«Arrivano i rossi». In campagna elettorale per le regionali, a Bologna la destra alza i toni. Contro gli antifascisti «violenti» e i centri sociali «da chiudere». Schierati con Casapound, Meloni e alleati coprono i pasticci di Piantedosi. E sposano l’aggressiva retorica trumpiana
Emilia Paranoica Chiusura di campagna elettorale anticipata per Meloni, Tajani e Salvini. La sfida è in Umbria. La Lega attacca: «Fino a ieri Bonaccini e Schlein erano autonomisti»
Maurizio Lupi, Matteo Salvini, Elena Ugolini e Antonio Tajani al comizio del centrodestra per le Regionali in Emilia Romagna
Sorpresa! I leader del centrodestra, a Bologna (salvo la premier in collegamento) per chiudere la campagna elettorale in Emilia-Romagna, si concentrano davvero sulla regione al voto. Sembra normale invece non era mai successo. La premier soprattutto aveva sempre insistito sui mirabolanti risultati nazionali del governo, addirittura, in Liguria, dedicando solo una fugace citazione alla regione.
IN EMILIA è tutt’altra musica. Salvini, accolto dal grido «Matteo, Matteo» quasi s’indispettisce: «Sì, mi chiamo così ma oggi da gridare c’è solo il nome di Elena». Al secolo la candidata Ugolini che la premier, in streaming perché la riunione con i sindacati si è prolungata troppo per il treno, dipinge con accenti che nemmeno nell’Iliade.
Non significa che la destra pensi di vincere: i sondaggi li conoscono anche loro. Però i tre leader non rinunciano a giocarsela e sanno che qui martellare troppo sulla propaganda del governo centrale sarebbe controproducente.
«DICONO che non abbiamo chance. Lo dicevano anche in Liguria e la mia, la nostra storia dice che i pronostici possono essere stravolti. Il clima è così surriscaldato perché hanno
Commenta (0 Commenti)Nella foto: Una bandiera americana via Getty Images
Oggi un Lunedì Rosso dedicato agli Stati Uniti.
Al centro, non solo la vittoria di Donald Trump, ma anche il ruolo di Elon Musk, protagonista di un’elezione che ha visto una cerchia di miliardari investire, di nuovo, sul tycoon: esponenti della classe che ha la maggiore (se non la piena) responsabilità dei disastri nei quali siamo immersi – dalla crisi economica a quella climatica alle guerre – ma che riescono a presentarsi come la via di uscita dal pantano.
Il clima, ora, è quasi di regolamento dei conti Trump ha sete di «vendetta» e il primo obiettivo saranno alcune istituzioni del paese e dei loro vertici.
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Sindacati convocati a Palazzo Chigi per una legge di bilancio che sembra blindata. Cgil e Uil: “Nessun pregiudizio, ma preoccupati per il futuro del Paese”
Dovevano vedersi la scorsa settimana, ma poi l’incontro è slittato ad oggi a causa di uno stato influenzale della presidente del consiglio Meloni. Un rinvio che riduce ulteriormente lo spazio di trattativa, se mai ci sarà, per modificare una legge di bilancio che per Cgil e Uil presenta più ombre che luci a differenza della Cisl che trova nel testo grande soddisfazione.
Il giudizio di Landini e Bombardieri è ben noto e lo sciopero generale indetto per il prossimo 29 novembre conferma che la manovra va nella direzione contraria a quella auspicata dai due leader sindacali, convinti che il governo “infliggerà al Paese sette anni di austerità” con la perdita del potere d’acquisto di lavoratori e pensionati causata da un’inflazione da profitti, con la crescita della precarietà e del lavoro nero e sommerso, con i tagli ai servizi pubblici, a partire da sanità, istruzione, trasporto pubblico ed enti locali.
Per non parlare dei rinnovi contrattuali per il pubblico impiego, che coprono appena un terzo dell’inflazione, il taglio del cuneo fiscale (con perdite per molti) pagato dagli stessi
Leggi tutto: Il tavolo - Manovra, quanto margine di trattativa?
