Commenti Le virtù salvifiche del più che costoso riarmo europeo sono cieco atto di fede: più che l’incerta difesa comune favorisce la superfetazione degli eserciti nazionali (ricattati sulle quote Nato)
Guerra- Illustrazione A. Martin/Getty Images – Illustrazione A. Martin/Getty Images
Dopo la seconda guerra mondiale gli Stati Uniti hanno dispiegato in Europa un’imponente forza militare non principalmente per difendere i paesi del Vecchio continente e i loro “valori”, ma per arginare e tenere sotto scacco l’Unione sovietica, (del resto pienamente appagata dal controllo sui paesi dell’Est inquadrati nel patto di Varsavia e all’epoca proiettata piuttosto verso il terzo mondo), nonché per esercitare il proprio ruolo di superpotenza globale. Questo dispiegamento garantiva implicitamente una protezione di fatto degli stati europei da aggressioni e sconfinamenti, non senza imporre però controlli, condizionamenti e veti sul quadro politico dell’Europa occidentale.
Le basi americane e l’ombrello nucleare non sono scomparse con l’uscita di scena dell’Unione sovietica perché Washington non ha rinunciato e non rinuncerà mai al suo protagonismo globale e al potere imperiale che gli corrisponde. Può disprezzare l’Europa occidentale quanto vuole, ma non permetterà a nessun altro di mettervi piede. Da perfetto strozzino quale è Donald Trump pretende semplicemente che gli europei paghino salatamente la loro quota a una alleanza con gli Stati uniti che non è in discussione ma non sarà comunque mai alla pari e men che meno di reciproco vantaggio. E l’Europa, con la sua mediocre classe dirigente, mezza azzoppata e mezza opportunista, si precipita a pagare il conto, riempiendosi la bocca di missioni storiche, di orgogliose autonomie, di spiriti guerrieri e di immaginari baluardi dei valori occidentali dai quali sta invece ampiamente abdicando a partire dal diritto di asilo.
Primo tra tutti il presidente Macron, troppo generosamente paragonato dai russi a Napoleone e non al reuccio Luigi Filippo come meriterebbe, che si fa alfiere della futura grandeur militare europea ed offre l’inutile ombrellino nucleare della sua “force de frappe” ai paesi della Ue, mentre Olaf Scholz gli manda a dire che preferisce quello più sostanzioso della Nato. Perché mai la Russia si dovrebbe fermare? Si chiede e ci chiede il presidente francese. E perché no? Tutto è arbitrario, teatrale, indimostrabile e indimostrato. Perché la Russia dovrebbe voler invadere l’Europa? Nessuno è in grado di darne una spiegazione razionale. Dovrebbe essere Mosca a chiarircelo? E perché l’Europa sarebbe in grave pericolo, come sostiene Ursula von del Leyen?
Perché il mondo si è fatto spietato e brutale e noi non dovremmo essere da meno è la risposta di sconcertante vacuità della governance di Bruxelles. Le virtù salvifiche del costosissimo riarmo europeo sono un cieco atto di fede. E si tratta più che della problematica difesa comune di favorire soprattutto la superfetazione degli eserciti nazionali. Non a caso Trump medita di modulare la protezione Nato sulla base delle quote pagate dai singoli stati nazionali membri del club: offresi abbonamento premium alla difesa statunitense. Nella sostanziale inesistenza di un’Europa politica, affetta per di più dalla crescita esponenziale di forze nazionaliste e tendenzialmente antidemocratiche, che costituiscono il vero pericolo per l’Unione, è la peggiore delle strade che si potessero imboccare.
Se all’Eliseo sedesse qualcuno di migliore di un politico arrogante e presuntuoso a caccia del perduto consenso interno non sarebbe stata accantonata la storica e sana avversione francese per il riarmo della Germania, dove per giunta un partito di ultradestra come l’Afd è al 20 per cento dei consensi, non molto lontano dal poter condizionare in un modo o nell’altro la politica di Berlino. Ma, del resto, anche i governicchi borghesi messi in piedi da Macron in Francia sono tenuti per il collo dal Rassemblement national. È alle singole nazioni di questa Europa, per nulla al riparo da derive nazionaliste xenofobe e autoritarie, che dovremmo mettere in mano uno spaventoso arsenale bellico? E cioè ai veri nemici dell’Unione europea, che non mancheranno di sfruttare a proprio vantaggio il malcontento generato dai tagli della spesa sociale a favore dei programmi di riarmo, mobilitando così il risentimento popolare contro l’establishment di Bruxelles.
