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DEMOCRAZIA INCOMPIUTA. Presentate due proposte di legge. Manfredonia: il parlamento deve rispondere alle proposte che vengono dal basso, modello tedesco per tornare al finanziamento pubblico

Le Acli rilanciano la partecipazione: assemblee popolari e partiti trasparenti Un seggio elettorale - Foto Ansa

Alla vigilia delle Elezioni europee che verosimilmente confermeranno l’Italia agli ultimi posti dell’affluenza alle urne, specie in raffronto a ciò che accadeva nel ’900, le Acli lanciano due proposte di legge di iniziativa popolare per rilanciare la partecipazione politica. L’associazione cattolica che fa parte de «La via maestra» («che le appoggia»), insieme ad Argomenti 2000, ha presentato ieri i due testi alla Federazione nazionale della stampa (Fnsi). «Il primo partito da anni in Italia è quello dell’astensione, vogliamo provare a rilanciare la partecipazione con proposte concrete», spiega il presidente Emiliano Manfredonia.

La prima proposta di legge dal titolo “Misure in materia di partecipazione, istituzione delle Assemblee partecipative e modifiche agli istituti partecipativi” consta di 13 articoli e punta a superare un atavico problema del sistema politico italiano: il totale menefreghismo del parlamento rispetto alle proposte di legge di iniziativa popolare che rende quasi sempre inutile la sottoscrizione da parte dei cittadini di testi e il lavoro delle associazioni che le lanciano.

Il primo obiettivo dunque è quello di «rendere obbligatorio che il parlamento le prenda in considerazione e abbia 180 giorni di tempo per motivare almeno la ragione per cui decide di non votarle», spiega Manfredonia.

Per fare questo, le Acli propongono la creazione delle «Assemblee partecipative» create «da 300 cittadini, una sorta di parlamentino, a sorteggio (ma assicurando «proporzionalità per sesso, età e area di residenza», prevede il testo, ndr) fra i cittadini che dovranno informarsi e discutere una determinata materia, ad esempio il fine vita su cui si litiga da anni senza mai decidere» – attacca Mandredonia – e arriveranno a scrivere una «relazione conclusiva» che «il parlamento entro 180 giorni dalla ricezione della stessa, ad esprimersi sulla materia oggetto del parere e a darne riscontro all’Assemblea. In ogni caso, è tenuto a motivare per iscritto l’eventuale decisione di discostarsi o disattendere il parere dell’Assemblea sull’oggetto assegnato», recita il testo.

Se la prima proposta di legge è una novità assoluta, la seconda sui partiti «ricalca il modello tedesco», spiega Manfredonia. L’idea è quella di «creare un autorità garante che certifichi la trasparenza e la democraticità dei partiti e che, appurato questo, li faccia accedere al finanziamento pubblico». I partiti sarebbero poi assimilabili «a fondazioni con centri studio allo scopo di formare alla politica in special modo le giovani generazioni», spiega Manfredonia. Il tutto «ha come scopo quello di superare la situazione attuale in cui i partiti sono finanziati esclusivamente dalle lobby o da grandi capitali e imprese che rischiano di portare ad episodi di corruzione», conclude Manfredonia.

La proposta di legge “Disposizioni sull’applicazione del metodo democratico e della trasparenza dei partiti politici e sul finanziamento pubblico diretto alla partecipazione politica” consta di 11 articoli e parte dalla creazione del Registro Nazionale dei partiti politici presso l’Autorità Nazionale sui Partiti Politici (Anpp)». Quanto alla partecipazione attiva dei giovani fra i 16 e 35 anni di età alla politica, «ogni partito politico destina alla loro formazione e coinvolgimento una quota pari almeno al 15 per cento dei finanziamenti ricevuti per le spese per le consultazioni elettorali», prevede il testo. Mentre le donazioni non potranno essere «comunque non superiori a 50 mila euro per singolo donatore o sostenitore».

