MEDIO ORIENTE. L’Unrwa non riesce a far arrivare gli aiuti, «la gente affamata li assalta prima». In poche ore stragi a Deir al-Balah e Rafah. Più vicino l’accordo tra Tel Aviv e Hamas: il movimento islamico rinuncia ad alcune richieste, bozza di intesa sul tavolo di Netanyahu
«Cosa vorrei? Una shawarma. E il kebab». Sorride Ali mentre mostra al cameraman di Al Quds News quello che stringe nel pugno: mangime per polli. Ali ha 10 anni, le immagini arrivano dal nord di Gaza. Accanto, un uomo scalda sul fuoco del mangime fino a farne una polpetta arancione.
Ali dice che è stanco di nutrirsi di mangime, gli fa venire mal di pancia e bruciore alla gola. Le agenzie umanitarie lo denunciano da settimane, a Gaza nord la fame è una cappa che non si dirada mai: per dimenticarsela appena per qualche ora si mangiano foglie, erbacce, mangime per gli animali.
POCHI CAMION umanitari varcano il confine del centro di Gaza, immaginario ma ormai reale come le pallottole sparate dai cecchini israeliani contro chi quei camion li insegue. Se non sono i cecchini, sono le navi da guerra a sparargli contro, facendo esplodere tonnellate di farina. I bambini accorrono lo stesso, si infilano in tasca manciate di farina sporca.
Peggiorerà: ieri l’Unrwa, l’agenzia Onu per i rifugiati palestinesi, ha messo in pausa le consegne verso il nord perché Israele non concede permessi di transito e perché «il comportamento disperato delle persone affamate ed esauste impedisce il passaggio sicuro e regolare dei nostri camion», ha detto la funzionaria Tamara Alrifai. Li assaltano.
Gli Stati uniti sono molto irritati con Tel Aviv, scrive Axios, per cui hanno chiesto a Israele di smetterla di prendere di mira gli aiuti umanitari. Soprattutto a poche ore dalla scadenza dei 30 giorni che la Corte internazionale di Giustizia aveva dato a Tel Aviv per conformarsi alle misure provvisorie prese il 26 gennaio scorso per evitare atti genocidiari.
Per la Corte l’accusa di genocidio è plausibile
Secondo l’israeliano Ynet News, Tel Aviv invierà una notifica formale all’Aja lunedì, in cui dettaglierà i modi in cui avrebbe rispettato le richieste del più alto tribunale del pianeta. In realtà non ne ha ottemperata nessuna. Ogni giorno è un crimine, in termini di aiuti fantasma, incitamento al genocidio e massacri (almeno 29.600 uccisi dal 7 ottobre, di cui 5mila negli ultimi 30 giorni).
L’operazione terrestre su Rafah non è partita, ma quella dal cielo basta e avanza. Come ieri: per mezz’ora le bombe sono piovute sulla città-rifugio del sud, mezz’ora è un tempo infinito quando il cielo erutta morte. E la morte si scarica a terra: decine gli uccisi, nei video si vedono i soccorritori, civili, che provano a rimuovere macerie a mani nude, uno sforzo inutile.
SONO STATI colpiti un mercato e due edifici residenziali, ospitavano sfollati. «Sembrava un terremoto – racconta il corrispondente di al Jazeera Hani Mahmoud – È scoppiato un incendio. Le macchine sono state incenerite, due delle vittime non si riescono a riconoscere, sono bruciate».
Qualche ora prima, di notte, era stata la città centrale di Deir al-Balah a vedersi piovere addosso i raid. L’aviazione israeliana ha centrato alcune abitazioni, tra cui quella della famiglia del comico gazawi Mahmoud Abu Zaeiter. Oltre venti gli uccisi, tra cui 14 bambini. Uno aveva quattro mesi, tanti quanti la guerra, si chiamava Yasser al-Dalu: «Abbiamo lottato tanto per averlo, ci abbiamo provato per otto anni», dice la madre Noor in lacrime alla Reuters.
E poi ci sono i morti e i feriti degli altri edifici, vivevano in 150 nelle case colpite. «Non siamo equipaggiati a ricevere un così alto numero di vittime», ripete il dottor Khalil al-Degran dell’Al-Aqsa Hospital, mentre intorno corpi vivi e corpi morti giacciono sui pavimenti. «Abbiamo raccolto pezzi di cadaveri di donne e bambini, giuro su dio erano donne e bambini. Che hanno fatto queste ragazzine per essere smembrate così da Israele?», dice un soccorritore.