Qualcuno in pericolo, non nella retorica ma nella sostanza, però c’è davvero. Si tratta ovviamente dell’Ucraina. Il terreno sul quale Mosca non si fermerà spontaneamente e deve dunque essere fermata con un massiccio sostegno a Kiev senza però la pretesa di potere sconfiggere la Russia. Qui regna la confusione più assoluta: Washington tratta con Mosca senza Ucraina e senza Ue; l’Unione europea sostiene Kiev senza trattare con Mosca e mendicando, per ora invano, una interlocuzione con gli Usa. È incerto se mai questi piani riusciranno a incrociarsi e integrarsi. Quel che è certo è invece che dall’indipendenza dell’Ucraina e dal ripristino della sua autodeterminazione democratica non dipenderanno né i destini dell’Occidente, né quelli dell’Europa, ma il benessere degli ucraini e il ripristino di un principio di giustizia internazionale. Che sarebbe già, viste le premesse e la sequela di errori compiuti, un risultato più che sufficiente.
Commenta (0 Commenti)Oggi sciopero e manifestazioni transfemministe in oltre 60 città italiane. Contro la società e l’economia belliche e contro le politiche securitarie, per chiedere diritti, salario, lavoro, casa, welfare. Meloni risponde con un ddl sul femminicidio che istituisce l’ennesimo reato bandiera, punito con l’ergastolo
8 marzo Nell’attuale clima ruggente e belligerante, la scelta di campo di Giorgia Meloni per distinguersi alla vigilia dell’8 marzo, è stata quella di far fronte a «un’altra guerra», quella contro le […]
Nell’attuale clima ruggente e belligerante, la scelta di campo di Giorgia Meloni per distinguersi alla vigilia dell’8 marzo, è stata quella di far fronte a «un’altra guerra», quella contro le donne che lei reputa sia il femminicidio. Ha voluto con forza il ddl antiviolenza che introduce con l’articolo 577-bis il reato secondo cui se una donna viene uccisa in quanto donna la pena arriva all’ergastolo.
Meloni si è detta orgogliosa, in quel suo modo così contundente e al passo coi tempi, per aver dato «una sferzata nella lotta a questa intollerabile piaga». Fino a pochi anni fa impronunciabile, la nominazione del femminicidio in questa forma arriva al codice penale e acquista una nuova rilevanza simbolica. Peccato si tratti dell’ennesimo cortocircuito retorico, utilizzato da un governo ormai collaudato nella risignificazione di punti e passaggi storici, così come di questioni spinose di cui porgono sintesi e soluzioni quantomeno discutibili.
Eppure per contrastare la violenza maschile sulle donne e il suo esito ultimo, ovvero il femminicidio, non serve un pacchetto di misure e sanzioni ulteriori. Nonostante in quella «sferzata» pronunciata da Meloni ci sia tutto lo scintillio dell’elmetto di chi, con tutta evidenza, si rappresenta in trincea. Chissà dove, visto che non si tratta di una guerra, appunto. Non è un fenomeno emergenziale ma sistemico, ha radici storiche e patriarcali profondissime, è inutile presentarlo come un allarme, o peggio una «piaga», perché non è una accezione rispondente.
I centri antiviolenza lo ripetono da anni, che non è un’emergenza; lo dicono i presidi politici costruiti a ribadire i luoghi di libertà, i collettivi e i movimenti, le iniziative e tutto ciò che è un costante lavorio intorno all’antiviolenza. Ma Giorgia Meloni ha delle idee diverse: perché
Leggi tutto: La retorica del governo e i nostri corpi vivi - di Alessandra Pigliaru
Commenta (0 Commenti)Guerre e paci Scompare il diritto; i diritti sono ignorati, neanche più distorti a coprire politiche di potenza; chi osa evocare il diritto è dileggiato e stigmatizzato; la politica è privatizzata
È difficile comprendere il presente, sconvolto da vortici e tornanti, guerre imprescindibili e paci che improvvisamente ne squarciano l’ineluttabilità; genocidio in diretta e migranti che muoiono lungo i confini, nel silenzio indifferente e complice.
