In Briciole L'appello raccolto in decine di piazze. Aderiscono anche Anpi, Arci, Cgil e oltre 200 comuni
L'iniziativa a Roma – Zuma Press
Cinquantamila sudari bianchi, tanti quanti le vittime palestinesi nei quasi 600 giorni di offensiva israeliana sulla Striscia di Gaza, esposti dalle finestre e nelle piazze di tutta Italia. «Dobbiamo continuare ad affermare la lingua della denuncia e della richiesta di giustizia. A renderla simbolo di una comunità di uomini e donne che si oppongono al genocidio» si legge nel comunicato, promosso da intellettuali, scrittori e giornalisti che già lo scorso 9 maggio, in occasione della giornata dell’Europa, avevano lanciato l’appello «L’ultimo giorno di Gaza».
«IL SIMBOLO dei corpi ammazzati a Gaza è un lenzuolo bianco il segno estremo della pietà che ricopre il corpo martoriato. Riempiamo l’Italia di sudari, di pietà. Fermiamo la strage» si legge ancora nell’appello, raccolto ieri da decine di piazze. A Roma la manifestazione si è svolta in piazza Vittorio Emanuele, dove i lenzuoli bianchi sono stati stesi a terra. I manifestanti si sono poi sdraiati su questi, mentre la scrittrice Paola Caridi leggeva l’ultima poesia scritta da Refat Alareer, intellettuale e poeta palestinese ucciso a Gaza da un bombardamento israeliano il 6 dicembre 2023: «Se dovessi morire, tu devi vivere, per raccontare la mia storia». «La rilevanza di un appuntamento come questo è compattare una voce, che prima era solo un sussulto, che dice che non possiamo sostenere un genocidio a Gaza. Ed è anche una pressione sui governi perché attuino sanzioni su Israele e la giustizia internazionale possa fare il suo corso» ha commentato Caridi. Nella Capitale un altro appuntamento della campagna si è svolto nel centro culturale curdo Ararat, e a palesare la propria indignazione è stata anche la statua del Pasquino, vicino piazza Navona, da secoli bacheca satirica dei romani contro i potenti: «Chi vede er massacro ‘n Palestina e nun dice gnente non venga a dimme d’esse umano che è indecente».
A MILANO la manifestazione si è svolta in piazza Castello, dove centinaia di persone si sono silenziosamente avvolte nei lenzuoli. Ancora flash mob a Palermo, in piazza Politeama, all’isola d’Elba, dove i sudari sono stati esposti sulla spiaggia e a Sesto Fiorentino, dove al termine di un corteo partecipato da più di 90 tra associazioni, partiti e sindacati, è intervenuta Micaela Frulli, docente universitaria di diritto internazionale tra le promotrici dell’appello.
ANCHE Anpi, Arci e Cgil hanno partecipato alla campagna, e il sindacato ha esposto sudari dai balconi delle proprie sedi in tutta Italia. Con loro anche 200 comuni, che si sono fatti avanti in modo spontaneo, come ha spiegato Tomaso Montanari: lenzuola bianche sono scese tra gli altri dai municipi di Roma, Firenze (in Toscana un sudario è stato appeso fuori anche dal palazzo della Regione), Vicenza, Padova e Milano, dove ha aderito anche l’università Statale. L’iniziativa di Palazzo Marino è stata commentata polemicamente dalla Brigata ebraica: il direttore del museo della Brigata ebraica Davide Romano ha attaccato l’adesione come divisiva: «Registro che Sala non vuole essere più il sindaco di tutti, ma solo di una parte della città» ha detto.
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A Gaza è assalto ai forni: i palestinesi senza cibo da 81 giorni combattono per un po’ di pane. Da domenica solo 115 camion di aiuti, «un cucchiaino da tè quando serve un’alluvione», denuncia l’Onu. Israele bombarda le guardie che proteggono i convogli. Un mix di politiche crudeli per distruggere ed espellere
In briciole Solo 115 camion di aiuti entrati da domenica, la gente combatte per un po’ di pane. Il cibo utilizzato come arma per disintegrare la società e spingere i palestinesi a sud. Saccheggiati 15 tir, Unrwa: «Non stupitevi». Un raid israeliano colpisce gli agenti che proteggevano un convoglio, sei uccisi. 50 ammazzati a Jabaliya
La folla di palestinesi affamati all’unico forno aperto ieri a Nuseirat, Gaza
Ayah ha fame. Non trova le parole per descrivere cosa significhi. «Non sono capace di dire che vuol dire essere affamati per così tanto tempo, vivere in luoghi sovraffollati di persone disperate», ci dice. «La fame è così profonda, sembra di toccarla». Parla da Khan Younis, profondo sud di Gaza. È al suo quarto sfollamento.
