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Corsa alle armi Per quale Europa scendere in piazza? La domanda può apparire oziosa, considerata la brutalità dei tempi in cui viviamo. Una brutalità, oltretutto, in rapido deterioramento. Eppure, se – come scriveva […]

L’urgenza di un’Europa di pace

 Per quale Europa scendere in piazza? La domanda può apparire oziosa, considerata la brutalità dei tempi in cui viviamo. Una brutalità, oltretutto, in rapido deterioramento. Eppure, se – come scriveva ieri Andrea Fabozzi – vogliamo evitare il rischio di un’iniziativa meramente autoconsolatoria, non si può non chiedersi quale Europa sia quella che immaginiamo debba porsi in alternativa agli Stati uniti di Trump, Vance e Musk.

Non è necessario richiamarsi al Manifesto di Ventotene per guardare all’Europa odierna con un senso di profondo disagio. Quella che abbiamo innanzi è un’Europa che, in tre anni di guerra alle proprie porte, non è stata in grado di articolare il minimo discorso di pace. Non un’iniziativa diplomatica, non un tentativo di individuare una via d’uscita non violenta. Hanno aperto tavoli di trattativa autocrati come Erdogan e bin Salman. L’Europa no. L’Europa si è data per obiettivo la sconfitta militare della Russia, il crollo della sua economia, la fine politica e personale di Putin. E, ora, a guerra persa, non sa reagire diversamente che progettando di armarsi fino ai denti, derogando, per le spese militari, a quelle medesime regole che per le scuole e gli ospedali ha sempre proclamato inderogabili. Con l’aggravante di un riarmo che non varrebbe, nemmeno in prospettiva, a conquistare una reale autonomia strategica, dal momento che sarebbe realizzato in condizioni di completa sudditanza tecnologica nei confronti degli Stati uniti.

Quantomeno – si dirà – l’Europa non ha ceduto sul piano dei valori. Tra l’aggressore e l’aggredito ha scelto senza tentennamenti, dimostrando di saper stare dalla parte giusta. È fin troppo facile replicare che in Medio Oriente l’Europa ha fatto la scelta opposta: dalla parte del carnefice, contro la vittima, sino alla soglia della plausibilità del genocidio. “Dal fiume al mare” è la realtà dei fatti: solo che è la realtà imposta da Israele. Quel che i palestinesi nemmeno possono dire, gli israeliani possono fare. È questa la giustizia dell’Europa? Farsi scudo dei valori quando conviene, ignorarli quando non conviene? I valori o valgono o non valgono. E se non valgono per alcuni, non valgono per nessuno: divengono il velo d’ipocrisia dietro cui nascondere l’interesse.

D’altro canto, gli Stati europei che si ergono a difensori dell’aggredito ucraino non hanno avuto scrupolo a farsi essi stessi aggressori in anni recentissimi: in Iraq, in Afghanistan, in Siria, in Libia. E quando, dopo aver raso al suolo quei Paesi, ampie fasce di popolazioni si sono mosse alla ricerca di una vita decente, l’Europa ha reagito alzando muri e affidando la propria “sicurezza esterna” ad aguzzini e torturatori conclamati.

Ora è in vista la negazione di un diritto umano centrale nell’ordinamento internazionale successivo alla seconda guerra mondiale: il diritto d’asilo, che la Commissione chiede alla Corte di Giustizia di negare senza nemmeno il fastidio di dover cambiare la normativa in materia. Sicuri saranno i Paesi che i governi europei proclameranno tali; e, in attesa di esservi ricondotti, gli esseri umani in fuga dalle persecuzioni saranno detenuti in campi collocati al di fuori dai confini dell’Europa, là dove persino il diritto alla difesa non potrà essere pienamente esercitato.