Trump incombe sulla Cop29. L’equipe del tycoon avrebbe già pronte le carte per far uscire gli Usa dall’Accordo di Parigi. Defezioni, trattative sui pozzi di petrolio, frattura tra Nord e Sud del mondo: la Conferenza sul clima si apre domani a Baku sotto i peggiori auspici
Previsioni del tempo La conferenza sul clima di Baku, in Azerbaijan, si apre lunedì tra defezioni importanti - assenti tra gli altri Biden, Modi, Trudeau e von der Leyen -, accordi sui pozzi di petrolio e frattura tra Nord e Sud del mondo. Mentre il prossimo presidente americano avrebbe già pronte le carte per far uscire gli Stati Uniti dall’Accordo di Parigi
Marcia degli attivisti per il clima a Washington
Cop29 inizia con cupezza. Il ventinovesimo round negoziale sul contrasto al riscaldamento globale promosso dalle Nazioni Unite apre le porte domani nella capitale azera Baku. Le agenzie battono da giorni gli annunci relativi alle defezioni dei più importanti leader globali, mentre la vittoria elettorale del negazionista climatico Donald Trump incombe come uno spettro su tutto il processo. Ma i negoziatori hanno un solo vero tema di cui parlare: i soldi. Non arriveranno annunci eclatanti su altri dossier da queste due settimane, e sul tema della finanza andrà valutato il successo o il fallimento della Conferenza.
FACCIAMO UN PASSO indietro. L’agenzia Reuters, citando fonti del New York Times, ha fatto sapere due giorni fa che l’equipe di Trump avrebbe già pronte le carte per far uscire gli Stati Uniti dall’Accordo di Parigi – la più importante intesa globale sul contrasto alla crisi climatica. Non è una notizia inattesa: già durante il suo primo mandato il tycoon prese la stessa decisione. Quella volta, però, si convinse quasi alla fine del quadriennio, e i democratici rientrarono nell’Accordo appena riconquistata la Casa Bianca. Stavolta Trump ha la possibilità di tirare fuori il secondo emettitore globale fino ad (almeno) il 2028.
Va detto che Cop29 non navigava comunque in acque tranquille. Non solo la Conferenza del 2015, ma anche la Cop26 di Glasgow del 2021 appare lontanissima. Oggi è la guerra a occupare le menti dei leader globali. La sintesi l’ha offerta, involontariamente, la presidente della Commissione Europea Ursula Von Der Leyen. Rispondendo a una domanda poche settimane fa, ha spiegato che nella formazione della sua seconda squadra di governo il criterio chiave non è stato il clima, ma «sicurezza e competizione». Ovvero, guerra contro la Russia e dazi contro la Cina.
Un disinteresse globale che si riflette nel lungo elenco di defezioni. Non sorprende l’assenza di Xi Jinping e Vladimir Putin. Ma dall’elenco dei presenti mancano anche lo statunitense Joe Biden, l’indiano Narendra Modi, il canadese Justin Trudeau. A sorpresa non ci sarà nemmeno Ursula Von Der Leyen. Discorso a parte per Emmanuel Macron e Olaf Scholz. Il primo non parteciperà, si legge sulla stampa europea, anche in polemica con il governo azero che ospita i colloqui.
La Francia è infatti il maggior alleato europeo dell’Armenia, nemico storico dell’Azerbaijan. Il secondo aveva invece previsto di partire alla volta di Baku, ma ha deciso di rimanere a Berlino per via della crisi che ha investito la sua coalizione di governo. Tra le poche presenze che parrebbero certe, tra i leader di peso dello scenario globale, rimarrebbero il leader britannico Keir Starmer, lo spagnolo Pedro Sánchez, il turco Recep Tayyip Erdogan. Anche Giorgia Meloni dovrebbe esserci, mentre il brasiliano Lula Ignacio da Silva non può volare a causa di una piccola emorragia cerebrale, ma potrebbe parlare tramite video.