L’eco della frustrazione collettiva rimbomba dentro gli uffici delle Nazioni unite che negli ultimi due giorni sono tornate ad alzare la voce come mai fatto negli anni passati. Il Consiglio Onu per i diritti umani, con il commissario Turk, ha chiesto una verifica della situazione dei diritti umani nei Territori occupati perché «l’impunità consolidata registrata per decenni non può continuare. Le parti devono rispondere delle violazioni commesse in 56 anni di occupazione e in 16 di assedio di Gaza».
Con il mondo contro, Israele non arretra né a Gaza né a Jenin
PAROLE che arrivano a poche ore dal comunicato firmato dagli esperti e i relatori speciali Onu che hanno fatto appello alla comunità internazionale perché imponga l’embargo militare su Israele: basta vendergli armi.
Il ministro degli esteri Israel Katz ha risposto con una foto posticcia su X, degna del peggior Photoshop: il segretario Onu Guterres tra l’iraniano Raisi e il siriano Assad, sotto la scritta «Human Rights Council».
Una minuscola luce arriva da Parigi. La stampa israeliana parlava ieri di «progressi significativi» nel negoziato tra Israele ed Hamas. Nella capitale francese ci sono tutti, le delegazioni statunitense, qatarina, egiziana e israeliana, guidata dal capo del Mossad, David Barnena, che nella serata di ieri avrebbe dovuto mettere sulla scrivania del premier Netanyahu la bozza di accordo. Attesa anche la reazione di Hamas, che avrebbe rinunciato ad alcune richieste.
Fonti diplomatiche hanno riportato ad Haaretz di una buona flessibilità delle parti, «l’accordo può essere raggiunto prima del Ramadan», il prossimo 10 marzo. Sei settimane di tregua, 40 ostaggi israeliani da rilasciare insieme a centinaia di prigionieri palestinesi. I dettagli sono fumosi, l’ottimismo di meno. Chissà se basterà.
Ieri a Tel Aviv, Cesarea e Haifa a migliaia hanno marciato per chiedere le dimissioni di Netanyahu. A Tel Aviv protesta dispersa con i cannoni ad acqua: era illegale, dice la polizia
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CRISI UCRAINA. Pensioni basse, lavoro che non c’è: spostarsi nelle grandi città per molti è una chimera. «Il governo ucraino non ha mai prestato attenzione a noi qui nell’est. Le pensioni, il lavoro...dico solo che ci siamo sentiti abbandonati per anni»
I funerali di un soldato ucraino ucciso nel Donbass - Ap/Evgeniy Maloletka
Ma perché dopo due anni di guerra i civili rimasti nel Donbass non se ne vanno? Il pensiero si sofferma sempre su questa domanda scontata quando vedi gli anziani che trascinano a fatica i carrellini carichi di acqua o provviste sulle strade dissestate dei paesini a ridosso del fronte.
«Sono separatisti, aspettano i russi», rispondono generalmente i soldati. Dopo averne conosciuti decine pensi di averci capito qualcosa: sono solo persone legate alla propria casa, alla propria terra, alle abitudini (che a volte includono la nostalgia dell’Urss, in effetti); non riescono neanche a immaginarsi altrove.
Negli ultimi giorni abbiamo constatato che la stanchezza della guerra è riuscita a vincere anche loro, solo che c’è un altro ostacolo insormontabile: la pensione non basta.
OGGI INIZIA il terzo anno di guerra e osservando attentamente il contesto dell’Ucraina orientale è lampante che il prolungarsi del conflitto ha creato una separazione netta tra chi può permettersi di resistere e chi non può. Non è una questione di coraggio o di volontà ma di disponibilità economica. Anche se non è tutto uguale qui a Siversk.
Elena, che si era affaticata fino al 5° piano di un palazzo abbandonato per mostrarci la sua «porta sul cielo», ovvero il suo appartamento sventrato da un missile russo, se n’è andata. Olga, che friggeva piroshki buonissimi in una padella vecchia quasi quanto lei, pure.