Quanto alle politiche interne destinate ai cittadini europei, nessun cedimento al dogma della società di mercato è concepibile. Lo Stato dev’essere ridotto ai minimi termini, perché il solo principio d’ordine sociale accettabile è quello della concorrenza economica: sia essa tra persone, aziende o territori. I cittadini sono ridotti a consumatori; e se lotta alla discriminazione vi dev’essere, è sempre per il medesimo motivo: evitare qualsivoglia distorsione alla regola aurea dell’assoluta libertà dei fattori produttivi (merci, servizi, capitali, persone). La moneta – con la connessa sottrazione del suo governo alla politica, e quindi al controllo democratico – rimane il cuore del sistema. Costi quel che costi. Anche la devastazione sociale di un intero Paese, come la tragedia inflitta alla Grecia dovrebbe ricordarci.

È dunque per l’Europa delle armi, dell’ingiustizia internazionale, dei muri, della moneta che dovremmo scendere in piazza? Per l’Europa, cioè, che, promuovendo le disuguaglianze e alimentando la violenza nelle relazioni internazionali, costruisce all’estrema destra neofascista un presente, e un futuro, di trionfi elettorali?

L’urgenza è la pace. Come insegnava Norberto Bobbio, il primo effetto della guerra è la riduzione della democrazia e dei diritti a formule vuote, di cui si può fare a meno. Il momento è drammatico ed è certamente positivo che ce ne sia consapevolezza, ma se davvero vogliamo dare forza alla bandiera dell’Europa, issiamo al suo fianco il vessillo della pace.

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States/Ucraina La rapida trasformazione dell’Ue in una potenza militare non sembra molto più realistica del “piano per la vittoria” sbandierato irresponsabilmente solo poco tempo fa da Zelensky

Trump europeizza la guerra, ma  i nemici sono le destre nazionaliste

Quella geopolitica è una dimensione schematica, ripetitiva e povera di varianti. Con diversi nomi, relativi a luoghi geografici e contesti storici differenti, (come vietnamizzazione, irakizzazione o afghanizzazione) gli Stati Uniti hanno sempre indicato il proprio ritrarsi dai teatri di guerra che avevano imposto, costruito o inglobato, lasciando agli alleati la gestione dell’ultima perdente resistenza, dell’inevitabile crollo e dei suoi costi umani ed economici.

Con il conflitto in Ucraina sta accadendo qualcosa di simile: una “europeizzazione” della guerra con esiti altrettanto drammatici e fallimentari a carico di Kiev e della Unione europea, prima sospinti dagli Stati uniti a una linea che non contemplava soluzioni diverse dalla vittoria militare totale contro Mosca, poi lasciati in prima linea a constatare la patente assurdità di una simile pretesa e trarne le dovute conseguenze. Dopo aver abbandonato tutti quei criteri di prudenza (adottati soprattutto da parte di Berlino) volti a chiarire che la Ue non era in guerra con la Russia, né intendeva disporsi a una simile eventualità.

L’Europa non è certo paragonabile per storia e peso economico ai teatri asiatici e medio orientali nei quali Washington ha applicato questo schema facendo perdere ad altri le guerre che aveva incominciato. Trump aggiunge però in questo nuovo scenario una buona dose di azzardo e di brutalità imperiale ritirando il suo aiuto militare a Kiev e minacciando in prospettiva di lesinarlo anche a un alleato storico come l’Europa. La guerra, in questo caso, è stata voluta e iniziata dalla Russia, l’America l’ha però alimentata e virata a proprio favore fino al voltafaccia filorusso. All’Ucraina e all’Unione europea non resta che il compito di perderla nel miglior modo possibile.

Per l’Europa si tratta di un colpo inatteso, di una realtà quasi inconcepibile, qualcosa di abnorme che mette in questione la stessa autorappresentazione degli europei, da sempre convinti che esista l’Occidente e che questo feticcio politico-culturale sarebbe tramontato tutto insieme o tutto insieme fiorito. L’alleanza “occidentalista” con gli Stati uniti e il processo di costruzione dell’Unione europea avevano inoltre illuso i cittadini d’Europa che il nazionalismo che aveva funestato e insanguinato la storia del Vecchio continente non avrebbe mai più preso il sopravvento. Si è invece aggressivamente riaffacciato sulla scena oltre ad essersi saldamente insediato alla Casa bianca e nel governo di alcuni paesi europei.

