Dovete pagare per la protezione, investire negli Usa o versare le decime, annegare nel greggio che non volete. Al debutto internazionale a Davos, Donald Trump bastona l’Europa con ingiunzioni di spese militari, promesse di dazi e pretese di deregulation. Si riscrive il patto atlantico
Il padrino Il presidente Usa detta la linea del nuovo «radioso» mondo del capitale. Abolizione del Green New Deal, fine delle «ingerenze» Ue
Il pubblico ascolta l’intervento di Donald Trump all'incontro annuale del World Economic Forum a Davos, in Svizzera – Ap
Trump ha accettato i copiosi complimenti e le congratulazioni a nome della «nuova età dell’oro» ora iniziata per gli Stati uniti e di riflesso quindi per il pianeta «irrorato di luce».
LUMINOSITÀ collettiva che poi, ovviamente andrà verificata nel dettaglio, dato che il racconto del nuovo radioso mondo del capitale fatto da Trump è risultato piuttosto a senso unico. Nella cosmologia trumpiana gli Stati uniti «riaperti e pronti a far business» sono inequivocabilmente al centro dell’universo plasmato dagli affari. Nello specifico il presidente ha descritto i suoi Usa come una sorta di zona economica speciale, un paradiso fiscale dove le aziende, libere da gabelle e normative e i requisiti ambientali del «ridicolo Green New Deal che ho abolito» potranno fiorire rigogliosamente.
«Buone cose accadranno a chi farà affari con noi», ha aggiunto Trump che ha annunciato l’abbassamento delle tasse industriali al 15% ed un ecosistema normativo dove grazie ai poteri conferitigli dalla dichiarazione di «stato di emergenza energetica», potrà «personalmente conferire i permessi necessari nel giro di una settimana».
Il miglior luogo per produrre da ora in poi sono gli Stati uniti, ha aggiunto, chi si ostinerà a non farlo soffrirà le conseguenze.
GLI STATI UNITI perseguiranno una aggressiva campagna di investimenti privati e Trump ha citato quelli di Oracle e Softbank nel progetto Stargate per l’intelligenza artificiale (già smentito però da Elon Musk), e ha parlato di 600 miliardi sauditi promessi da Mohammed Bin Salman («Facciamo 1.000 miliardi, che è più tondo»). Assieme ai dazi, parte del progetto di far finanziare agli stranieri la «rinascita americana».
Parlando come l’amministratore di una riorganizzata Usa Inc., Trump ha delineato invece le cose meno belle cui andrà incontro chi non starà
Leggi tutto: A Davos i cortigiani di Trump - di Luca Celada LOS ANGELES
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Chi molla il boia La Corte penale si dice stupita dall’atteggiamento del governo. Il mandato spiccato sabato: le autorità italiane erano informate. Delmastro: «Questione giuridica imposta dai giudici». Ma il volo di ritorno era già organizzato
«Senza preavviso» e senza «consultazione». Così la Corte penale internazionale, in un comunicato uscito nel tardo pomeriggio di ieri, ha definito il ritorno in Libia dall’Italia di Osama Najeem Elmasry Habish, il capo della polizia giudiziaria di Tripoli arrestato domenica a Torino e rilasciato con tante scuse martedì nonostante su di lui pendesse un mandato per crimini contro l’umanità e di guerra, tra cui omicidio, tortura, stupro e violenza sessuale.
Per questo L’Aja «sta cercando, e deve ancora ottenere, una verifica dalle autorità sui passi presumibilmente intrapresi» da Roma. Così apprendiamo pure che l’Italia aveva chiesto silenzio intorno all’operazione. I giudici internazionale, infatti, dicono che si sono astenuti dal rilasciare qualsiasi commento pubblico «su richiesta e nel pieno rispetto delle autorità italiane», pur continuando a seguire la vicenda da vicino «per garantire l’effettiva esecuzione di tutti i passaggi richiesti dallo Statuto di Roma per l’attuazione della richiesta della Corte». Èin questo contesto che è stato «ricordato alle autorità italiane che nel caso in cui individuassero problemi che potrebbero impedire l’esecuzione della presente richiesta di cooperazione, dovrebbero consultare la Corte senza indugio al fine di risolvere la questione».