Il vecchio Ivàn che ammucchiava legna dagli arredi dei negozi bombardati e poi la tagliava minuziosamente, per tutto il giorno salvando dal gelo notturno le sue vicine, non si vede.
«Si sono fatti evacuare», spiega un altro anziano che stoico si scalda un po’ al sole su una panchina fuori da un rifugio. «Pavlograd, Dnipro, Kiev… non so di preciso». E lui? «Dove dovrei andare, a fare cosa, chi mi ci porta?». «Ma il governo ucraino non ha un piano di assistenza per chi viene evacuato dalle zone di guerra?». L’uomo si lascia andare un gesto di stizza: «Una volta forse, ora non ci sono più soldi, con la pensione come faccio a vivere altrove?».
Otto anni più due, oligarchi contro classe operaia
IL VECCHIO rifugio di Olga ed Elena è diventato «casa sicura» dei militari di stanza in città. Il comandante, un graduato con due stellette, non tollera la nostra intrusione e non serve spiegargli che conosciamo delle persone qui, requisisce i documenti e si allontana per i controlli.
«Ma vi rendete conto – riprende – che il 90% degli attacchi russi sulle nostre posizioni vengono calibrati sulle informazioni che l’intelligence nemica prende da fonti open source (di pubblico accesso su internet, ndr) proprio dalle immagini e dai video che voi giornalisti pubblicate?».
La percentuale sembra un po’ alta, comunque proviamo a spiegargli che siamo interessati solo ai civili. Lui si arrabbia ancora di più e si lancia in un lungo rimprovero. Un attendente armato con il kalashnikov in pugno è alle sue spalle, intorno i militari sono indaffarati. Dopo la ramanzina ci lascia andare e raccomanda di non stargli tra i piedi, ha cose più importanti a cui pensare.
Incontriamo Maria, minuta e raggrinzita ma con gli occhi svegli di un azzurro tagliente. «Con l’aiuto di Dio supereremo anche questa» e si fa il segno della croce. Maria era un’insegnante all’asilo comunale. «I miei bambini mi chiamano ancora, dalla Germania, la Polonia, l’Italia, sono sparsi in tutta Europa ma si ricordano della loro vecchia maestra», racconta allegra.
Lei ha un motivo pratico per non andarsene, che in realtà vale per tutti qui, «la mia pensione è di 2.300 grivnia al mese (poco più di 50 euro, ndr), dove potrei sopravvivere con questa cifra?». «Ma – riprende subito a scanso di equivoci – non mi voglio lamentare, gloria a Dio che ci ha mantenuti vivi e sarà ciò che Egli vorrà».
«SE ARRIVASSERO i russi resterebbe?», le chiediamo. «Io voglio solo la pace, al più presto possibile, la pace per tutti. Questa guerra ci sta rovinando, troppi sono morti».
I soldati ucraini si comportano bene con lei? «Sì, sono bravi ragazzi, ma ti dico una cosa: fin dall’indipendenza il governo ucraino non ha mai prestato abbastanza attenzione a noi qui nell’est. Le pensioni, le condizioni di lavoro… molti problemi sono nati anche da questo. Non ce l’ho con nessuno, dico solo che ci siamo sentiti abbandonati per molti anni». Prima di lasciarci andare ci rimprovera bonariamente di frequentare luoghi troppo pericolosi e ci dà la sua benedizione.
«Dove dovrei andare?», è la risposta che ci danno anche altre signore in attesa davanti a una distribuzione di aiuti umanitari. Anche loro percepiscono 2.300 grivnia di pensione «e lo sai quanto costa un kg di salsicce di bassa qualità? 230 grivnia! Come lo pago l’affitto, la spesa, le medicine?».
Nel rigido inverno dell’est, dovunque ti volti, sulle facce di chi si trova tra i due eserciti leggi che nulla è cambiato dalla notte dei tempi: la guerra la iniziano i ricchi ma sono i poveri a pagarne le conseguenze
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REPRESSIONI. Manifestazioni per la Palestina e manganelli. Sta diventando una inaccettabile costante: ieri, a Pisa, Firenze, Catania; pochi giorni fa ai presidi sotto la Rai, a Napoli, Torino e Bologna. La […]
Manganellate della polizia contro gli studenti a Roma a Natale 2023 - Ansa
Manifestazioni per la Palestina e manganelli. Sta diventando una inaccettabile costante: ieri, a Pisa, Firenze, Catania; pochi giorni fa ai presidi sotto la Rai, a Napoli, Torino e Bologna.