La proposta prova poi a dire basta ai tanti partiti personali o di carta: ogni partito poi dovrà avere un «Assemblea dei delegati degli iscritti», e dovrà prevedere «elezioni diretta degli iscritti»

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EUROPA CON L'ELMETTO. Il colosso degli armamenti Rheinmetall è il nuovo sponsor del Borussia Dortmund

Colpire in territorio russo, via il tabù in ordine sparso

Il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg - Ap

In ordine sparso, ciascuno pensando agli affari politici suoi, seppure tutti pronti ad assumere la postura richiesta dal segretario generale della Nato. Con i falchi della guerra totale alla Russia contro le mezze-colombe sempre troppo poco propense a rischiare l’escalation finale. Formalmente gli Usa tengono la red-line del veto agli attacchi in profondità in territorio russo («la nostra posizione non cambia») tuttavia l’amministrazione Biden sul tema è più che spaccata e perfino l’ex dialogante Trump ormai immagina di «bombardare Mosca» (secondo quanto riporta il Washington Post); mentre Francia e Germania annunciano la nuova gigantesca joint-venture per produrre insieme le armi a lunga gittata, premendo a quattro mani l’acceleratore europeo sull’intervento diretto.

«Il diritto internazionale non limita la difesa dell’Ucraina ai propri confini» è la giustificazione dell’ennesimo dietrofront del cancelliere Scholz, sintomatica dell’aria che tira due anni e tre mesi dopo l’invasione dell’Ucraina. Di fatto tutti i tabù dell’inizio di guerra – quando il leader Spd voleva inviare al massimo elmetti e tende da campo – si sono sgretolati uno dopo l’altro in concomitanza con i bollettini indicanti la lenta ma continua avanzata russa in tutti i settori del fronte.

«Siamo molto preoccupati» fa trapelare alle agenzie di stampa una fonte diplomatica in campo Nato ben addentro al summit informale dei ministri della Difesa occidentali previsto oggi e domani a Praga. Anche qui il grande nodo da sciogliere restano le divergenze fra «i Paesi inclini a fare di più e in modo diverso da quanto fatto finora e i governi più prudenti. Da questo punto di vista Scholz ha fatto un passo avanti». Sarà l’incontro preparatorio del più importante vertice di Washington dove verrà stesa in dettaglio la tattica dell’azione comune. Sulla strategia invece nessuna diserzione rispetto alla linea annunciata dal segretario generale Nato Jens Stoltenberg, recepita più o meno in automatico da tutti gli alleati.

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La Nato entra in guerra

«Kiev può utilizzare le nostre armi per colpire il territorio russo» coincide con il nulla osta del governo di Helsinki, contemporaneo allo scontato via libera della Polonia, altro Paese in prima linea sul confine Est insieme ai tre Baltici e già disposto a inviare truppe proprie al di fuori dagli accordi Nato. La Svezia invece fa tempestivamente sapere di aver appena stanziato aiuti all’esercito ucraino per oltre un miliardo di euro. «Non cerchiamo l’escalation ma dobbiamo cambiare tattica dopo l’avanzata russa a Karkhiv» è il succo del summit di Praga. Significa che al di là delle dichiarazioni il cambio di passo è deciso nonostante i distinguo e le diverse parti in commedia.

Esattamente un anno fa, poco prima della controffensiva ucraina poi clamorosamente fallita, il caveat Nato era ancora di limitarsi alla difesa soprattutto area del territorio ucraino. Poi è arrivata la promessa degli F-16 recentemente confermata dal Belgio con il supporto degli altri undici Paesi in cui attualmente si addestrano i piloti dell’aeronautica ucraina, le bombe a grappolo dagli Usa vietate dalla convenzione firmata da oltre 100 governi, e infine la fornitura da parte di Stati Uniti e Regno Unito dei sistemi missilistici guidati “Himars” e “M-270”.

Finché ad aprile Macron in gran segreto ha spedito a Kiev i suoi “Scalp” equivalenti, e iniziano ad arrivare anche gli “Atacms” con raggio d’azione pari 300 km fatti inviare egualmente sottobanco e senza dire una parola dai consiglieri militari di Biden a febbraio. Ma ci sono anche gli istruttori militari francesi ufficialmente acquartierati in Ucraina dal 27 maggio e la marea di volontari addestrati in Occidente.