È difficile capire, ma pare di scorgere una costante: un potere senza remore, che anzi ostenta – nuda – la sua violenza. Non ha vergogna della sua protervia, ma la rivendica. Non finge di rispettare limiti, ma li infrange con tracotanza. È oltre l’impunità, perché è la legge, una legge che si identifica con la mera forza.
Non vuole nemmeno solo gestire le istituzioni democratiche, ma smantellarle; grida oscenità innanzi al mondo (Trump) o balbetta ipocrite retoriche stantie (i governanti d’Europa), e ha perso il senso del diritto come limite, del diritto teso alla garanzia della dignità umana, del diritto come alternativa alla guerra.
È da rimpiangere il potere che finge di rispettare i diritti e i vincoli del diritto, che occupa le istituzioni democratiche mantenendone la maschera? Forse almeno è un potere che può essere demistificato, al quale si può imputare la violazione; è un potere che si nasconde perché la forza allo stato puro è ancora percepita come un disvalore.
Oggi il diritto, sfibrato da doppi standard, cessa semplicemente di esistere, squalificato, deriso, ignorato; basti pensare alle accuse di antisemitismo rivolte alla Corte internazionale di giustizia o agli inviti rivolti a Netanyahu in totale spregio del mandato di arresto emesso dalla Corte penale internazionale. È un passo oltre verso la barbarie: non solo si valica il limite ma si nega che esista. E il limite rappresentato dal diritto garantisce il rispetto dell’umano: dell’uguaglianza, dei diritti, della pace.
I palestinesi come animali umani, l’osceno filmato di una Gaza resort letteralmente costruita sui resti di un popolo, il vanto per i migranti deportati in catene: è la violenza disumana del potere.
Quale potere? È un potere economico e politico insieme: la collusione tra sfera politica ed economica e l’influenza del potere economico su quello politico sono storia antica, ora si ripresentano in forme che riportano indietro le lancette della storia, al periodo medievale dell’ordinamento patrimoniale-privatistico, come mostra plasticamente la foto dell’insediamento di Trump, circondato dai big del capitalismo digitale.
È una fusione che liquefa il costituzionalismo e il diritto internazionale, e, dopo aver sciolto nell’acido del mantra neoliberista la democrazia sociale, intacca la democrazia nella sua veste minima – e non sufficiente – come liberale. La democrazia scivola nell’autocrazia, in un interregno dove si afferma una classe «unicamente “dominante”, detentrice della pura forza coercitiva» (Gramsci) e le qualificazioni ossimoriche della democrazia, come “democrazia illiberale” e “democrazia plebiscitaria”, assumono le sembianze di un nudo neoliberismo autoritario, una plutocrazia, una tecno-oligarchia, un fascio-liberismo.
Scompare il diritto; i diritti sono ignorati, neanche più distorti a coprire politiche di potenza; chi osa evocare il diritto è dileggiato e stigmatizzato; la politica è privatizzata. Nell’assenza di ogni limite, di ogni considerazione per l’umano, l’unica logica è quella della forza, l’unico futuro che viene prospettato è la guerra.
La normalizzazione del clima bellico, la dicotomia amico-nemico, il “There Is No Alternative”, la deriva autoritaria, la competitività sfrenata di un tecno-capitalismo mai sazio convergono nel sostenere il ritorno del flagello della guerra.
E l’Europa? Le contraddizioni di un’Unione europea votata all’ordoliberismo e di un’Europa che da secoli «non la finisce più di parlare dell’uomo pur massacrandolo dovunque lo incontra, a tutti gli angoli delle stesse sue strade, a tutti gli angoli del mondo» (Fanon), la rendono incapace di sfuggire all’epidemia di cecità che la precipita nella brutalità della guerra come unico orizzonte.
Scendere in piazza, sì, ma non per una Europa, non meglio identificata, ma che in realtà ben si riconosce nei paradigmi neoliberisti e nella sindrome della fortezza. Scendere in piazza per ripartire dall’umano, dall’idea di una libertà sociale che abbia al centro la persona umana, anzi, le persone umane nella loro pluralità, nella loro effettivamente libera emancipazione, personale e collettiva. Scendere in piazza per una politica, e un diritto, che agisca nel segno della trasformazione dell’esistente. È la logica del dominio e della sopraffazione che occorre rovesciare: ovvero è contro la guerra e il capitalismo che è necessario rivoltarsi. Utopia?Iniziamo a pensare possibile ciò che appare impossibile. «Quando sentite che il cielo si sta abbassando troppo, basta spingerlo in su e respirare» (Krenak).