La risposta della Ue non è delle migliori. Con grande enfasi retorica, ma badando a non offendere il suscettibile Trump, la presidente della Commissione Ursula von der Leyen dichiara giunta l’«ora dell’Europa» annunciando un gigantesco piano di riarmo da 800 miliardi di euro. Per il rafforzamento militare della Ue saranno attivati fondi comuni, previste deroghe al Patto di stabilità, concessi prestiti, mobilitati i capitali privati. Tutto quello insomma che per l’Europa sociale, per la difesa del clima, per la salute, la ricerca o l’istruzione è stato sdegnosamente escluso.

Tuttavia anche la rapida trasformazione dell’Unione europea in una potenza militare non sembra molto più realistica del “piano per la vittoria” irresponsabilmente sbandierato solo poco tempo fa dal presidente ucraino Zelensky.

L’Europa politica non è mai giunta a compimento, gli interessi economici al suo interno divergono quando non confliggono aspramente come durante la crisi dei debiti sovrani e le sue istituzioni faticano perfino a imporre lo stato di diritto ai paesi membri più inclini all’autoritarismo di regime. Può esistere un esercito comune senza una razionalità politica unitaria che lo governi? E non è forse un pericoloso rovesciamento dell’ordine di priorità conferire all’elemento militare una tardiva funzione fondativa? Il riarmo, tuttavia, fa gola a molti: la spesa militare otterrà le sue risorse con devastanti effetti sul bilancio degli stati (e l’industria bellica le sue commesse) ben prima che gli infiniti problemi della difesa comune europea e del rapporto tra eserciti nazionali e forze armate comunitarie possano essere risolti, semmai lo saranno. Da scommettere c’è solo che sulle bombe e sui missili non graveranno dazi.

L’Europa ha nemici ben più insidiosi e diretti di quelli da cui un esercito, comunque mai all’altezza delle superpotenze nucleari, potrebbe difenderla. Si tratta delle destre nazionaliste che insediate direttamente nei governi, o comunque in grado di condizionarli e ricattarli, avversano da sempre l’evoluzione dell’Europa politica e sociale. Sono queste forze le sponde e gli interlocutori di Putin e di Trump che, ben più realisticamente di un’improbabile invasione dell’armata zarista, lavorano alla disgregazione dell’Unione. C’è in realtà un solo grande movimento europeista che abbiamo visto formarsi nelle ultime settimane: è quello che in Germania ha portato in piazza più di due milioni di persone contro il rischio che l’ultradestra di Afd potesse accedere al potere. È questo il modello che si deve seguire senza nascondere, sventolando la bandiera ucraina, ciò che più direttamente minaccia la democrazia in Europa.

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Forzare il patto di stabilità, usare i fondi russi congelati all’estero, racimolare i soldi non spesi del Pnrr, riformare il mercato dei capitali per la felicità dell’industria bellica. L’Europa accelera sul riarmo per l’Ucraina, mentre Trump rincara la dose: «Resterete soli»

15 marzo Manifestare nel nome dell’Europa e basta, con la sua bandiera e nessun’altra, come hanno chiesto di fare Michele Serra e Repubblica, esprime la nostalgia di un orizzonte perduto ma può funzionare anche da incoraggiamento per chi continua ad allontanarsi da quello

L’Europa non è solo una bandiera

 

C’era la bandiera blu con le dodici stelle gialle quando il parlamento europeo approvava l’uso delle armi dell’Unione in territorio russo. C’era quando Ursula von der Leyen ha cominciato ad accarezzare gli obici nei video di propaganda e a parlare del nostro come di un continente “minacciato ai confini”, bisognoso di una “maxi ricarica” di armamenti.