LA VERSIONE sin qui fatta filtrare dal governo è un insieme di incoerenze e incongruenze più unico che raro. Formalmente una spiegazione proprio non c’è (il sottosegretario Delmastro: «Èuna questione giuridica imposta dai giudici»), e le comunicazioni ufficiali sono ferme al pomeriggio di martedì, quando dal
Leggi tutto: L’Aja contro Roma: «Najeem liberato senza avvertirci» - di Mario Di Vito
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Far West Bank Netanyahu ha dato il via a una vasta offensiva militare che dalla città palestinese si estenderà a tutta la Cisgiordania: già 9 gli uccisi
Un attacco dei coloni israeliani nel villaggio cisgiordano di Jinsafut – Ap
Il colpo più devastante sul campo profughi di Jenin e varie parti della città è avvenuto nella prima ora dell’attacco israeliano. «All’improvviso sono apparsi in cielo elicotteri Apache e droni, sparavano su tutto. Sei (dei nove) uccisi sono stati colpiti nei primi quindici minuti, in gran parte civili», ci raccontava ieri al telefono Amer Nofal, 61 anni, residente nel centro di Jenin. «Quelli che erano in strada hanno cercato un riparo dalle mitragliate. Poi, dopo gli attacchi dal cielo, sono arrivati i blindati con i soldati. Quindi le ruspe militari, che come sempre, hanno distrutto strade e danneggiato edifici», ha aggiunto, sottolineando che «non è una operazione come le altre, è qualcosa di più grosso». Ha ragione Amer, quella che Israele ha lanciato ieri contro Jenin, città simbolo della resistenza palestinese all’occupazione, è una offensiva che si annuncia di vaste proporzioni. Di fatto è un il capitolo successivo della guerra a Gaza.
Benyamin Netanyahu l’ha chiamata «Muro di Ferro», in onore del manifesto ideologico del leader sionista, e suo modello di riferimento , Zeev Jabotinsky, che scrisse nel 1923 di una colonizzazione sionista in Palestina attraverso un «muro di ferro che la popolazione nativa non può violare…Non può esserci alcun accordo volontario tra noi e gli arabi palestinesi». È una esortazione all’uso sistematico della forza che ben si sposa con la guerra incessante che 102 anni dopo il premier da Gaza ora porta nella Cisgiordania occupata. «L’esercito, i servizi di sicurezza e la polizia di Israele hanno avviato oggi un’operazione militare – denominata «Muro di ferro» – vasta e significativa per combattere il terrorismo a Jenin…Agiamo in modo sistematico e deciso contro l’asse iraniano ovunque esso estenda le sue mani: a Gaza, in Libano, in Siria, in Yemen, in Giudea e Samaria (la Cisgiordana, ndr). E non finisce qui», ha comunicato l’ufficio di Netanyahu. Jenin, perciò, è solo l’inizio di una campagna militare che arriverà in altre città dove Israele vuole «sradicare il terrorismo» e continuare la «distruzione di Hamas».
A Jenin si vivono ore di tensione con l’esercito israeliano impegnato a «cercare ed eliminare» i combattenti palestinesi della Brigata Jenin (Jihad islami), di Hamas, Fronte popolare e altre formazioni. Ciò che hanno fatto per sei settimane fino a qualche giorno fa, le forze di sicurezza dell’Autorità nazionale palestinese in un vano quanto impopolare tentativo di affermare il potere di controllo del presidente Abu Mazen. Tra i 36 palestinesi feriti ieri a Jenin ci sono anche alcuni poliziotti dell’Anp (uno è grave) tornati nel campo profughi e nel centro della città sulla base di un accordo di riconciliazione con i gruppi combattenti. L’attacco israeliano ieri ha dimostrato l’irragionevolezza delle spaccature interne: l’occupazione era e resta la questione centrale nella vita di ogni palestinese. Oltre al campo profughi, le forze israeliane hanno preso d’assalto i
Leggi tutto: Un muro di ferro contro Jenin - di Michele Giorgio RAMALLAH
Commenta (0 Commenti)Stati uniti Il secondo mandato di Donald Trump promette di traghettare la superpotenza occidentale a una fase post democratica, caratterizzata da securitarismo autoritario, egemonismo culturale e prepotenza politica. Un modello globale per le destre populiste
Donald e Melania Trump ai fuochi di artificio per l'elezione nel Trump National Golf Club il 18 gennaio – Alex Brandon /Ap
“Da oggi TikTok è tornato!” ha esclamato Donald Trump, stilando la lista di risultati che ha detto di aver “ottenuto già prima di essere presidente.” Figurarsi nei “più gloriosi quattro anni della stori d’America che inizieranno oggi,” ha aggiunto gongolante nel plauso della folla.