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Intervista Il presidente Arci Walter Massa spiega il senso di non unirsi alla piazza convocata da Michele Serra: «Ma faremo da pontieri. Non servono ulteriori spaccature»
«Lo diceva sempre Tom Benetollo: bisogna scegliere di stare dalla parte giusta». Per spiegare la scelta della sua organizzazione di restare fuori dalla piazza per l’Europa del 15 marzo, Walter Massa, presidente nazionale dell’Arci, fa ricorso ai padri nobili. E a Benetollo, che condusse l’associazione oltre il Novecento all’insegna della rivendicazione dell’autonomia della società. Oggi Massa guida la storica associazione che conta quasi mezzo milione di iscritti e che afferma in un comunicato che la manifestazione convocata da Michele Serra «rischia di trasformare un giusto sentimento in un sostegno incondizionato alle politiche di guerra che l’attuale Commissione d’intesa con gli stati membri sta portando avanti».
Perché avete preso questa decisione?
Pensiamo che soltanto restando fuori possiamo svolgere il nostro ruolo. Siamo gli unici che possono permettere che non ci sia una rottura tra la piazza e il resto. Siamo convinti che dentro quella piazza non saranno tutti guerrafondai così come siamo convinti che fuori da quella piazza non ci saranno tutti i putiniani. E dobbiamo fare da ponte tra queste dimensioni, perché il mondo non finisce il 15 marzo.
Essere pontieri tra diversi è la cosa che vi caratterizza quasi da sempre.
È il nostro lavoro. Pensa a Genova contro il G8, nel 2001, quando manifestammo senza che ci fosse nessuno dei nostri amici storici. Adesso il mondo è cambiato e in questo momento c’è bisogno di dare un segnale.
È stato difficile prendere questa decisione?
Consideriamo che la nostra sia una scelta al servizio del movimento pacifista, che non può permettersi di spaccarsi ancora una volta.
Non c’era altro modo?
Si trattava di scegliere: se esserci con le nostre posizioni o non esserci. Ma in questa epoca di grande caos occorrono tre cose soprattutto: chiarezza delle posizioni, fermezza nei valori e disponibilità a discutere. Cerchiamo di rispettarle tutte e tre.
Dal 16 marzo cosa succederà?
Tutti e tutte, con altre parole potranno ritrovarsi in altre mobilitazioni contro il riarmo, non solo nazionali ma europee. Crediamo che sia sbagliata la posizione secondo la quale l’Europa debba fare quello che gli Stati uniti non vogliono più fare. Senza metterci alla testa di niente, come è il nostro stile, vogliamo mobilitarci in questo senso. E offriamo questo terreno da dopo il 15 marzo.
Una cosa possiamo dire con certezza, dopo anni di combattimenti ai bordi dell’Europa: non è stato quello della guerra il terreno della ricomposizione delle lotte. Eppure la pace lo era stata tante volte. Perché?
Non lo è stato, lo abbiamo verificato sia in Italia che nei rapporti internazionali che abbiamo. Non lo è stato perché la cultura bellicista è tornata ad essere unico strumento possibile per risolvere le questioni, di qualunque natura. E perché il confronto politico troppo spesso è fatto da bolle che ti costringono di stare o da una parte o dall’altra.
Si inaridisce lo spazio pubblico.
C’è anche che dobbiamo recuperare una capacità di analisi. Ad esempio c’è un documento che mi ha fatto scoprire il professor Stefano Zamagni, risale ad anni fa e porta la firma dei nuovi oligarchi digitali. In questo testo si sostiene che la democrazia è ormai un ostacolo allo sviluppo. Dunque, quando il vicepresidente degli Stati uniti va in Germania e incontra solo quelli Afd lo fa perché considera che quello è il grimaldello che fa saltare il sistema.
È quello che negli anni precedenti ha fatto Putin, investendo sulle estreme destre.