La deriva autoritaria che ha la sua veste istituzionale nella riforma sul premierato si esercita nelle piazze sotto forma di violenza delle forze di polizia, nelle aule di tribunale con la repressione del dissenso, nello spazio pubblico con l’espulsione del pensiero divergente.
Quasi sembra di vivere in una distopia, non nella realtà: sul serio non si può nemmeno pronunciare la parola «genocidio» se accostata alla Palestina e Israele? Non si può manifestare per un cessate il fuoco, per la pace?
Sembra quasi una commedia dell’assurdo, se non stessimo manifestando per una tragedia e se non fosse che stiamo scivolando verso il baratro.
Manifestare per la pace, per il lavoro, manifestare in sé, è agire e attuare la Costituzione; una democrazia che impedisce la libertà di espressione, la discussione, il dibattito, abbandona i suoi presupposti, le condizioni minime di una «democrazia liberale».
Polizia e populismo nell’Italia contemporanea
È un filo nero quello della repressione del dissenso che lega decreti sicurezza che si susseguono senza soluzione di continuità, normalizzando, con un ossimoro, presunte emergenze e stabilizzando eccezioni (violazioni) dei diritti; prassi delle procure che considerano la protesta eversiva rispetto alla democrazia; pronunce della magistratura civile e amministrativa che infliggono risarcimenti a chi contesta scelte politiche; provvedimenti di prefetti e questori che sottraggono spazi pubblici alle manifestazioni e comminano fogli di via agli eco-attivisti per le azioni di disobbedienza civile; limitazioni delle commissioni di garanzia agli scioperi; nuovi reati e pene per il dissenso, il disagio sociale e la solidarietà; daspo urbano per chi disturba il decoro della città.
È un filo che sta tessendo una cappa nera, che si diffonde a partire dai margini: dagli «antagonisti», come tendenzialmente vengono qualificati tutti i manifestanti, che si sa sono tutti violenti; dai migranti, che non sono «noi», non sono cittadini e forse anche un poco meno umani; dai poveri, che in fondo qualche colpa per la loro situazione l’avranno pure.
E la cappa diviene sempre più asfissiante, il diritto penale del nemico diviene panpenalismo, perché chi è controcorrente, con la materialità della sua esistenza o con la manifestazione delle sue idee, è un nemico. Preciso: occorre denunciare e resistere all’espulsione sociale e politica di ciascuna persona, non solo perché è un passo verso altre repressioni, ma in quanto tale; ogni diritto negato a qualsiasi persona, senza che si reagisca, rende tutti un po’ meno democratici, un po’ meno umani.
Guerra e diritti, cambiare programma
La logica della guerra, che non chiede di ragionare, ma di obbedire, e l’egemonia del modello neoliberista, che nega alternative e deve blindarsi per sopravvivere agli effetti brutali che produce (sulle persone e sulla natura), convergono naturalmente (del resto muovono dalla stessa radice di sopraffazione) nella volontà di anestetizzare il conflitto.
La passività, l’acquiescenza, l’ignavia sono la strada più comoda. Ed è un percorso facilitato da scuola e università che le controriforme tendono a ridurre a mercati dove acquistare nozioni (i crediti) da spendere nel mercato del lavoro, sterilizzandone le potenzialità come luoghi di creazione e discussione di sapere critico.
E se ancora vi sono resistenze, se ancora studentesse e studenti scendono in piazza, le cariche della polizia e i processi a carico dei manifestanti che poi ne seguono, si incaricano della repressione e della dissuasione.
È una democrazia quella che intimida chi manifesta, delegittima chi esprime opinioni controcorrente, accetta campi di detenzione e morti alle frontiere, punisce ed espelle chi vive condizioni di disagio?
Sicuramente non è la democrazia disegnata dalla Costituzione, che persegue la rimozione dei condizionamenti economici e sociali, sancisce il diritto di asilo, ripudia la guerra, promuove la partecipazione effettiva. Della democrazia non basta mantenere il nome.