I PADRONI DI CASA ci hanno messo del loro per abbassare le aspettative. Elnur Soltanov, uno dei massimi dirigenti della macchina negoziale, è stato filmato segretamente da un gruppo di attivisti sotto copertura mentre usava il suo ruolo per mercanteggiare accordi su nuovi pozzi petroliferi. Il 90% delle esportazioni azere consistono in idrocarburi – molto del loro gas arriva ad esempio in Italia – e la scelta di prendersi la presidenza di Cop29 si inserisce nella linea da anni adottata dai petrostati: impadronirsi dei negoziati per sabotarli. Tutti segnali che lasciano intendere come il problema non sia certo solo Trump: anche con una Kamala Harris vincente il meccanismo delle Cop sarebbe
Leggi tutto: Trump incombe sulla Cop29, accordo di Parigi a rischio - di Lorenzo Tecleme
Commenta (0 Commenti)Donne e bambini Nuovo rapporto dell’Onu: il 44% sono minori, la maggior parte aveva tra i 5 e i 9 anni. Tel Aviv: «Non ci sarà nessun ritorno a nord»
Un gruppo di palestinesi piange i bambini uccisi in un raid israeliano a Deir al-Balah – AbdelKareem Hana/ Ap
Soprattutto donne e bambini. Sull’ormai abituale bollettino della morte a Gaza si è pronunciato ieri l’ufficio dell’Alto commissariato delle Nazioni unite per i diritti umani (Ohchr), con un nuovo rapporto: il 70 percento delle morti accertate nei primi sei mesi dell’invasione israeliana a Gaza erano donne e bambini. La maggior parte di loro aveva tra i 5 e i 9 anni, e complessivamente i bambini ammazzati sono il 44 percento delle vittime totali. Incrociando le informazioni fornite dai vicini delle case bombardate – i pochi rimasti -, dai familiari, dalle Ong locali e dal personale delle Nazioni unite sul campo con i dati sui registri ospedalieri, il rapporto documenta che la vittima più giovane era un bambino di appena un giorno. Tutto questo nella «sconsiderata noncuranza» di Israele, come denuncia Volker Turk, alto commissario Onu per i diritti umani. Turk ha esortato Tel Aviv a rispettare gli obblighi internazionali, ricordando che ci sono mezzi e modi per «limitare e prevenire le sofferenze umane in tempi di conflitto armato».
PROSEGUENDO nella più totale negligenza delle regole e delle istituzioni internazionali, Israele commenta il rapporto delle Nazioni unite derubricandolo a «informazioni non verificate», nelle parole della missione diplomatica israeliana a Ginevra, e prosegue nell’inflizione di sofferenze che da oltre un mese investe il nord della Striscia. Almeno una ventina di palestinesi uccisi e oltre un centinaio feriti, soltanto nelle ultime 24 ore. Al Jazeera riporta che ieri un attacco aereo dell’esercito israeliano ha colpito le aree orientali di Gaza City e un altro ha abbattuto un’abitazione nel campo profughi di Jabaliya, a nord. Ancora a Jabaliya, diversi palestinesi sono rimasti feriti in un bombardamento israeliano all’ingresso della scuola Halima al Sadia, che ospita alcuni sfollati. La distruzione delle infrastrutture civili non accenna a rallentare: l’agenzia di stampa palestinese Wafa registra almeno quattro vittime nell’attacco a una casa nel quartiere di Al Manshiya, a Beit Lahiya.