Ecco: questo è il mondo dei forti che si mettono d’accordo alle spalle dei deboli.
La vostra gente capirà il senso di questa decisione?
Se dovessi rappresentare con un immagine la scelta che facciamo come Arci lo farei dicendo che non stiamo a questo gioco e mi viene in mente l’appello di Öcalan, che dal carcere dice basta alle armi proprio mentre sta per scoppiare la terza guerra mondiale. Mi riconosco in quella volontà e nel messaggio che ci dà: è che quello il gioco fa far saltare, il piano della guerra.
Crisi ucraina L’economista e analista Jeffrey Sachs al Parlamento europeo: serve una politica estera e, certo, una difesa comune, ma in primis una Costituzione e la memoria della pace per cui era nata
I militari alla cerimonia dell'alzabandiera per l'inizio della decima legislatura di fronte al Parlamento europeo a Strasburgo – foto Ap
Il 19 febbraio scorso Jeffrey Sachs ha tenuto una mirabile conferenza alla sede del Parlamento europeo, nella cornice dell’incontro “The Geopolitics of Peace”, seguita da una batteria di domande – e di risposte capaci di risvegliare il cuore di molti da questo sonnambulismo che sta spingendo l’Europa ad armarsi in ordine sparso e folle, alla guerra contro la Russia.
Vi prego, ascoltate quest’uomo che supplica l’Unione europea di darsi una politica estera indipendente e una difesa comune, certo, ma soprattutto una Costituzione – e la memoria di ciò per cui l’Unione era nata. Che l’invita ad aprire subito, in autonomia, un tavolo di negoziati di pace con la Russia, senza supplicare Trump di essere ammessa al suo commercio. Che vede nella spaventosa confusione fra Unione Europea e Nato, le quali di fatto hanno agito come fossero una cosa sola negli ultimi trent’anni, la tragedia peggiore della nostra storia. Che ripete con dolcezza, con anti-kissingeriana profondità d’amore per l’Europa dell’Est cui appartengono sua moglie, ceca, e i suoi figli e nipoti, la battuta di Kissinger: essere nemici degli Usa è pericoloso, ma esserne amici è fatale”.
Chi è Jeffrey Sachs? Molti lo sanno: economista e analista politico, già consigliere economico di Gorbaciov nel 1990 e 1991 e, prima, della Polonia, il primo paese a instaurare un governo non comunista nel 1989, poi di Leonid Kravchuk, presidente dell’Ucraina, nel 193-94; aiutò a introdurre e stabilizzare la nuova moneta dell’Estonia, fu consulente anche in ex Jugoslavia, Special Advisor all’Onu dai tempi di Khofi Annan e attualmente di Antonio Guterres, già direttore dello Earth Institute for Sustainable Development a Columbia University dove ancora insegna, autore fra l’altro del recente A New Foregn Policy – Beyond American Exceptionalism (2020). Già – qualcuno si chiederà – non era l’uomo che ha rovinato con politiche liberiste di austerità mezza Europa dell’Est oltre ad aprire la via agli oligarchi in Russia?
Nel libro, ma anche nella conferenza, si difende da queste accuse. Cito dal libro. Le misure per l’Unione sovietica prevedevano «una sorta di Piano Marshall che aiutasse Gorbaciov a ricostruire e ammodernare la sua economia in base a principi di mercato…L’Unione Sovietica avrebbe dovuto ricevere un cospicuo finanziamento….mentre attuava le sue riforme politiche e la democratizzazione. Il piano fu rapidamente bocciato dalla Casa Bianca nell’estate del ’91. Gorbaciov fece un fervente e dettagliato appello al G7 di Londra nel luglio del ’91. Quando l’appello fallì, tornò a casa e si trovò il tentato golpe in agosto». Eppure, alla Polonia tutto questo era stato concesso. «Alla Polonia, sì. Alla Russia, niet».