Le famiglie mandano avanti i più giovani a fendere un varco in mezzo alla folla, le braccia alte sopra la testa, le mani aperte per afferrare una busta di plastica trasparente con dieci pite dentro. Quelle buste chiuse con un nodo così stretto che non si slaccia mai, appannate dal calore del pane appena sfornato, sono ciò che di più quotidiano c’è in Palestina; oggi sono quasi una visione, un miraggio. Succede a Deir al-Balah e a Nuseirat, nel centro-nord della Striscia: qui giovedì è arrivata la prima farina dopo 81 giorni senza aiuti.
I FORNI HANNO lavorato a ritmi forzati per tutta la notte, i panettieri non hanno concesso ai loro corpi nemmeno un minuto di riposo per sfornare più pagnotte possibile. Fuori la folla cresceva, si moltiplicava, diventava una massa unica di persone. Sui volti smagriti e pallidi si legge l’urgenza di una missione: una busta significa che oggi la tua famiglia mangerà qualcosa, niente che basti a soddisfare un vuoto grande due mesi e mezzo.
A Nuseirat dei ragazzi si arrampicano sui muri, altri sulle spalle delle persone in fila. C’è un buco sul muro: la panetteria non ha aperto le porte, è troppo pericoloso, verrebbe travolto. I fornai passano le buste di pite attraverso la piccola breccia, non le vedono nemmeno le facce di chi sta al di là, solo mani che afferrano. Non c’è un centimetro libero tra un corpo e l’altro.
La fame sembra di toccarla, insieme all’urgenza e al senso di umiliazione che sale sopra le teste di quella massa informe. E invece sono volti, anime, persone tramutate in meri corpi che anelano un minimo di sollievo ai morsi dello stomaco e alla vergogna di non poter sfamare i propri figli, che piangono per il dolore, perché la fame è fisica, sembra di toccarla.
Israele ha reso palese da mesi l’uso politico che fa degli aiuti umanitari e del divieto a farli entrare. Domenica scorsa l’annuncio tanto atteso: il governo aveva
Leggi tutto: Assalto ai forni, Gaza affamata e umiliata. Onu: «Crudeltà» - di Chiara Cruciati
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Non ce n'è una sola Storica sentenza sulla procreazione assistita. Governo sconfessato. La Corte è intervenuta su un caso sollevato a Lucca. Cambia la legge 40, nulla la circolare di Piantedosi. Confermato, però, il divieto di procreazione assistita per le single.
Due madri abbracciano il figlio, indossando le magliette dell'associazione Famiglie Arcobaleno – Getty
Due sentenze consecutive della Corte costituzionale restituiscono un quadro in chiaroscuro sulla procreazione medicalmente assistita. Più chiaro che scuro, comunque, perché la sentenza numero 68 che dichiara incostituzionale il divieto per le madri non biologiche di riconoscere il proprio figlio pesa di più della sentenza numero 69, che proclama la «non manifesta irragionevolezza» di non consentire l’accesso alla pma da parte delle donne single.
NELLO SPECIFICO, la sentenza numero 68 va a guardare all’articolo 8 della legge 40 del 2004 e lo dichiara «costituzionalmente illegittimo nella parte in cui non prevede che pure il nato in Italia da donna che ha fatto ricorso all’estero, in osservanza delle norme ivi vigenti, a tecniche di procreazione medicalmente assistita ( ha lo stato di figlio riconosciuto anche della donna che, del pari, ha espresso il preventivo consenso al ricorso alle tecniche medesime e alla correlata assunzione di responsabilità genitoriale». La pronuncia della Consulta nasce dalla questione di legittimità sollevata dal tribunale di Lucca sul caso di due mamme di una bambina di tre anni e uno di due: la prima riconosciuta, il secondo no, in quanto nato dopo la circolare del ministro dell’Interno Piantedosi che ne vietava proprio il riconoscimento. La Corte ha ritenuto che questo impedimento non garantisce il miglior interesse del minore e costituisce quindi violazione dell’articolo 2 della Costituzione (per la lesione dell’identità personale del nato e del suo diritto a vedersi riconosciuto sin dalla nascita uno stato giuridico certo e stabile), dell’articolo 3 (per la irragionevolezza dell’attuale disciplina che non trova giustificazione in assenza di un controinteresse di rango costituzionale) e dell’articolo 30 (perché lede i diritti del minore a vedersi riconosciuti, sin dalla nascita e nei confronti di entrambi i genitori, i diritti connessi alla responsabilità genitoriale e ai conseguenti obblighi nei confronti dei figli).
