di affrontare.
Per essere forti le democrazie non possono basarsi solo sull’aumento delle spese militari. Devono far leva, come sono state in grado di fare quando hanno affrontato il fascismo e il nazismo, sui propri principi e sulle promesse che li esprimono: l’eguale libertà e la prospettiva di una vita decente per tutti i propri cittadini.

C’è poco da sorprendersi se persone spaventate per il proprio futuro, messo a rischio da politiche economiche di austerità che hanno eroso la sicurezza sociale e i diritti di cittadinanza, guardano con diffidenza al nuovo interventismo di leader centristi che inseguono la destra (sotto questo profilo l’attivismo di Giorgia Meloni fianco a fianco di von der Leyen e Macron dovrebbe far riflettere). Un’Europa ripiegata su se stessa, ossessionata dalla difesa dei propri confini da poche decine di migliaia di disperati che lascia morire di sete e di fame su un barcone, o lascia alla mercé degli sgherri di governi autocratici, non può avere la credibilità per farsi rispettare dai propri avversari e amare dai propri cittadini.

 
 
 
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IL «TRIANGOLO DI WEIMAR». L’agenda del riarmo, correndo sul filo del si vis pacem para bellum, trova facili apologeti, sempre pronti ad irridere i cosiddetti pacifinti. Fra fra i problemi c’è come la teoria della guerra pare avere buon gioco nel raccontarsi teoria della pace

Macron e Scholz in un vertice del 2022, foto Ap Macron e Scholz in un vertice del 2022 - Ap

«Caro Antonio, noi non siamo in guerra con la Russia». Inizia così il messaggio di Emmanuel Macron, che però subito aggiunge che «è necessario non porsi limiti davanti a un nemico che non se ne pone alcuno».

L’Antonio in questione non è il ministro degli esteri Tajani – che ieri ha scandito la propria distanza da Parigi, sottolineando come per l’Italia la guerra resti fuori dall’Europa. Antonio è un ragazzino francese che, con comprensibile apprensione, si è rivolto a Macron per sapere se verranno inviati soldati in Ucraina.

Lo scambio avviene mentre a Berlino il cosiddetto Triangolo di Weimar (Macron, il cancelliere tedesco Scholz e il premier polacco Donald Tusk) ha sbloccato, inter alia, la fornitura di missili a lungo raggio agli ucraini, le cui città continuano ad essere insanguinate dai russi.

Ancora mancano dettagli, ma si tratta verosimilmente dei tedeschi Taurus, ritenuti capaci di colpire con precisione i centri di comando, penetrando bunker e fortificazioni.

L’annuncio collettivo sottintende il superamento delle polemiche fra Parigi e Berlino, che hanno visto i tedeschi risentiti per l’esiguità del contributo materiale della Francia alla difesa ucraina e per le frasi di Macron sull’invio di truppe quale antidoto alla vigliaccheria.

Una decisione comune, che mira certo a «fornire i mezzi perché la Russia non vinca», ma che parla anche di schieramenti politici in un’Europa che si prepara alle

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COMMENTI. Il consenso a fisarmonica dei 5 Stelle è un problema. Ma, dopo l’Abruzzo, il Pd al 20% concentrato nella rappresentanza dei settori sociali medio alti non può essere da solo la soluzione

 

Il voto in Abruzzo ha avuto almeno il merito di archiviare, fino al prossimo accidente positivo, il culto, consolatorio o inebriante, del «vento»: a settembre 2022, c’era un vento di destra in Italia; poi, il vento di destra era ovunque; anzi no, in Spagna si ferma; in Sardegna, finalmente, cambia direzione. Emergono, così, gli ostacoli strutturali lungo la strada per arrivare ad una coalizione progressista credibile, quindi competitiva, l’unica opzione politica possibile per dare forza di governo ad un programma di dignità del lavoro, giustizia sociale, conversione ambientale e, prima di tutto, pace.