Faceva da sfondo, quella bandiera, anche alla tesi che le munizioni sono ormai “come i vaccini”, non ancora per fare debito comune ma già per concedere ai paesi membri di indebitarsi oltre i limiti per comprare o fabbricare nuovi missili e cannoni. Non per ospedali o scuole, non per completare il Pnrr.

Era stato impossibile, per decenni, scalfire il rigore sul debito, anche quando l’austerità schiantava la Grecia, deprimeva le economie nazionali e più di tutte quella del nostro paese, favoriva un immenso trasferimento di ricchezza dal lavoro alla rendita finanziaria. E sempre la bandiera blu con le stelle garriva a coprire queste scelte: “Ce lo chiede l’Europa”. Poi la crisi ha gonfiato le destre, le stesse che oggi sono formalmente fuori dalla maggioranza di Bruxelles ma sostanzialmente dentro a condizionare ogni scelta. Nell’Unione come nei singoli stati, non solo in Italia visto che tanto nel governo francese quanto nel programma del prossimo cancellierato anche gli ultra europeisti Macron e Merz hanno spalancato le porte ai sovranisti.

Nel frattempo l’Unione non è riuscita a dire una parola netta contro il genocidio di Gaza ma ha continuato ad armare Israele. E la bandiera europea è cucita sulle divise degli agenti di Frontex quando scatenano i cani contro i migranti ai confini est o collaborano con i trafficanti libici per

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  Il lungo tavolo tra le macerie e le case distrutte di Gaza: le immagini dell’Iftar per il primo giorno di Ramadan

Nonostante la distruzione, il numero delle vittime e la devastazione, nonostante la fragilità della tregua tra Hamas e Israele, da tempo si sente parlare del day after, ovvero Gaza il giorno dopo, da chi sarà governata e in quale modo.
Con l’arrivo di Donald Trump alla Casa Bianca tutte le ipotesi precedentemente circolate sono finite nel nulla.
Il presidente Usa ha lanciato un’idea molto pericolosa non solo per Gaza ma per la sicurezza nazionale dell’intero mondo arabo, per non parlare della causa del popolo palestinese. Pubblicamente quasi tutto il mondo arabo e soprattutto i paesi interessati (l’Egitto e la Giordania)
hanno dichiarato la loro contrarietà al progetto, in primis a deportare i palestinesi. In questi contesti è giusto ricordare: fidarsi bene, non fidarsi è meglio.

L’idea del presidente Trump è un’idea mista di carattere politico ma anche affaristico, perché molti osservatori internazionali mettono in evidenza la recente scoperta dei giacimenti di gas a Gaza che valgono oltre 62 miliardi di dollari, oltre certamente agli aspetti immobiliari.

Il fatto eclatante e molto preoccupante non è la proposta del presidente Usa, che ha provato nel suo mandato precedente a liquidare la causa palestinese, quanto la reazione dell’intera comunità internazionale che si è affidata ai comunicati e alle dichiarazioni a mezzo stampa.
Il mondo arabo e con esso l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (Olp) hanno attraversato vari periodi critici, di spaccatura, di divisione, ma anche di instabilità: basti pensare alle varie guerre con Israele, l’invasione del Libano da parte di Israele, l’invasione e la
distruzione dell’Iraq. Il contesto attuale della regione è completamente diverso e l’equilibrio geopolitico a livello mondiale è in stato di trasformazione, per cui il mondo arabo e l’Olp si trovano ad affrontare scelte complesse per salvaguardare la loro sicurezza nazionale e il diritto del popolo palestinese all’autodeterminazione.