All’Ovest però non servono soltanto armi bensì la “giusta” comunicazione del concetto di difesa che l’opinione pubblica di tutti i Paesi Nato si ostina ad associare alla guerra. Da ieri il colosso degli armamenti Rheinmetall è il nuovo sponsor del Borussia Dortmund. Un altro tabù distrutto: per la prima nella storia un’azienda di armi sponsorizza una squadra di Bundesliga. La partnership milionaria durerà tre anni e non è solo una questione di soldi. Secondo Hans-Joachim Watzke, amministratore delegato del Borussia: «Sicurezza e difesa sono due pilastri della nostra democrazia. Ecco perché questa sponsorizzazione è giusta»

 

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DAVANTI AGLI OCCHI. La Casa bianca giustifica Israele: «Utilizza bombe piccole, si sforza di essere discreto». «Unrwa gruppo terroristico», alla Knesset passa in prima lettura la legge anti-Onu

 Le macerie lasciate nella tendopoli di al-Mawasi dopo il bombardamento israeliano - Ap/Abed Rahim Khatib

«Com’è possibile che (la strage di Rafah) non violi la linea rossa che il presidente ha tracciato?». Alla domanda, posta martedì da un giornalista in conferenza stampa, il portavoce del Consiglio di sicurezza nazionale degli Stati uniti John Kirby ha risposto che Israele non l’ha mai superata quella linea rossa: «Non vogliamo vedere un’operazione terrestre ampia, e fino a questo punto non l’abbiamo vista».

Il giornalista replica: «Quanti corpi carbonizzati deve ancora vedere il presidente prima di considerare un cambio di politica?». Sulla parola «carbonizzati» si ferma, trattiene il respiro. Le immagini del rogo che ha distrutto le tende di Tel al-Sultan le hanno viste tutti, le fiamme nel buio, le urla, le 45 vittime palestinesi nel Kuwaiti Al-Salam Camp 1.

 

A Washington sembrano camminare sui pezzi di vetro quando si parla di Palestina. Sotto la pressione della stampa, delle piazze e di mezzo pianeta, la politica dell’amministrazione Biden potrebbe apparire schizofrenica. Non lo è, segue tracce definite. Così capita che il segretario di Stato Antony Blinken ieri si sia sentito in dovere di definire «orrende» le immagini della strage di Rafah e di chiedere a Israele «di indagare e determinare esattamente cosa è successo (…) Non sono in grado di dire che armi siano state usate o come».

POCHE ORE prima a dire cosa è successo era stato il New York Times. Il quotidiano statunitense ha visionato le immagini girate dopo la strage dal giornalista palestinese Alam Sadeq: si vedono i rottami dei missili tra le macerie annerite del campo sfollati. Sono detriti della coda delle bombe Gbu-39 – scrive il Nyt – prodotte negli Usa.

Nello specifico nell’impianto di Woodward, in Colorado: lo si riconosce dal numero di serie, 81873, il codice unico identificativo di quel particolare produttore. Di recente, funzionari statunitensi hanno detto che Washington ha incoraggiato Israele a usare questo tipo di bombe perché sarebbero più precise, «adatte a un ambiente urbano».

Eventualità in qualche modo confermata da Daniel Hagari, portavoce dell’esercito israeliano, secondo cui «l’attacco è stato condotto usando due munizioni con testate piccole, adatte ad attacchi di precisione». Lo ha detto per negare l’uso di grandi bombe e per affermare che questo tipo di arma non avrebbe mai potuto causare un incendio. A causarlo, aggiunge Hagari, sarebbero stati esplosivi di Hamas nascosti nel campo.

Sul Nyt esperti di munizioni mettono in dubbio la versione israeliana: a provocare l’incendio può essere stato qualsiasi liquido infiammabile, lampade a gas diffuse tra gli sfollati, o piccoli generatori di corrente. Comunque sia, armi o meno, se si bombarda un campo sfollati per colpire due membri di Hamas non si può non mettere in conto di ammazzare dei civili, nonostante Kirby ritenga che l’uso di bombe di più piccole dimensioni dimostri «lo sforzo di essere discreti» (sic).