Il passaggio dedicato alla piattaforma social è stato fra i più istruttivi del comizio tenuto ieri a Washington, alla vigila dell’insediamento ufficiale di oggi. “Non abbiamo scelta,” ha detto il quasi-presidente, “ne va di un gran giro di affari, un sacco di posti di lavoro che non vogliamo lasciare ai cinesi”. Probabilmente faremo una joint venture, ha continuato schiettamente. “Dicono che TikTok valga miliardi, forse migliaia di miliardi. Ma senza la mia autorizzazione vale zero dollari. Il valore lo aggiungo io, allora però chiederò una partecipazione del 50% per gli Stati uniti. Che ne pensate? Che vi piaccia o meno TikTok, faremo un mucchio i soldi”.
Non poteva esserci illustrazione migliore del Trump-pensiero sulla monetizzazione della presidenza americana, destinata ad essere caratteristica saliente della prossima amministrazione. Il passaggio su TikTok (che è tornato attivo dopo meno di 24 ore di oscuramento a seguito delle assicurazioni twittate da Trump) è stato indicativo della schiettezza che ha caratterizzato il discorso, una versione condensata dei comizi elettorali standard – e un anticipo di quelli che certamente si susseguiranno anche durante la presidenza, secondo il modello di campagna permanente già attuato nel primo mandato.
Per Trump la priorità rimarrà glorificare Trump e plasmare la percezione della base mediante una dieta costante di propaganda autocelebrativa.
La giornata di Trump ieri è iniziata con un ricevimento dove con Melania ha ricevuto la serenata di un imitatore di Elvis ed è terminata sulle note dei Village People che hanno intonato, stavolta dal vivo, “YMCA”. Un tripudio pacchiano dietro al quale si cela una svolta davvero epocale per l’esperimento americano e per gli Stati uniti, che da oggi passano a sperimentare una nuova dimensione di corruzione politica e compenetrazione di capitale e potere.
La nuova era inizierà, ha assicurato Trump, alle 12 di oggi (le 18 ora italiana). Una presidenza che promette di essere del tutto transazionale e di traghettare la superpotenza occidentale ad una fase effettivamente post democratica, caratterizzata da securitarismo autoritario, egemonismo culturale e prepotenza politica. Un modello globale per
Leggi tutto: L’esperimento americano e una soglia senza ritorno - di Luca Celada LOS ANGELES
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Stati uniti La premier italiana decide di intrupparsi con la peggiore destra europea (e non solo). Dopo il viaggio a Mar-a-Lago non aveva scelta. La proposta del tycoon era arrivata insieme al via libera allo scambio di prigionieri con l’Iran. Ci saranno anche il francese Eric Zemmour, il britannico Nigel Farrage, pasdaran della Brexit, e il tedesco Tino Chrupalla, co-leader della AfD. Niente invito a Salvini che fa sapere che resterà in Italia per occuparsi dei treni
L'incontro da Donald Trump e Giorgia Meloni a Mar-a-Lago in Florida – Ansa
Giorgia Meloni è stata folgorata sulla via di Teheran. Ancora alla vigilia dell’incontro con Trump, a palazzo Chigi facevano gli sdegnosi: «Perché dovrebbe andare a far da comprimaria?». Per la parte del vassallo bastava Salvini, che peraltro non chiedeva di meglio e il mancato invito è un cruccio di quelli che non si stemperano col tempo. La pezza con la quale spiega la mancata partenza è che deve indagare sugli attentati alle ferrovie.
Ironizzare sarebbe maramaldesco. All’ex Capitano è toccata in sorte la parte più ingrata, quella del gatto Silvestro. Merita umana comprensione.
LA SCELTA INIZIALE di disertare l’incoronazione, per la premier italiana, era dunque questione d’immagine però non solo. C’era di mezzo l’etichetta: di norma i capi di Stato e di governo stranieri non vengono invitati agli insediamenti presidenziali.
Niente invito a Salvini che fa sapere che resterà in Italia per occuparsi dei treni
Ma a rompere la consuetudine ha provveduto l’incoronato in persona, che ha distribuito inviti a raffica e l’italiana non è l’unica ad avere accettato. Ci saranno l’argentino Milei, il salvadoregno Bukele.