Il mondo nella bolla di Rai Uno
Sono tanti i segnali inquietanti che ci circondano, cerchiamo di vederli, comprendere le loro connessioni, denunciamo la violenza della polizia, in sé e quale espressione fisica della violenza «di sistema», continuiamo ostinatamente a manifestare e manteniamo aperto lo spazio della critica dell’esistente
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Siamo docenti del Liceo artistico Russoli di Pisa e oggi siamo rimasti sconcertati da quanto accaduto in via San Frediano, di fronte alla nostra scuola. Studenti per lo più minorenni sono stati manganellati senza motivo perché il corteo che chiedeva il cessate il fuoco in Palestina, assolutamente pacifico, chissà mai perché, non avrebbe dovuto sfilare in Piazza Cavalieri. Gli agenti in assetto antisommossa avevano chiuso la strada e attendevano i ragazzi con scudi e manganelli, mentre dalla parte opposta le forze dell’ordine chiudevano la via all’altezza di Piazza Dante. In via Tavoleria un’altra squadra con scudi e manganelli.
Proprio di fronte all’ingresso del nostro liceo, hanno fatto partire dapprima una carica e poi altre due contro quei giovani con le mani alzate. Non sappiamo se se siano volate parole forti, anche fuori luogo, d’indignazione e sdegno, fatto sta che, senza neanche trattare con gli studenti o provare a dialogare, abbiamo assistito a scene di inaudita violenza. Ci siamo trovati ragazze e ragazzi delle nostre classi tremanti, scioccate, chi con un dito rotto, chi con un dolore alla spalla o alla schiena per manganellate gentilmente ricevute, mentre una quantità incredibile di volanti sfrecciava in Via Tavoleria.
Come educatori siamo allibiti di fronte a quanto successo oggi. Riteniamo che qualcuno debba rispondere dello stato di inaudita e ingiustificabile violenza cui sono stati sottoposti cento/duecento studenti scesi in piazza pacificamente: perché si è deciso di chiuderli in un imbuto per poi riempirli di botte? Chi ha deciso questo schieramento di forze, che neanche per iniziative di maggior partecipazione e tensione hanno attraversato la nostra città?
Oggi è stata una giornata vergognosa per chi ha gestito l’ordine pubblico in città e qualcuno ne deve rispondere.
L’Università di Pisa esprime profonda preoccupazione e sconcerto per gli scontri avvenuti questa mattina nel centro della città, che hanno causato a quanto pare il ferimento di studenti universitari e di studenti delle scuole superiori.
In attesa di ricevere chiarimenti sull’accaduto e sull’operato delle forze dell’ordine, auspica che tutte le autorità competenti intervengano per garantire la corretta e pacifica dialettica democratica, tutelando la sicurezza della popolazione e della comunità studentesca.
Conferma la sua posizione caratterizzata dalla massima apertura al dialogo pacifico fra tutte le posizioni e dal ripudio della violenza in tutte le sue forme. Riguardo alla tragica situazione in Israele e Palestina, ribadisce il suo sgomento per l’attacco terroristico dell'ottobre scorso e per la strage attualmente in corso nella striscia di Gaza, unendo la sua voce a quella di tutti coloro che chiedono l’immediato cessate il fuoco e la liberazione degli ostaggi.
Informa di aver già organizzato per il 14 marzo una riunione straordinaria del Senato Accademico aperta alla partecipazione di esterni, nel corso del quale verranno presentate, discusse e votate mozioni, elaborate anche da gruppi studenteschi, su questa e altre questioni di grande impatto sociale.