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Sulle tende di Rafah bombe da 2 tonnellate. Poi il rogo: 45 uccisi

Ai 45 uccisi di domenica, ne sono seguiti molti altri, tanti a Rafah: 21 martedì nel campo di al-Mawasi, ieri altri 15 (almeno 36.171 i palestinesi uccisi in otto mesi di offensiva). Gli attacchi arrivano sia dal cielo sia da terra, dai carri armati ormai entrati in città. Nel centro molte famiglie, riportano i giornalisti sul posto, sono intrappolate a causa del fuoco dell’artiglieria e dei droni che impedisce a molti di scappare: «I quadricotteri seguono le persone», scrive Hani Mahmoud.

LA MAGGIOR parte della popolazione – quella originaria e quella sfollata – è stata già spinta a ovest o verso il centro, nell’ennesima fuga. Di spazio a disposizione ce n’è sempre meno sia per la magnitudo della distruzione sia per la «zona cuscinetto» israeliana che si è allargata in questi ultimi mesi.

Prima del 7 ottobre l’area assorbita da Israele era larga tra i due e i tre chilometri (su dieci di ampiezza della Striscia) privando i palestinesi della terra coltivabile che tradizionalmente si trovano nella fascia orientale di Gaza. Ora, secondo l’analisi condotta da Sanad visionando le immagini satellitari e i video girati dall’esercito israeliano sul posto, la zona cuscinetto è arrivata a occupare il 33% dell’enclave, circa 120 chilometri quadrati su un totale di 360.

Intanto, mentre i valichi di terra restano chiusi agli aiuti (lo sono dal 6 maggio), a Gerusalemme il parlamento israeliano ha votato in prima lettura (42 sì, sei no) il disegno di legge che chiede di definire l’agenzia Onu per i rifugiati palestinesi Unrwa «organizzazione terroristica». Se il disegno di legge dovesse passare le prossime votazioni, Israele potrebbe «legalmente» tagliare tutti i rapporti con l’Unrwa, cacciarla dal proprio territorio, chiudere uffici e conti bancari. E «istituzionalizzare» la sua accusa alle Nazioni unite di promuovere il terrorismo. La prima volta nella storia

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Giusto in tempo per le europee, il governo approva una sgangherata modifica costituzionale sulla giustizia che separerebbe definitivamente le carriere di giudici e pm. Il sogno proibito di Berlusconi è un santino elettorale per Forza Italia e spinge i magistrati alla battaglia

GIUSTIZIA. Il consiglio dei ministri stravolge la giustizia: «Evento epocale». Csm sdoppiato (con membri sorteggiati) e Alta corte. È l’antipasto alla separazione delle carriere. L’Anm verso lo sciopero

Venti minuti per una riforma, tributo postumo a Berlusconi Carlo Nordio

Venti minuti è il tempo che ci vuole, a passo lento, per raggiungere il Quirinale da palazzo Chigi. È anche lo stesso tempo che ieri, all’ora di pranzo, il consiglio dei ministri ci ha messo a licenziare la sua riforma della giustizia, preludio a quella separazione delle carriere che per Silvio Berlusconi è sempre stata un sogno proibito nei suoi pur lunghi anni di governo.

Una riforma «epocale» per Nordio. «Giusta, necessaria e storica» per Meloni. Tre pagine e una riga di testo, otto articoli (compresa le disposizioni transitorie). E dentro un po’ meno di quello che ci si aspettava: l’ultima riunione per limare i dettagli la maggioranza l’ha fatta nella notte tra martedì e mercoledì, dopo l’incontro di Mantovano e Nordio con Mattarella. È scomparsa l’idea di inserire gli avvocati nella Costituzione, né c’è l’abolizione dell’obbligatorietà dell’azione penale. C’è però l’annuncio della separazione delle carriere tra magistratura giudicante e magistratura requirente.

Ancora non lo si dice esplicitamente, ma il senso è quello: sorgeranno due Csm, entrambi guidati dal presidente della Repubblica, ma comunque con funzioni distinte. E i suoi membri saranno sorteggiati: in maniera integrale per i togati, in maniera parziale (cioè scelti da una lista di eletti dal parlamento) per i laici. Poi ci sarà un’Alta corte per dirimere le questioni disciplinari, con giudici nominati dal Quirinale e gli altri sorteggiati. Nessuna possibilità di ricorso in Cassazione: l’impugnazione andrà fatta davanti alla stessa Alta corte, che poi affiderà la valutazione a giudici diversi da quelli del primo pronunciamento. E questo è quanto, in attesa delle leggi attuative che seguiranno.