ANCHE IL RESTO della Striscia continua a essere bersaglio dell’esercito israeliano, che pure avrebbe istituito nel centro e a sud la «zona umanitaria», dove si rifugiano la
Leggi tutto: La strage di Gaza, altro che terroristi - di Enrica Muraglie
Commenta (0 Commenti)Usa, il vincitore Trump si prepara a fare a pezzi lo Stato e i suoi rivendicano la famigerata agenda “Project 2025”:
«È tutto vero, la realizzeremo». Tra i vinti volano gli stracci, il capro espiatorio Biden non fa autocritica. Sanders e la sinistra dei democratici avanzano una spiegazione: i lavoratori vogliono un cambio, e hanno ragione
Stati uniti Biden e Harris promettono una transizione pacifica ma non si assumono responsabilità. Ci pensa la sinistra di Sanders e Ocasio-Cortez. Dopo averlo negato per mesi, ora l’entourage trumpiano rivendica l’agenda: è il Project 2025. Sms e mail dalle città democratiche: terapia gratis per superare il trauma e farne resistenza
Joe Biden alla fine del suo discorso alla Casa Bianca - foto Ansa
In campagna elettorale Donald Trump si è più volte distanziato dal «Project 2025», programma politico lanciato dalla super conservatrice Heritage Foundation, per ridefinire i ruoli istituzionali del governo federale. Ora che ha vinto, tutto il suo entourage più destrorso rivendica la validità di quel progetto.
Da quando ha fatto il suo discorso da vincitore, Trump non ha parlato pubblicamente; a gongolare e a rivendicare le posizioni più a destra ci ha pensato Matt Walsh, podcaster di estrema destra, che su X ha scritto: «Penso che possiamo finalmente dire che sì, in realtà il Progetto 2025 è l’agenda. Lol». Subito dopo l’ex consigliere della Casa bianca Steve Bannon nel suo podcast ha elogiato Walsh, così come ha fatto l’influencer di destra Benny Johnson, sempre su X: «È un onore per me informarvi che il Progetto 2025 è sempre stato molto reale per tutto il tempo». E anche Bo French, un funzionario repubblicano del Texas ha scritto su X: «Quindi ora possiamo ammettere che implementeremo il Project 2025».
MENTRE SI ATTENDE di capire in che modo The Donald vorrà mantenere le sue promesse elettorali, la parola è ancora del partito sconfitto. «In democrazia prevale sempre la scelta del popolo, e noi lo accettiamo: non si può amare il Paese solo quando si vince» ha detto Joe Biden nel suo primo discorso dopo la sconfitta, promettendo una «transizione dei poteri pacifica e ordinata», sottolineando che avrebbe «onorato la Costituzione» e ricordando alcuni dei successi della sua amministrazione.
Anche Kamala Harris, quando mercoledì pomeriggio si è rivolta ai suoi sostenitori, ha parlato di «transizione pacifica» e rispetto della costituzione, così come Nancy Pelosi e il comitato elettorale democratico, per rimarcare la differenza fra questa amministrazione e quella che l’ha preceduta e che la seguirà.
MAGRA SODDISFAZIONE di stile, per un Paese che si è consapevolmente avviato verso l’autoritarismo. Dopo essersi assicurati Casa bianca e Senato (alla Corte suprema aveva pensato Trump già nel primo mandato), i repubblicani sono pronti a prendere il controllo della Camera: decine di seggi sono ancora impegnati in testa a testa troppo vicini per decretare un vincitore. Per i dem però, non sembra tirare una buona aria, neppure lì. Chiunque vincerà avrà una maggioranza risicata, ma se per i repubblicani sarebbe solo una facilitazione, per i Dem rappresenta l’unico appiglio.
«Mentre la leadership democratica difende lo status quo, il popolo americano è arrabbiato e vuole il cambiamento. E ha ragione», ha detto il socialista Bernie Sanders commentando la catastrofica sconfitta elettorale, dopo essere stato rieletto per la quarta volta come senatore del Vermont. Sanders ha sottolineato il distacco del partito dalla sua base: «Non ci deve sorprendere che un partito democratico che ha abbandonato la classe lavoratrice scopra che la classe lavoratrice gli ha voltato le spalle alle urne. All’inizio è stata la classe operaia bianca, ora anche i lavoratori ispanici e neri».
SANDERS HA PARLATO di «grandi interessi economici e consulenti ben pagati che controllano il partito democratico» e si è chiesto: «Impareranno qualche vera lezione dalla
Leggi tutto: Tra i dem volano gli stracci - di Marina Catucci NEW YORK
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