DUE I RILIEVI su cui si fonda questa decisione. La responsabilità che deriva dall’impegno comune che una coppia si assume nel momento in cui
Leggi tutto: La Consulta dice sì: esistono famiglie con due madri - di Mario Di Vito
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Colpo diplomatico Presso il campo profughi di Jenin assediato da 121 giorni i soldati sparano contro i rappresentanti di 32 paesi: «Rammaricati». A Gaza avanti con i piani militari. Residenti spinti verso sud a forza di bombe, carri armati e fame
Un frame del video con la fuga dei diplomatici dopo gli spari israeliani a Jenin in Cisgiordania
Le canne dei fucili dei militari israeliani a Jenin sembrano proprio puntare alla delegazione internazionale in visita al campo profughi. Anzi, in un fotogramma del video girato e diffuso dall’Autorità nazionale palestinese (Anp), le armi vengono rivolte esattamente alla telecamera.
DUE SOLDATI CHE SPARANO sette colpi contro la rappresentanza diplomatica di 32 Paesi e organizzazioni internazionali tra cui vari paesi europei, Cina, Egitto, Giordania, Canada. Presenti anche giornalisti, politici dell’Anp, che ha organizzato la visita, e diversi rappresentanti europei, come il vice console italiano a Gerusalemme, Alessandro Tutino.
Nessuno è rimasto ferito ma la violenza mossa contro la delegazione di alti funzionari internazionali ha costretto Israele perlomeno a tentare una giustificazione. Un comportamento tutt’altro che scontato se si tiene conto che in decine di altre occasioni i soldati hanno sparato e tentato di schiacciare con i bulldozer giornalisti e abitanti senza degnarsi di fornire alcun tipo di chiarimento.
L’omicidio della giornalista palestinese Shireen Abu Akleh, uccisa a Jenin nel 2022 da un cecchino israeliano nonostante fosse chiaramente identificabile, è rimasto senza colpevoli.
Questa volta, invece, i vertici dell’esercito si sono detti addirittura «rammaricati per l’inconveniente», provando a minimizzare l’attacco e addossarne la colpa alla stessa delegazione. Si sarebbe trattato, secondo i militari, di «spari di avvertimento» necessari in quanto il gruppo avrebbe deviato dal percorso approvato, dirigendosi in una «zona di combattimento attivo».
IL MINISTERO DEGLI ESTERI palestinese ha smentito la versione, dichiarando che la visita era stata concordata molto tempo prima. La versione non coincide neanche con il racconto dei testimoni e con il filmato diffuso dall’Anp. Gli spari hanno sorpreso la rappresentanza, che si trovava al di fuori del perimetro interdetto, al di là di una delle barriere con cui l’esercito impedisce l’accesso al campo profughi.
L’attacco sembra aver ottenuto ciò che intendeva evitare: attirare l’attenzione sulla situazione insopportabile che i palestinesi vivono da anni in Cisgiordania e che dopo il 7 ottobre è
Leggi tutto: Anche i funzionari internazionali nel mirino di Israele - di Eliana Riva
Commenta (0 Commenti)Qualche aiuto entra finalmente a Gaza ma non viene distribuito. Per l’Onu altri 14mila bambini sono a un passo dalla morte per fame, i bombardamenti continuano. Si muove il Consiglio affari esteri europeo: Israele viola i diritti umani, rivedere l’accordo commerciale. E l’Italia si dissocia
Palestina Dei 93 entrati ieri nessuno giunge a destinazione. Onu: 14mila bambini rischiano di morire, 28mila donne uccise in 19 mesi, una ogni ora. I raid israeliani centrano una scuola: 12 palestinesi muoiono bruciati. A Doha il negoziato è fermo
Dei bambini dentro la scuola Musa bin Nasir di Gaza City, ridotta in cenere da un attacco israeliano – Getty Images/Abdalhkem Abu Riash
Ashraf Mahmoud Wafi aveva dieci anni ed è morto affamato. È stato ucciso ieri all’alba da un missile sganciato da un drone israeliano sul quartiere Al-Manara di Khan Younis. Era andato a cercare del pane. Ci era andato anche il padre, si erano divisi, forse sperando di avere più fortuna. Quando il papà è tornato, Ashraf era un corpo freddo in un sacco di plastica.
«Qualcuno ci dica che peccati stiamo commettendo. I nostri sogni sono diventati un pezzo di pane, i nostri sogni erano grandi e ora sono un pezzo di pane», urla il padre davanti al cadavere del figlio. La madre piange, lo prende per mano: «Perdonami, figlio mio, se non ti ho dato da mangiare». «È morto che aveva ancora fame, è morto mentre cercava mezza pagnotta», grida il nonno.