Ciò che è evidente è che si discute di chi potrebbe governare Gaza senza coinvolgere i diretti interessati, ovvero i palestinesi o meglio dire chi li rappresenta, cioè l’Olp in quanto unico e legittimo rappresentante del popolo palestinese. Oggi ci sono voci che si alzano anche in campo palestinese, e non solo, che cercano di mettere in discussione questo riconoscimento e ruolo dell’Olp. A tal proposito vorrei ricordare che l’Olp ha avuto questo riconoscimento e ruolo nella riunione della Lega Araba svoltasi a Rabat in Marocco nel lontano 1974. Una decisione molto importante che ha dato l’opportunità allo stesso Olp non solo di rappresentare e parlare al nome del popolo palestinese, ma anche, come conseguenza di questa decisione, l’Olp ha avuto un seggio in qualità di Osservatore alle Nazioni Unite.

In questi 51 anni l’Olp non solo ha conservato viva la causa ma ha anche stipulato i famosi accordi di Oslo che hanno dato vita all’Autorità Nazionale Palestinese.
Nessuno nega la debolezza attuale dell’Olp, ma questo non autorizza nessuno a creare un soggetto alternativo perché significherebbe pescare nell’acqua torbida.

Prima di parlare del giorno dopo a Gaza sarebbe più coerente e più realistico consolidare la fragile tregua e trasformarla in un cessate il fuoco permanente e fine della guerra, permettendo l’ingresso degli aiuti umanitari per la popolazione. Per poi elaborare un vero ed effettivo percorso con tempi precisi e certi per la nascita dello Stato palestinese, secondo il diritto e la legalità internazionale.
Parlare del giorno dopo a Gaza nei salotti e nelle cancellerie internazionali senza interpellare e coinvolgere i diretti interessati, che stanno lottando da circa cento anni per la loro libertà, non è altro che un’ipocrisia politica.

L’Unione europea sta facendo tutto il possibile per avere un posto al tavolo delle trattative tra gli Usa e la Russia per il processo di pace in Ucraina: come può pretendere questo diritto e contemporaneamente non riconoscere il diritto del popolo palestinese a partecipare
attivamente al giorno dopo? Come intende gestire un territorio così devastato?

Dopo circa cento anni di lotta, con tutto ciò che ha comportato in termini di lutti, devastazioni e distruzioni, il periodo dei mandati, del vecchio e nuovo colonialismo è finito e non può in nessun modo ritornare. Il popolo palestinese è in grado di autogovernarsi da solo, certamente deve superare la questione della divisione interna, che spesso viene strumentalizzata dai soggetti interni ed esterni.

Infine, credo che i movimenti politici palestinesi - quelli laici che fanno parte dell’Olp e quelli di matrice religiosa - abbiano il diritto ed il dovere di trovare un denominatore comune e di essere al livello della loro responsabilità, perché la posta in gioco è la stessa causa
palestinese.

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Luciano Canfora

Professor Canfora, le chiediamo lumi: cosa sta succedendo nel pianeta?

La nuova amministrazione statunitense a guida repubblicana, ed è tutto fuorché una sorpresa, ha ripreso a tessere rapporti con la Russia, mentre l’Europa è talmente slabbrata al suo interno da considerarsi politicamente ininfluente.
Donald Trump è rientrato alla Casa Bianca più esuberante che mai, e non va dimenticato che il presidente Usa è prima di tutto un uomo di affari…
Sta succedendo quello che durante l’amministrazione dei democratici, con Joe Biden presidente, veniva nascosto.
Cioè che la Nato a trazione statunitense aveva deciso tre anni fa di sfasciare la Federazione Russa, così come nel 1999 e nel 2000 l’Alleanza Atlantica aveva sfasciato la Federazione Jugoslava, con un intervento militare di cui fecero parte anche le forze armate italiane. Ma questo
giuoco, costato centinaia di migliaia di vite, enormi sofferenze alla popolazione civile e terribili distruzioni, oggi non conviene agli Stati Uniti. Lo abbiamo capito dal trionfo elettorale di Trump. Non conviene perché è una guerra che non aiuta minimamente l’economia americana,
mentre invece fa comodo ad altre economie che producono armi vendute all’Ucraina. Una situazione che evidentemente era impossibile ritenere durasse a lungo.
Ora si svela il giuoco. La cosiddetta Europa, cioè quella specie di cumulo che è l’insieme dell’Unione europea, oggi si trova a discutere con un muro, avendo portato avanti una politica totalmente stupida, e caricata di una propaganda priva di qualunque fondamento.