Il primo ostacolo è annoso, diffuso in tutte le democrazie mature ed oltre: la lontananza dei partiti della sinistra storica, in tutte le sue declinazioni, dalle fasce popolari. Il secondo è relativamente recente, presente a macchia di leopardo in giro per l’Europa, significativo in Italia: nel voto amministrativo, il restringimento del consenso delle periferie sociali al M5S, il soggetto che, sin dal suo esordio, ne ha intercettato nel voto politico, in concorrenza alla destra e alla defezione, la rabbia, le paure, la sfiducia incancrenita. Certo, il consenso a fisarmonica al M5S nel voto per i diversi livelli di governo lo registriamo regolarmente a partire dal suo arrivo in parlamento nel 2013. Accomuna i giovani movimenti anti-sistema. In Francia, avviene per La France Insoumise di Melenchon. Ma tali caratteristiche non attenuano la preoccupazione. Sono le due facce della stessa medaglia. Tuttavia, la discussione si è concentrata sul «crollo» del M5S. Come se il primo problema non esistesse e fosse, implicitamente, delegato al M5S il cimento di riportare il «popolo» nell’orbita progressista. Come se un Pd al 20%, concentrato nella rappresentanza dei settori sociali medio-alti fosse un risultato soddisfacente.

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Invece, la sfida impegnativa è per entrambi i principali protagonisti del «campo»: soggetti distinti, irriducibili ad unum. La somma delle forze date, pur necessaria, non è sufficiente, neanche nel voto politico. Il lavoro preliminare da fare, separatamente e insieme, è, nel lessico antico, l’elaborazione di un’analisi di fase condivisa, almeno a grandi linee, per trovare punti d’incontro sulle grandi questioni di fronte a noi.
Siamo da qualche anno, in un’altra stagione dell’umanità. La «fine della Storia» è finita. Il trionfo del modello liberal-democratico a seguito della globalizzazione dei mercati non vi è stato. Anzi, quel modello è archiviato finanche a Washington, nel suo epicentro. Siamo nella stagione della protezione sociale e identitaria. Allora, quale Ue, oltre la favola degli Stati uniti d’Europa e l’autolesionismo del programmato ulteriore allargamento? Oltre le divergenze sull’invio di armi all’Ucraina, quale relazione con il global south, inclusa Russia e Cina, ossia quale ordine internazionale? Quali condizioni ai movimenti di capitali, merci, servizi e persone, anche nel mercato unico europeo, per arrestare la svalutazione del lavoro, il disfacimento delle classi medie, l’esaurimento della vivibilità sulla terra, il rattrappimento delle democrazie? Come governare con realismo i flussi migratori e intervenire sulle loro cause? Quale intervento pubblico nell’economia? Quale senso di comunità nazionale? Come affrontare l’emergenza antropologica? Quale cultura del limite all’utilizzo delle tecnologie e alla sovranità dell’individuo sul versante dei diritti civili?

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Le risposte saranno diverse, ma le domande non possono essere evase. La svolta sarebbe nel riconoscimento reciproco del senso politico delle posizioni dell’altro per arrivare ad un’alleanza espressione di due matrici culturali, non soltanto compatibili, ma «contaminate», in grado di attrezzare tutti ad allargare la rappresentanza di quelle fasce popolari oggi auto-esiliatosi nell’astensione attiva o affidatesi, spesso per disperazione, alle destre. Poi, ciascuno dei protagonisti ha compiti specifici da svolgere, sul piano del consolidamento o della ridefinizione della cultura politica, della forma partito, della selezione e formazione di classi dirigenti adeguate.
È un cammino difficile, ma gli ostacoli non si possono aggirare. Non vi sono scorciatoie

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 (Foto di Leopoldo Salmaso)

L’11 marzo è iniziato il mese del Ramadan, che è il nono mese dell’anno lunare musulmano. Il calendario islamico non inizia con la nascita di Gesù Cristo, ma con l’Higira, l’anno in cui il profeta Mohammed (Maometto) lasciò la città di Mecca verso Medina, per predicare e professare l’islam in altre città e villaggi della penisola arabica. In realtà si tratta del mese in cui il Profeta Mohammed ha ricevuto la rivelazione del libro sacro dell’Islam. Ovvero il Corano.  Ramadan è il mese sacro per il mondo musulmano.

È un mese dedicato al digiuno: “mangiate e bevete finché, all’alba, possiate distinguere il filo bianco (primissimo albore del mattino) dal filo nero (il buio della notte)”. Questo mese è dedicato anche alla preghiera, alla meditazione, è un mese di condivisione e di unione.

Il digiuno (al Sawm) è uno dei cinque pilastri dell’Islam, gli altri pilastri sono: la professione di fede, la preghiera che si fa cinque volte al giorno (all’Alba, a mezzogiorno, nel pomeriggio, al tramonto e alla sera), l’elemosina e il pellegrinaggio alla Mecca.