Poco più a nord, un anziano su una sedia a rotelle si mescola al fiume di gente in fuga verso sud. Il viso scottato dal sole, non riesce a trattenere le lacrime e i singhiozzi quando dice di volere solo un pezzo di pane: «Non mangio da tre giorni. Voglio solo una pagnotta».
GAZA È DISPERATA, sfinita, umiliata: dopo i cinque camion di aiuti umanitari entrati ieri dal valico di Karem Abu Salem, briciole cadute dal tavolo del governo del ricercato per crimini di guerra Benjamin Netanyahu, ieri ne sono passati qualche decina. Secondo fonti Onu, ne erano stati autorizzati 93. Sono meno di una goccia nell’oceano. Netanyahu l’aveva detto, si tratterà di aiuti minimi. È stato di parola. In serata l’Onu ha fatto sapere che delle decine di camion entrati ieri dal valico nessuno è giunto a destinazione per «problemi di logistica e di sicurezza».
L’appello lanciato ieri dai microfoni della Bbc da Tom Fletcher, sottosegretario generale dell’Onu per gli affari umanitari, fa venire i brividi: 14mila bambini rischiano di morire per
Leggi tutto: A Gaza cinque tir di aiuti in due giorni - di Chiara Cruciati
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Matrioske russe raffiguranti Putin e Trump
Siamo subito chiari: non è con una telefonata che si raggiunge la pace dopo tre anni di guerra sanguinosa. Ci vuole ben altro, nonostante che a parlarsi per telefono siano da una parte Trump, tradizionale portavoce degli interessi occidentali che stavolta con la sua leadership corrispondono molto più agli interessi degli Stati uniti, e dall’altra Putin che continua il conflitto, dopo la criminale invasione del febbraio 2022 e la sequenza di avvenimenti che l’hanno preceduta, dall’oscura rivolta di Majdan, alla «riacquisizione» della Crimea, dall’allargamento della Nato fino ai confini russi alla guerra civile tra esercito di Kiev e minoranza russa autoproclamatasi indipendente in Donbass e Lugansk. Eppure ci troviamo di fronte, dopo la ripresa di negoziati di Istanbul, probabilmente al secondo «momento», durato ben due ore, di un negoziato di pace.
Per il quale, secondo i resoconti sia del leader russo che dell’inquilino della Casa bianca, sembrano delinearsi già, insieme, un itinerario e una contraddizione di contenuti. E alcune sorprese che non definire positive sarebbe a dir poco miope. Quali le ambiguità e le positività? Intanto che le due versioni non siano contraddittorie, anzi, anche se più trattenuto appare Putin e più entusiasta Trump ringraziato, tra l’altro, per aver facilitato la ripresa delle trattative dirette. «La cosa più importante per la Russia – avrebbe detto Putin a Trump – è eliminare le cause di fondo del conflitto ucraino, per aggiungere che «la Russia e l’Ucraina devono dimostrare la massima volontà di arrivare alla pace e trovare quei compromessi che vadano bene a entrambe le parti».
Parlare di compromessi che vadano bene ad entrambe le parti non è cosa da poco, non è cosa da poco che la parola «compromesso» compaia nella versione russa della telefonata: per la prima volta Mosca ammette che anche lei dovrà fare compromessi e ne chiede altrettanti. Certo Putin ha fatto capire che la Russia non è interessata a un cessate il fuoco immediato, concordando però con il presidente americano che Mosca proporrà ed è pronta a lavorare a un «memorandum» per un «possibile trattato di pace futuro» che stabilisca anche «un possibile cessate il fuoco per un certo periodo se i relativi accordi saranno raggiunti».
«Penso sia andata molto bene», ha commentato Trump per parte sua, per aggiungere: «La Russia e l’Ucraina inizieranno immediatamente le trattative verso un cessate il fuoco e, ancora più importante, per la fine della guerra». Un annuncio che può apparire frettoloso e superficiale degno del protagonismo imperiale del tycoon, ma, fatto singolare, non è rimasto sui social e in questi termini è stato riferito a Zelensky, con cui Trump aveva parlato prima della lunga conversazione con Putin, alla presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, al presidente della Francia, Emmanuel Macron, alla premier italiana Giorgia Meloni, al cancelliere tedesco Friedrich Merz, e al presidente della Finlandia Alexander Stubb.
I Volenterosi non possono che prenderne atto, ma la nota di Berlino secondo la quale si preparerebbero invece ad «alzare la pressione su Mosca» con nuove sanzioni, in questo momento, va in direzione opposta allo spiraglio, il «filo», che si è visto ieri. Mentre la disponibilità già annunciata da Leone XIV di ospitare in Vaticano le trattative è anch’essa una traccia, un secondo momento.
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