L’unica cosa su cui gli Stati europei sembrano essere d’accordo è il riarmo. Lo annuncia il nuovo governo tedesco, ha già iniziato a farlo un’Inghilterra curiosamente tornata europeista in questo ambito, Francia e Italia non vogliono essere da meno. Cosa ne penserebbero Altiero Spinelli e gli stessi Alcide De Gasperi e Konrad Adenauer?

Ora parlano di questo riarmo, poi bisognerà vedere concretamente che cosa saranno capaci di fare nella realtà.
Se si tratta soltanto di produrre armi, lo facciamo da tanto tempo: le vendiamo al Sudan, al Ciad, le vendiamo ai quattro angoli del pianeta per fare soldi sulla morte e sulle sofferenze degli altri. Questo è lo stato delle cose.
Dopodiché, la cosiddetta difesa unica europea non ci sarà mai perché non c’è fra gli Stati un accordo che la renderebbe possibile. Ammesso che riesca a diventarlo, il nuovo cancelliere tedesco Friedrich Merz si illude di avere un ruolo direttivo. Peraltro il suo risultato elettorale non è stato un granché, anzi possiamo dire che è stato pessimo. Il peggiore della Cdu da quando esiste la Cdu.
Però i nostri quotidiani, molto buffi e sempre pronti a travisare la realtà, strillano che Merz è il vincitore delle elezioni. Si arrangino. Nel senso che chiunque creda alla propria propaganda si rovina con le sue stesse mani.
Ora Merz e la sua Cdu-Csu si metterà d’accordo con il cancelliere uscente e sconfitto Olaf Scholz? O con chi lo sostituirà alla guida dei socialdemocratici tedeschi? E’ probabile che Merz ce la farà. Ma questo non basterà certo a imporre agli altri paesi europei di unificare 27 comandi militari in un unico comando. In definitiva stiamo assistendo a tutta una serie di discorsi vuoti da parte di coloro che non si rassegnano alla nuova realtà. Sembra tutto un po’ cialtronesco.

Perfino Mario Draghi, che nel suo rapporto sulla competitività nell’Ue si era illuso che fosse inscalfibile il Patto Atlantico fra Europa e Stati Uniti, ha dovuto ammettere di essersi sbagliato. Che ne pensa, professore?

L’ex presidente della Banca centrale europea e di tante altre cose ha avuto un sussulto di sincerità. Povero Draghi, sarà un esperto economista ma certo non è un politico.
Quando parla di politica, in particolare di quella internazionale, magari può prendere qualche cantonata.
Mi ricordo che insultò il presidente turco Erdogan definendolo senza mezzi termini come un dittatore. Forse Erdogan lo ha perdonato, potrebbe anche essere...

In questo bailamme l’analisi più azzeccata sembra essere quella di Maurizio Landini: il mercato e il profitto si sono fatti Stato negli Usa, vedi le mire sulla Groenlandia, quelle sulla striscia di Gaza per farne un resort cacciando i palestinesi anche da lì, e il cessate il fuoco in Ucraina solo per prendersi le terre rare. Trionfa il capitale e viene sconfitta la democrazia, e con essa i suoi vincoli sociali.

Il capitalismo e la democrazia non sono mai andati d’accordo.
Il segretario generale della Cgil ha perfettamente ragione. Anzi, il capitalismo ha come suo principio la gerarchia, il comando del più forte, di chi ha il capitale.
La democrazia è l’esatto contrario. I nostri media, quelli grossi, che vivono un po’ così, nelle nuvole, ci ripetono in continuazione che il capitalismo e la democrazia sono fratelli siamesi. Sarebbe tempo che cominciassero a svegliarsi.