Quando? Difficile a dirsi: l’iter di un disegno di legge costituzionale è lungo e il passaggio fatto ieri, per quanto importante, è soprattutto lo scalpo che Forza Italia porta a casa alla vigilia delle elezioni europee. Una prova di esistenza e una dimostrazione di peso politico, decisamente maggiore rispetto all’inizio della legislatura, quando gli azzurri erano il vaso di coccio della coalizione di destra. Un trofeo alla memoria di Berlusconi, che ha sempre accarezzato, ma mai realizzato, il sogno proibito della separazione

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GIORNATA STORICA. Il Paese trasformerà il suo ufficio di rappresentanza in Cisgiordania in un’ambasciata

La Norvegia riconosce lo Stato di Palestina: «Una pietra miliare nel rapporto tra i due stati» Bruxelles, Mohammed Mustafa stringe la mano al ministro degli Esteri norvegese Espen Barth Eide - Ap

«Riconoscere ufficialmente la Palestina come Stato, è una pietra miliare nel rapporto tra i due stati», così il ministro degli Esteri norvegese Espen Barth Eide ha celebrato lo storico riconoscimento annunciando che la Norvegia trasformerà il suo ufficio di rappresentanza in Cisgiordania in unambasciata. Per alcuni però la svolta del governo labourista è più importante per le sorti diplomatiche della Norvegia e per lopinione pubblica che per raggiungere una soluzione in Medio Oriente.

In Norvegia la decisione ha raccolto più consensi che critiche, dopo che per mesi, decine di manifestazioni si sono tenute quasi settimanalmente nelle più grandi città del paese.

Il primo ministro Jonas Gahr Støre e Eide avevano annunciato mercoledì scorso (insieme alla Spagna e all’Irlanda) l’intenzione di riconoscere la Palestina, decisione poi condivisa e adottata nell’incontro settimanale dell’esecutivo con il Re Harald V di Norvegia.

Domenica, Eide ha consegnato personalmente la lettera di riconoscimento al primo ministro Mohammed Mustafa spiegando che si tratta di «una forte espressione di sostegno alle forze moderate in entrambi i paesi» e facendo riferimento al continuo impegno della Norvegia per raggiungere la soluzione dei due stati.

La Norvegia ha svolto un ruolo importante nei colloqui di pace negli anni ’90, che hanno portato agli Accordi di Oslo tra Israele e l’Olp nel 1993 e all’istituzione dell’Autorità Nazionale Palestinese.

Il paese, si sente ancora in dovere di svolgere un ruolo fondamentale nel processo di pace, sia perché consapevole del fallimento diplomatico di 30 anni fa, sia perché è lo Stato che presiede il Comitato di Liaison ad hoc (Ahlc) per la Palestina, un organismo composto da 30 paesi e organizzazioni la cui funzione primaria è coordinare la fornitura di aiuti internazionali ai palestinesi e all’Autorità Palestinese.

Non è difficile comprendere l’azione simbolica che sta nel riconoscimento da parte della Norvegia in questo preciso momento storico.

Per il primo ministro Støre la decisione è stata dettata dalla necessità di «mantenere viva lunica alternativa che offre una soluzione politica sia per gli israeliani che per i palestinesi: due stati, che vivono fianco a fianco, in pace e sicurezza».

Jan Egeland, segretario generale del Consiglio norvegese per i rifugiati ha affermato che «il riconoscimento della Palestina è sicuramente un atto simbolico, ma è anche un segnale alle parti più forti che la situazione attuale non può continuare». Egeland, segretario del ministro degli Esteri al tempo degli Accordi di Oslo, ha anche detto che il riconoscimento dovrà essere seguito da maggiori sforzi da parte della Norvegia e della più ampia comunità internazionale per riunire le parti attorno al tavolo dei negoziati.