Il digiuno è un obbligo per tutti i fedeli adulti e sani. Dalle prime luci dell’alba fino al tramonto non possono mangiare, bere, fumare, praticare sesso e non solo questo; il digiuno in generale comprende anche l’astenersi dai comportamenti ingiusti, scorretti, ingenerosi e quindi è un mese di purificazione del corpo e dell’anima. Durante questo mese sacro i fedeli si sentono più vicini a Dio, il digiuno permette loro di provare il senso della fratellanza, della condivisione, ma anche il senso della povertà.

Sono esentate dall’obbligo del digiuno vaste categorie di fedeli: i malati, i minori, gli anziani, le donne in stato di gravidanza, quelle che allattano, le donne durante il ciclo, chi è in viaggio, chi è in guerra. Come si vede, vi è una flessibilità molto palese e concreta.

Al tramonto viene interrotto il digiuno con l’iftar, la rottura del digiuno, che spesso si fa in modo collettivo, per condividere con gli altri questo momento così importante. Spesso si invitano parenti, amici, conoscenti e persone meno abbienti per festeggiare e condividere assieme l’iftar e per recitare le preghiere serali (Al Tarawih).

Questo mese viene celebrato da quasi due miliardi di persone sparse in tutto il mondo e non solo nel mondo arabo ed islamico, il mese  unisce due miliardi di persone che hanno tradizioni, culture e usanze diverse. Soprattutto unisce due mondi antagonisti tra di loro: il mondo sunnita collegato prevalentemente al mondo arabo e il mondo sciita legato all’Iran.

Durante questo mese i fedeli si scambiano gli auguri dicendo “Ramadan Mubarak”, che significa Ramdan bendetto, oppure “Ramdan Kareem” cioè generoso e la risposta è “Allaho Akram” – Dio è il più generoso”.

Il mese di Ramdan dura di solito, come tutti i mesi del calendario lunare, 29 o 30 giorni e all’ultimo giorno tutti i fedeli festeggiano la vigilia dell’Eid Al Fitr con il quale si interrompe il digiuno e si fa festa.

Si vive e si festeggia questo mese sacro da 1445 anni in tutto il mondo e di solito prima dell’inizio del Ramadan si prepara tutto il contesto urbano, illuminazione delle città, dei villaggi, ma anche delle case e dei quartieri, per creare un clima di gioia e di festa. Il Ramadan ha anche il suo cibo, il suo dolce e ogni città e ogni villaggio ha tradizione e costumi propri; per esempio c’è la figura del mussaher , l’uomo che con il suo tamburo gira nei quartieri prima dell’alba per svegliare la gente ed invitarla a consumare un pasto notturno; In altre tradizioni addirittura bussa alle porte delle famiglie per ricordare loro che si sta avvicinando l’alba e devono concludere il Sohur, cioè il pasto notturno.

Quest’anno il Ramadan accade in un momento molto particolare soprattutto per i cittadini palestinesi di Gaza, di Gerusalemme e di Cisgiordania, dove la gente non muore soltanto di bombe, ma purtroppo anche di fame. Molti mezzi di informazioni, a livello globale, hanno intervistato i cittadini palestinesi su come hanno accolto il Ramadan in questa situazione.

Anche io, nel mio piccolo, ho chiesto la stessa cosa a diversi amici/amiche.  Quasi tutti hanno risposto: “avremmo preferito se si fosse ritardato questo mese sacro per un po’ di tempo quest’anno, perché siamo sfollati, affamati, c’è la carestia, ci manca tutto; non c’è nemmeno una moschea dove possiamo pregare in pace”.

Già alla data odierna, i morti e i feriti dalle bombe israeliane hanno superato 105 mila persone, molte di loro sono bambini e donne, questo senza contare i dispersi. Da aggiungere a questo lungo elenco di sofferenza coloro che sono morti letteralmente di fame, per mancanza di cibo, di acqua e di medicinali.

Non vogliamo gli auguri di buon Ramadan da parte di tanti governanti perché, al posto dei loro auguri, preferiamo che mandino cibo, acqua e medicinali ai bambini di Gaza, anziché i rituali e falsi auguri; diciamo a loro: imponete un cessate il fuoco immediatamente; anziché auguri non sinceri vi chiediamo di bloccare le vostre forniture di armi con le quali vengono uccisi i nostri bambini.