Lei che riesce a analizzare impeccabilmente la politica contemporanea, da grande esperto della filologia e della politica antica, non ha certo la sfera di cristallo ma la domanda è obbligata: come andrà a finire?

Nella migliore delle ipotesi potremmo arrivare a un nuovo equilibrio mondiale tra le grandi potenze, Stati Uniti, Russia e Cina. Nella peggiore potrebbe invece succedere che, come avviene talvolta negli Stati Uniti, venga ammazzato il presidente. Negli Usa è già successo altre volte,
negli Stati Uniti si fa così. Gli americani dovrebbero presentare un altro presidente, e l’attuale suo vice è detestato dai governicchi europei e di riflesso dai loro media, dato che è venuto a Monaco e ha detto loro alcune verità.
Certo, questa ipotesi di un nuovo presidente sarebbe traumatica e molto grave, ma non è probabile che diventi realtà. Più probabile la prima ipotesi, quella di un nuovo equilibrio mondiale fra i tre più importanti attori dello scenario geopolitico.

Un’ultima domanda: non le sembra che nessuno, proprio nessuno fra i padroni del vapore stia spendendo una sola parola per dire che aveva ragione chi, come Papa Bergoglio, chiedeva quotidianamente di negoziare per evitare la guerra russo-ucraina, così come il terrificante tentativo di genocidio del popolo palestinese ad opera dello stato di Israele?

Nessuno dei governi europei reciterà il mea culpa, non lo faranno mai. Non lo faranno mai semplicemente perché sono pagati per fare il contrario.
Ricoverato da giorni al Policlinico Gemelli, Papa Francesco parla del conflitto russo-ucraino come di “una ricorrenza dolorosa e vergognosa per l’intera umanità”. Una delle tante. Mentre rinnova la sua “vicinanza al martoriato popolo ucraino”, ricorda le vittime di tutti i conflitti armati e invita a pregare per il dono della pace in Palestina, in Israele e in tutto il Medio Oriente, in Myanmar, nel Kivu e in Sudan.

Insomma, il Papa sembra l’unica voce fuori dal coro, per la pace contro la follia della guerra e del riarmo?
Esatto.  E non vorrei pensare che loro sperino che la malattia del Pontefice si aggravi. Mentre noi invece speriamo il contrario.

(26 febbraio 2025)

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Difesa comune La Nato non è riuscita, di fatto, a raggiungere il suo 76° compleanno, che cadrà il 4 aprile prossimo. Lunedì scorso l’amministrazione Trump ha presentato al Consiglio di sicurezza dell’Onu […]

L’Alleanza atlantica è morta, qualcuno dovrà pur dirglielo

 

La Nato non è riuscita, di fatto, a raggiungere il suo 76° compleanno, che cadrà il 4 aprile prossimo. Lunedì scorso l’amministrazione Trump ha presentato al Consiglio di sicurezza dell’Onu una risoluzione che chiedeva una rapida fine del conflitto in Ucraina senza alcun riferimento all’invasione russa o all’integrità territoriale di quest’ultima. Dopo varie schermaglie, con la bocciatura degli emendamenti proposti da Francia, Slovenia, Grecia, Danimarca e Regno unito, il documento è stato approvato con i voti di Stati uniti, Russia e altri otto paesi mentre Parigi e Londra si sono astenute. In altre parole, sulla guerra in Ucraina gli Stati uniti hanno votato assieme a Vladimir Putin.

I leader europei si ostinano a pensare che l’alleanza atlantica, solennemente entrata in vigore il 24 agosto 1949, esista ancora. Emmanuel Macron e Keith Starmer si sono precipitati a Washington per chiedere a Trump di usare almeno le buone maniere, e la risposta del gangster-in-chief non si è fatta attendere: insulti e umiliazioni a quello che dovrebbe essere il principale alleato, Volodymyr Zelensky, in mondovisione, l’altro ieri.