Ci sarà, in rappresentanza di Xi jinping, il vicepresidente cinese Han Zheng e da solo vale l’intera platea. Ma a frenare la premier era soprattutto la nessuna voglia di trovarsi ingruppata con il peggio della destra europea. Non che non apprezzi i vecchi amici sovranisti, anche se magari non tutti e non tutti allo stesso modo. Ma lei, si sa, ama tenere il piede in due staffe e la festa di Washington invece ha un colore ben preciso, quello del sovranismo estremo e del suprematismo senza fronzoli, insomma è roba di destra tanto estrema da suggerire cautela persino a una Marine Le Pen che già pensa solo alle elezioni presidenziali e infatti domani alla Casa Bianca non ci sarà.
MA L’INVITO proveniva dall’imperatore in persona e da un imperatore che aveva appena graziosamente accettato di chiudere tutti e due gli occhi sullo scambio di ostaggi con l’Iran. Giorgia Meloni non è un’ingenua. Ha capito subito di non avere scelta anche se per ufficializzare ha aspettato l’ultimo momento. Per rispetto nei confronti della sua amica non invitata Ursula von der Leyen, secondo la versione fatta circolare dal Palazzo a Roma. Più probabilmente per evitare polemiche di ogni sorta.
Dunque la presidente del consiglio italiano, scortata da tre esponenti del suo partito, partirà stanotte all’ultimo momento: toccata e fuga. Domani siederà, al
Leggi tutto: Trump day, Meloni si inchina all’imperatore - di Andrea Colombo ROMA
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Domani smetto Il gabinetto di sicurezza approva l’accordo con Hamas, Ben Gvir si sfila. Il premier: l’offensiva riprenderà dopo la prima fase . Raid senza sosta a Gaza (116 uccisi in due giorni) e coloni premiati in Cisgiordania: cancellata (per sempre) la detenzione amministrativa
Un centro di distribuzione di pasti caldi a Khan Younis – Xinhua/Rizek Abdeljawad
Dopo il voto, nel pomeriggio di ieri, da parte del gabinetto di sicurezza, si attende che anche il governo israeliano, ancora riunito mentre scriviamo, approvi l’accordo di cessate il fuoco. È stata una lunga giornata per Netanyahu, impegnato soprattutto a rassicurare i suoi alleati più agitati.
Gli appelli del ministro della sicurezza nazionale, Itamar Ben Gvir, si sono moltiplicati nelle ultime ore nel tentativo di trovare complici pronti a far cadere il governo pur di non approvare la fine dell’attacco a Gaza. Se non ci saranno sorprese e l’intesa passerà, il leader di Potere ebraico, espressione dell’estrema destra suprematista israeliana, potrebbe lasciare il governo e portare con sé i sei seggi che occupa il suo gruppo in parlamento.
DOPO L’ARRINGA furibonda di Ben Gvir, il Likud, partito del premier, ha rilasciato una dichiarazione che nel giro di poche parole ha trasformato l’accordo che avrebbe dovuto parlare di pace in una promessa di guerra: «Contrariamente ai commenti di Ben Gvir, l’accordo esistente consente a Israele di tornare a combattere sotto garanzie americane, ricevere le armi e i mezzi di guerra di cui ha bisogno, massimizzare il numero di ostaggi viventi che saranno rilasciati, mantenere il pieno controllo della rotta Filadelfia e il cuscinetto di sicurezza che circonda l’intera Striscia di Gaza e ottenere risultati tali da garantire la sicurezza di Israele per generazioni».
Promesse, queste, tutte dirette all’altro membro del governo fortemente contrario alla fine della guerra, Bezalel Smotrich, ministro delle finanze e capo di Sionismo religioso. Smotrich ha detto che avrebbe votato contro il piano ma, confortato dalle rassicurazioni di Netanyahu, di essere deciso a mantenere l’appoggio al governo.
Secondo Canale 12, anche durante la riunione del gabinetto di sicurezza il primo ministro ha lasciato intendere che con ogni probabilità Israele riprenderà i combattimenti dopo il completamento della prima fase e il rilascio dei 33 ostaggi trattenuti
Leggi tutto: Sì con riserva: Netanyahu promette alla destra di tornare in guerra - di Eliana Riva
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