Riccardo Zucchi
Rettore dell’Università di Pisa
GUERRA INFINITA. L'esercito israeliano costruisce una strada che taglia in due la Striscia. E a Zeitoun cerca palestinesi per sostituire i funzionari di Hamas
Della strada 749 ha riferito per prima, qualche giorno fa, Canale 14, la tv online della destra. Ora sono giunte le prime conferme. Le forze armate israeliane stanno costruendo una nuova strada, descritta come un «corridoio strategico», che taglia in due la Striscia di Gaza. Corre da est a ovest, dalle linee di demarcazione fino alla costa mediterranea. Otto chilometri percorribili in pochi minuti dai mezzi militari israeliani che in questo modo potranno muoversi ed intervenire anche nel nord e nel sud della Striscia. La notizia si inserisce in un quadro bellico sempre drammatico per i civili palestinesi. Bombe israeliane sganciate su Rafah hanno ridotto in lastre di cemento e pietre la moschea Al Farouk e distrutto quattro case in quella che gli abitanti di Rafah hanno descritto come una delle notti peggiori dall’inizio dell’offensiva israeliana quasi 5 mesi fa. Almeno sette i morti. I loro cadaveri sono stati rinchiusi in sacchi. Nelle foto apparivano adagiati sul selciato fuori da uno degli obitori nella città a ridosso del confine egiziano – in cui oltre la metà dei 2,3 milioni di palestinesi di Gaza si ammassano in enormi tendopoli – e che nei prossimi giorni o settimane potrebbe essere il bersaglio di un’altra offensiva militare. La tensione è sempre più alta anche in Cisgiordania. Ieri mattina tre palestinesi, hanno aperto il fuoco contro le automobili in coda a un posto di blocco tra l’insediamento coloniale di Maale Adumim e Gerusalemme, uccidendo un israeliano e ferendo altre 11 persone. Due degli attentatori sono stati uccisi, il terzo è stato catturato.
La costruzione del «corridoio strategico» avviene al costo della distruzione di un gran numero di abitazioni palestinesi e di infrastrutture civili. Il suo completamento, con l’allestimento di posti di blocco e di zone di sicurezza, riguarda la fase successiva all’offensiva in corso, in cui Israele, evidentemente, intende mantenere il controllo di Gaza per un periodo indefinito di tempo. La strada ora sterrata si estende per circa otto chilometri, rimodella completamente la topografia della Striscia e, punto centrale, potrebbe impedire a un milione di palestinesi di tornare nel nord della Striscia. Il progetto si aggiunge alla «zona cuscinetto» larga un chilometro che il gabinetto di guerra israeliano, incurante dei blandi ammonimenti dell’Amministrazione Biden, ha ordinato di realizzare lungo il confine, all’interno di Gaza, sottraendo quasi 40 kmq, in buona parte terreni agricoli, al già minuscolo territorio della Striscia (circa 360 kmq).
Comunque sia, Washington si prepara a finalizzare una nuova spedizione di armi a Tel Aviv, comprese mille bombe MK-82 da 500 libbre. E non servirà a fermarla il racconto di Ramadan Shamlakh, 22 anni, che ha denunciato di essere stato violentemente percosso e ferito da soldati israeliani. In un filmato, il giovane palestinese appare con una benda macchiata di sangue avvolta attorno alla testa e un’altra attorno al braccio sinistro, il viso gonfio e insanguinato e con l’occhio destro chiuso, con tagli sulle dita della mano destra fatti, ha detto, con un coltello. «Mi sdraiava a terra e mi diceva di non muovermi. Prendeva delle pietre e le lanciava contro le mie gambe. Ogni volta che mi muovevo mi prendeva a calci. Non potevo respirare, non potevo parlare», ha dichiarato Shamlakh riferendo del comportamento di un soldato israeliano che gli avrebbe anche fracassato addosso due sedie.
Mentre prosegue la sua offensiva – che ha fatto circa 30mila morti palestinesi, 97 dei quali nelle ultime 24 ore, e decine di migliaia di feriti -, Israele cerca palestinesi che non siano affiliati ad Hamas per gestire gli affari civili nelle aree di Gaza in cui pensa di fare dei «test» in «sacche umanitarie» per l’amministrazione postbellica dell’enclave. L’ha riferito ieri il giornale Haaretz citando un alto funzionario israeliano. Il piano esclude coloro che sono legati ad Hamas e all’Autorità nazionale palestinese (Anp). Di fatto equivale alla rioccupazione di Gaza. Secondo la tv Canale 12, il sobborgo di Zeitoun, a nord di Gaza City, è il primo candidato per l’attuazione del piano, in base al quale commercianti locali ed esponenti della società civile distribuiranno aiuti umanitari alla popolazione. Hamas ha descritto il piano come «destinato al fallimento». Ma anche Wassel Abu Yousef, dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina di cui fa parte l’Anp, ha condannato le intenzioni di Israele. «Tutti i tentativi di Israele di cambiare le caratteristiche politiche, geografiche e demografiche di Gaza non avranno successo», ha detto previsto Abu Yousef. Gli Stati uniti vorrebbero «rivitalizzare» l’Anp e metterla al governo di Gaza dopo la guerra. Ma Israele continua a respingere questa proposta.