Ascoltate questo discorso, si trova facilmente in rete. Trentasei anni e più di esperienza diretta degli eventi si srotolano davanti a noi, da lasciarci increduli di fronte a questa testimonianza in prima persona dell’«oceano di ferocia e idiozia» (copyright Altiero Spinelli) che ha sommerso il lume acceso da Michail Gorbaciov, da lui definito «il più grande statista dei nostri tempi». Ed è di Gorbaciov l’idea dominante in questa lezione, quindi la cito direttamente dall’ultimo libro dello statista sconfitto, La posta in gioco (2020): «Nella politica mondiale odierna non c’è compito più importante e complicato di quello di ristabilire la fiducia fra la Russia e l’Occidente». E Gorbaciov intendeva in primo luogo l’Europa, che sognava una, libera e democratica da Lisbona a Vladivostock. Questa idea, Sachs l’aggiorna: «L’Occidente collettivo? Non esiste». E come dubitarne, ascoltando le memorie di quest’uomo che ha vissuto in prima persona le angosce e le speranze degli europei dell’Est e dei Paesi baltici. L’unipolarismo statunitense comincia nei primi anni ’90. Dick Cheney e altri ci credevano letteralmente: il mondo è degli US ormai e faremo quello che ci pare. Nel 1997 Brzezinski pubblica La grande scacchiera: il primato americano e i suoi imperativi geostrategici. Non un semplice libro, ma «la descrizione pubblica del progetto americano» per i trent’anni a venire. Brzezinski, «uomo gentile», non aveva capito niente. Credeva impossibile l’alleanza con altre potenze, da parte della Russia, che «ha solo vocazione europea». Per questo il piano era di bloccarla, questa vocazione. Lui «sapeva», come gli strateghi americani «che praticano la teoria dei giochi: non parli all’altra parte. Non ti informi, non discuti. Lo sai».
Chiavi del progetto erano la Georgia e l’Ucraina, ultima Thule dopo l’espansione a Est della Nato (e dell’Unione europea, come fosse la stessa cosa). Alla faccia dell’impegno preso con Gorbaciov in cambio della riunificazione tedesca, non un pollice a est di Berlino. D’altronde, tutto quello che gli Usa sanno dell’Europa viene dal Regno Unito, sorride Sachs. È ancora la dottrina di Lord Palmerston e della guerra di Crimea del 1853. Privare la Russia di status internazionale bloccando l’accesso al Mar Nero. «Da questo punto di vista, nulla cambia da Bush a Clinton a Obama a Trump1 a Biden. Ma è così anche in Kosovo e South Sudan. Progetti americani, non guerre tribali autoctone. Chiunque c’è stato l’ha visto. E lui c’è stato: perfino a Nairobi, più e più volte. E Israele? Risale al primo governo Netanyhau, 1996 la strategia anti-russa in Medio Oriente. Il progetto di annessione dei territori occupati è lì da 25 anni, lo trovate in rete col Clean Brake Report.
Nel 2002 sono gli Stati Uniti a uscire unilateralmente dal Trattato sulla riduzione dei missili balistici, e porre fine al framework per il controllo delle armi nucleari. Dopo l’allargamento alla Nato degli stati baltici e di altri quattro paesi, Romania Bulgaria Slovenia e Slovacchia, nel 2007, a Monaco, Putin dice basta. Ma nel 2008 gli Usa invitano ad entrare nelll’Alleanza atlantica Georgia e Ucraina. Nel 2014 Sachs vola in Ucraina: ascoltate i dati su quanto gli americani avevano pagato per il regime change ai danni di Janukovic. Nel 2022, quando pochi giorni dopo l’inizio dell’invasione russa si profila la possibilità di un negoziato, Sachs vola ad Ankara, per vedere con i propri occhi. È in contatto con i funzionari statunitensi e britannici, parla con tutte le parti. Non è per averlo sentito dire in giro, che ci spiega perché Zelensky abbandona unilateralmente il negoziato, a documento accettato da Putin e Lavrov. Boris Johnson aveva dichiarato in gioco l’egemonia occidentale. Forse un milione fra morti e mutilati di entrambe le parti, per questo.
Jeffrey Sachs si rivolge ai parlamentari europei. La limpidezza del suo pensiero ci rende nativa la lingua in cui lo esprime. Che qualcuno lo ascolti.