C’è da stupirsi? Per chi ha una visione realistica delle relazioni tra Europa e America non proprio. La Nato è sempre stata un’appendice degli Stati uniti: chi volesse farne parte, per esempio, dovrebbe depositare «il proprio strumento di adesione presso il governo degli Stati uniti d’America» che poi informerà gli altri membri (art. 10). E se l’articolo 1 precisa che i membri devono «astenersi nei loro rapporti internazionali dal ricorrere alla minaccia o all’uso della forza assolutamente incompatibile con gli scopi delle Nazioni unite» ci si potrebbe chiedere quante volte i governi di Washington hanno rispettato questa clausola fino ad oggi (grosso modo, mai). Consultare le cronache di ciò che è avvenuto in Serbia, Libano, Iraq e Afghanistan, giusto per citare i soli casi avvenuti dopo lo scioglimento dell’Unione Sovietica nel 1991.

Oggi i leader europei sono «inorriditi» da Trump ma quanto tempo è passato dalle sue dichiarazioni sull’annettersi la Groenlandia, parte della Danimarca quindi di un altro paese fondatore della Nato? Meno di due mesi: era il 7 gennaio e Trump non era neppure entrato in carica. Qualcuno ha fatto caso alle dichiarazioni, lo stesso giorno, riguardanti il Canada, che secondo lui dovrebbe diventare il 51° stato dell’Unione? Apparentemente no, benché il Canada sia un altro dei paesi fondatori dell’alleanza. Meloni, Macron e Starmer hanno letto l’articolo 4 del Trattato, che specifica: «Le parti si consulteranno ogni volta che (…) l’integrità territoriale, l’indipendenza politica o la sicurezza di una delle parti fosse minacciata»? Magari una telefonata al primo ministro danese Mette Frederiksen o a quello canadese Justin Trudeau sarebbe stata un gesto di cortesia.

La realtà è che la situazione attuale viene da lontano e che i governi europei hanno sempre fatto la politica dello struzzo, pensando che gli Stati uniti fossero un protettore affidabile, benché a tratti bizzoso. Adesso Trump ha detto, fatto e mostrato al mondo che gli “alleati” non esistono più: esistono soltanto dei paesi collocati alla periferia dell’Impero, che devono pagare il giusto tributo a Washington. Che il tributo venga versato sotto forma di acquisti di aerei, missili, droni, satelliti o altra chincaglieria bellica oppure sotto forma di dazi del 25% sulle auto tedesche, il prosecco italiano, la moda francese o il tè inglese ha poca importanza, purché paghino.

Oggi l’Italia spende circa 32 miliardi di euro l’anno per la difesa, l’1,3% del prodotto interno lordo, ma l’amministrazione Trump chiede il 3%, ovvero 74 miliardi di euro, se non il 5%, che sarebbero 123 miliardi di euro. Una bella sommetta: oggi spendiamo circa 79 miliardi per l’istruzione: chiuderemo asili, scuole e università per trasformarli in aerei F-16 e altri gadget? Se dovessimo arrivare a 123 miliardi chiuderemo ospedali, ambulatori e farmacie, che oggi assorbono poco di più, 136 miliardi?

Queste cifre rimangono tali anche nell’improbabile ipotesi che l’Unione europea decida di fare quello che non ha fatto tra il 1957 e oggi e cioè dotarsi di una difesa comune. Se ci fosse un sussulto di orgoglio europeo causato dalla maleducazione di Trump, un buzzurro che non sa tenere le posate a tavola, mettere in piedi un esercito ex novo richiederebbe spese enormi non solo per gli armamenti veri e propri ma anche per il coordinamento e l’addestramento di truppe provenienti da 27 paesi con altrettante lingue diverse, tradizioni diverse e quant’altro. Senza contare il fatto che la Costituzione italiana «ripudia la guerra» (art. 11) e quella tedesca ammette l’uso delle forze militari soltanto nell’ambito di «un sistema di reciproca sicurezza collettiva». Quella sicurezza collettiva che Trump ha esplicitamente ripudiato lunedì scorso.

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