Il taglio dei fondi per l’Unrwa (Onu) da parte di 16 paesi, intanto comincia a pesare anche in Libano dove si trovano 12 campi profughi palestinesi. Dorothee Klaus, direttrice dell’agenzia a Beirut, ieri ha avvertito che i fondi sono finiti e si augura che i donatori facciano marcia indietro e riprendano i finanziamenti all’Unrwa che assiste in tutto il Medio oriente oltre cinque milioni di profughi palestinesi. Israele accusa 12 dei 13.000 dipendenti dell’Unrwa di aver preso parte all’assalto guidato da Hamas il 7 ottobre e chiede che l’agenzia venga chiusa o almeno fatta uscire da Gaza. Sino ad oggi però non ha fornito le prove definitive della partecipazione dei 12 dipendenti all’attacco di Hamas. Nel Libano da mesi fronte di guerra parallelo a quello di Gaza, altre quattro persone sono state uccise e altre sono rimaste ferite in un attacco di droni israeliani contro un appartamento nella città di Kfar Remen, situata nella regione del governatorato di Nabatieh
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La segretaria del Pd Elly Schlein - Foto LaPresse
A pochi giorni dalla presentazione della piattaforma unitaria Fim, Fiom, Uilm per il rinnovo del contratto dei metalmeccanici che lo cita esplicitamente, l’obiettivo della riduzione di orario a parità di salario viene rilanciato sia dal Pd che dal M5s. Elly Schlein e Giuseppe Conte sembra che abbiano fatto a gara per presentarlo proprio ieri, a pochi minuti di distanza anche sui loro rispettivi profili social.
La segretaria del Pd non lo manca di sottolineare: «I sindacati metalmeccanici italiani per il rinnovo contrattuale 2024-2027 propongono di sperimentare la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario. Parliamo di 1,5 milioni di lavoratrici e lavoratori», continua Schlein. «Non è una piccola questione, è invece una proposta che punta ad una nuova idea di società in cui si rimettono al centro la qualità della vita e del lavoro, l’innovazione organizzativa e la necessità di redistribuire la ricchezza e il tempo libero delle persone. Significa migliorare la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro, in un paese dove c’è un problema enorme di precarietà e di part-time involontario che colpisce soprattutto le donne». «Noi – spiega Schlein – facciamo una proposta molto semplice: allarghiamo il Fondo nuove competenze – cofinanziato dal Fondo sociale europeo – introducendo anche la sperimentazione della riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario», scrive sui social la segretaria del Pd. «Scommettiamo sul modello della contrattazione collettiva tra imprese e sindacati per incentivare la settimana corta. Un fondo che aiuti chi stipula contratti per la riduzione dell’orario di lavoro attraverso un esonero contributivo del 30 per cento dei contributi previdenziali che si allarga al 40 per le prestazioni lavorative usuranti e gravose. Si può fare». «La scelta è tra il passato e il futuro. L’Italia è uno dei pochi paesi dove non c’è alcuna iniziativa legislativa che incentivi la sperimentazione sulla riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario», mentre tante sono le «sperimentazioni in Gran Bretagna, Portogallo, Germania, Spagna e Belgio».
Ancora più avanzata la proposta di Giuseppe Conte: «È arrivata in Commissione Lavoro alla Camera una proposta a mia prima firma sulla riduzione del tempo di lavoro. La nostra proposta è di ridurre in via sperimentale l’orario di lavoro da 40 a 32 ore, a parità di retribuzione», così il leader M5s in una diretta su Facebook ieri mattina. Il leader 5 Stelle cita statistiche positive dei paesi in cui la «settimana corta» è stata adottata, dall’Europa a Microsoft in Giappone: «Aumenta la soddisfazione dei dipendenti e il livello di produttività dell’azienda ed ha anche vantaggi dal punti di vista ambientale», sia in termini di emissioni che di consumi energetici. «L’obiettivo è fare anche dell’Italia il prossimo Paese in cui sperimentare questa riforma e siamo pronti a confrontaci, spero ci sarà un dialogo sereno con le altre forze politiche».
Consonanze programmatiche nel Campo Largo, dunque. Che si spera potranno entrare in un futuro programma di governo
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