Insieme alla Svizzera, la Norvegia rimane uno dei due paesi in Europa che non riconosce Hamas come gruppo terroristico. Questa è una scelta strategica che ha reso il paese in grado di interloquire con tutte le parti coinvolte, e partecipare attivamente ai negoziati.

Ma finora l’unico effetto registrato all’indomani del riconoscimento della Palestina, a parte una forte approvazione dell’opinione pubblica, è l’incrinatura dei rapporti con Israele. Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, che ha richiamato l’ambasciatore in Israele, è ora restio al paese scandinavo e non vuole che esso abbia alcun ruolo nei colloqui di pace in Medio Oriente.

La Norvegia però è da mesi che collabora e condivide il piano di pace che un gruppo di paesi arabi – guidati dallArabia Saudita – sta elaborando, e adesso punta a mobilitare il sostegno europeo per la ‘visione araba’ della pace. Quale sarà però la sfera di influenza norvegese sul resto dell’Europa è ancora da determinare.

Nel mentre un’altra manifestazione nel centro di Oslo partita dal parlamento e arrivata davanti all’ambasciata di Israele vuota, ha marcato il finire della storica giornata di ieri

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Irlanda, Norvegia e Spagna riconoscono lo Stato di Palestina mentre i carri armati israeliani entrano a Rafah. Nuovi raid sulle tende degli sfollati palestinesi ad al-Mawasi, dopo le bombe sul campo di Tel al-Sultan. Ma le sanzioni a Israele sono ancora tabù

INTERVISTA. Tommaso Fabbri, capomissione Msf in Palestina: «Con 36mila uccisi in pochi mesi è difficile pensare che siano solo effetti collaterali. Lavoro da anni nell’umanitario e non ho mai visto attacchi così indiscriminati»

Feriti nell’ospedale Al Aqsa di Deir al Balah Ap/Abdel Kareem Hana Feriti nell’ospedale Al Aqsa di Deir al Balah - Ap/Abdel Kareem Hana

Cessate il fuoco, protezione dei civili, assistenza umanitaria e fine degli attacchi sulle strutture sanitarie: sono alcune delle richieste mosse da 18 operatori e operatrici di Medici senza Frontiere Italia in una lettera aperta al governo italiano. Ne abbiamo parlato con Tommaso Fabbri, capomissione della ong in Palestina.

Come nasce l’iniziativa?
Nasce da una situazione catastrofica che non sappiamo più come descrivere. Nasce per sensibilizzare chi in maniera diretta e indiretta ne è responsabile. A Gaza da mesi vediamo morte, attacchi indiscriminati sulla popolazione civile, ospedali distrutti. Non c’è più un posto sicuro, non c’è alcun rispetto dello spazio umanitario. Il nostro è un grido disperato al governo Meloni: serve una pressione efficace per il cessate il fuoco e la protezione dei civili. Non chiediamo cose politicamente inaccettabili, è il minimo per uno stato democratico.

Perché chiederlo ora?
Lo chiediamo da tanto, il nostro segretario generale ha parlato anche al Consiglio di Sicurezza Onu. Ma non si è mosso nulla e ora a preoccuparci è Rafah: ogni volta che c’è un ingente spostamento di popolazione il rischio sanitario è enorme.

Alcuni stati lanciano aiuti dal cielo, gli Stati uniti hanno promosso un porto temporaneo appoggiandosi a ong come World Central Kitchen e Open Arms. Molti criticano tali iniziative: è un modo per bypassare gli obblighi di Israele ad aprire i valichi di terra. Qual è la vostra posizione?
Uno degli sforzi maggiori del mio team riguarda l’accesso agli aiuti umanitari. È un problema cronico, esasperato dalla guerra: è Israele che ha sempre deciso quando aprire o meno l’ossigeno a Gaza. Il lancio di aiuti dal cielo è una modalità estremamente costosa, pericolosa e poco efficiente. Ben vengano le iniziative come il porto ma non devono essere messe in competizione con il resto, non si deve deresponsabilizzare Israele dal suo obbligo primario di fare entrare gli aiuti dai valichi di terra.

Nelle scorse settimane Msf è stata costretta a sospendere le attività in alcuni ospedali di Gaza. Per quali ragioni?

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