Commenta (0 Commenti)L’Europa come fede Per gli agnostici non è facile entrare nel merito delle convinzioni religiose altrui. Si prova un certo imbarazzo, perché ci si rende conto di essere in una posizione difficile: anche […]
Per gli agnostici non è facile entrare nel merito delle convinzioni religiose altrui. Si prova un certo imbarazzo, perché ci si rende conto di essere in una posizione difficile: anche se accompagnato dalle migliori intenzioni, un argomento formulato “da chi sta fuori” può essere facilmente frainteso, esponendo chi lo ha proposto all’accusa di mancanza di rispetto per la fede altrui. Forse qualcosa di simile a questo meccanismo psicologico di estrema cautela può aiutarci a comprendere perché, anche quando ce ne sarebbe un grande bisogno, il dibattito sull’Europa è così povero. Si convocano marce, ma si evitano le discussioni nel merito di scelte politiche dalle conseguenze di grande importanza. L’Europeismo è stata l’unica fede sopravvissuta a un’epoca di profondo disincanto. Una fede difesa dai suoi vescovi e cardinali, la cui parola autorevole può essere ripresa dai pulpiti parrocchiali, ma non discussa come si farebbe in un dibattito laico, e aperto al contributo dei “gentili”.
Per una parte della sinistra italiana dopo la caduta del muro di Berlino, la scelta europeista è stata un conveniente sostituto del comunismo, e anche un modo per darsi una patina di legittimità nel nuovo mondo post guerra fredda, senza passare per le forche Caudine della socialdemocrazia. In fondo, non c’era Delors tra i padri della nuova Europa sociale che stava nascendo? Perché attardarsi su una vecchia cultura socialista che, anche quando aveva accettato il metodo riformista, aveva conservato una sana diffidenza nei confronti del capitalismo (e dei capitalisti), si teneva stretto il rapporto (anche se non sempre facile) col sindacato, e difendeva il welfare universalista come una conquista di civiltà? Nel nuovo catechismo ordoliberale era possibile conservare i benefici di un secolo di lotte del movimento operaio e al tempo stesso arricchirsi, liberandosi anche dalla seccatura della partecipazione politica, perché il mercato funziona come un orologio, e segna sempre l’ora giusta. Al massimo, ogni tanto, deve essere revisionato da un orologiaio di quelli bravi.
Nel vuoto politico che si è creato nel nuovo secolo, rifugiarsi nel conforto della fede è servito a non farsi fuorviare troppo dai cambiamenti che avvenivano nella prassi e sotto la spinta degli eventi. Non che mancassero i segnali preoccupanti e chi li richiamava all’attenzione del pubblico (tra gli altri spiccano i nomi di Ralf Dahrendorf e di Tony Judt). Ma i cardinali non discutono di dottrina con gli scettici, al massimo li ascoltano con garbo nell’ambito di quelle lodevoli istituzioni che sono le “cattedre dei non credenti”. Questa neutralizzazione della critica per custodire la fede dei credenti, anche quando a criticare sono interlocutori non ostili, ha fatto molto male all’Europa negli ultimi anni, in maniera sempre più evidente a partire dalla crisi del debito greco, ed è una delle cause principali (ma accuratamente rimossa dal clero europeista) della violenta reazione nazionalista che ha portato al governo, o nell’anticamera del potere, forze politiche cresciute proprio proponendosi come alternative all’Europa come è diventata (più neoliberale e molto meno sociale).
Alla fine degli anni Novanta, ragionando sulla possibile crisi della futura moneta unica (un tema che era dibattuto tra gli economisti) Timothy Garton Ash scriveva: «Gli euro-ottimisti sperano che questa crisi catalizzerà la liberalizzazione economica, la solidarietà europea e forse anche quei passi di unificazione politica che storicamente hanno preceduto, non seguito, le unioni monetarie di successo. Una paura condivisa delle conseguenze catastrofiche di un fallimento dell’unione monetaria unirà gli europei, come ha fatto in passato la paura condivisa di un nemico esterno comune (mongoli, turchi, sovietici). Ma è un vero e proprio salto di fede dialettico suggerire che una crisi che esacerba le differenze e le tensioni tra i paesi europei sia la strada migliore per unirli». Oggi siamo arrivati proprio dove immaginava Garton Ash: il nemico è alle porte, ci dicono, e dobbiamo fare un altro salto. O meglio, dovremmo marciare per testimoniare la nostra fede, confidando ancora una volta nella provvidenza che ci porterà a riunirci. Se la sinistra vuole sopravvivere, invece, è arrivato il momento di mettere in discussione i dogmi e tornare a ragionare.
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