Ramadan Kareem a tutt*

 

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CORTE DI GIUSTIZIA UE. Restano validi i provvedimenti con i quali il tribunale di Catania non ha convalidato il trattenimento di alcuni migranti tunisini nel Centro di Modica-Pozzallo

 Getty Images

La Corte di giustizia europea ha deciso di non accogliere la questione d’urgenza sollevata dalla nostra Cassazione: restano validi i provvedimenti con i quali il tribunale di Catania non ha convalidato il trattenimento di alcuni migranti tunisini nel Centro di Modica-Pozzallo. Trattenimento che il questore di Ragusa aveva disposto sulla base del «decreto Cutro» che com’è noto prevede una garanzia finanziaria per evitare il trattenimento.

Non c’era nessuna ragione di urgenza per la decisione della Corte di giustizia, i richiedenti asilo non sono più in stato di detenzione. La vera ragione di urgenza era la necessità del governo Meloni di ottenere prima delle prossime elezioni una sconfessione delle decisioni delle giudici di Catania Apostolico e Cupri. Ma la Corte europea non si è piegata alle esigenze politiche del governo italiano. Per la sentenza dei giudici di Lussemburgo si dovrà attendere almeno un anno. E intanto le decisioni dei giudici di Catania rimangono pienamente efficaci.

Secondo le giudici Apostolico e Cupri, l’articolo 6-bis del decreto legislativo 142/2015, come modificato dal decreto Cutro prevede una garanzia finanziaria la cui prestazione si configura non come misura effettivamente alternativa al trattenimento, ma come un requisito imposto al richiedente asilo, proveniente da un «paese terzo sicuro», per evitare il trattenimento amministrativo, requisito che nella pratica non si potrebbe mai adempiere.

In questo modo, in contrasto con la vigente direttiva europea in materia di procedure di asilo, il trattenimento amministrativo dei richiedenti asilo avrebbe carattere generalizzato.

La Cassazione chiedeva ai giudici di Lussemburgo se gli articoli 8 e 9 della direttiva 2013/33 risultassero ostativi rispetto a una normativa di diritto interno che contempli quale misura alternativa al trattenimento del richiedente (che non abbia consegnato il passaporto o altro documento equipollente e che non possa provvedere alle proprie necessità), la prestazione di una garanzia finanziaria di ammontare stabilito in misura fissa anziché in misura variabile, «senza consentire alcun adattamento dell’importo alla situazione individuale del richiedente, né la possibilità di costituire la garanzia stessa mediante l’intervento di terzi».

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In realtà la Corte di Cassazione avrebbe già potuto decidere sulla legittimità dei provvedimenti del questore di Ragusa, sotto il profilo delle carenze di motivazione, rilevate dai giudici del Tribunale di Catania, ma aveva preferito rimettere alla Corte di Lussemburgo la complessiva questione dell’incompatibilità della disciplina sul trattenimento derivante dal decreto Cutro, con la normativa dettata dall’Unione europea.

Con questo rinvio alla procedura ordinaria da parte della Corte di Giustizia, rimane assai incerta l’applicazione del Protocollo Italia-Albania che si basa sulle «procedure accelerate in frontiera» e sul trattenimento amministrativo generalizzato per coloro che «provengono da paesi terzi sicuri». Non si vede davvero quale «garanzia finanziaria» potrebbero offrire le persone migranti soccorse in acque internazionali e deportate in Albania.

Si può attendere su tempi più lunghi un esercizio imparziale della giurisdizione, magari un intervento della Corte Costituzionale, sulle misure di trattenimento nelle procedure di asilo applicate in frontiera.

A meno che il governo non ricorra all’ennesimo decreto legge «sicurezza», ancora una volta in violazione del sistema gerarchico delle fonti imposto dalla Costituzione (all’articolo 117). In giorni nei quali sembra smarrito il valore della vita umana, dal genocidio in Palestina fino alle ricorrenti stragi di Stato nelle acque del Mediterraneo, il rispetto delle regole formali stabilite a livello europeo, a garanzia della libertà personale di chi fugge in cerca di protezione, e del diritto di asilo, costituisce un banco di prova per le residue possibilità di sopravvivenza delle democrazie europee, sempre più orientate, in vista delle prossime scadenze elettorali, a negare non solo i diritti ma la stessa presenza dei richiedenti asilo, ristretti in spazi considerati ancora al di fuori del territorio statale, se non deportati nei paesi terzi

 

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